Riccardo Merolli Author
MOSQUITOS “SOCIALHAZE” il nuovo disco esce il 6 Febbraio
Top 5 di Marco Lavagno
Premetto che sono un grande fan di Nick Hornby, e di conseguenza proprio come Rob Flemmings (il protagonista del suo best seller “Alta Fedeltà”) un fanatico di classifiche.
Ma la classifica è soggettività. Il nostro cervello sforna sempre classifiche. Ditemi che non avete mai fatto una classifica sulle ragazze più gnocche del liceo, oppure sui giocatori di calcio più forti mentre appiccicavate le figurine Panini, oppure la top 5 dei Cavalieri dello Zodiaco, oppure sulle migliori boy band in circolazione (sono old school e ho sempre preferito i Take That se non addirittura i Jackson 5).
Bene io che ho fatto tutto questo posso anche permettermi il lusso e lo sfizio di stilare la classifica di quelli che per me sono i migliori album “stranieri” del 2011.
Qui non troverete chicche e neanche gruppi che in questi casi fa figo nominare (odio i Radiohead e mi irrita che ogni santo anno siano sempre nelle classifiche delle riviste più quotate), semplicemente troverete 5 dischi che un ascoltatore di musica pop (per altro principalmente mainstream) pensa di poter far girare ancora nel suo stereo negli anni a venire. Spero fortemente di essermi sbagliato e trovare in futuro qualche chicca targata 2011, che in questo anno frenetico mi è sfuggita dalla mani.
SOCIAL DISTORTION – HARD TIMES AND NURSERY RHYMES
Non si puo’ dire che Mike Ness sia un personaggio che abbia rivoluzionato il mondo del rock, non lo è mai stato e molto probabilmente lo sa benissimo. In più nessuno oserebbe dire che possiede la poetica dialettica di Bob Dylan ma neanche quella di Eddy Vedder. E nessuno avrebbe potuto mai immaginare che dopo 20 anni di carriera un macho tutto bicipiti e tatuaggi sfornasse uno dei miglior dischi punk rock sotto il marchio (ormai tutto suo) di Social Distortion.
Di distorsione ormai non c’è più molto, solo una sfumatura che orbita intorno a melodie (sia nella voce che negli assoli di chitarra) dalla disarmante semplicità.
Questo disco non ha pezzi memorabili, non ha idee innovative, non influenza generazioni (il caro Mike ha ormai 50 anni!) e il bello è che suona talmente onesto da non avere nessuna pretesa di essere tutto ciò.
Miglior brano: “Machine Gun Blues” – muscolosa e maschia. Ti viene da affittare una vecchia cabrio anni 50 solo per girare in centro città a fare il bullo.
KASABIAN – VELOCIRAPTOR!
L’album dell’anno era loro. Ce l’avevano in mano, si diceva fosse il loro capolavoro, super elaborato e sperimentale, il loro “Ok Computer”. Ebbene ho sperato che non fosse così fino alla data della sua pubblicazione.
Perché a me piacciono i Kasabian vecchio stile, quelli tamarri, quelli che ti fanno sentire ad un rave party quando attaccano con il riff di “Underdog”, quelli che mi sanno di Led Zeppelin con il loro appeal anni 70 e quelli arroganti e strafottenti come lo erano i fratelli Gallagher. Sinceramentene nei panni di sfiniti indie stanchi, solo perché fa figo esserlo, non me li vedevo proprio. E per fortuna dal primo ascolto del nuovo disco ho capito che i Kasabian non sono e non vogliono essere i nuovi Radiohead, per nulla.
La tendenza alle ritmiche rilassate si sente in alcuni episodi di “Velociraptor!” ma anche negli episodi più “stanchi” si sente il grido della band. L’energia sprigionata da un carnivoro assetato di rock‘n’roll, quello puro che se ne fotte di fare la hit del momento e il punto esclamativo del disco sottolinea questa presa di posizione.
Forse la stampa e la stessa band hanno pompato troppo un disco fin troppo perfettino, curato e arrangiato con maestria da Sergio Pizzorno e compagni. Un carnivoro violento e bastardo ma tenuto un poco al guinzaglio.
Miglior brano: “Goodbye Kiss” – mielosa e disperata, sradicata via da un crooner americano del dopo guerra e strapazzata nel frenetico sound puzzolente delle factories inglesi
ADELE – 21
Mi sapeva di fenomeno da baraccone questa giovanissima ragazzina cicciottella. Il solito prodotto sfornato da una major: voce spaziale come entrée, faccino simpatico come main course e canzonette usa e getta di contorno.
Ma quanto mi piace sbagliarmi in questi casi: quando il pop da classifica è di qualità, e questo disco è incredibilmente magnifico!
La voce oltre ad avere la tecnica richiesta ha personalità, potenza e grande espressione e per non parlare delle canzoni: forse poche volte nella storia della musica si sono mescolati così bene pop e la vera soul music, quella del periodo d’oro dell’Atlantic per intenderci. Ci sono il ruffianismo delle melodie da alta classifica e c’è l’aggressività che sposa la classe, attributi che appartinevano solo a certe pantere del passato come Aretha e Tina Turner.
L’ombra della povera Amy Whinehouse (soprattutto nell’anno della sua morte) è sempre in agguato, pronto ad aggredire, ma Adele lo dribbla alla grande e ha il carisma e l’intelligenza per piazzare tantissime altre hit negli anni.
Miglior brano: “Rumor Has It” – così soffice la sua voce e così indiavolato il drumming che prepotente la accompagna, la ragazza è più cattiva di quanto possa sembrare il suo paffuto faccino.
FOO FIGHTERS – WASTING LIGHTS
Grandissima rock band che non è mai riuscita a tirar fuori un disco degno del suo nome. Quest’anno hanno sfatato il mito!
Dave Grohl, caso unico nel music business (come si è riciclato lui nessuno mai), prende per mano una band sull’orlo della crisi e rispolvera muscoli tonici come il marmo di un rock durissimo, offensivo e altamente ispirato.
Meno “power-pop” e più chitarra, meno video per MTV e più urla forsennate. La formula è vincente!
La band suona alla perfezione, senza perdere quel suo storico equilibrio tra humor e violenza. Propone tre chitarre e una ritmica a dir poco cafona, tanto che pare aver registrato questo album davanti a 50.000 persone festanti.
Questo è un disco “all’antica”, sa di live e di sudore. Di quelli da sentire ad alto volume. E gli antichi dei del rock, imprigionati in fitte ragnatele ringraziano e si danno una bella spolverata.
Miglior brano: “I Should Have Known” – finalmente Grohl guarda indietro, in faccia ai fantasmi. Ospita Kris Novoselic che impone un basso distortissimo in questo grido al cielo, verso l’amico Kurt.
NOEL GALLAGHER’S HIGH FLYIN BIRDS
Il 2011 è stato anche l’anno del braccio di ferro tra Liam e Noel. Prima Liam coi Beady Eye e tante maligne parole, poi Noel con questo disco solista nascosto da criptici uccelli che ambiscono ad alte quote. E le quote Noel, a differenza dell’arruffato e sconclusionato collage proposto fratello, le alte quote le raggiunge in pieno.
Con calma e meditando, in sella a un airone che aleggia leggero e rilassato: pochi colpi di ali ben assestati e si arriva in vetta.
Prende pezzi vecchi, scarti degli Oasis e qualche nuova canzonetta. Frulla tutto insieme ai migliori dischi di Beatles, Stone Roses e Primal Scream e il beverone suona fresco e piacione.
Lo sappiamo: Noel non è un genio, ma è ancora sua la cattedra del corso “come scrivere la canzone pop perfetta” e dimostra di avere ancora molto da insegnare. Anche a suo fratello.
Miglior brano: “AKA…What A Life” – ritmiche insistenti su cui la voce di Noel si scaglia, come onde morbide su duri scogli.
Pecora – Black Albume
Fermarsi all’apparenza e rimanerne estasiati. Ad un bel visino giocoso dietro cui si nasconde una violenta punitrice.
Così mi sono fatto incantare da questo album(e) dei Pecora, band a dir poco sperimentale, che presenta una copertina a dir poco geniale data l’assonanza con il celeberrimo disco nerissimo (che poi era scuro solo per la copertina) dei Metallica.
Dall’uovo spiaccicato sul 45 giri mi aspettavo un contenuto a dir poco scherzoso, o per lo meno sarcastico, che mi rimandasse ai fasti versi di Giorgio Gaber e Jannacci. E invece di tutto questo c’è solo un piccolo pizzico di sorriso in un oceano di sintetico e di cupa digitalizzazione.
A differenza degli amici metallusi, questo album è proprio nero dentro. Nero come la rabbia che cresce in un disoccupato di 40 anni, nero come chi spegne la luce perché ciò che vede è più nero del buio, nero come chi chiude gli occhi per bestemmiare ad alta voce. Nero come l’ironia stanca di chi ricerca parole (e le ricerca in profondità) pescandole una alla volta, sandendole bene tra loro, in un deprimente gioco di società. Il gioco però riesce bene, richiama la giusta angoscia e non trattiene la smorfia storta di chi in realtà non si arrende e continua a pescare.
Ad accompagnare questa delirante attività ci sono basi minimal che ripetono alla nausea loop freddi e grigi al sapore di punk digitalizzato. Il risultato, nonostante paia essere buttato nel mixer come si butta la frutta (marcia) nel frullatore, scorre omogeneo e uniforme. Certamente non piacevole all’ascolto.
Ma forse da una band che dispensa perle come “sono meglio di Gesù, sono vissuto di più e in tutti questi anni, ho fatto meno danni” non ti aspetti sonorità piacevoli.
2 a.m. – The End. The Start.
Non ci sono anniversari di sorta per festeggiare ulteriormente il suolo natio e tantomeno poco più fertile del brit-pop in tutte le sue declinazioni, vizi e virtù, è come forzare una porta spalancata milioni di volte ed ancor più deficitario aspettarsi colpi di coda o nuove rivoluzioni accordate; il duo di Senigallia 2 a.m. composto da Andrea Marcellini e Andrea Maraschi pare, a dispetto di previsioni chiacchierate, glissare la pillola amara del “ancora qui?” con una verve personalissima, una buona vena sconfinata che riesce ancora a far indorare uno stilema oramai giunto al capezzale dello stato rugginoso. “The End. The Start” è l’Ep d’esordio – già anticipato da quattro singoli in formato digitale – ed è un sette solchi in cui si ritrova, come ad un appuntamento pre-serale nel focus dell’inverno, tutto l’universo malinconico, ironico ed acuto della Manchester (non la Mad) e della London fumè , di quell’inglesismo di stampo ESP e di quell’eccitazione notevole di marca Suede, Blur, Kaiser Chief, Coldplay..
Un Ep organico e perfino gioioso, che porta a termine la resa sonica di rendere già “classico” qualsiasi delle sette “tracce ossatura” di questa snodata prova discografica made in Italy che non ha nulla da inviare gli originals d’oltremanica; tracce che se ascoltate in mezzo all’impertinenza di tanto bailamme che si agita d’intorno, fanno distinzione ed onestà, un’esultanza che non diventa mai sfacciata euforia, eleganti e passionevoli, schizzate e belle a tempo indeterminato, dritte e distorte come i gradi di commozione Oasisiana che vibrano qua e la “Love me and leave me”.
Decisamente godibile nelle sue traiettorie nebbiose e solari nel contempo, ottima la foschia waveggiante che disturba lo spirito di “You’re more (than who you’re told to be)”, tenera, gigiona e triste la spennata in minore che si fa ballata intima “PG”, la confidenza acustica bisbigliata con quel Jarvis Cocker che fa cucù sotto l’armonica a bocca “Format ME”; restituito con un grado di piacevolezza massima, il brit pop imbastito da questo duo/band 2 a.m. coglie nel segno di smuovere qualcosa dentro l’ascolto, con poche e notevoli cose rimbalza tra testa e cuore come acqua fresca di mattina, e di questi tempi di recessione creativa non è poca cosa.
Un giro completo su questo Ep, e le tensioni si tramutano in vibes immaginifiche.
Tommi – Always
Rincorrere il sogno americano a colpi di rock and roll, chitarra sotto braccio e armonica a portata di bocca, Dylan saprebbe cosa fare in certe occasioni. Tommi suona il suo secondo disco “Always” lanciando occhiatine viziose a quel tipo di rock che francamente non ci appartiene affatto lasciando perplessa tutta la scena indipendente italiana. Com’è possibile sentirsi quell’animo americano nonostante l’anagrafe artistica dice Veneto?
Qualcosa di strano annebbia la mente quando l’ascolto del disco entra nel vivo, le chitarre slow sembrano avere una propria identità, il cuore grande di chi crede fermamente in quello che suona. L’armonia del rock, la giusta evoluzione del genere, la strada giusta intrapresa evitando stupide contaminazioni.
Poi Tommi butta rabbia nel disco, “Always” assomiglia ad un essere umano con tanto di sentimenti, una ferita aperta mi ricorda di essere di carne e ossa, una batteria che cade dove il basso puro vuole, il profumo fresco dell’improvvisazione ravviva situazioni perse in partenza. Il rock è l’animo dell’essere umano, un calore che viene dall’interno. Energico ma con molto cuore, la cura essenziale alle sofferenze del mondo? Almeno per pochi attimi viaggio per lo stradone 66 inneggiano a super alcolici ben stagionati fino a perdere il contatto con la realtà. Se mai possa esistere una realtà. Possiamo assaggiare questo disco rock tenendo in considerazione quella corrente resa religione da Bruce Springsteen e Little Steven, un locale a luci soffuse, una bandana in testa e rock and roll nelle vene. Qualcuno potrebbe apprezzare alla follia questo lavoro disegnato con estrema disinvoltura.
CALIBRO 35, nuovo disco a febbraio e tour.
Esce il terzo album in studio di Calibro 35: l’atteso disco americano contiene dieci pezzi nuovi e due rivisitazioni che siglano il definitivo smarcamento del collettivo italiano dal concetto di colonna sonora.
Un disco potente ed immaginifico che verrà portato dal vivo con concerti sempre più esplosivi a partire da Febbraio 2012
Titoli di coda. Per prevenire ogni azione legale e rispettare il massimo riserbo ideologico, in sovra impressione una liberatoria che lascerà il segno: ogni riferimento a persone esistenti e a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Proprio da qui ripartono i Calibro 35. E non poteva essere altrimenti per una formazione che affonda le sue radici nella lunga stagione dei film di genere Made in Italy. Paradossale o forse semplicemente logico che la band sia divenuta nel corso di pochi anni una vera e propria attrazione fuori dai patri confini, con un bacino d’utenza di quelli importanti proprio dall’altra parte dell’oceano e un punto di riferimento cruciale nella metropoli delle possibilità: New York. E’ qui che prende forma il nuovo disco, costituito da 10 composizioni autografe e due classici ‘minori’ rivisitati. “Ogni riferimento a persone esistite o a fatti realmente accaduti è puramente casuale” è stato concepito in soli 5 giorni negli studi Brooklyn Recording e Mission Sound, luoghi culto in cui hanno inciso campioni come Arctic Monkeys ed Animal Collective, oltre ad un’istituzione del downtown jazz newyorkese come Marc Ribot. L’elemento cardine del disco è nella scrittura di getto, testimonianza di una fluidità compositiva ed esecutiva da fare invidia alle più acclamate compagini internazionali. Enrico Gabrielli (fiati, tastiere e voce), Massimo Martellotta (chitarra elettrica e voce), Luca Cavina (basso) e Fabio Rondanini (batteria e percussioni) per l’abile regia di Tommaso Colliva (già dietro al mixer con Twilight Singers, Dente, Afterhours e Muse) affrontano così nuove teorie e pratiche dell’improvvisazione ritmica, mettendo l’accento su una scrittura mai così agile e smarcata dall’idea di commento sonoro. Rimane certo il gusto cinematico con i suoi riferimenti testuali, ma la band che ci prende per la gola è oggi a suo agio con nomenclature inedite, sfoggiando una diversità sostanziale di brano in brano. “Massacro all’Alba” sembra cogliere le variazioni sul tema di un afro-beat psichedelico tanto caro ai sodali di Brooklyn Budos Band, mentre “Pioggia e Cemento” cela affinità con grandi compositori francofoni come Jean Claude-Vannier e Francis Lai, aprendo nuove prospettive e filiazioni. Quasi un carattere globale quello che avvolge i Calibro 35 in quella Gotham City che assieme alle sue ombre conserva i volti e le storie degli immigrati di mezzo mondo. E sotto questo auspicio nasce anche “New Dehli Deli”, che tradisce il gusto per la contaminazione occidentale dell’ardito Ananda Shankar. Se “Arrivederci e Grazie” stende al tappeto con quel suo clavinet aggressivo – difficile non immaginare scorribande sulle strade di San Francisco a questo punto – gli arrangiamenti corposi de “La banda del BBQ” ed “Il Pacco” fanno pensare al crossover di casa Motown, quando le chitarre lancinanti erano quelle di Phil Upchurch e dello scorpio Dennis Coffey. I fiati su questi due brani, sono di Paolo Raineri (tromba) e Francesco Bucci (trombone), arrangiati da Massimo Martellotta.
Così come accade nella briosa “Uh Ah Brr”, dove insieme ai fiati troviamo in primo piano voci che cantano sillabe, usate come strumento tra gli strumenti, scelta caratterizzante che cita un elemento tipico della scuola dei grandi Piccioni e Umiliani. Non mancano poi i tributi espliciti ai maestri di casa nostra: appunto Piero Piccioni ed Ennio Morricone fanno capolino rispettivamente in “New York New York” (dal film “Anastasia mio fratello” – 1973 – di Steno con Alberto Sordi) e “Passaggi Nel Tempo” (dal film “Sam’s Song” – 1969 – poi ribattezzato “The Swap”, impresa giovanile di Robert De Niro).
Il disco – che raggiungerà i negozi italiani il 7 Febbraio (e in primavera gli States con Nublu Records) e sarà disponibile in cd, vinile 180 grammi e nel ritrovato formato musicassetta, oltre che in digital download e nell’innovativo pinbutton – rivede l’essenza del rare groove, aprendosi a vorticosi scenari inediti. Una musica che si fa più confidenziale, potendo proprio contare sul profilo di musicisti capaci di giostrarsi tra le vette di un’ardita avanguardia e le spirali del pop più contaminato. Colpo in canna, si riparte.
Guarda il primo teaser dell’album su Youtube
CALIBRO 35 IN TOUR
8 febbraio: showcase Milano @ Fnac
9 febbraio: Modena @ Off
10 febbraio: Pavia @ Spazio Musica
11 febbraio: Torino showcase ore 17 @ Fnac + Live @ Hiroshima Mon Amour
17 febbraio: Verona @ Interzona
18 febbraio: Bologna @ TPO
25 febbraio: Livorno @ Cage Theatre
1 marzo: Roma @ Lanificio 159
3 marzo: Perugia @ Urban
9 marzo: Milano @ Magnolia
10 marzo: Firenze @ Flog
17 marzo: Pordenone @ Deposito Giordani
23 marzo: Palermo @ Candelai
24 marzo: Catania @ Mercati Generali
29 marzo: Eboli (SA) @ C20
30 marzo: Conversano (BA) @ Casa delle Arti
31 marzo: Lecce @ Officine Cantelmo
Alphabetagamma – Alphabetagamma
Gli Alphabetagamma sono una band di Pesaro nata nel 2008 che quest’anno, dopo aver realizzato solo un demo, decide di regalarci il primo vero album, l’omonimo appunto ABG.
Giacomo Pieri (chitarra), Christian Del Baldo (voce/basso) e Stefano Aluigi (batteria) sono una band che ha deciso di mettersi in mostra nel modo peggiore possibile. Imitare. Come se non volessero fare altro che suonare quello che gli piace, senza sbattersi troppo, senza fottersene del giudizio mio o di chiunque dovesse ascoltarli. Imitare senza paura. Suonare senza troppo sforzarsi. Imitare per paura. Sottile la linea. Menefreghismo fasullo, di chi si pubblicizza sul MySpace. Menefreghismo illusorio di chi in fondo cerca giudizi positivi. Ingenuità o menefreghismo. Sottile la linea.
Lasciamo stare il discorso sulle ovvie influenze. Anche il più innovativo rocker di questo pianeta ne ha riversate tante nei suoi lavori. Parafrasando Dali’, quelli che non vogliono imitare qualcosa, non producono nulla. Lasciamo anche perdere il discorso sulle citazioni che, per quanto accettabili, dovrebbero essere quantomeno limitate. Qui abbiamo momenti in cui si sfiora l’assurdo.
Per capirci, la musica che sto ascoltando è un misto di Stoner Rock e Stoner Metal, che non disdegna di ricalcare i riff ossessivi e semplici del Grunge dei Nirvana o sfiorare il Post-Core e il Nu-Metal, soprattutto nelle parti vocali, avvicinadosi anche ai System of a Down, specie nel terzo brano.
Ora vi starete domandando perché questo sarebbe imitare.
Semplice. Premete play e capirete. Kyuss. Kyuss. KYUSS. Sono loro vero? Ovviamente in un momento di grave crisi artistica ed esistenziale ma questi sono i Kyuss. Sound potente e sporco, riff taglienti e ipnotici, percussioni rabbiose, voce che oscilla tra calma e follia urlata. Non sono queste, parole che usereste per descrivere lo Stoner Rock dei Kyuss di Odissey, tanto per citare un pezzo di riferimento? I Kyuss meno Blues e più Metal per capirci. Il suono caratteristico della band di Palm Desert è stato masticato, ingoiato, e digerito a lungo dagli Alphabetagamma che ora, con lo stomaco pieno, hanno deciso di vomitare tutto nelle nostre orecchie. E quella roba verde che ora sgocciola fino a terra non è certo blues per il sole rosso.
È delusione.
Oltretutto, se avrete la pazienza di arrivare al pezzo numero sette, avrete in cambio il disonore di ascoltare una chitarra che copia spudoratamente da quel folle genio di Steve Albini o meglio dai suoi Big Black, ( ai più giovani verranno in mente gli Shellac, altra band di Albini). Un sound inconfondibile che nessuno al mondo è riuscito e riuscirà mai a far passare per originale.
Dunque abbiamo tra le mani un lavoro che imitando i Kyuss, scopiazza qua e là, tra grunge e Big Black. Merda, penserete. E invece non direi. È questa è la cosa più odiosa.
La cosa che fa più rabbia è proprio il fatto che il disco non sia brutto. Il pezzo che apre l’album è anzi molto interessante. Concretamente superiore rispetto al resto. Mostra un’anima propria, cattiva, ci offre i denti come un cane rabbioso. La voce si districa splendidamente tra le lame della chitarra e le martellate della batteria e finisce per liberarsi e urlare carica, viva, pungente e stridula come metallo gelido. Sembra la strada, non proprio facile e in discesa, verso un sound personale, maturo. Il resto è un’altalena tra pezzi mediocri e improponibili e altri tanto interessanti, quanto sempre troppo legati a quella necessità di imitare dovuta alla paura di osare. Se è vero che l’imitazione è la più sincera delle adulazioni, il tempo dei falsi idoli deve però finire.
Il disco quindi non ha nell’aspetto estetico/musicale il suo limite primo. Ci sono tante cose da migliorare, un suono da sporcare e da personalizzare ma c’è qualcosa da cui partire. Ripartire da quella carica sparata nei primi minuti, da quel suono, da quella voce, quel timbro. Partire da li e cercare una strada nuova, diversa, una strada dove mai nessuno sia mai passato prima. È necessario che ogni nuovo pezzo acquisti una sua vita propria, sia distinto dal sound del gruppo e nello stesso tempo sia parte fondamentale per generare le caratteristiche proprie degli ABG. Partire da quei pochi minuti, guardando al resto come a un’ esperienza formativa e far si che la prossima volta che ascolteremo distrattamente musica, il nostro cervello possa ricordare il nome dei pesaresi ad ogni loro nuova nota.
Gli Alphabetagamma sanno suonare, hanno la carica giusta, hanno ora maggiore esperienza. Quello che resta da fare è osare. Staccarsi dal passato e buttarsi dal palazzo in fiamme. Qualcosa da fare troveranno nella discesa. E comunque volare anche per un solo minuto è sempre meglio che bruciare vivi.
Why Not Loser – 4 Mistakes
Senza metterla troppo sul socio-culturale, è indiscutibile che il suono chiassoso, casinaro, baldanzosamente nevrastenico del punk ogni tanto – ultimamente spessissimo – torni alla ribalta, anzi se la prende da solo, con suono in apparenza sempre uguale a se stesso, in verità con lievi ma indicativi cambiamenti.
Why Not Loser, il quartetto trevigiano dall’adrenalina pura al posto del sangue, torna a calpestare (giusta definizione) la scena underground con “4 Mistakes”, un dieci tracce che hanno quei significativi cambiamenti, e che comunque mantengono come missione finale l’istigazione deflagrante di far pogare sopra mine punkyes dal cuore tenerone dentro una frastornante guerra di watt che mette gioia e furore in ogni passaggio di ritmo e pressione di pedaliere; fuori dello schiamazzo politician’s del punk d’oltremanica e molto accasato nella Bay Area Californiana, quella del punkyes bighellone che va dai Blink 182 in poi, fino alla tensione ideale sui movie-frame di “Un giorno da leoni”, il WNL thing è quello d’eterna festa sulla spiaggia, belle pupe, hamburger, birra ghiacciata e la spensieratezza d’anni giovani da bruciare in fretta tra muri di suono e cori da college, una spregiudicatezza garbata che cerca ispirazione dall’esigenza di esserci per fare numero e colore ad una liberalità che ogni giorno potrebbe essere l’ultima.
Il disco scorre come una macchina in corsa, ventoso e generoso, fa compagnia e forza come una pacca sulle spalle da un amico con il quale condividi tanto e tutto e questa band fa pamphlet e manifesto di questa giocosità dolce-amara e sgasa a dovere come una virtuale presa all’ultimo minuto di vita al volo; con la produzione di Oliviero “Olly” Riva (Shandon) tutto esplode in assolto, nella scorribanda elettrica generazionale “I decide my age”, si rigira nervosamente nella melodia hardcore “Intention”, borbotta insieme al sincopato di un basso “Loser”, inneggia alla scalmana da cardiopalma “Happy song” e finalmente spalanca il suo cuore affaticato nella ballata vaporizzata che al centro di “Someday” riesce a centrare con gusto sopraffino il bersaglio della melodia hook che darà vita dura – durante i liveset – a centinaia di accendini made in China.
Da Treviso il nuovo terremoto targato Why Not Loser si fa sentire in tutta la sua ginnastica sonora, in tutta la sua rabbia divisa a metà con una gentilezza di fondo che fa estetica di lusso.
Violentor – Violentor
Ecco il disco che mi ha fatto rabbrividire, l’ omonimo che al primo ascolto mi ha fatto innamorare del gruppo, i Violentor per essere precisi, un affiatato quartetto proveniente da Firenze, la cui proposta è un esplosiva miscela tra Thrash e Speed Metal old school. Non mi diramo a lungo, mi limito ad elogiare questa piccola perla che credetemi, vale tanto. Già dalla prima traccia, “Too Loud”, Ale e soci mettono in chiaro le loro intenzioni e la presentazione continua con la successiva “Awakened In Death”. Insomma già le sfuriate di queste prime due tracce sono una vera e propria mazzata sui denti senza parlare poi di “Genocide” oppure di “We Hate All”, la preferita del sottoscritto detto in confidenza, un pezzo spaccaossa che in un live vedrebbe pogare come dannati il grande Lemmy Kilmister, Paul Speckmann dei Master e Cronos dei Venom. Anche se la loro proposta si rifà nettamente all’ Old School, c’è da dire che ci hanno saputo fare ed eseguire in maniera cosi eclatante questo genere non è roba da poco, perché molte band cadono nel banale e nel ripetitivo, per i Violentor non è cosi. Questo omonimo è un disco che riusciranno ad ascoltarli in molti: gli appassionati si leccheranno i baffi, le nuove leve capiranno cosa significa fare buona musica. “Go To Hell” mette la parola fine a tutto, è una chiusura in bellezza, di gran classe che mostra definitivamente chi sono i Violentor. Insomma,questo omonimo non dovete lasciarvelo sfuggire per nessun motivo al mondo, è un disco fatto bene e lavorato nei minimi dettagli perderselo equivarrebbe ad un sacrilegio.
MARKY RAMONE IN TOUR IN ITALIA CON GLI ANDEAD
Marky Ramone, mitico batterista dei Ramones, durante il tour italiano che toccherà 4 città: Milano, Catania, Roma e Villorba (TV) dal 16 al 31 dicembre, ha scelto, per l’occasione, come propria band, gli Andead, rappresentati da Andrea Rock, Stefano Russo, Ivan Rocco N Rollo e Gianluca Veronal! Gli Andead diventano quindi band ufficiale di Marky Ramone per le date Italiane.
Potrete inoltre seguire il gruppo di Andrea Rock nel tour di presentazione del loro ultimo disco “With Passionate Heart”.