Riccardo Merolli Author

Presidente emerito di Rockambula. Non studia non lavora non guarda la tv non va al cinema non fa sport.

Amy Winehouse – Lioness: hidden treasures

Written by Recensioni

Pur di rimpinguare le asfittiche quadrature dei bilanci della discografia mondiale, non dobbiamo sorprenderci oramai se fanno cantare come sempre meno i vivi e sempre più i morti pur di registrare dischi, lo hanno fatto e lo fanno anche con la sfortunata cantante della Camden Town di Londra, la grande Amy Winehouse, e “Lioness: hidden treasures” ovvero Leonessa: i tesori nascosti “postumi” del mito, nemmeno farlo apposta, arrivano puntuali sugli scaffali di mezzo mondo, ed è un disco che contiene canzoni finite e provini lasciati in archivio che si spalmano in un tempaggio che va molto prima del debutto dell’artista con “Frank” e pezzi che dovevano far parte del terzo album purtroppo rimasto in aria.

Salaam Remi e Mark Ronson – i producers della cantante – hanno lavorato di fitto sugli undici files di Amy pur di resuscitare la divina voce del soul contemporaneo, e l’impresa pare riuscita nella parte artistica ma su quella umana è un discutere continuo da parte della critica e del mondo vicino all’artista, ma la resa delle registrazioni fanno passare in secondo piano il corrugamento dei pensieri e vola talmente in alto che ci si può inginocchiare estasiati senza parole in bocca, senza nulla da dire e da aggiungere.
Il disco, appena prende il suo avvio subliminale, stordisce come pochi, un floreale vortice soul, pop, slow-jazz, blues cattura tutto e tutti, con lussuria e conturbanti vocalizzi che solo questa “divina” sapeva lanciare tra stomaco e cervello di chi sapeva ascoltare con mestiere; procedendo a random si apre “Body and soul” incisa con il crooner Tony Bennet, si vola “Our day will come” rivisitazione reggaeggiante del classico doo-woop ’60 di Ruby & The Romantics o ci si incanta con la rilettura della delizia di “The girl from Ipanema” brano originale un altro mito quale Antonio Carlos Jobim; uno stato di grazia inarrestabile anche contenuto nel repertorio 2006 “Wake up alone”, l’up-tempo che contorna “Tears dry on their own” e di seguito le versioni customerizzate di “Valerie” degli Zutones e “Will you still love me tomorrow?” di Carole King.

Con una copertina che riporta la bellezza inaudita della Winehouse, sembra essere un sogno dispettoso che lei non ci sia più, che non potremmo più godere dei suoi abbandoni tra le note sfocate, jazzly e smoothing che la sua ugola sapeva addomesticare come una musa indefinita sa fare; e mentre scorrono gli anni cinquanta di “Between the cheats”, “Like smoke” duettata con il rapper Nas e la stupenda “A song for you” di Leon Russel che Amy aveva omaggiato a Donny Hathaway, artista sfortunato come lei, gli occhi si fanno liquidi e l’orecchio l’astanteria di un sogno in musica da conservare per sempre, come un amuleto di libidine artistica maxima.

  • Genere: pop soul
  • Etichetta: Island
  • Voto: 5/5
  • Link: http://www.amywinehouse.com
  • Data di uscita: 14 Dicembre 2011

Max Sannella

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Paul McCartney – On The Run Tour

Written by Live Report

Il fan dei Beatles è una bestia rara. Si è rara, sebbene credo siano centinaia di milioni i fan devoti al quartetto di Liverpool. E’ principalmente bestia rara perché in media è un disadattato. Fin qui niente di particolare: tutti i fan di gruppi vetusti sono ad ora degli instancabili nerds. Ma attenzione: a differenza dei fan di Led Zeppelin, Bob Dylan o di Elvis non lo si puo’ assolutamente ingabbiare in una sola razza.
Anziane signore appesantite con l’innocente caschetto nel cuore, hippie sbiaditi con camicia nei pantaloni che sfoggiano il simbolo della pace in pantofole davanti al telegiornale, instancabili cultori del vinile che assomigliano al venditore di fumetti dei Simpson, bambini ancora incantati dal sottomarino giallo, ragazzini così indie da sembrare indossatori di Soho, insomma un ricco minestrone.
Ma tutto questo è sicuramente ben spiegato in centinaia di libri, che raccontano il devastante impatto che i Fab Four hanno avuto sulla società del XX secolo e io di certo non sono qui per descrivere l’importanza che ha avuto (più o meno inconsciamente) in tutti noi la band più famosa del mondo.
Solo che questa antropologica considerazione non puo’ che balzarmi all’occhio da quando entro nel parcheggio del Forum di Assago per assistere ad un live, un banalissimo concerto, di sir. Paul McCartney. E giusto per farvi capire il mio sgomento, la butto sul gossip. Vedo a distanza di pochi minuti: Rocco Tanica, Mauro Pagani, Noel Gallagher e Massimo Boldi. Ditemi se non è un ricco minestrone questo?

Paul McCartney porta in giro, ormai da tanto (ma forse mai troppo) tempo, una celebrazione spudorata del suo passato. Lo si capisce da subito, quando a 20 minuti dall’inizio del suo show parte un video con vari collage di immagini, icone e disegni che rimandano alla magica Liverpool anni 60. Ovviamente qualche frame è pure dedicato ai Wings e alla sua sfortunata e tanto amata compagna Linda.
Insomma capiamo subito come butta la serata: Beatles in primo piano, ma nel cuore di Paul una buona fetta è dedicata alla sua “band on the run”.
Dopo il video (stupendo per altro e accompagnato da remix molto trendy di suoi pezzi storici) entra Sir. Paul e il Forum è in adorazione. E’ arrivato un gentleman, un nobile direi quasi, elegante e composto, simpatico e piacione. Che si pone davanti alla sua minestra di persone come se fosse davanti alla regina di Inghilterra o davanti ai suoi nipotini. Un gioioso nonnetto tutto sorriso e grinta. Della trasgressione rock ‘n’ roll forse non c’è molto, ma a dire il vero quella in lui non c’è mai stata più di tanto, lo stile e la sua faccia così “pop” rimangono immutate. Questo è il nostro Dorian Gray in carne ed ossa.
Iniziano le danze con “Hello/Goodbye” e giù tutti a cantare. La minestra prende forma e inizia ad amalgamarsi. Metallari figli di “Helter Schelter” indossano per un attimo polo col colletto, ai più anziani ricrescono tutti i capelli. Questo concerto è un momento di comunione spirituale e Paul è il nostro reverendo.
Cio’ che stupisce del signorotto inglese già dai primi brani è la sua bravura tecnica, suona e canta in splendida forma a 69 anni di età. Piano, basso (il suo magnifico ed inseparabile Hofner) e chitarra, in cui si dimostra più rock di quanto sembri (spara pure un paio di assoli arroganti), senza ovviamente mai perdere la sua eleganza. Un inchino a sua maestà.

Nel corso delle due ore e mezza di scaletta Paul cerca di far valere la sua carriera solista che però risulta uno scricciolo nei confonti del mastodontico repertorio che si ritrova alle spalle. Il pubblico infatti pare non gradire eccessivamente “Junior’s Farm” o “Sing The Changes” (inaspettato brano dal suo progetto sperimentale The Fireman) e aspetta impaziente i classici. Triste ma vero: la sua carriera solista ci interessa poco. Vogliamo i Beatles. Ed ecco “All My Loving”, “Drive My Car”, “Long and Winding Road”. La band risponde bene alla rievocazione storica, rimodernizzando anche un po’ i brani, grazie soprattutto alla preziosa presenza del batterista fabbro Abe Laboried Jr., che nonostante l’eccessiva arroganza nel picchiare i tamburi si dimostra scenico e ben adatto allo spirito del live di Macca.

Per rendere ancora più sfacciata la celebrazione Paul cita “Give Peace a Chance” di John Lennon (in una toccante versione chitarra e voce) non prima di aver dedicato la splendida “Something” a George Harrison, forse il momento più intenso del concerto.
Tra un classico e l’altro Paul si atteggia da presentatore TV negli intermezzi, ci tiene ad intrattenerci con le sue smorfiette e il suo buffo ed insistito tentativo di boffonchiare parole in italiano. Sembra fin troppo acqua e sapone, non pare essere uno dei più grandi scrittori di canzoni al mondo.

Il finale di concerto si concentra ovviamente sui megaclassici della produzione Macca.
Le kilometriche “Let It Be” e “Hey Jude” anticipano il momento più tamarro dello show: “Live and Let Die” parte in sordina con Paul al pianoforte a coda e poi fuoco e pirotecnici scatenano l’inferno, in una versione tiratissima da rendere soffice persino la cover violenta di Slash e Axl Rose.
I bis infine sono dedicati ad altre pietre miliari come “Get Back”, “Yesterday” e “Helter Skelter” e per concludere (scelta non proprio banale) il geniale finale di Abbey Road, che chiudeva in pratica la carriera dei Fab Four. E qui chiude il concerto, un concerto come tanti. Semplicemente un memorabile karaoke dal vivo. Con la semplicità di chi arriva al cuore di milioni di persone con una banalissima melodia. E arrivato e ci ha fatto cantare, grandi e piccini, punkers e fichette con occhiali alla moda. Tutti in ginocchio, il vecchio sir. Paul è passato.

Marco Lavagno

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Legittimo Brigantaggio – Liberamente Tratto

Written by Recensioni

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” A. Gramsci
Prima di parlarvi di quest’album cosi ambizioso e complesso (vedremo a breve se lo si possa effettivamente considerare tale e perché), una promessa è doverosa. La musica dei Legittimo Brigantaggio è quanto di più distante esista dalla mia idea di musica. Funzione sociale prima che arte pura, astratta, emozionale. Musica oggettiva, anti individualista, per cui il fruitore è solo un mezzo di trasporto del messaggio non molto nascosto tra le parole, nella voce, che diventa l’elemento primario lasciando alla parte strumentale solo un ruolo gregario. Questa premessa ha uno scopo ben preciso. Gran parte delle mie considerazioni, vengono proprio dallo scontro di queste diverse concezioni e quindi, il fatto che possiate apprezzare o no “Liberamente Tratto” sarà dovuto soprattutto al vostro modo di considerare la musica, più che alla qualità pura di ciò che ascolterete. Baudelaire affermava che “L’arte è la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l’oggetto e il soggetto”. Ingabbiare la musica nella sua funzione sociale può distruggere quella magia. La musica smette di essere arte e diventa altro oppure niente. Prima di leggere e ascoltare, fatevi questa domanda. Che cosa è per voi la musica, quale il suo scopo?

I Legittimo Brigantaggio sono Gaetano Lestingi (vocals, acoustic guitar, electric guitar), Davide “Zazzi” Rossi (accordion), Pino Lestingi (electric guitar), Domenico Cicala (bass), Gianluca Agostini (electric piano, synthesizer) e Gianfranco Vozza (drums, percussion). Nascono a Priverno, nel Lazio, nel 2002 e il primo lavoro è l’Ep “Quando le lancette danzeranno all’incontrario”, uscito l’anno seguente. Dopo tre anni e tanti live, nasce “Senza troppi preamboli…”, primo album della band, al quale partecipano tante voci celebri del panorama Folk italico, tra i quali Billi e Fiori de I Ratti della Sabina. Nel 2009 esce il secondo album, “Il cielo degli esclusi”, che ripresenta la formula della collaborazione con nomi ancora più di calibro. Modena City Ramblers e soprattutto Yo Yo Mundi, i quali rappresentano la band di riferimento dei briganti laziali.
Nel 2011 ecco a noi “Liberamente Tratto”, concept album sul tema dell’abitudine (strano visto che il sound è quanto di più abituale esista nel mondo folk italiano) nel quale ogni brano prende spunto da un’opera d’arte, romanzo, poesia, quadro, da Saramago a Pasolini, il tutto avvolto in un voluminoso e accecante mantello rosso. Affascinante, vero? Come rendere in musica le emozioni della penna, della macchina fotografica, del pennello? Come riusciranno a trasmettere quelle sensazioni tipiche della lettura, delle intermittenze della morte o del tempo di uccidere? Semplice. Non ci riescono. Al massimo, e questo sarebbe sicuramente un ottimo risultato, riusciranno ad incuriosire con qualche frase, a mettere voglia di leggere un autore o di appassionarsi ad un testo o una rappresentazione. Ma io stesso ci credo poco, perché i riferimenti non sono cosi immediati come si potrebbe credere e la musica non riesce a generare le diverse atmosfere necessarie a rendere al meglio le opere musicate.

Da un punto di vista strumentale, siamo disperatamente incollati al classico Folk dei già citati Modena City Ramblers e Yo Yo Mundi. In alcuni passaggi, soprattutto sotto l’aspetto vocale, c’è una certa similitudine col Cesare Basile più popolare e alcuni accenni allo Ska balbettano troppo deboli per essere considerati caratteristici del suono dei Legittimo Brigantaggio. Le melodie non sono ricercatissime, né molto orecchiabili, esclusi un paio di pezzi, e alla lunga l’ascolto può essere pesante e noioso. L’aggiunta dell’elettronica, del synth e del pianoforte elettrico, non serve a salvare la musica dalla marea di banalità nella quale affonda ed è cosi nascosta nell’ ombra del folklore italico da suonare impercettibile mancando un’attenzione maniacale e minuziosa. La musica in sé, voce esclusa, è dunque la parte meno importante dell’opera, cosa evidentemente intuibile già da come il disco si presenta. Non riesce quasi mai a trasportarci veramente, non trasmette la carica e la rabbia necessaria, è poco elaborata e strutturata (questo non sappiamo quanto volutamente, nella possibile necessità di non mettere nel lato oscuro la parte più particolare dell’ opera) e finisce col riproporre meccanicamente una formula ormai logora abbandonata in un affannosa ritirata nella fortezza di Nyen distrutta sotto i colpi della rossa monotonia sinistroide. Senza bisogno di aggiungere altre parole, avrete capito che tipo di sound vi aspetta e avrete capito che non saranno le chitarre o la batteria a spingervi ad ascoltare l’album (so che è una cosa orrenda da dire quando si recensisce un disco). Veniamo dunque alla parte più interessante, l’ elemento che forse spingerà i più temerari compagni ad ascoltare e parlare del disco. Anche se il timbro vocale risulta poco incisivo, in alcuni punti quasi in crisi d’ ossigeno, isolata dal fuoco della musica popolare e dal muro della rigida scelta testuale, è proprio nel canto o meglio nelle parole che potreste trovare un qualche giovamento.
Abbiamo detto che ogni brano è liberamente tratto da un’opera d’arte. Vediamo nello specifico quali collegamenti ci sono tra canzoni e artisti e quali temi sono trattati di volta in volta. Ripeto che lascerò da parte l’aspetto musicale perché totalmente inutile e ripetitivo e non ritengo neanche necessario soffermarsi in maniera puntigliosa sulle opere, visto che del disco parliamo e non di letteratura o pittura:
“Uscita operai”. Visione del dipinto “il Quarto Stato” di Giuseppe Pellizza e trattante il tema del lavoro e del mercato.
“La lettera viola”. Romanzo “Le Intermittenze della Morte” del portoghese Saramago, già autore del bellissimo “Il Vangelo Secondo Gesù Cristo”. Il tema è la morte, la sua assenza, il suo desiderio.
“Il diavolo nella camera oscura”. Eliografia “View from the Window at Le Gras” di J. N. Niépce. Parla dell’invenzione della fotografia e della difficoltà dei benpensanti ad accettare la novità.
“I cieli non sono umani”. Romanzo “Una Solitudine Troppo Rumorosa” di Bohumil Hrabal. Praga, seconda guerra mondiale. Un boia di libri redento e un amore che sparisce nel fuoco.
“Il dado è tratto”. Film “I Quattrocento Colpi” di François Truffat. Accusa alle nuove forme di pedagogia.
“Eucalyptus”. Romanzo “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi dedicata alla cittadina laziale Latina.
“L’Attimo Ideale”. Romanzo “Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale” di Erich Maria Remarque. Paura dell’atomica, accusa all’opprimente occidente.
“Ruvido”. Saggio “L’Ospite Inquietante” di Umberto Galimberti. Nichilismo e gioventù.
“Affari di famiglia”. Poesia “La Guinea” di Pier Paolo Pasolini. Speranza contro la caduta dei potenti governanti italiani.
“Tempo di uccidere”. Romanzo “Tempo di Uccidere” di Ennio Flaiano. Guerra d’Etiopia, amore, morte, rimorsi e paura.

Ora avrete tante domande tra le tempie. Non è che questa formula è più semplice di quello che la stessa vuole farci credere? Non è che scrivere basandosi su testi o altro di grandi artisti crea una sorta di obbligo morale nella testa di ipotetici pseudointellettualigiovanidisinistra per cui “deve necessariamente piacermi, non posso sembrare ignorante o fascista”? E poi, il musicista non dovrebbe essere artista prima che divulgatore di opere d’arte altrui? Che cosa è la musica, quale il suo scopo? Dov’è la magia, in questo disco, dov’è la musica? Cari Briganti, non è che mi state fregando?

  • Genere: folk rock
  • Etichetta: Cinico Disincanto
  • Voto: 2.5/5
  • Data di uscita: 14 Dicembre 2011
  • Link: http://www.legittimobrigantaggio.com

Silvio Don Pizzica

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Amaury Cambuzat

Written by Interviste

Rockambula incontra Amaury Cambuzat agli ACME Recording Studio in occasione della registrazione del nuovo album dei Droning Maud in veste di produttore della band. Una video intervista con il sapore di una semplice chiacchierata, buona visione…

http://www.youtube.com/watch?v=1mk9tPlLOrg

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Teatro degli Orrori: le prime date del nuovo tour!

Written by Senza categoria

Si chiama “il mondo nuovo” il prossimo disco de il teatro degli orroriin uscita martedì 31 gennaio con l’etichetta la tempesta dischi e distribuzione universal.

Ecco le prime date:

  • ven, 2 mar 2012 pordenone deposito giordani
  • sab, 3 mar 2012 brescia latte +
  • ven, 9 mar 2012 s.vittore di cesena vidia
  • sab, 10 mar 2012 perugia urban
  • ven, 16 mar 2012 roma orion
  • sab, 17 mar 2012 campobasso blue note
  • ven, 23 mar 2012 bologna estragon
  • sab, 24 mar 2012 livorno the cage
  • gio, 29 mar 2012 milano alcatraz
  • ven, 30 mar 2012 torino hiroshima
  • sab, 31 mar 2012 torino hiroshima
  • ven, 13 apr 2012 taneto di gattatico (re) fuori orario
  • sab, 14 apr 2012 firenze flog
  • gio, 19 apr 2012 trepuzzi (le) livello undiciottavi
  • ven, 20 apr 2012 molfetta (ba) eremo club
  • sab, 21 apr 2012 napoli casa della musica
  • sab, 28 apr 2012 marghera (ve) rivolta
  • lun, 30 apr 2012 teramo aspettando il primomaggio
  • gio, 3 mag 2012 catania mercati generali
  • ven, 4 mag 2012 palermo bier garden

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L’ album dei Keam uscirà in Primavera 2012! Singolo gratis a Dicembre!

Written by Senza categoria

L’atteso full length della rock band ciociara uscirà in Primavera, anticipato da due potenti singoli, primo dei quali verrà distribuito a partire da Dicembre in forma gratuita  sul sito ufficiale della band,  che nella sua formazione vanta l’originale presenza di un ulteriore bass – player a 6 corde,  adibito esclusivamente alla generazione di suoni sintetici – elettronici.

La produzione firmata Mauna Loa si è svolta negli USA sotto la supervisione di Doug Ford, già produttore per Crossfade ( 3 milioni di copie vendute su Columbia Records e disco d’oro nel 2004) e il noto produttore e arrangiatore Fabio Raponi (Tiromancino, Max Gazzè, disco d’oro con “Movin’ too fast” in UK, produzione artistica per Dionne Warwick e la Royal Philharmonic Orchestra..).

E’ possibile ascoltare e vedere in anteprima assoluta alcuni takes del singolo di debutto “Robin’s Revenge” nel seguente promo video.

Per qualsiasi informazione ulteriore e aggiornamenti vi preghiamo di consultare il sito ufficiale della band.

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Fantasmi Rock

Written by Articoli

ANNO 2011: FANTASMI NEGLI ARMADI DEL ROCK?  PIUTTOSTO VECCHI MERLETTI!

DELLA SERIE: Quando è dura ammettere che oramai sei solo un vecchio idolo sbiadito. Lettera a tutti loro.

2011 ANNO HORRIBILUS. Chissà che cosa cercheranno gli elefanti del rock quando andranno a morire nei loro cimiteri? Chissà, oltre che ha diventarne istantaneamente un culto, forse si camufferanno da alieni con il vizio di essere nuovamente umani sopra la media o magari più in la travestirsi da atrofici remagining rimontati in occasione di un videogioco o un fumetto manga per frustrati ultra-teenagers tinti nero corvino.

E di tutta quella zuppiera colma di suoni, passera e crisi d’astinenze di filiera che cosa ne resterà o meglio rimarrà a sgomitare tra un via vai di neuroni con la gotta e cellule con le stampelle griffate da Cavalli? Anche questo non è dato sapere e quantomeno immaginare, visto l’andazzo in passerella che tanti Signori Gerovital ancora tentano di arrancare, brandendo chitarre d’annata e tutine in latex che al cospetto Mr. Bolan poteva assurgere a divinità ancestrale, un Pan dell’entravesti morigerato senza l’assillo della buoncostume tiranna.

Non se ne può francamente più di assistere a rimpatriate, tributi, omaggi e tutto il carosello collettivo che rimette le tende in piedi pur di decantare che la “loro ora” non è pervenuta per un errore del parallelismo strabico di un meridiano Greenwich alticcio e nient’altro; il senso dell’idiozia targata Barnum non conosce fasi, tutto si appunta in una generale mischia borotalcata che vuole riprendere in mano lo scettro e il desco del fu e che va a contare pure su di una cassa di risonanza – magnetica farebbe all’uopo – megafonata che, magari con strategie da Ben Hur riprogrammate, distruggono, oscurano e ridicolizzano, l’enorme cristalleria dei gironi pentecostali di neofiti  musicisti intermedi.

Signor Osborne, Mister Iggy, Lady Roxette e Baba Elton e Villa Arzilla in colonna, stop con il vostro Buddha Bar all’inebriante fragranza di naftalina, dopo che avete avuto l’immensa fortuna di lavorare e farvi le ganasse come ippopotami del Serengeti non credete di fiutare – non sniffare mi raccomando – un tiraggio di un’altra aria che vi disintossichi dal protagonismo alla Highlander e finalmente inforcare stivaletti di gomma e andare a pescare gamberetti come il tenero Gump?

Lo so che siete venuti in pace e che avete bisogno di condividere le vostre esperienze analogiche (illogiche?) per vedere “ finalmente l’effetto che fa” proiettati nell’avanzamento della tecnologia dell’odierno, ma anche a teatro una replica va bene, la seconda si traccheggia, ma la terza è uno spillone nelle architetture riproduttive, e dovreste saperlo bene voi che in fatto di riproduttività quelle zone sono di gran lunga più delicate di una Morositas. Cari elefanti, ma almeno l’avorio delle vostre dentiere è quello originale o maestria Made in China?

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Lucy Van Pelt – L’instabile

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L’instabile” è la forza motrice discografica della formazione umbra dei Lucy van Pelt, un disco di trentatré minuti e trentatré secondi d’inarrestabile poesia, corrente elettrica e pensieri accavallati, un dieci tracce che elegge la perfetta sintesi dei tempi che si corrono a suo simbolo ed un bel trascinamento contagioso verso gli anni rock dei novanta italiani, della consapevolezza ed esigenza di smanettare dentro l’indie e quella viscerale esuberanza dell’opera prima che già al primo giro di giostra minaccia di prendersi più di uno spazio nell’underground di casa nostra e non solo.

Federico Minciarelli batteria, Francesco Tartacca voce e acustica, Matteo Rufini basso e Matteo Tiecco alla chitarra, questo il power della band che non avanza mai sporcato e sconosciuto dentro il cosmo rock, ma cerca di interpretarne una possibile nuova via e riesce a catturare l’attenzione per la “performance a concept” sulla quale alterna poesia melodica ed ispessimenti distorti, Il Santo NienteL’invidia”e Soul AsylumL’uomo italiano medio non ha senso”; brani compatti ed energia vitaminica si confrontano con momenti di lusso acustico cantautorale “Tra l’oggi e il domani”, la magnifica sensazione  psichedelica del minuto e quarantanove secondi di “MAV” che ti afferra per la collottola dell’anima e ti trasferisce tra le spire vorticose di “Senza di te” non prima di averti schiaffeggiato di grazia con la Vedderiana “Le tue risposte”.

Un esordio, questo che gela il sangue, splendifero nei dettagli, “umano” nelle parole, un atto d’amore sincero per la vera e bella musica, una scelta questa della band di suonare armonie e non solo pigiate di pedaliere; ora con una band così in giro crediamo che le cose potrebbero cambiare sotto la lente d’ingrandimento della ricerca di novità da mettere sotto il lettore stereo, e Lucy van Pelt – con o senza il parere favorevole di un Charlie Brown imbronciato –  tira avanti col vento in poppa.

Entusiasmante spirito ribelle “Instabile”.

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Jerrinez – Io Sono Stato

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Rimanere alternativi per forza, per stile di vita. Anche quando tutto intorno ti si uniforma, l’universo che ti avvolge cerca di modellarti, ma tu mostri a lui solo il tuo scudo di ferro battuto. Ormai lo scudo è tutto ammaccato, ma questo ti rende ancora più forte e più grato.

E così dopo più di 10 anni di palchi e sudore, ti presenti ancora con quel suono che sa di marcio e quella voce che grida di indifferenza e di degrado, pronta a sputare nel prossimo umido microfono del centro sociale di periferia. Così fanno ancora i Jerrinez, da Milano.

Il loro ultimo album “Io sono stato” riflette una sbiadita ombra di CCCP e (se vogliamo essere più cool) di Teatro degli Orrori con quel pizzico di noise-by-USA che tanto andava di moda ben più di 10 anni fa (forse gli anni sono anche più di 20 se vi dico Sonic Youth). Ma qui ora tutto è fermo, intrappolato in quei ritmi pseudo hardcore, in feedback ossessivi e nella definitiva distruzione della melodia. E la band rimane intrappolata in una registrazione che sembra appositamente marcia, poco incisiva, fuori dal contesto e stridula.

L’uso della parola salva parzialmente la situazione, la storia che non ci insenga rimane in primo piano nella bocca isterica di Bobo Boniardi, che sputa frenetiche sentenze senza troppi peli sulla lingua: “cambiano le stanze, le vittime e i carnefici, rimangono vecchi sogni su cuscini poco soffici”. La “storia” è dunque ben argomentata in vari episodi, il più riuscito rimane “Gaetano”, dove ci viene presentato il punto di vista di Gaetano Bresci, carnefice di re Umberto I.

Il titolo del disco sembra dunque proprio azzeccato, il passato è qui dentro, con tutto il suo fardello. Ma il piccolo microcosmo che si difende con il suo onesto scudo sembra proprio essere stato inglobato e ormai ignorato dal gigantesco universo che lo sovrasta.

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Amelie Tritesse – Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll

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“Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” è il cd libro degli irreverenti spacca pensieri Amelie Tritesse, una carica bastarda di read’n’rocking in presa elettro diretta. Un disco di dieci pezzi accompagnati da un libro di racconti quotidiani di 64 pagine, testi ed illustrazioni.

Una cosa fregna. Poi il gioco musicale intrapreso tra brani recitati come qualche affermata situazione italiana insegna e pezzi in inglese di genuino rock and roll rendono questo lavoro interessante e propositivo per un ascoltatore che non cade mai nella solitudine della monotonia, rimanendo sempre attento alle circostanze. Molto Abruzzo nel complesso, la loro terra stanca di rimanere sempre al palo rinchiusa e tartassata da (in)fondati pregiudizi, l’orgoglio viene prepotentemente fuori, le palle ci sono e come.

Sensazioni bellissime in “Una ballata per Jeffrey Lee”, già ero cascato in queste sensazioni con il Circo Fantasma e non mi stancherò mai di farlo, un pianoforte struggente viaggia leggero ad accompagnare una calda voce dalle movenze interpretative di chiaro spessore.
Poi la title track “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” arrovella cattivi pensieri nella testa presa da un tiro profondo di spino, qualcuno aveva già provato queste “cattive abitudini” portandone fuori consensi di nicchia. Io non ho mai capito un cazzo del rock and roll. Giuro.
Un opera prima per questi ragazzi dagli alti canoni artistici da considerare con lode, difficilmente collocabili in questo caos musicale indipendente italiano, una fresca realtà che cerca di differenziarsi dalla massa usando egregiamente tutte le armi del proprio arsenale artistico.

Un folk rock con puntine di sporca elettronica da maneggiare sempre e comunque fregandosene dell’estrema cura, gli Amelie Tritesse vogliono apparire essenzialmente per quello che sono senza inganno. “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll” prepara la musica verso un’altra rotta tutta ancora da esplorare, un ottimo inizio. Col botto.

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Top 2011 di Silvio Don Pizzica

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Annata di grandi conferme, qualche volto nuovo e ritorni inaspettati. La band californiana Girls al secondo album si gioca tutto quello che può. All-In vincente, in un mix di Indie Pop, Indie Rock, Jangle Pop, Noise Pop, con lo stile di un Costello delirante. La loro vittoria è l’ingresso nella storia della musica. Ottimi anche gli esordi di S.C.U.M. e Chapel Club, entrambi londinesi ed entrambi alla ricerca del Dream Pop perfetto, in viaggio da strade diverse. Partono dal Post-Punk i primi, dallo Shoegaze i secondi. Dove arriveranno, lo ascolteremo tra qualche anno. 

Non possiamo non citare anche Wild Beasts, una macchina da grandi album e Mirrors, band che sembra la reincarnazione in chiave Pop dei Kraftwerk. Altri esordi eccezionali, James Blake tra i fenomeni più chiacchierati di quest’anno (con Anna Calvi) e gli islandesi Dead Skeletons che con il loro mantra psichedelico e potente sono di certo la perla nera del 2011. Tra i grandi del passato, buonissimo rientro dei Low, Tom Waits e John Foxx mentre sembrano ormai aver gettato la spugna Coldplay, sempre più irritanti, Bugo, Cristina Donà e Current 93.

  • GIRLS – Father, Son, Holy Ghost
  • S.C.U.M. – Again into Eyes
  • CHAPEL CLUB – Palace
  • WILD BEASTS – Smother
  • DEAD SKELETONS – Dead Magick
  • MIRRORS – Lights and Offerings
  • JAMES BLAKE – James Blake
  • TIM HECKER – Ravedeath, 1972
  • WEEN- Caesar Demos
  • COLIN STETSON – New History Warfare Vol. 2: Judges
  • DESTRUCTION UNIT – Sonoran
  • BRAD MEHLDAU – Live in Marciac
  • INADE – Antimimon Pneumatos
  • PRIMORDIAL – Redemption at the Puritan’ s Hand
  • THE FIELD – Looping State of Mind
  • BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
  • ALVA NOTO – Univrs
  • ST . VINCENT – Strange Mercy
  • DENIZ KURTEL – Music Watching Over Me
  • PEAKING LIGHTS – 936   3.58
  • Migliore raccolta:
    Disco Inferno – The Five Eps
  • Migliore esordio:
    S.C.U.M. – Again Into Eyes
  • Miglior album sperimentale, ambient, avantgarde e stranezze varie:
    Tim Hecker – Ravedeath, 1972
  • Migliore album live:
    Brad Mehldau – Live in Marciac
  • Migliore album Metal:
    Primordial – Redemption at the Puritan’s Hand
  • Migliore album di elettronica (Dubstep, House, Techno, Electronic, ecc…):
    The Field – Looping State of Mind
  • Migliore raccolta di elettronica (Dubstep, House, Techno, Electronic, ecc…):
    Demdike Stare – Tryptych
  • Migliore artista maschile:
    James Blake
  • Miglior artista femminile:
    Anna Järvinen
  • Miglior album italiano:
    Verdena – WOW
  • Delusione dell’ anno:
    Ladytron – Gravity the Seducer

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Buen Retiro

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Nati nel 1999, i buenRetiro sono una band pescarese attualmente composta da Mauro Spada (voce, basso), Francesco Politi (chitarra), Carmine Blasioli (batteria) e Loreto Di Giovanni (chitarra).
Due lavori autoprodotti, ruggine perfetta (2001) e demode’ (2004) hanno preceduto l’esordio discografico avvenuto nel 2007 con l’album Escargot (DeAmbula Records).

Nel Novembre 2011 uscirà In Penombra, l’ultimo lavoro dei buenRetiro, mixato da Amaury Cambuzat, edito per l’indipendente DeAmbula Records (Pineda, Ulan Bator, Pitch, Amaury Cambuzat, the Marigold, Magpie).

Il disco, cantato in italiano, descrive ed attraversa gli attimi della penombra, esprimendoli con suoni dalle mille sfumature: cupi, oscuri ma anche lunari, tribali, poetici e viscerali. Equilibrio ed armonia accompagnano questo viaggio che dalla luce, attraverso la penombra, vedrà l’incontro con il buio.

(Info tratte da http://www.deambularecords.com)

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