Riccardo Merolli Author

Presidente emerito di Rockambula. Non studia non lavora non guarda la tv non va al cinema non fa sport.

Bob Corn

Written by Live Report

Una sera d’agosto a Caramanico Terme c’era il signor Bob Corn in persona, ma lo conoscete quel simpatico ARTISTA dalla folta barba?

Lui e la sua chitarrina sul palco e basta, veramente più nessuno. Soltanto bellissime canzoni dall’aspetto scarno e dai contenuti di spessore, un uomo nato per reggere le scene senza pregiudizi di numero di presenti, di età, di gusti musicali. Non gli frega niente di quello che c’è sotto il palco scenico, lui è caloroso, pieno di animo, risulta essere un grande uomo. Pazzesco.

E poi parla, narra di storie umane, rapisce l’attenzione di chi lo segue, si fa amare, io lo amo alla follia. Se fosse possibile lo porterei a casa con me, ci parlerei per ore ed ore, ci berrei vino a profusione. Lo voglio.
Lo voglio e basta.

Niente di più entusiasmante poteva accadere in quella fresca sera di agosto, Bob Corn con la sua chitarra a regalare passione, quel calore umano che sicuramente non siamo più abituati a ricevere. Mi sentivo addirittura imbarazzato di tanta umanità.

Ad un certo punto abbandona il microfono e scende dal palco, inizia a suonare tra la gente ultra sessantenne presente a Caramanico per la sola ragione del soggiorno termale. Piace a tutti, ragazzini compresi. A fine concerto un bambino di forse dieci anni gli si avvicina e gli fa:”sei comunista?”

Il concerto per una volta inteso come tale, ci chiacchiero per un bel pezzo tra un mojito e una birra cruda acquistando inevitabilmente tutta la discografia ad un simbolico prezzo. Bob Corn è il cuore della musica indipendente in Italia, un persona che cercheró di seguire artisticamente il più possibile. Bob Corn merita di essere apprezzato al massimo, merita un bacino sulla fronte.

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Aldrin – Bene

Written by Recensioni

Quante palle ci vogliono per suonare Post Rock in Italia nel 2011? In Italia, pensateci, il regno della canzone d’autore, dei testi impegnati, del pop da suoneria, del rock da bimbominchia.

In Italia, dove per vendere dischi, devi fare il coglione da Maria o essere giudicato da Simona Ventura, nota esperta del settore.

In Italia, dove chiedere, anche in tanti locali underground (che poi che cazzo di termine), di suonare dal vivo pezzi propri per un gruppo emergente significa prendersi una bella risata in faccia mentre un “dj (???) ” ti sorpassa e riempie il locale di cadaveri pronti a pagare anche dieci euro, consumazione inclusa, pur di ascoltare roba che già conoscono, gruppi che hanno ampiamente rotto i coglioni.

In Italia, dove le cover band riempiono le piazze alle feste di paese e talenti veri si spaccano il deretano senza un barlume di speranza.

Bene, la band di Viterbo ha due palle grosse come il fegato di Vasco Rossi. Trenta minuti di Rock strumentale divisi in quattro tracce omogenee ma intrecciate come a creare un disallineamento dei vostri neuroni.

Gli Aldrin nascono nel 2009 e nello stesso anno sviluppano il primo demo, “The Outstanding Tale of Buzz Aldrin” che toglie presto il dubbio sul nome della band citando l’astronauta che per secondo mise piede sulla luna. Alla base del progetto ci sono gli stessi membri attuali. Roberto, Massimiliano e Hendrick già in forze con le divise The U-Goes (gruppo indie di Viterbo) e il batterista Marco che viene, inaspettatamente viste le performance proposte con gli Aldrin, dal punk-hardcore di Ingegno e Ouzo. Con Roberto, Marco si sfoga attualmente anche con Cayman the Animal, altra band di matrice HC.

A questo punto potreste pensare ad un Post Rock particolarmente spinto, duro, aggressivo. Avreste pensato male. Le radici dei vari componenti sono qui fuse alla perfezione, completamente disgregate e ricomposte, rimescolate in qualcosa di fluido che niente ha a che vedere con gli ingredienti singoli.

Der Aldrin, brano che apre l’opera, inizia con un campionamento elettronico che, prima dell’ingresso di chitarre e batteria, dura circa venticinque secondi e riesce perfettamente a portarci nello spazio siderale, in viaggio verso la luna come fossimo neo-astro-nati Buzz, quarantadue anni dopo. Dopo il breve intro, il pezzo entra nel vivo dichiarando esplicitamente amore alla musica. Le influenze qui sono chiare, nette, evidenti. Mogwai soprattutto, in parte Explosions in the Sky, in un continuo altalenarsi che al minuto quattro e venti secondi finisce per implodere. La musica si ferma, per un attimo, come a trattenere il fiato dopo che il bang! del decollo è alle spalle. Il pezzo non è finito, il cammino è lungo ancora. Siamo soli nel nulla oscuro ad ascoltare nel silenzio assoluto la musica dei nostri pensieri. La chitarra ci accompagna, in un rimando forse anche troppo evidente agli scozzesi già citati. Succede qualcosa però. Il suono di un’altra chitarra sembra insinuarsi nella nostra mente spaccandola in mille pezzi. Pochi secondi prog inseriti come un indizio, un segnale, una firma di un serial killer sul nostro corpo totalmente in balia dell’antimateria universale. Nel finale, improvviso come un’onda maledetta si alza un muro di chitarre che ci sbatte da un lato all’altro del tempo, senza potere alcuno, senza difese. E prepara la chiusura fastosa di un pezzo che anche da solo sarebbe già enorme.

Vaskij Rosso propone un minuto e mezzo rivelatore come il pulsare del cuore in una botola. Più evidente si fa il riferimento al progressive in parte accennato in Der Aldrin, ma non pensate di ascoltare gli Yes teletrasportati nel presente, non pensate al progressive nel senso classico del termine. Con gli Aldrin ho capito che la strada non potrà mai essere dritta e la risposta mai una. Due minuti e mezzo e ti trovi a muovere la testa al suono di un assolo IndieRock e poi risucchiato nell’occhio di un turbine di onde elettroniche e poi in una nuvola ad ascoltare Dream Pop e poi chissà dove.

Molto Bene, terza traccia, molto bene. Ci siamo, siamo sulla luna. L’atmosfera si fa più calma, i ritmi più soffici, le note della chitarra sono quasi solo accennate. “Magnificent desolation”.
Un suono liquido ricorda la melanconia dei Low, dello slowcore/sadcore più struggente ma, come vi ho detto prima, gli Aldrin non sono mai banali. Una voce in inglese ci sussurra nella testa, ci avvisa come flash nella nebbia e a quel punto due parole, una voce in italiano stentato, una donna, è inglese, la vedo, “molto bene”e il sound riprende corpo e rabbia nel tempo che impiego a battere le palpebre.

L’album si chiude con La Drogue, l’episodio più leggero, più Pop-Rock di tutto il disco, con chitarre che ricordano Shoegaze pulito dai feedback caratteristici del genere. Entra in gioco una voce narrante, probabilmente non necessaria, che tenta di indirizzare i nostri pensieri andando in parte contro l’impalpabilità del rock strumentale che ne è anche la forza. Parole che provano a riportarci sulla terra. Senza riuscirci, perché sul finire, ci ritroviamo tutti su un palco fatto di speranze piazzato nel centro del Dark Side a urlare e cantare. Già cantare. Quello che non ti aspetti, ancora una volta.

Forse ai più esperti (snob) il rock strumentale proposto dagli Aldrin suonerà monotono, usurato, troppo farcito di contaminazioni o poco innovativo. I meno avvezzi a tali sonorità potranno soffrire la lunghezza dei pezzi, la quasi totale assenza del cantato, la mancanza della classica forma canzone. Io credo che saranno più coloro che apprezzeranno i continui cambi di ritmo, gli improvvisi controtempi, il citazionismo mai preponderante sulla musica, la mescolanza di generi quali il Funky o il Progressive alla pura espressione artistica del Post Rock chitarra/basso/batteria, l’atmosfera creata da un ascolto coinvolto, la potenza e le melodie a volte commoventi senza scendere mai nel patetico. I Giardini di Mirò hanno un futuro.

Non c’è bisogno di capire quello che questa musica vuole dirci. E’ sufficiente chiudere gli occhi.
Nei mesi a seguire ci sarà tanta gente in viaggio verso l’interzona posta tra la mente e il cosmo. Io intanto me ne sto ancora li, al riparo, aspettando. E continuo ad ascoltare.

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Bob Dylan & Mark Knopfler

Written by Live Report

Dopo quasi due sfiancanti ore di coda all’uscita di Assago (come al solito pecche organizzative notevoli nelle localtion per concerti italiane), prendo coraggio e entro nello storico Forum di Assago. Coraggio perché ciò che provo è proprio paura. Paura terrificante di vedere davanti a me per la prima volta uno dei miei miti deturpato da una vita paranormale, da una vita che lo ha reso vulnerabile come tutti noi umani, vita che gli sta facendo pagare tutte le sue crude parole scritte in quasi 50 anni di poesia, contraddizione, visioni, maledizione, redenzione e di (forse eccessiva) saggezza.

Mr. Zimmerman, in arte Bob Dylan, ha ormai 70 anni pieni e a sentire le voci in giro non se li porta neanche troppo bene a differenza di colleghi coetanei stracolmi di fighe 30enni, botulino e corse sul tapis roulant (vedi sir. Paul McCartney e Mick Jagger).
Quindi immerso nella nebbia che avvolge il Forum, ho paura. Ma affronto i miei timori sperando che il caro Bob mi stupisca, come dopotutto ha sempre fatto. E si sa che lui stupisce anche nell’essere prevedibile.

Alle 21.15 attacca prima di lui Mark Knopfler, suo amico e accompagnatore in questo tour “smezzato” e a dire il vero compagno un po’ azzardato. Dalla prima riconoscibilissima nota di Statocaster infatti il pubblico infatti pare essere un po’ scisso tra i due mondi: quello del lord inglese che vuol far l’americano (moltissimi i fan per lui per altro) e quello dell’americano che il suo paese invece pare conoscerlo davvero bene e lo cantar in lungo e in largo sin dal lontano 1962.

Knopfler sa di inglese: nei modi, nel suonare la chitarra, nel cantare con eleganza e sapienza e poi appiccica un sound che sa di americano nei suoi pezzi (quasi tutta la scaletta è concentrata sulla sua carriera post Dire Straits). La band è presa direttamente da un baretto del Texas e suonano tutti come indiavolati un blues/bluegrass accompagnato dall’elegante tocco di Knopfler.

C’è da dire che dopo il suo attacco sento un potente brivido lungo la schiena, mi accerto che non ci sia corrente d’aria all’interno del Forum e vedo tutte le porte sbarrate: anche per uno che non è un suo grande fan, Knopfler fa la sua porca figura col la 6 corde.

Dopo quasi un’ora di set egoista dedicato ai suoi mediocri dischi solisti ci concede una toccante “Brother in Arms” e un finale tutti a cantare sul classicone “So Far Away”. Di “Sultan of Swing” o “Money For Nothing” neanche l’ombra.

E qui la paura un sale, mi rendo conto che sta arrivando il momento. A me Bob, esci e fammi vedere che sei più forte della vita grama che ti consuma. Poco prima delle 23 si spengono le luci e una voce annuncia il menestrello.

Entra in scena una band che sembra appena uscita da un set di un film su al Capone. Vestiti eleganti marroncino/grigio da inizio ‘900, si intonano sul momento senza tanti fronzoli e poi eccolo come un fantasma che si materializza sul palco: cappello nero da cowboy, vestito ancora più nero e baffetti da vecchio sornione, è mr. Zimmerman in persona. Su di noi vigila un occhio gigante proiettato su un telo rosso che ricorda le tende della loggia nera di Twin Peaks. A farmi capire che non sono in piena fase onirica ci pensa l’unico essere umano ospite su questo surreale stage, Mark Knopfler che attacca il set dell’amico con un signor “cazzeggio blues” alla sua chitarra.

Parte così “Leopard Skin Pillbox Hat” e Bob Dyal ci presenta la sua voce ormai rochissima e quasi demoniaca, ma allo stesso tempo anche vellutata, per capirci quella del nonno che ci racconta le sue storiellle. Intanto mentre sfagiola parole senza fare troppi sforzi ad aprire la boccuccia sotto i baffi, suona accordi ancarchici a caso sulla sua tastiera.

E’ tutto così misterioso, ma invece di spaventarmi di più per la situazione, per la voce spettrale che esce quasi distorta (forse è proprio la voce di Dylan ad esserlo senza effetti aggiuntivi), mi tranquillizzo e mi faccio trascinare dal ritmo indiavolato della band.

Questo è blues. La musica che proprio Dylan reputa così semplice e diretta che risulta essere uno dei più potenti mezzi di comunicazione. Potente, grezzo, violento, tagliente come la più affilata delle lamette. Questa è la musica di Dylan oggi, senza fronzoli, ma con la grinta, la protesta, il cuore in mano: quello rimane dal 1962.

La chitarra di Knopfler rimane on stage fino alla stupenda interpretazione cattiva e ostile di Dylan su “Things Have Changed” e la sconvolta “It’s All Right Now, Baby Blue”, snaturata nella sua semplice e nuda bellezza, presa di violenza dal paradiso e tritata come carne da macello nell’inferno blues dai 5 mafiosi e da Knopfler stesso, complice anche lui del magnifico strazio.
Poi mr. Dire Straits se ne va, e pare che sia stato chiamato solo come tramite tra mondo terreno e mondo dei sogni.

Ecco ora sogniamo tutti, cambia solo la sensazione ma la musica rimane cattiva e rude come prima.
Neanche l’amore più straziante di “Tangled Up In Blue” riesce a calmare il menestrello che senza chitarra davanti al microfono pare essere persino goffo. Accenna qualche buffo passo di danza, ma quando attacca la sua armonica ti strapazza la testa. Come se stesse gridando la sua disperazione ad un centimentro dall’orecchio e dicesse: “balla cazzo! balla” e io lo prendo alla lettera, con intorno un pubblico immobile ballo da solo e scordinato. Questa è la poesia cattiva e ruvida di Dylan, ora è proprio nella sua armonica.

Il Dylan oggi è live, il tour dopotutto porta l’inequivocabile nome di “Neverending Tour”. Live è la sua dimensione di oggi, con la coerenza del blues e delle radici della musica, che nasce live e lui pare la voglia fare morire live. Fino a quando avrà questo filo di voce ci porterà il suo nero fantasma davanti agli occhi, oggi è ancora tutto così magicamente potente che sicuro non smetterà a breve. Lo dimostra l’ottima prestazione di “Desoloation Row”, stravolta ma non snaturata nella sua magica monotonia e poi “Simple Twist Of Fate”, unico momento più “soft” della setlist, parlata girovagando per il palco. Sembra che il simpatico vecchietto debba convincere noi poveri terreni sprovveduti che il fato a volte di gioca stupendi e terrificanti scherzi. Se la ride sotto i baffi però, lo vedo chiaramente. Ci prende per mano su un ascensore, schiaccia il piano più alto e sulle nuvole si prende gioco di noi.

Il finale è dedicato a classici, rivisitati ma non troppo. E a dirla tutta “All Along The Watchtower” e una (adirittura!) cantabile “Like a Rolling Stone” stonano quasi davanti all’alchimia delle tende rosse. Quasi un piccolo regalo per noi poveri mortali che speriamo ancora di sentire qualche pezzo in più da “Blonde On Blond” oppure qualche stolto che aspetta addirittura “Knockin’ On Heaven’s Door” o “Hurricane”.
Dopo un’ora di scaletta Bob arriva davanti a noi, alza le braccia, quasi una benedizione e poi scompare dietro il tendone con la sua band di loschi ceffi, lasciandoci una grande lezione di musica e forse non solo di quello.

Nulla da dire, la critica sta sotto a un personaggio del genere. Non si puo’ dare un commento positivo o negativo. Forse la mia paura mia era del tutto giustificata. Ma per motivi ben lontani dalla prestazione live del menestrello: ieri non credevo agli spiriti, oggi si.

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Brunori

Written by Live Report

Sembra mai possibile che la Brunori SAS è passata per le strade di Cese di Avezzano AQ in maniera particolarmente leggera? Che i ragazzi dell’associazione organizzatrice presentino una smisurata passione per la musica d’autore completamente indipendente?

E’ successo quello che è successo ma fortunatamente è successo. È successo (con grande insuccesso) che una jazz band aprisse le danze con tanto di repertorio di elevata caratura, un sound troppo impegnato per noi comuni mortali, jazz da salotto, la piazza nella rappresentazione più onesta del popolino medio nel giro di un quarto d’ora aveva già i coglioni completamente pendenti sull’asfalto ancora arrovellato dalla caldissima giornata. Qualcuno di basse vedute come me ripiega l’agonia nel vino, nonostante tutto dopo qualche bottiglia quella musica non era poi così pesante. Stavo quasi per imparare a volare dopo l’ennesimo bicchiere.

La cantante super antipatica della band annuncia l’ultimo brano, un sollievo generale anticipa un falsissimo applauso e gli anziani del posto addormentati sulle sedie di loro proprietà (nei paesi abruzzesi è ovvio portarsi le sedie da casa) regalano espressioni di liberazione come se fossero obbligati ad essere li in quel momento. La jazz band finisce e la cantante con la solita simpatia che per tutta la serata l’aveva contraddistinta presenta il successivo gruppo dicendo di non ricordarsi il nome!! È possibile? Oppure la vedova nera dentro di lei continuava a sputare veleno? Vabbè tanto vanno via.

Comunque la band con il nome difficile da ricordare è la Brunori SAS. La band di Dario Brunori, quella del cantautore calabrese che tanto sta piacendo in Italia evocando nelle menti la figura di Rino Gaetano, quello che a me piace un casino. Parte il concerto e tutti i presenti si stringono sotto al palco e cantano pure le canzoni!! Per mia enorme sorpresa, penso di essere ubriaco e questo è certo ma cantano davvero! Pezzi vecchi e pezzi nuovi!

Cese di Avezzano inizia ad essere il paese più bello d’Abruzzo, un piacere starci, la pasta e la porchetta a modici prezzi aumentano ancor di più il mio nuovo amore. Brunori esegue alla perfezione la propria live performance, parla con la gente, è molto bravo dal vivo, è simpatico, è calabrese. Soltanto conferme da lui.

Poi a fine concerto viene anche invaso dai fans, foto ed autografi. Ubriaco mi faccio una foto con lui e gli dico:”ma che ti credi di essere dei Take That?”

Relaziono la mia figura di merda e vado via, veramente un bel concertino che merita l’apprezzamento dei presenti e soprattutto il mio.

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Malazeta

Written by Interviste

I Malazeta sono una delle band con maggior espressività emotiva del momento, vediamo cosa hanno risposto alle domande che Rockambula ha preparato per loro..

Ecco i Malazeta che si concedono a Rockambula, prima di tutto un saluto, poi volete farci un ritratto di questa band?

Ciao a tutti, siamo un gruppo musicale che nasce nella provincia di PD, ci siamo formati circa 5 anni fa con la grande voglia di far musica esclusivamente nostra. Il gruppo è formato da: Marco Trevisan (chitarra), Michele Segala (voce), Massimo Fenzi (batteria), Emanuele Fenzi (basso).

Molta teatralità nei vostri pezzi, a cosa dobbiamo attribuire questa scelta?

La scelta è dettata dal fatto che ci siamo accorti che ormai la musica è ormai fatta nella stessa maniera in generale, quindi abbiamo deciso di creare qualcosa non di nuovo, ma di alternativo alla monotonia musicale attuale.

I vostri testi molto curati rubano l’attenzione, sono il vostro punto di forza?

Certo i testi sono importanti, ma se non fossero accompagnati dalla musica non avrebbero quell’impatto forte che vogliamo creare nei nostri concerti e album,questo per riconfermare l’importanza della fusione del testo con la musica.

Cosa volete comunicare a chi ascolta i vostri brani?

Vogliamo dire ciò che attualmente non viene detto, o meglio viene nascosto. Crediamo che la conoscenza sia fondamentale per accrescere la propria formazione individuale e purtroppo questo oggi, in qualsiasi campo, viene soppresso.

È ovvio che suonate musica di non facile impatto, da cosa è dettata questa scelta?

La scelta intrapresa è sicuramente difficile, ma per una volta abbiamo deciso di non essere noi ad adeguarci, ma cercare di fare l’inverso. Certo non è facile ma sicuramente nuovo almeno in questo preciso periodo storico.

E del vostro ultimo lavoro cosa volete dirci?

“BURATTINAI” è un album tratto e ispirato da un libro “Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale” di un nostro scrittore conterraneo Marcello Pamio. Dopo averlo letto abbiamo deciso, assieme all’autore del libro, di collaborare alla divulgazione di ciò che non viene detto, per far conoscere anche l’altra facciata della medaglia.

Io personalmente vi accosto ai Massimo Volume per darvi una collocazione di genere, voi dove volete posizionarvi?

Certo i Massimo volume sono coloro i quali si avvicinano al nostro stile e di ciò comunque ne siamo onorati, poi dire dove vogliamo posizionarci sinceramente non lo sappiamo,ci piacerebbe non essere catalogati, ma magari questa collocazione la potrebbe fare chi ci ascolta.

Che considerazione avete della salute musicale italiana di questo periodo?

Bella domanda, certo la salute non è ottima o meglio la scelta che viene fatta dalle grosse agenzie musicali non è ottima, se andiamo a vedere nella subway cittadina si possono trovare generi e musicisti di grande interesse. Per fare questo però si deve andare alla ricerca di ciò che non ha visibilità e questo comporta un impegno che molte delle volte non si ha voglia di intraprendere perchè faticoso o meglio si è abituati troppo bene.

Meglio suonare quello che si vuole o scendere a compromessi pur di fare dischi ma soprattutto serate?

La risposta credo sia ovvia visto le risposte date, sicuramente non scendere a compromessi, ma non con il pubblico ma con chi cerca di conformarti per un interesse personale.

Rockambula vi ringrazia della pazienza, e vi concede questo spazio per spingere il più possibile il progetto Malazeta, potete dire tutto quello che vi passa per la testa….

Grazie per lo spazio e ci auguriamo di cuore che non venga assopito in nessun modo il desiderio di creazione in qualsiasi forma. Non si deve aver paura di esprimere ciò che si è, anzi questo è proprio il modo per poter iniziare una NUOVA era .
Vi lasciamo con uno scritto del grande Socrate: “Tu, ottimo uomo, poiché sei ateniese, cittadino della Polis più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona?”

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Simone Agostini

Written by Interviste

Ed ecco che anche Simone Agostini parla sulle pagine di Rockambula, vediamo…

“GREEN” un disco, un esordio, una ricerca e forse anche una sperimentazione di te e delle tue ambizioni. Cosa raccogli oggi, dopo un anno, cosa ti aspettavi, cosa non è accaduto…e cosa accadrà?

“Green” nasce come esigenza di fissare un paletto lungo il mio percorso di crescita come chitarrista e compositore. Con grande sincerità, ammetto di non aver avuto grandi aspettative: per un disco d’esordio di sola chitarra è difficile poterne avere.
Se oggi mi guardo indietro, non posso invece negare che “green” mi ha fatto crescere davvero tanto in ogni senso…sicuramente molto più di quanto avessi potuto immaginare. E’ comunque difficile poter dire cosa accadrà, soprattutto di questi tempi. Continuo a studiare e comporre e il futuro lo si scoprirà quando sarà presente.

Da alcune note di stampa emergono sentori di nuove sperimentazioni musicali. La ricerca e l’ispirazione dove ti stanno portando? Sul prossimo lavoro non ci sarà solo una chitarra acustica, vero?

Dal estate del 2009 ho iniziato a suonare un bouzouki greco che porto generalmente nei miei concerti, e dal maggio 2011 mi sono avvicinato anche all’Oud. Gli sturmenti con una forte caratterizzazione etnica mi piacciono davvero tanto e sicuramente tra le mie idee musicali del momento c’è un pò di spazio per questo tipo di sperimentazione. La chitarra acustica resta però il mio strumento, quello con cui sono in grado di esprimermi al meglio, quindi penso che la sua presenza in un prossimo lavoro sarà comunque predominante.

Dalle montagne del tuo Abruzzo in continuo viaggio…dove pensi di portarci nel prossimo lavoro? Hai conosciuto terre particolari? Che musica hai trovato?

Mi piace molto sognare terre lontane, immaginare paesaggi, odori, sapori…e la musica si rivela sempre il miglior mezzo per fare tutto ciò. Al momento percepisco forte questa impronta in molti dei brani su cui sto lavorando…però poi l’Abruzzo ed il suo verde ritornano sempre!

Per dovere di cronaca va detto che sei FORSE l’unico artista del genere ad avere un VIDEOCLIP di una tale qualità e fattura artistica (spero di non sbagliarmi e, nel caso, chiedo scusa anzitempo…). Quanto è importante l’immagine nella costruzione del tuo percorso creativo? Quanto è fatto di immagini ogni tuo brano?

Si, forse è così! è decisamente inusuale per un chitarrista acustico girare un vero e proprio videoclip. Penso che al giorno d’oggi quello del videoclip sia un’arma in più per avvicinare alla propria musica più persone che attraverso delle immagini possono trovare maggiore facilità nel ascolto.
Le immagini sono molto importanti, personalmente però le identifico molto raramente alla base di un processo creativo. E’ molto più facile che sia la musica ad indurre immagini e pensieri nell’ascoltatore!

E giusto per sottolineare il concetto: quando esegui live o riascolti i tuoi pezzi, questi ti portano ogni volta in viaggi e panorami diversi oppure li ritrovi perfettamente incastonati nel quadro da cui hanno preso vita?

Viaggi e panorami sono sempre gli stessi, ma soprattutto le sensazioni sono le stesse perché forse la musica descrive soprattutto le sensazioni che si provano nell’osservare il mondo che ci circonda.

Da esordiente hai avuto davvero molto. Soprattutto considerando il genere che proponi. Punterai ancora oltre? C’è spazio, secondo te, per la chitarra acustica in questa realtà discografica italiana?

Con la mia musica cerco di dare sempre il meglio, anche se raramente mi sento soddisfatto pienamente. Mi dispiacerebbe molto se per esigenze di lavoro mi trovassi a suonare raramente solo per me stesso, e per questo motivo mi piacerebbe poter crescere ancora e magari fare della musica la mia professione…al momento però è difficile poter pensare in questi termini.
Compositori come Einauidi ed Allevi dimostrano chiaramente che la sola musica strumentale può essere esportata ad una realtà discografica più ampia ed essere apprezzata un pò da tutti, però è anche vero che dietro i due nomi citati esiste un universo di musicisti e compositori straordinari completamente sconosciuti ai più. Penso che alla fin fine sia la comunicazione a fare la differenza e sono certo che alcuni grandissimi chitarristi potrebbero riempire arene e stadi se solo la loro musica fosse conosciuta da tutti.
In questo discorso però io mi tiro fuori, penso sia meglio studiare e restare coi piedi per terra!

– Oggi consiglio a tutti il tuo disco: GREEN. La prossima musica di SIMONE AGOSTINI che colore avrà?

Grazie! non so, spero che avrà tanti colori diversi in grado di far vibrare tante differenti emozioni…

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Deambula Records

Written by Interviste

Una bellissima realtà della musica italiana risponde alle domande di Rockambula, signori l’etichetta Deambula Records…

Prima di tutto un caloroso saluto ai ragazzi di Deambula Records, come vi sentite in questo autunno appena arrivato?

Marco/Silvia: Quest’inizio di stagione ci vede alle prese con la promozione delle imminenti produzioni previste per fine anno, parallelamente, siamo in fase di registrazione e produzionie (in questo caso artistica) sulle future releases del 2012. Quindi in pieno fermento!

La vostra etichetta si sbatte molto nel panorama indipendente italiano, ci volete dire come siete nati e dove volete arrivare?

M: Nel 2006 avevo appena finito di registrare “Erotomania” dei Marigold e dopo aver notato la superficialità con cui le diverse etichette si approcciavano alle produzioni, sminuendo totalmente il valore potenziale di un progetto artistico, decisi di creare DeAmbula Records. Realtà nata quindi inizialmente per esigenze personali, per poi ampliarsi via via a nuovi progetti e nuovi approcci di condivisione artistica. Pensando al futuro, l’idea rimane sempre quella di costriure buoni rapporti personali ed artistici con i nostri Artisti ma anche con coloro che ci seguono e ci sostengono attivamente.

Avete generi musicali precisi da produrre oppure cercate di spaziare?

S: I generi musicali non rappresentano per noi nè limiti nè vincoli…DeAmbula è uno spazio aperto alle possibili contaminazioni. Ovvio che, quello che produciamo è lo specchio di ciò che ci piace, e proprio per questo, siamo felici nel farci rappresentare da loro (..tanto per citarli: Ulan Bator, Marigold, Pineda, Magpie, Pitch, Ka mate Ka ora, buenRetiro…).

Cosa deve avere una band per entrare a far parte della famiglia Deambula Records?

S: Diciamo che i modi con cui viene a definirsi una produzione possono essere diversi, a seconda delle circostanze.. Possiamo risultare interessati ad un progetto a noi inviato o restare colpiti da un’artista, o altre infinite possibilità dettate da fattori casuali. Al di là del primo contatto, conta comunque molto il rapporto che si instaura nella collaborazione e nella condivisione di dinamiche settoriali.

Attualmente quante band avete sotto contratto? Ce ne volete parlare?

S/M: Considerando le imminenti uscite del mese prossimo siamo alla 13esima produzione. In questi anni abbiamo fatto uscire Marigold (la band di Marco) noise band seguita da Cambuzat in sala e in regia, Magpie (side project di Daniele Carretti degli Offlaga Disco Pax), il primo disco solista di Amaury Cambuzat, una colonna sonora immaginaria all’ultimo film capolavoro di Murnau dal titolo “Tabù”, i Ka Mate Ka Ora che consideriamo una delle migliori band slowcore in circolazione, i Pitch di Alessandra Gismondi – dream pop davvero raffinato, infine in vinile i francesi Ulan Bator con il loro ultimissimo “tohu-bohu” ed i Pineda nuovo progetto di Umberto Giardini (moltheni) che ci sta dando grandi soddisfazioni, progetti con un ottimi responsi su tutti i versanti!
A novembre i buenRetiro tornano con il loro nuovo emozionante disco anche con il disco mixato da Amaury C.!

Prossimamente avete nuove idee in progettazione?

S: Seguiteci sul nostro sito www.deambularecords.com a breve vi regaleremo importanti novità!

Cosa cambiereste nel circuito musicale italiano?

M: Abolirei gli EGO-imprenditori ed i contenitori privi di sostanza ed estetica, e infine citando Parente “coloro che fanno diventare la loro mediocrità professionale”. Per il resto l’Italia resta un paese con valide proposte che spesso vengono tralasciate.

Un saluto affettuoso, questo è lo spazio per dire tutto quello che vi passa per la testa…
Grazie a Rockambula da tutto lo staff di DeAmbula Records…Ciao!!!

DeAmbula Records | www.deambularecords.com

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Zorn – Eva’s Milk

Written by Recensioni

A prima botta la voce sembra quella stonata del vocalist Verdenico, ma poi ti ricredi e vai con l’immaginazione a Brema dove i novaresi Eva’s Milk hanno trovato la loro America e urlano a tutti i paralleli il loro nuovo album “Zorn” che non è ispirato – sempre a prima botta – all’Acephale, il movimento filosofico di Georges Bataille, ma bensì alla rappresentazione di uno stringente trait d’union tra le culture metal zincate di black, anni novanta post-grunge e agganci uncinati con le posture di marca Soad, e che una volta fuse insieme danno questo marchio di fabbrica dal percorso affascinante nel suo essere radicale, elitario e rumorosamente ambiguo.

Più che attirare l’attenzione sul crossover stilistico, il disco interessa per la sua caratterialità pregna di abbandoni ed interminabili esplorazioni nei più bui recessi del suono doloroso e angosciato, preda di allucinazioni e passaggi per il di sotto di un inferno che non ha soste drones; tutto gira nell’oscurità, Rimbaud e aggressioni soniche sono ospiti integralisti nella ramificazione della tracklist, pulsioni visionarie e pads inquietanti sono le tappezzerie che abbelliscono i tracciati abrasivi degli Eva’s Milk “Turpentine”, il doom filo mistico che lega a scorsoio la trama di “Nella bile”, la pazzia millimetrata che graffita la tenebrosa tarantella di “Al tempo di Caronte” o i Marlene Kuntz che compaiono come imbarcati a forza nella struttura che regge” Come falene”.

A giudicare dalla copertina tutto sembrava rientrare nella normalità di un qualcosa casinaro e metallizzato, con quelle rasoiate da copione a lambire pelle e nervi o il ricorso “perenne” a un abusato pistar di pedaliere che a lungo andare sfascia coni e testicoli, ma poi una volta scartato dalla confezione si fa conoscere per quello che effettivamente è, un disco maledetto come pochi in circolazione, che ti si avvicina come una serpe ipnotica, e tutto d’un tratto ti divora, tra paranoie e vulcanici morsi elettrici “”Zorn”.

Deboli di cuore state alla larga, per chi cerca la destabilizzazione come via d’uscita dalla calma, attaccatevi qui, e per un bel po’ non sarete più quelli di prima.

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A Latex Society – Esdem

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Basterebbe dire che tramite la rivista Blow Up, culto e riferimento per ogni ascoltatore intransigente e alla ricerca di suoni poco convenzionali, hanno lanciato l’album in questione (4 brani nel numero di luglio-agosto) e che un certo Giulio Ragno Favero, piccolo grande Re Mida della musica italiana contemporanea, si è occupato del missaggio, per conferire al disco, già prima di ascoltarlo, un alone di venerazione e culto.

Una prima grossa difficoltà la si trova nel sintetizzare con una parola il genere intrapreso dalla band marchigiana, autodefinitasi electronic post-rock. Certo non è sulla definizione che ci fossilizziamo quanto piuttosto nel cercare di collocare nel panorama attuale le idee e la creazione degli Esdem per analizzarne la direzione e lo sviluppo. E le difficoltà restano. Un disco pesante. Come poteva essere pesante Mezzanine ben tredici anni fa, perché se proprio dobbiamo cercare di rendere l’idea è a quell’album e ad una sua ipotetica prosecuzione che andiamo a pensare.

Chiamatelo trip-hop chiamatelo ambient ma l’accostamento immediato che viene da fare è proprio a quell’ambiente di confine sperimentale tra digitale e analogico che ieri Air e oggi Dalek rappresentano perfettamente. Disco da ascoltare tutto d’un fiato senza pause perché i brani non ne richiedono affatto anzi si lasciano digerire e dimenticare continuamente in un flusso sonoro ipnotico senza sosta finché non ti rendi conto di averli ascoltati per 6 o 7 volte di seguito. Descrivere ogni singolo brano risulterebbe sbagliato perché sarebbe come strappare una parte dal tutto ed isolarla a sé.

A manifesto dell’album scegliamo solo di sottolineare come in Italia una band in grado di creare un’atmosfera torbida e soffocante come “Sure”, giochicchiando con strumentazioni varie, difficilmente si vede in circolazione. In un contesto tanto complicato e pieno di accorgimenti pre e post produzione, è curioso come la voce risulti la vera chicca del risultato finale. Un cantato sempre sommesso, confuso, dilaniato che segue il resto solo quando ne ha voglia. Come del resto l’apparire e lo scomparire di alcuni strumenti nel corso dell’album, a disegnare un quadro impressionista in cui si sfiorano i brani ma non li si tocca mai con mano realmente.

La recensione arriva con ritardo rispetto alla data di pubblicazione dell’album, ma su Rockambula non poteva comunque mancare la citazione di uno dei migliori album italiani del 2011.

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Tales Of Deliria – Release Party di “Beyond The Line”

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I TALES OF DELIRIA, dopo il fortunato tour italiano con Vomitory e Prostitute Disfigurement, hanno il piacere di annunciare la data dell’atteso Relase Party del loro nuovo lavoro “BEYOND THE LINE”, il 10 Dicembre a Bari in apertura ai leggendari Coroner, per la prima volta nel Sud Italia.

Il disco, pubblicato da TO REACT RECORDS, presenta 10 tracce di feroce thrash-death combinato con favolose aperture melodiche. A breve sarà online il nuovo sito ufficiale (www.talesofdeliria.com) e saranno comunicate le nuove date per il 2012.

Alex – To React Records – Label Manager / A&R
www.toreactrecords.com

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Stereoscope Collective: Esce “Glitchy Girl”

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Stereoscope Collective è un duo internazionale di DJ, arrangiatori, compositori che virtualmente rappresentano un laboratorio creativo permanente in grado di produrre idee innovative con le quali dare una scossa al mercato musicale.

Al Centro di questa strategia Tom Glide e l’italiano Ivan Russo, artisti loro stessi e produttori che hanno lavorato con molti personaggi, collezionando numerosi successi “around the world”. Tom e Ivan, geniali girovaghi della musica, insieme o separatamente, nel fare musica hanno sempre dato una importanza particolare a quella che potremmo definire una perfetta alchimia di stili, suoni, atmosfere, suggestioni, fatto possibile solo grazie a una fortissima componente di ecletticità intellettuale e musicale.

Nel 2005 i due hanno iniziato la loro collaborazione co-producendo, scrivendo tutti i brani e arrangiandoli del best-seller discografico “Un Monde Parfait” (artista Ilona Mitrecey). Il progetto ha venduto oltre 3 milioni di copie aggiudicandosi molti Music Award in Europa e nel mondo (Francia, Belgio, Germania, Portogallo, Giappone etc.) e numerosi dischi d’oro, di platino e di diamante.

Dopo questo straordinario successo Tom Glide e Ivan Russo hanno seguito per un certo periodo strade separate. Ivan producendo progetti come Shaby (Francia), Freyia (UK) , gli Audio2 in Italia e sviluppando contestualmente l’attività delle proprie Labels discografiche (Atollo Records e Atollo Electronic UK). Tom invece, da parte sua, ha tentato l’avventura americana con Patrick Smadja e la Can U Feel It Records. In questo senso ha realizzato un sorprendente album – che potremmo definire retro-funk – con le musiche di molte leggende musicali come Earth Wind And Fire, Michael Jackson, Diana Ross, George Duke, raggiungendo la decima posizione (10°) nell’ Official Uk Soul Chart. L’album, che è intitolato “Tom Glide And The Luv All Stars”, sarà presentato nel prossimo marzo 2012 nel “Nu Soul UK Tour” insieme con Cool Million, Soultalk e Westcoast Soulstars.

Nel luglio 2011, per iniziativa di Patrick Smadja (Can U Feel It Records) il duo italo-francese si incontra di nuovo a Napoli dove decide di affrontare una nuova sfida, ispirata alla nuova ondata Nu-Electro che sta attraversando il mondo. Tom e Ivan decidono di unire le loro risorse . Il focus del progetto è quello di far convergere su questa idea innovativa di lavoro interpreti e vocalist, quindi estendere l’iniziativa a livello internazionale e mondiale con performances live. Molte etichette negli USA, in Francia, Israele e in Inghilterra si stanno già rapidamente orientando su questo nuovo modello di creatività… che si tratti della rivelazione del prossimo anno?

Ufficio Stampa

  • Protosound Polyproject – www.protosound.net
  • L’altoparlante – www.laltoparlante.it

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Su La Testa 2011 è al Teatro Ambra Di Albenga Dall’1 Al 3 Dicembre

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Incontri, cortometraggi, teatro, fotografia e ovviamente grand musica. Grande qualità con un cast d’eccezione. Al teatro Ambra di Albenga la nuova edizione del “Su La Testa” festival 2011.

Dopo l’exploit dell’anno scorso in cui il pubblico presente ha potuto strabiliarsi con l’esibizione prorompente di Raphael Gualazzi in una gustosa anteprima a pochi mesi dalla sua scoperta da parte del pubblico nazionale, l’edizione prevista per l’1, il 2 e il 3 Dicembre 2011 al Teatro Ambra ad Albenga si è sviluppata in maniera eccezionale.

Incontri, cortometraggi, teatro, fotografia e arte fanno da cornice alla musica, vero cuore pulsante del festival. Un cast sopraffino che tende ancora a mischiare i generi senza paura e senza categorie legandoli stretti al concetto puro di qualità.

Giovedì 1, per esempio, il classico rivisto ai tempi dei Gnu Quartet, quartetto talentuoso di Genova, si unirà alle atmosfere scanzonate e irriverenti dei Selton, combo brasilero, e a quelle surreali e alternative di Dellera. Roberto Dell’Era, bassista degli Afterhours, ha da poco realizzato il suo primo album, molto apprezzato, e darà vita ad un’esibizione speciale con il violinista Rodrigo D’Erasmo (anch’egli Afterhours).

Venerdì 2 si cala il tris di donne con le esibizioni di Chiara Ragnini, Tori Sparks e Chiara Canzian. Chiara Ragnini ha appena vinto il premio Donida e si è proposta come una delle più originali autrici liguri emergenti. Tori Sparks internazionalizza il festival; ella stessa porta in se le influenze del Texas e di Barcellona dove divide la sua vita artistica. Chiara Canzian ha una voce angelica e un tocco magico che cristallizza un pop d’autore comunque mai distante. Nella stessa sera Mauro Ermanno Giovanardi, in formazione completa, perlustrerà il meglio della canzone d’autore guidandoci con una delle voci più suggestive e calde del panorama nazionale.

Sabato 3 Dicembre ci sarà il gran finale che si accenderà con la verve dei Les Sans Papier, simpatica band di Torino, fino ad innescarsi con il pop d’autore della fresca Amelie, cantante milanese di grande impatto. La stessa sera saranno due assi del calibro di Roberto Angelini e Pier Cortesuugtge, per l’occasione riuniti nel progetto Discoverland, a dar nuova linfa ai classici della musica italiana nelle loro versioni distorte ed eteree. Infine un finale coinvolgente con la Banda Elastica Pellizza, combo genuino e talentuoso, già miglior band emergente al Tenco 2008.

Un programma di intensa qualità arricchito dalle immancabili sorprese che questo festival ogni anno prepara e dalle iniziative per gli emergenti come il Su la testa contest e le incursioni teatrali preparate (?) da attori locali e curate dal regista Enrico Aretusi.

Quest’anno come se non bastasse Su la testa si apre al cinema con un riconoscimento speciale per il regista Adriano Sforzi, che, dopo il David di Donatello per il suo cortometraggio “Jody delle giostre”, sta facendo strage di premi e riconoscimenti.

Non mancherà un animato dopo festival in perfetta continuità con le precedenti edizioni presso uno storico palazzo del centro storico di questa cittadina che per tre giorni va oltre se stessa.

Info e biglietti: zoo@albenga.com

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