Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Goriano DiVino

Written by Live Report

Vi ricordate quando vi abbiamo detto che Rockambula sarebbe andata in vacanza? In realtà non era proprio vero. Perché la festa di Goriano, di cui vi racconto oggi, è un po’ la nostra festa, di Rockambula, l’unica webzine che non riposa neanche quando dorme. Non sarà il MiAmi e noi non saremo RockIt (la cosa non è tanto un male visto che i “piccoli” hanno meno da perdere e tanto da dire) ma resta una festa da urlo, da veri amanti del Rock, quello brutto, sporco, cattivo, sudato e pure con la panza, visto il menù della serata. Vi avverto subito che se noterete un costante, inesorabile ed esponenzialmente crescente appannamento nelle mie parole, non è per la stanchezza di una giornata davanti al pc ma la precisa iperrealista rappresentazione dell’evoluzione alcolemica subita nell’arco di quella giornata, cosi indimenticabile che mi sono scordato quasi tutto. Ma farò uno sforzo.

Era il ventotto di Luglio e la personale quarta edizione del Goriano DiVino inizia nel mio paese, in un pomeriggio spettacolare. Molto caldo e un paio di birrette e quattro chiacchiere ci aiutano a resistere fino a quando calerà il sole. Si parte verso Goriano (patria del nostro Riccardo) e per una mezz’ora di viaggio tra le splendide montagne dell’Appennino Abruzzese, ci fanno compagnia curve da brividi, paesaggi mozzafiato e qualche canzone, di quella gradevole spazzatura italiana. Finalmente siamo in cima (per modo di dire, visto che in fondo siamo solo a 720 metri slm, a sud della Valle Subequana) e ad aspettarci non c’è il fresco tanto desiderato ma un borgo bellissimo e tanta allegria. Quella dei bimbi che giocano nel prato che costeggia la piazza dove ci saranno i concerti e quella dei tantissimi ragazzi dello staff che smuovono il culo per dare vita a questo paesino di seicento abitanti. La festa ha inizio.

Il palchetto di Rockambula è ormai pronto, Cd introvabili, spillette, maglie, figurini, tutto a un prezzo simbolico. Vicino al palco è allestita la mostra vivente di Luca “BaraBBa” Colaiacovo, artista di strada pratolano che si mette presto all’opera per mostrarci la nuova strada intrapresa verso la Spray Paint. Un altro artista lo affianca presto. Viene da Pescara, si chiama Massimo Desiato alias Teschio Urbano e potete leggere una sua intervista proprio su Rockambula (https://www.rockambula.com/anche-l%E2%80%99-arte-vuole-la-sua-parte-con-massimo-desiato-alias-teschio-urbano/). Arte oscura, tenebrosa che qualche ora più tardi incontrerà i paesaggi solari di BaraBBa in un’opera a due realizzata in tempo reale.

Il pomeriggio passa svelto, tra qualche saluto ai tanti amici, le solite birre, uno sguardo alle opere esposte e un altro al palco che prende vita. Vicino allo stand di Rockambula è stato piazzato il percorso enogastronomico. Genialata a metà tra il sarcastico, l’ironico e il serio. Il tutto è presentato dai ragazzi come un iter fatto di una decina di vini tutti della zona, ai quali non è assegnata un’etichetta, rigorosamente di produzione propria, e soprattutto spesso pessimi. Ci scherzano anche loro, a volte consigliando di saltare un certo bicchiere perché “benzina” o sfidandoci a berne un altro sorso. Si mangiano stuzzichini di mortadella e formaggio, durante il percorso e ci si diverte tanto, anche a compilare la lista dei vini, dove andiamo a indicare un voto e un giudizio (totalmente libero e giù con gli “aceto, imbevibile, devastante ecc…). Qualcuno capisce lo spirito e si atteggia con aria poco credibile a sommelier di grande esperienza. Nel complesso, una trovata che di certo non apprezzeranno i “grandi intenditori di vino” ma che, in una festa come questa non certo per gente snob, ci sta da Dio. Ed io alla fine, come gli altri, di percorsi me ne sparo più d’uno. È tempo di cena e il menù, quest’anno, presenta una sorpresa. Oltre ai soliti arrosticini c’è la mortadella arrosto, che si dimostrerà ottima oltre ogni aspettativa. Ovviamente annaffiamo il tutto con birra e vino, stavolta in bottiglia e le cose cominciano a decollare. Si avvicina l’ora della musica.

La prima band a salire sul palco è Christine Plays Viola http://www.christineplaysviola.it/. Probabilmente la migliore band della Valle Peligna è composta da Massimo Ciampani (voce), da Teramo, Fabrizio Giampietro (chitarra) da Sulmona (AQ), Desio Presutti (basso) e Daniele Palombizio (Batteria). Come al solito la loro esibizione è pressoché impeccabile. Unione di tecnica e teatralità, influenze multiple che confluiscono in una dark wave mista a elettronica. Un chitarrista da far invidia a Glen Johnson, un bassista storico della scena Rock e Punk pratolana, un cantante che a vederlo ti aspetteresti leader di una band Thrash Metal e un batterista da paura, un ragazzone enorme, che pur potendo non si dà delle arie neanche quando scoreggia (citando Otello). La band è probabilmente più adatta a scenografie cupe e tetre ma la loro qualità esce sempre allo scoperto. Non sbagliano un colpo. Istrionismo e spiritualità, abilità e pathos, passione e melodie nere come il vento di notte. Questo sono i Christine Plays Viola, questo sono stati. Ancora una volta i migliori, anche se in troppi non se ne accorgono (https://www.rockambula.com/christine-plays-viola/).

Ora tocca alle donne. Le scatenate Wide Hips 69 http://www.facebook.com/pages/-Wide-Hips-69-/190213751014648 da Teramo più il batterista Luciano “HalfSpoon”. Loro sono Daniela “Locomotion” al basso, Lorena “SlimHips” alla chitarra e la mitica “Cristina TitsQuake” alle urla. Una botta di energia che non ti aspetti, Garage Rock allo stato puro. E come faccio a non mettermi sotto il palco a saltare e urlare con loro come una squallida groupie? Obbligato. Ci voleva. Una botta di energia. Eccezionale il contrasto musicale tra le due prime band salite sul palco. Ora solo Albano potrebbe scombussolare ancor più le mie cervella in ebollizione.

Invece si avvicinano strani tipi di una certa età. Vecchi poliziotti in borghese a una festa di svitati? I pazzi del paese? Tossici in gita? Chi saranno mai. Lo scopro presto. Sono la storia del Punk Hardcore abruzzese, Digos Goat (sempre zona teramano) nati nel 1984, hanno spaccato palchi per otto anni prima di sciogliersi per poi tornare insieme dopo venti anni. Avete capito più che bene. Avete capito che gente c’era sul palco? Tra l’altro dopo “Il Delirio” e “Testimoni Del Silenzio” quest’anno hanno anche inciso il nuovo lavoro in studio “Stille” che vi consiglio di non perdere (https://www.rockambula.com/digos-goat-stille/). Ormai è tutto pronto, s’inizia a fare hardcore sul serio e mi scaravento sul palco a pogare, barcollare, fare casino, urlare, invitando gli altri a fare altrettanto e qualcuno sale con me. Non ricordo quanto è durato ma sono arrivato alla fine sfinito. Come loro del resto. Ma cazzo se n’è valsa la pena. Senza sprecare troppe parole, senza fare troppo gli alternativi, Marko Sigismondi (voce), Gix Guerrieri  (chitarra), Ghevara Paolone (batteria) e Raimondo D’Orazio (basso) ci hanno ricordato cosa significa suonare hardcore, ci hanno insegnato cosa doveva essere il punk di venti, trent’anni fa e ci hanno dato una lezione di vita. Spettacolo.

La parte live è finita. E’ ora di vagare tra la gente, fare conoscenze e condividere un bicchiere di vino. L’atmosfera è assolutamente rilassata e festosa oltre che brilla come ogni Goriano DiVino deve essere. Ci spostiamo davanti allo stand alcolico e qui cala il sipario della nostra mente. Cominciamo a cantare cori da stadio, pro Pescara, anti Sulmona, per Pratola o contro Chieti. Di tutto, basta che si riesca a sfogare tutta la carica e l’adrenalina accumulata.

Ora è proprio tardi e i ricordi diventano surreali. I più sobri, i temerari e gli incoscienti ripartono giù per i tornanti. Alcuni vanno a dormire al dormitorio che è messo a disposizione dal comune per le band e chiunque non avesse dove restare (trovata da standing ovation). Ma la festa continua. Si sale al bosco, dove Salvatore Carducci alias Dr Greenthumb ha attrezzato tutto per una notte all’insegna del Dj set più devastante. Alberi, musica, notte nera e birra.

E la notte a Goriano, la notte di Rockambula, la notte dei Christine, dei Digos Goat, Di Teschio Urbano, delle Wide Hips 69, di Barabba e del Dottore, la notte del vino e della musica, dei ragazzi e dell’Abruzzo. La nostra notte, la notte del Goriano DiVino contro gli assassini della giovinezza e della follia, della vita, sembra non finire mai e almeno fino a quando non apriamo gli occhi continuiamo a sognare l’irresponsabile e negativo desiderio di, almeno, non essere uguale a loro.

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Noise Under Dreaming – In Mine

Written by Recensioni

Il sistema musicale italiano ha da sempre dovuto affrontare un enorme problema che può riassumersi nella totale incapacità di imporsi anche nei mercati esteri, inglese e americano soprattutto, giacché apparentemente più accessibili. Tralasciando i paesi di lingua anglosassone, penso alla Scozia dei Mogwai, all’Irlanda di Pogues o U2, all’Australia di Nick Cave e Radio Birdman, anche la nazionalista Francia è riuscita a esportare con convinzione i propri prodotti artistici anche molto diversi tra loro, dall’Hip Hop al French Touch senza dimenticare i leggendari chansonnier e lo stesso la Germania, restando nel mondo occidentale, si è imposta negli anni con il suo Krautrock, l’Industrial degli Einsturzende Neubauten o l’elettronica.

E L’Italia? Tralasciando le puttanate spagnoleggianti di Eros o Laura, all’estero hanno un’idea alquanto bizzarra della nostra musica. Ultimo esempio, la classifica online di The Guardian (British) che, citando i dieci momenti memorabili della storia del Pop tricolore, affianca Moroder, De Andrè, Paola e Chiara (ma che cazz…) e Cristicchi.

Tristezza infinita (e non solo per l’assenza di Povia)!

Qual è il problema e come superarlo? Ovviamente la mancanza di promozione e attenzione da parte delle grosse etichette non aiuta certo le band minori di qualità nella ricerca di spazi nell’immensità del mercato globale. Basta questo a creare un enorme e insormontabile muro di vetro. Poi la colpa è anche vostra (magari non proprio tua, visto che leggi Rockambula) e della vostra pigrizia. Il pubblico italiano è tra i più ignoranti e manipolabili d’Europa e riesce a spostare l’attenzione sui più meritevoli solo in caso di morte (e non sempre accade). E’ anche colpa vostra se a livello promozionale funziona più svendere un brano da usare come jingle per uno spot di pannoloni per anziani invece che vincere il premio Tenco.

L’ultimo problema, quello più duro da superare e più interessante poiché tocca il cuore della musica, è dato dalla lingua. Non solo perché chi canta in italiano, deve fare i conti col fatto che un inglese d’italiano non capisce una minchia. In realtà magari a quell’inglese del testo non frega niente. Ma frega a chi scrive le canzoni e spesso finisce col dare più attenzioni alle parole che alla musica e soprattutto col non dare musicalità a quelle parole, che è quello che conta e che da sempre ha generato un certo divario nell’ambito della musica Rock (secondo voi perché Jonsi canta in hopelandic? Secondo voi perché alcuni testi di band straniere tradotte somigliano alle idiozie di un pazzo ignorante?). E cosi ci troviamo colmi di nuovi, si fa per dire, Battisti, Dalla, Capossela, ecc… che troppo spesso ci riempiono la testa di cazzate quando in realtà vorremmo solo buona musica. E in fondo questi nuovi cantautori, chi li conosce fuori dalla penisola?

Anche per questo molti scelgono la lingua di Queen Elizabeth ma non sempre la padronanza della stessa è tale da non sfociare nel ridicolo (tipo cafone in vacanza).

Mentre scrivo, sto ascoltando l’ultimo gioiellino dei Noise Under Dreaming, In Mine. Loro hanno fatto una scelta drastica. Pochissime parole e tante note (stessa scelta dei genovesi Port-Royal, capaci, a detta loro, di trovare spesso più entusiasmo nell’Europa dell’Est che non a due passi da casa). Le canzoni, in senso classico, con testi e melodie precise, si trovano esclusivamente nella parte finale nel disco e comunque acquistano un perché, cosi inserite. Tutto il resto è un lungo trip sperimentale, fatto di Ambient, Neoclassical, Avant Folk, Elettronica e field recordings.

Michele Ricciardi e Matteo Chiamenti sono al secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo l’esordio del duemilaotto per Foolica, Tarokidei. Nel mezzo c’è un Ep, Objects In The Mirror Are Closer Than They Appear, per la stessa casa di “In Mine” e soprattutto tanti live anche all’estero (appunto).

Il disco si apre vaporoso con “En Plein Air”, brano Ambient che avrebbe fatto un figurone come accompagnamento nei momenti disperati di Donnie. Quindi “Noise Under My Wish” regala una rilettura particolarmente seducente del Post Rock mogwaiano (scusate il termine) e del Dream Pop dei Sigur Ròs. In “For Nothing” compare la voce, come fosse un sussurro tra le vibrazioni sonore, in una ballata ricca d’atmosfera. “Lullaby For Lovers” è una sorprendente danza psichedelica di vocalizzi onomatopeici sopra un tappeto caldo come l’Africa e ironico e surreale come l’esistenza. “She Won’t Follow Me In Heaven” unisce invece le note neoclassiche incontrate nel brano d’apertura con le parole sussurrate in “For Nothing” finendo per ricordare lo Slowcore dei Low, per il suo ossessivo e disperato ripetersi. La splendida “Whisper”, tutta strumentale, abbraccia il Folk dei Memory Band e i paesaggi sonori ed eterei di Julie Skies.

Non spendo una parola per “Placebo”, semplicemente perché strepitosa nella sua essenzialità. Passiamo alla “Sinfonia Per Menti Distratte” divisa in tre movimenti (brani otto, nove e dieci). Ovviamente già dal titolo capirete che si tratta di un lungo intermezzo Neoclassical sobrio e persuasivo come il primo grande Eluvium (quello di Copia per intenderci). Prima del trittico finale cui abbiamo accennato prima, si sogna ancora con “Rikke” e i suoi contrasti gustosi, musicali e non, piano – drum machine, passato e presente, musica classica e Drum and Bass (il risultato finale non c’entra niente con la su citata), chitarra e parole recitate come in un tribale rituale magico. Gli ultimi tre brani, “In Deep”, “Better Story” e “Monochroma”, come già accennato all’inizio, sono quelli che più ricalcano la classica forma canzone. C’è da dire che la carica e un certo sapore Lo-Fi nella voce, stile Have A Nice Life, né fanno comunque pezzi appassionanti e deliziosi anche grazie a melodie ammirabili. Soprattutto perché i tre brani sono piazzati uno dietro l’altro a fine disco come per creare una suggestione intensa e particolare, distinta dal resto del disco. Dei tre, sicuramente “Monochroma” è il più arguto, col suo intro Noise/Shoegaze che si ripresenta più volte a squarciare la base cruda e la voce ardente e viva. Immaginate di trovarvi davanti a due palchi distinti dove U2 e Jesus And Mary Chain suonano contemporaneamente.

Se non lo avete capito, questo In Mine del duo milanese Noise Under Dreaming è assolutamente da non perdere. Spero per loro il meglio perché hanno dimostrato che non servono soldi a palate e mezzi smodati per fare ottima musica. Servono idee. Qui ci sono (con ovviamente tante cose possibilmente migliorabili). E se non avranno successo all’estero? Sticazzi, viva l’Italia.

 

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All About Kane – Citizen Pop

Written by Recensioni

Lo so che fa un caldo infernale e non avete proprio nessuna voglia di stare a tormentarvi piegati davanti al pc a leggere di band semisconosciute e ascoltare impegnata musica neoclassica scandinava. Anch’io vorrei stare al mare con un Gin Lemon in mano, il sorriso da ebete stampato sul viso (mentre da sotto gli occhialoni scuri sbirciate le note chiappe chiare italiche), con in mano un libro di uno sconosciuto scrittore senegalese incontrato in spiaggia, il Mucchio Extra col viso di Gainsbourg poggiato all’ombra e nelle cuffie Jangle Pop a non finire. Invece no. Sarà masochismo o necessità ma mi ritrovo, neanche fosse un innevato dicembre, chiuso tra quattro mura crematorie ad ascoltare e scrivere e sudare e non ho neanche il tempo di accendere la tv per scoprire dal Tg1 quale sarà il tormentone dell’estate (qual è?). Però stavolta ci facciamo un favore. Vi propongo una band che potreste tranquillamente ascoltare per radio quest’agosto, per melodie, attitudine e tanto altro. Niente pesanti droni, avanguardie e feedback assordanti. Nessuno sforzo eccessivo è richiesto.

Ve li presento. Andy, Eddy, Fabry, Thom e Guido ovvero All About Kane da Biella. Il progetto nasce nel 2008 e il loro primo Ep, “Trails”, uscirà l’anno seguente. Lo scorso anno partecipano all’Heineken Jammin Festival Contest con il brano “My Little Shop” riuscendo anche a fare da headliner sul second stage con Beady Eye,

Cremonini e Coldplay. A giugno di quest’anno, finalmente vede la luce il primo album della band, Citizen Pop (notare, tra nome di band e disco, la sottile citazione del capolavoro di Orson Welles), anticipato dal singolo “Independent Lights” il cui video è girato sotto la regia di Stefano Bertelli (Marlene Kuntz, Cristina Donà, Caparezza, Nomadi, Dari (vantiamocene pure!), Bandabardò). Il risultato dei tre anni di fatiche operaie alla Fonderia Musicale di Vigliano Biellese è un sound immediatamente piacevole, basato sulle melodie più di ogni altra cosa e con un’equilibrata amalgama tra momenti acustici ed elettrici. Forse c’è ancora troppo odore di hamburger e fish ’n chips nelle note dei quattro ragazzi o forse è ancora presto per darne una valutazione corretta.

Citizen Pop si apre con “Songs At The Window”, attacco in punta di piedi quasi esclusivamente incentrato sul sempre più protagonista ukulele (utilissimo a creare quelle atmosphere Twee Pop tanto apprezzate dagli incalliti Indie di mare) e la voce molkiana di Thom. Il brano suona estremamente intenso e piacevole nonostante la sua semplicità e piace anche il suo evolversi in chiave più classica.

Passata la poco coraggiosa “Exile Supermen” arriviamo al singolo “Independent Lights”, che alterna una corposità, una carica e una melodia Pop-Rock degna delle grandi band da stadio come gli U2 a passaggi più oscuri e intimi da far invidia ai primi Fanfarlo. Bellissima la ballata “Madness We Need” nella quale la chitarra si manifesta come i colori d’un sogno, il basso danza come in un ballo anni sessanta e la voce di Thom si prende il centro della pista mettendosi in mostra con tutte le sue potenzialità. La voce viene raggiunta da quella di Marella Motta nella successiva In “This Black Night” per un duetto azzeccato tanto quanto il ritornello fresco e il riff di chitarra dal sapore stars and stripes. Con “Sorry For The Delay” si torna a godere delle tonalità morbide e rapite che sembrano essere una delle cose che meglio riesce agli All About Kane. Ma riesce benissimo anche una cosa diversa come “Rainbows Are Collapsing”, nel quale il sound prende velocità sotto la carica della batteria di Eddy. Il brano, concentrato di speranza e desiderio di opporsi, è un perfetto esempio di quella che è la musica dei biellesi. Vi sembrerà di ascoltare un misto di Fanfarlo, U2 e Placebo eppure le variabili fonti d’ispirazione sono tanto numerose che potreste trovare celati riferimenti completamente diversi. Ovviamente la cosa può essere vista tanto quanto un pregio (non è certo lusinghiero suonare identici a una band esistente) che come un difetto (sembrare simili a tanti può creare difficoltà a sembrare se stessi) ma siamo certi che tempo e maturità aiuteranno a limare gli ovvi problemi. L’attacco piano-voce e colpi di cuore impazzito di “January” sembrano il preludio a follie cabarettistiche stile Dresden Dolls ma in realtà il pezzo prosegue in una linearità quasi eccessivamente melliflua con sporadici inserti glitch a provare ad alzare un po’ la polvere. Alla fine il risultato è un pezzo di puro Pop dai capelli rossi (ammetto che ascoltarlo mi ha fatto pensare a Tori Amos) non troppo apprezzato da chi vi parla ma che potrebbe attecchire su un pubblico più radiofonico. In “Carry On” gli All About Kane provano a cambiare strada mescolando acute note folk, ritmi vagamente giamaicani e fiati irridenti ma il risultato non convince troppo. Ancora una ballata dal titolo “The First Lovers” che farà certamente sognare gli adolescenti brufolosi grazie ad una musicalità quanto mai gradevole nella sua banalità (del resto ci sono suoni che piacciono prontamente all’orecchio più di altri) e quindi il finale “Marzyplans” che punta ancora su ritmi leggeri e mai invadenti. Per chiudere, visto che ho scritto anche troppo per essere il nove luglio d’una torrida estate e sia io che voi abbiamo necessità fisica di una Nastro gelata, difficile dire quanto sia apprezzabile questo Citizen Pop. Al primo ascolto sembra certamente orecchiabile e gustoso ma in seguito le cose cambiano. Voglio essere sincero fino in fondo. Non mentivo all’inizio quando vi ho detto che vi avrei parlato di una “band che potreste tranquillamente ascoltare per radio quest’estate”. Non mentirò ora. Per i miei gusti tutto è troppo Pop, sia il cantato sempre in primo piano, che le melodie a volte ripetitive cosi come quel sound che non si muove mai da invisibili ma presenti e precise linee guida evidentemente necessarie per provare ad avere successo. Sembra pieno di tanta roba ed effettivamente tra arrangiamenti sfarzosi e altre scelte artistiche del genere non è certo un timbro semplice. Eppure lo sembra fin troppo. Come parlare troppo e dire poco. Quando si piega verso il Pop-Rock, il sound suona come i momenti peggiori della band di Bono e troppo spazio per le ballate mi getta in un incubo popolato di Brian Adams e Bon Jovi  e altri mostri sconsacrabili. Di sicuro non sembra esserci la voglia di provare a fare qualcosa di nuovo. Innegabilmente c’è tanta voglia di esprimersi, comunque. La voce di Thom è assolutamente appagante e il resto del gruppo suona con precisione senza mai rischiare ma comunque dimostrando competenza inconfutabile. Di sicuro sarà dura piacere a un certo tipo di pubblico, presumibilmente quello più numeroso della nostra webzine, sempre in cerca di novità e “sporcizia” artistica, ma di certo ci sono tutti gli ingredienti per l’apprezzamento della più semplice, meno attenta e indagatrice, platea radiofonica. Se l’obiettivo è quel tipo di ascoltatore, gli All About Kane dovranno solo fare più ricerca melodica visto che è quello che conta per vendere, no. Ritornello e melodia. In questo Citizen Pop di momenti che ti mettono la tenda nelle orecchie, non ce ne sono quanti dovrebbero.

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Casa – Crescere Un Figlio Per Educarne Cento

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La proposta della band vicentina che risponde al nome Casa, nasce nel 1998 da un’idea del duo Filippo Bordignon e Francesco Spinelli (che proprio in occasione di quest’album lascerà il posto e la chitarra a Marco Papa) i quali decidono di fare musica attraversando la strada della carriera mainstream trasversalmente e a cento chilometri l’ora. Le loro note e le loro parole sono cosi distanti dal Pop e la loro indole cosi anticonformista da permettere ai Casa di mescolarsi all’arte contemporanea, di improvvisare Live con diversi pseudonimi come Plus e Little Jew Quartet, di collaborare con artisti diversi, musicisti e non, e soprattutto di sperimentare in ogni momento della loro esistenza costellata di episodi quantomeno bizzarri. Nel 2008, al Festival di Arte Contemporanea Tina B di Praga presentarono un lavoro multimediale ispirato dalla deviazione sessuale dello “sniffing“.  Il pubblico ne fu particolarmente nauseato spingendo l’organizzazione a staccare la spina e i Casa a suonare senza suoni. Dello stesso anno è la decisione di inserire un artista sordo come loro cantante, per il progetto “Musica Intuitiva”. Dovreste aver già intuito (appunto) davanti a che personaggi ci troviamo. Artisticamente prodotto da Andrea Santini, Crescere Un Figlio Per Educarne Cento è il quinto annuale lavoro che segue nell’ordine “Vita politica dei Casa”, “Remake”, “Un giorno il mio principe verrà” e “Peggioramenti” e vede la partecipazione, oltre alla formazione base composta da Filippo Bordignon, Marco Papa, Filippo Gianello, Ivo Tescaro, di numerosi ospiti eccellenti come Gianpaolo Bordignon, Marco Ferrari, Nicola Riato, Lele Rigon e tanti altri. Prima di passare alla musica, volevo citare anche l’interessante immagine di copertina di Manuel Baldini, dettaglio di tecnica mista su tela. Sapete che sono cose cui tengo.

L’album parte col botto, con l’estemporaneità sax jazzistica di “Morton” che accompagna le parole di Filippo che, con fare sarcastico e monastico, ci racconta la surreale storia di Sonia, Morton, un adulterio e un faggio. Come in una rappresentazione musicale del simbolo Yin e Yang, le improvvisazioni decostruite della parte musicale si toccano, si abbracciano, danzano e si baciano con la parte vocale rigida come una litania, ma mai si confondono per miscelarsi in un grigio sbiadito. In “Blues Morto”, perdonatemi la poca originalità, è il classico Blues dal sapore di America e cotone a farla da padrone grazie all’armonica di Marco Ferrari. Il terzo brano, “Whodunit!” presenta una combinazione di ritmo marziale di batteria, alternanze di chitarra al sapore di velluto underground, psichedelie sixties tanto The Doors e un cantato quasi buckleyano nel suo incedere cangiante in anticipo su fulminee esplosioni acuminate. “Il Vangelo Secondo Alessandro” sembra un normale brano rock sperimentale ma il rumore che squarcia senza violenza la musica dopo la prima metà del primo minuto crea lo stesso sapore di silenziosa angoscia che avreste nel vedere Gesù Cristo scendere da un disco volante davanti a voi in piena notte e in piena campagna. Perfettamente a metà troviamo, come in un fine primo tempo del film le cui protagoniste sono le corde vocali di Bordignon, gli oltre quattro minuti strumentali di “Interludio A Forma Di Croce” che anticipano “Il Terzo Stile”, riportante la nota “da ascoltarsi a volume appena audibile”. Una sorta di rumore bianco a metà tra avanguardia Drone music e semplice citazione sul silenzio in stile 4’33’’. Quindi “Madonna Con Cilicio” ci trascina nel momento più Pop e melodico, in un ritmo vagamente sudamericano che in realtà è figlio della più tradizionale canzone italiana, anche se un figlio degenere, scapestrato e folle, come ci ricorda la chitarra nelle sue digressioni avant. Forse proprio per la sua solo apparente (la seconda parte del brano è sperimentazione pura fuori dal tempo) accessibilità il pezzo è di certo tra i più interessanti di tutta la lista. Ancora “Beba La Moldava” ci concede un’ulteriore contaminazione di generi, una nuova sorpresa e un ritmo trascinante. Rock in senso più classico che stavolta lascia alla parte vocale il ruolo di folle danzatore dei boschi, in un alterno cantato alla Pierò Pelù, vecchio stile, e parole biascicate in illusori non-sense.  Chitarre, basso e batteria si limitano a correre. L’ultimo pezzo, “Non Lasciarmi Mai”, riprende quel legame, di cui abbiamo parlato prima, con la canzone melodica e cantautorale italiana, portandolo all’esasperazione, se consideriamo il resto del disco. Flauto, vibrafono, contrabbasso, un sound morbido e vellutato, una melodia vocale da ballo di fine anno anni settanta italiani e un testo in netto contrasto, per la sua mielosità, con le parole che ci hanno accompagnato per la mezz’ora circa precedente.

Il sound che pervade questo Crescere Un Figlio Per Educarne Cento non è certo quello più adatto ai palati semplici ma nello stesso tempo è abbastanza variegato da poter essere apprezzato da un pubblico diverso. Tanti momenti Blues non ne fanno un album Blues.  Stesso discorso per il Jazz-Rock, l’Ambient, il Pop cantautorale, il Rock Alternative, lo Psych Rock. Insomma siamo lontani dalle difficili estremizzazioni di Captain Beefheart o dei Flying Luttenbachers, per essere più attuali, ma siamo comunque davanti a qualcosa d’inconsueto soprattutto rispetto a quanto, il mai troppo coraggioso mercato italiano, ci ha proposto negli ultimi anni. Un album abbastanza complicato da definire ma in fondo non troppo complesso da ascoltare. Un album per chi non ama etichette (non solo quelle discografiche), luoghi comuni, generalizzazioni e schemi di ogni sorta e per chi vuole sentire la lingua italiana depurata dai cliché “solecuoreamore” di stocazzo.

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Sister In The Closet – Omnia Mutantur (EP)

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Un dovuto atto di coerenza e onestà intellettuale. Non una bocciatura ma un incoraggiamento.

Probabilmente era poco meno di un mese fa quando ho infornato per la prima volta questo Ep dei Sister In The Closet. Non fu propriamente un colpo di fulmine e quindi decisi di passare oltre, in attesa, magari, di un giorno migliore. Capita a tutti, credo, quando si ascolta a scatola chiusa, di incappare in periodi particolari nei quali un certo stato d’animo t’impedisce di apprezzare talune sonorità. È per questo che ieri ho scelto di rimettere le orecchie in Omnia Mutantur. E, cazzo, devo dirvi che non è cambiato niente. Come diavolo è possibile? Sono io il problema, anche se sono diverso da quel giorno? È forse questa casa e la sua pessima acustica o forse lo stereo e la posizione delle casse? È quello che ho mangiato a pranzo o l’aria putrida di questo paesino di morti, pazzi, alcolisti, falliti e bravi ragazzi? Forse è “l’emergenza caldo” (cit. Studio Aperto) che mi frigge le sinapsi? Ho deciso. Prendo il disco, mi faccio sessanta chilometri e cambio casa e città, stereo e aria. Cerco la situazione ideale per capire. Una bottiglia d’acqua gelata, un bottiglione di Galasso, due pacchi di Pall Mall lunghe come il cielo d’estate e ventiquattro latte di Spokenbeer (from Todis) in frigo. Cellulare spento e Omnia Mutantur in loop per tre ore. Questo è tutto quello che ho da dire.

Il primo pugno in faccia l’ho ricevuto dalla qualità audio, assolutamente non degna. Non voglio fare della cosa una colpa eccessiva per la band. Io stesso ricordo le difficoltà di registrare nei miei primi anni da bassista senza una lira (sì, c’era ancora la vecchia), senza grandi mezzi, con in sostanza nessuno a credere davvero in te, con registrazioni in presa diretta fatte con stereo a cassetta ante era Cd Rom. Capisco cosa significa e quindi cerco di dare, quando possibile, meno importanza alla cosa di quella che dovrebbe avere.

In linea con la qualità audio mediocre, anche la copertina dell’Ep dei bellunesi avrebbe meritato maggiore cura. So che quello che conta è la musica, oltre tutto, ma fino a quando i dischi non avranno tutte identiche copertine monocromatiche numerate in serie (un mio cruccio!?), l’immagine stampata sarà comunque uno dei primi biglietti da visita. Andiamo oltre l’estetica visiva. Passiamo alla musica di Eugenio Tonus, Carlo Bolzan, Martino Fregona e Adriano Losso. Alternative Rock in lingua italiana, con voce registrata a tratti troppo alta e imperante sulla strumentazione tanto da richiamare i più classici cliché del Pop-Punk da Mtv tipo Finley (non conosco molto questi gruppacci da adolescenti in calore quindi ho fatto il primo nome che mi è venuto in mente). L’Ep si apre proprio con “Omnia Mutantur”.  L’intro è assolutamente promettente, con le note che echeggiano impalpabili ed eteree dietro la voce narrante. Poi parte la parte vera del pezzo con le martellate della batteria che purtroppo non riescono in maniera credibile a fare da legante tra primo e secondo tratto.  Il brano si presenta traboccante d’idrofobia soffocata nelle parti urlate tendenti al Crossover, con diversi cambi di ritmo che fanno oscillare il sound dal Pop più melodico all’Alternative più veemente.

“Odissea” parte invece con un convincente intro di chitarra (anche se nella prima parte mi sembra di ascoltare una piccola sbavatura) che anticipa, con l’aiuto dei sempre puntuali coretti, musica dal vago sapore di musicassetta Flower Punk, con i disegnini fatti a mano. La melodia non è però abbastanza accattivante e gli attacchi nelle diverse variazioni che si susseguono, suonano forzati e poco efficaci.

In “Acido Lattico” è la volta del basso a fare da apripista per il brano più interessante del quintetto. Nella sua semplicità, con una maggiore carica e un mixaggio più accurato, sarebbe stato assolutamente un ottimo pezzo. “Fantasma” propone un giro di basso, una melodia vocale e assoli di chitarra particolarmente interessanti salvo però perdersi in un’inutile pesantezza nella seconda parte. L’Ep si chiude con “Il Bersaglio”, altro pezzo ricco di potenzialità cosi come di punti deboli. A tratti richiama alla mente i primi Verdena ma il suono non è mai abbastanza robusto. Troppi margini vuoti nello spazio contenitivo del brano ne minano l’equilibrio. Per riempire al meglio un’area con poche cose, quelle cose devono essere grandi e speculari. È questo che non accade.

Il mio tempo è finito. Il vino, la birra e le sigarette no. Il giudizio è cambiato, almeno un po’. Bisogna migliorare non solo la qualità di registrazione e sotto l’aspetto estetico. I Sister In The Closet devono suonare, suonare, farsi il deretano e suonare tanto e basta. Poche parole. L’unico modo per riuscire al meglio nella parte esecutiva, negli stacchi (a volte indigesti) e soprattutto per dare fluidità e corposità al loro suono (ed evitare che gli strumenti vaghino ognuno per la sua strada per poi ritrovarsi, nei momenti di assolo, in pericolosi e bui vicoli ciechi), è suonare e farsi il culo. E magari osare, tentare vie originali, alla ricerca dell’unicità (per ora ci riesce in parte solo la voce che, per quanto non oggettivamente eccelsa, presenta un timbro bugattiano accattivante). Poi se avanza del tempo, si potrebbero curare con meno vaghezza i testi, giacché sono in italiano.

La carica c’è, le melodie sì e no, ma di potenzialità ce n’è tanta da venderne alla domenica.

Omnia Mutantur, nihil interit. Tutto muta, nulla perisce. Mai parole furono più azzeccate. Speriamo che i Sister In The Closet cambino qualcosa al loro sound prima di perire nell’anonimato.

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O’Rom – Vacanze Romanes

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Le difficoltà d’integrazione, l’intolleranza, il razzismo, la discriminazione, sono piaghe sottopelle per la società civile italiana. Ulcere sempre pronte a mostrarsi in tutto il loro doloroso orrore ogni qualvolta accadono episodi disdicevoli, assurdi, violenti e inconcepibili (penso a quanto successo a Pescara, città dalla quale scrivo, dove uno zingaro ha ucciso un ultrà della squadra cittadina, generando caos misto di rabbia e tristezza). L’ignoranza genera razzismo. L’uomo medio non ci mette molto a dimenticare il settarismo e i pregiudizi, spesso vivi ancora oggi, nei confronti dei nostri connazionali emigrati nel mondo (e non provate neanche a venirmi a dire che loro sono andati tutti solo a lavorare). Del resto, oggi i ricchi siamo noi, no? Forse non per molto ancora, comunque. L’uomo medio italico tende a non ricordare le proprie radici. Non rammenta quale crocevia multietnico sia sempre stato il suo paese, la sua amata Italia, anche in virtù della sua posizione geografica nel cuore dell’Europa e del Mediterraneo. L’uomo medio è cieco davanti alla profonda e radicata influenza della cultura tedesca o francese a nord del Po’, non capisce quale stretta mescolanza ci sia tra i popoli del mezzogiorno e le culture elleniche e balcaniche, non pensa che sempre nel sud esistano minoranze etniche, ad esempio albanesi, diventate parte integrante della nostra penisola ormai da decenni. Il razzismo genera ignoranza. Mentre dimentichiamo chi siamo, diventiamo insensibili di fronte al costante e spaventoso processo d’impoverimento culturale che ci sta affogando tutti come topi. L’inconsapevolezza popolare è da sempre il carburante più elementare ed economico per chi marcia per motivi ideologici o politici sul carro del fanatismo. La gente esasperata per motivi diversi cerca un facile nemico contro il quale sfogare tutte le sue frustrazioni. È cosi che gli stranieri ci rubano il lavoro, gli zingari sono tutti ladri, le rumene tutte troie, i nordafricani violentatori, gli albanesi spacciatori, ecc… Vogliamo rinchiudere la nostra cultura in un castello inattaccabile mentre fuori scarichiamo cannonate di veleno, ma non ci rendiamo conto che i castelli sono roba da medioevo. Se non volete che le mura vi crollino addosso sotto il peso delle vostre cazzate, disgregate dal terremoto della globalizzazione, vi consiglio di uscire e cominciare a bere e ballare. La musica ci salverà. Ci voglio credere come un bimbo a babbo Natale.

Gli O’Rom con Vacanze Romanes non affrontano direttamente il tema dell’integrazione attraverso musica contaminata e testi pedanti e moralisti o politici. Gli O’Rom sono piuttosto loro stessi parte integrante del suddetto processo. Non a caso, l’acquisto del Cd appoggia il progetto del commercio equo e solidale che ha per obiettivo diminuire la sperequazione tra i due emisferi attraverso una rete commerciale equa tra produttore e venditore, che garantisca giusti compensi per chi lavora favorendo inoltre i piccoli produttori del “Sud” del mondo. Carmine D’Aniello (voce, bouzuki e tamburi a cornice), Carmine Guarracino (chitarre), Ilie Pepica (volino), Ion Tita (fisarmonica), Doru Zamfir (fisarmonica 5,8,9), Ilie Zbanghiu (contrabbasso) e Amedeo Della Rocca (percussioni) ci regalano musica che non sperimenta, non rinnova, non guarda avanti ma anzi scava nel passato alla ricerca di tradizioni che possano essere energia rinnovabile per il motore della crescita della nostra società. Ricalcando lo stile del menestrello bosniaco Adnan Hozic, cui il disco è dedicato, o del più noto Bregovic, tanto per capire di che parliamo, Vacanze Romanes ci propone una calda e passionale rivisitazione partenopea di canti tipici Rom, bosniaci (Nocas Mi Srce Pati), pezzi strumentali rumeni (Kalushua, Ciocarlia), canti greco – salentini (Kali Nifta, che sicuramente sarà ultra nota a chiunque abbia visitato le terre leccesi nel periodo della pizzica e taranta) oppure Rom – russi (Solnuska), con testi in lingua originale (che trovate tradotti nel libretto all’interno) che trattano i temi classici della musica popolare, dalla partenza alle armi, alle donne e le pene d’amore, il pianto delle madri e delle mogli, l’emigrazione, il ballo e la festa. Vacanze Romanes è un disco perfetto per chi non soggiorna nella paura, per chi ha voglia di vivere ballando nelle piazze con un bambinello (bottiglione da cinque litri di vino) tra le braccia, per chi vuole sudare, ridere e amare tutta la notte, tutta l’estate. Questo disco è un abbraccio caldo di Napoli, dell’Europa e del Mediterraneo. Un abbraccio per tutti quelli che sognano sotto le stelle, col canto dei grilli e le onde del nostro mare che baciano i piedi. Questo disco è per tutti i buoni e incolpevoli Barabba del mondo.

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The Zen Circus – Metal Arcade

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Probabilmente già dalla prima volta che avete visto Appino, Ufo e Karim Qqru insieme sul palco dal vivo vi siete chiesti che cavolo c’entrino i tre con l’Indie. Loro sono Punk fino al midollo e più di tanti punk sono veramente brutti, sporchi e cattivi. A mano a mano che li abbiamo conosciuti, già dal lontano 1999, con About Thieves, Farmers, Tramps And Policemen [as The Zen], fino a Nati Per Subire dello scorso anno, nonostante le tante e normali evoluzioni della loro musica (la più evidente, il passaggio definitivo alla lingua italiana) ci è sempre parso chiaro che il loro spirito fosse simile a quello dei primi punk di tanti anni fa, carico di quella voglia rabbiosa di esprimersi, senza schemi, senza troppo preoccuparsi di tecnica e stile formale. Hanno sempre suonato quello che volevano, come volevano. Hanno sempre detto quel cazzo che gli pareva. Se ci metti tutta l’anima, alla fine la gente apprezza, se non è troppo stupida. È per questo che non può stupire il fatto che, oltre al giudizio positivo del pubblico, gli Zen Circus siano tra le band più ammirate dagli addetti ai lavori. In tante interviste che ho fatto, parlando con musicisti della scena Indie, leggendo inchieste di altri, il loro nome salta sempre fuori. Mettetevi l’anima in pace amanti della tecnica, delle schitarrate onaniste, di tutto quello che il circo Zen non è. Quello che è, è quello che ci voleva per dare nuova vita alla musica italiana, nuovo veleno e nuova carica. Lo spirito Punk-Rock vive ancora ma porta vestiti insoliti. Data questa premessa è chiaro che c’era da aspettarsi, prima o poi, un Ep come Metal Arcade Vol. 1 che loro definiscono “il primo volume di follie punk per una serie di ep a scadenza casuale e giocosa”. Metal Arcade, in realtà, non aggiunge niente alla musica dei pisani ma serve solo a palesare lo spirito ribelle del trio che, in fondo, conoscevamo già. Metal Arcade Vol. 1 è il contributo della band e dell’etichetta Black Candy Records alla quinta edizione del Record Store Day, giornata per la salvaguardia dei negozi di dischi. The Zen Circus e Metal Arcade, dicevamo. Notate niente? Vi dice niente il nome Hüsker Dü? Nati alla fine degli anni settanta furono una della più importanti formazioni Hardcore sperimentali di sempre, autori del geniale concept Zen Arcade del 1984. L’anno prima incisero un Ep nel quale già era palese la loro voglia o necessità creativa di osare e sperimentare nuove strade. L’Ep s’intitola Metal Circus. Tutto torna. Zen Arcade e Metal Circus, Zen Circus e Metal Arcade. Tutto torna. Il disco si apre con Mexican Requiem, rivisitazione in chiave Punk rock di uno dei primi pezzi della band, seconda traccia del già citato About Thieves, Farmers, Tramps And Policemen [as The Zen], primo lavoro vero del gruppo. Il secondo brano, Hillie Billie Cab Driver, è invece parte del secondo album, Visited By The Ghost Of Blind Willie Lemon Juice Hamington IV. Un inizio, dunque che mira a dare una botta di energia anche a lavori giovanili magari suscitando la curiosità e la voglia di cercare e ascoltare anche le cose meno note degli Zen e riprendere le sonorità più sporche degli esordi. Il terzo brano, Polisii Pamputataas è una cover dei finlandesi Eppu Normaali. Un brano bellissimo che mescola, nel perfetto stile degli scandinavi, una melodia accattivante e un ritmo che trascina dalla prima all’ultima nota. Per chi volesse approfondire la loro conoscenza, il brano è contenuto nel primo Lp, Aknepop, traccia numero sette, datato 1978. Vi consiglio di farlo perché non ve ne pentirete. Il brano seguente è la seconda e ultima cover della tracklist (in questo brano e nel precedente partecipano alla parte vocale Ufo che canta in finlandese e Karim in inglese). Where Eagles Dare, dei Misfits, Horror Punk Band statunitense che non ha bisogno di presentazioni. Il brano è datato 1979 ed è contenuto nell’Ep Night of the Living Dead. Il penultimo brano è invece un regalino che Appino e soci hanno deciso di farci per l’occasione. Punk-oi Puppy Sex 2001 è l’unico pezzo inedito di Metal Arcade e s’insinua nelle nostre orecchie come a sussurrarci che in fondo, una svolta musicale Punk per il Circo Zen, potrebbe non essere solo un gioco. Il brano conclusivo è Vent’anni, forse il loro lavoro più famoso, tra quelli contenuti nell’Ep e di certo uno di quelli più legati alla storia di chi suona. Presente già in Villa Inferno ora ci è proposto in salsa piccante. “Io quando avevo vent’anni ero uno stronzo”, canta Andrea Appino. E forse è un modo per farci capire che un pò stronzi lo sono ancora. È forse un modo per farci intendere che essere giovani e stronzi non è una cosa legata all’età. E forse non è un caso che Metal Arcade e gli Zen Circus si leghino a quello Zen Arcade degli Hüsker Dü, concept album sulla giovinezza, lo squilibrio giovanile raccontato dal punto di vista di un adolescente comune. Di sicuro non è un caso che gli Zen suonino Punk. Basta ricordare o andare a scoprire da dove vengono e tutto torna, sempre o quasi.

 

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Knives Out – Here Again

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Possibile che il Punk Rock, in Italia come all’estero, sia cosi incapace di tirarsi fuori da quelle sabbie mobili nelle quali si è tuffato di testa oltre un decennio fa? È finita l’era del No Future, del Sex And Violence, de “la nostra musica fa schifo ma non ci frega un cazzo”. Punk e anarchia. Mica tanto. A livello sociologico un semifallimento visto che gran parte dei seguaci del genere/movimento predicano gli ideali e anti ideali del nichilismo ma sempre quando si trovano a debita distanza da quella che è la loro vita reale. Ovvio che non voglia assolutamente generalizzare ma di punkabbestia figli di papà ne ho visti veramente troppi. A livello musicale, che poi è la cosa che più m’interessa, la situazione è simile perché se è vero che il Punk Rock dovrebbe essere tra i generi più liberi del creato, poco attento a tecnicismi e schemi vari, è anche vero che, oggi più che ieri, i nuovi punk rocker seguono delle linee guida nella composizione dei brani che appaiono di una spaventosa rigidità. Qualcuno a essere sincero e come mi sforzo sempre di ripetere, ci ha anche provato ma il rischio è spesso quello di essere poco Punk per i Punk e troppo Punk per il resto del pubblico. La colpa in fondo è anche la vostra e la mia, se preferite. Se avete ancora qualcosa da chiedere al figlio di Joey, Johnny e Joe, non abbiate paura. Che cosa volete ancora dal Punk? Quali risposte e quali domande cercate, insomma che diavolo deve dirvi e suonarvi ancora una band del genere che non abbiano già detto e suonato i Ramones, i Sex Pistols o i Clash, tanto per fare qualche nome? Dal mio punto di vista ce ne sarebbero tante di cose ma bisogna capire quanto coraggio abbiano gli artisti e quanta apertura mentale l’eventuale pubblico. Forse è meglio lasciar perdere. Scusate lo sfogo, ma fidatevi del mio dispiacere. Sono nato e cresciuto col Punk e solo col tempo ho acquisito quel certo distacco necessario a capire in che nero vicolo cieco si sia cacciato. Quanto detto non è assolutamente una critica diretta a questo Here Again, degli Knives Out.  Anzi, Dexter (vocals), Jonas (guitar) Samy (guitar), Luca (bass) e Luo (drums) ce la mettono tutta per farci muovere il culo. Il problema è che tra Social Distortion, Bad Brains, Rancid e Antiflag tutto è troppo, cazzo, troppo scontato. E la cosa brutta è che gli svizzeri sono al loro esordio. È il momento in cui dovrebbero sputare tutte le loro idee come catarro nel cesso la domenica mattina.  O mancano quelle (le idee) o manca il coraggio.  Ci sono band che fanno il capolavoro all’esordio e poi si ficcano nel deretano della storia per sempre. Loro no. Forse sono timidi. Grinta, rabbia e cori ubriachi dominano tutto “I’m Here”. Continue rievocazioni dominano tutto il disco dei cinque.

“Desolate Road” suona coriacea e possente ma presenta un’assenza di melodia che sembra più una difficoltà respiratoria alla fine del secondo pacchetto di Pall Mall 100’s che non una scelta da fuoriclasse. “Wait” si presenta come un bel pezzo spumeggiante e sparato a mille ma in fondo, se non fosse per il fatto che la band viene da Lugano, alla fine quello che resta è un amaro sapore di (in realtà probabilmente anzi sicuramente irreale) scopiazzatura sporcata dei nostri Punkreas.  Si continua col tripu(ah)dio adrenalinico e sfrenato di “In The Land Of Dreams” nel quale ritroviamo i pallosi coretti che però dal vivo devono far tanto fighi. Ok. Forse l’avete capito. Questo disco non mi piace. Forse piacerà a qualche fanatico del genere. Agli amici della band. Agli amici degli amici. Difficile andare oltre. Qualità non eccelsa, nessun tentativo di superare gli schemi classici del punk e il resto poca roba. Un pizzico di Huntington Beach stile Guttermouth in pezzi come “Foe”, qualche giro di basso alla Matt Freeman, ancora omaggi punkocalifornicatori in “Welcome to the Crew” e poi il disco è finito. Non so se l’avete capito, ma Here Again non mi è piaciuto molto. C’è troppa musica in giro. Lunga vita ai coraggiosi. C’è poco tempo a disposizione. E chi non ha coraggio abbia almeno senso estetico (e non parlo di estetica classica ma almeno un minimo di senso melodico (che poi nel Punk non servono melodie di una raffinata ricercatezza (i Ramones insegnano))).  Non mi va neanche più di parlare di questo disco, di questi trentatré minuti poco gratificanti per quanto in fondo scorrevoli. Scusate ma non è per me. Se proprio vi è finito del Punk a casa, è una buona riserva, come una bottiglia di gin nel cassonetto del water, utile quanto finisce la birra Birra. Magari cacciatela fuori quando la vostra tipa dorme. Se vi piace il Punk, senza se e senza ma, potrebbe fare per voi. Se siete degli incalliti Indiesnob lasciate stare. Unicuique suum. Scusate se ho parlato poco o male della musica degli Knives Out ma scrivere è più simile a scopare che a farsi una sega. Ci vuole un buon partner e la voglia viene da sé. E poi mi scoccia parlare male dei dischi. Comunque, che ci crediate o no, nelle piccole webzine, siamo ancora liberi di farlo. W Los Ramones! W Rockambula!

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Vetrozero – Temo Solo La Malattia

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Questo supporto non è un demo
Questo è il mio disco
È uno sport estremo
Questo è un album pieno di ricordi
Come quello delle foto
Questo disco è suonato da ignoranti ma pensato da poeti
Questo disco le lacrime le spacca non le strappa
Questo disco è diventato un’ossessione
Un motivo di depressione
Uno slancio vitale fatto con sana ambizione
Questo disco vale più di una tesi
Questo disco ha più di 60 mesi
Questo disco ha coinvolto più persone
Questo disco è stato una metamorfosi della mia passione
Questo disco parla di riabilitazione
Parla di un rifiuto che mi ha fatto perdere la testa
Parla di glauco e delle sue gesta
Questo disco non racconta storie ma imprime emozioni
Manca di razionalità
Disegna stati d’umore
Questo disco è la mia vita distillata in pillole
Questo disco è stato dimenticato
Ha accumulato polvere
Questo disco si chiama tenacia perseveranza
Questo disco si chiama faccia tosta di meritare una speranza.
Vetrozero

Tutto troppo facile. Tutto troppo lineare. Che aggiungere alle loro parole? Qualcosa si può.  I Vetrozero scelgono la strada più pulita per il successo. Non sempre la preferibile. Formazione classica voce/chitarre/paranoie Glauco Gabrielli, basso Alessio Zeni, Batteria Daniele Bonvecchio (ai quali vanno aggiunti il pianoforte di Jacopo Mazzonelli, il synth, il flicorno di Christian Stanchina e l’extra della voce di Emanuele Lapiana. Scelgono il bianco puro. Scelgono un sound senza esuberanze, senza rumore, senza sperimentazioni, con un cantato in lingua italiana ben esplicitata. Tutto sembra oltremisura perfetto. Poi apri il supporto candido e ti vedi una foto di una famiglia di manichini senza testa in posa da tipica immagine da appendere al muro di casa, con donne e bambini con vestiti biancastri e il primogenito in uniforme. Quell’aria di eccellenza sembra schiacciarsi. Non tutto è come sembra, se si scende nel profondo delle cose, se si scarta la plastica che avvolge persone e situazioni potreste trovare qualcosa di più (bello o brutto). Poi però c’è la musica oltre la poesia. Ma poi ne parliamo. I Vetrozero scelgono un titolo “Temo Solo La Malattia” che sembra una presa di posizione, ben precisa. Ho bisogno di voi, ma in fondo non mi frega un cazzo di voi. Una razionale superbia che sembra quasi un modo per convincersi che qualunque critica non abbia la benché minima importanza. Ma anche una profonda dichiarazione di forza contro le ostilità della vita. Un modo di prendere la realtà senza ansie e preoccupazioni, come adepti di una pseudo personale religione ascetica. Ma poi c’è la musica. Ci vogliono sei anni prima che la band trentina si decida a renderci partecipi delle loro trepidazioni. Questo disco non è un demo ma l’album d’esordio di una band che vede Glauco Gabrielli prendersi gran parte delle responsabilità. È un disco estremo perché punta su una musica talmente semplice, ricamando a voce e parole il ruolo centrale, che il rischio diventa quello di essere ignorati. Se si ascoltano attentamente le definizioni, ci si rende conto di quanto sia confidenziale quest’album, tutto incentrato su ricordi, emozioni, sofferenza, ossessioni, lacrime, poesie, speranze, ambizioni, passioni mutevoli. Troppo riservato probabilmente. Il problema è che la musica non tiene abbastanza il passo. Il fastidio è che i testi non sono abbastanza empatici. Non si riesce a immedesimarsi nei sentimenti di chi canta, non si riesce a emozionarsi con una musica tanto banale. Per capirci parliamo di un Pop-Rock classico, con la voce in primo piano e la batteria che segue a ruota, che manca quasi completamente di accelerazioni tanto che la chitarra finisce per fare da comparsa. S’inizia con “Grisou”, brano figlio del Pop anni novanta italiano. Un platonico brano anni novanta, direi, in stile Raf per intenderci, che segue uno schema troppo preciso per suonare moderno o emozionante. Potremmo rifugiarsi nel testo ma la rogna è che per prima cosa, stiamo parlando di musica e non di letteratura. Seconda cosa…poi ve la dico. Il secondo brano, Biarso, inizia con un ritmo molto più cadenzato, fresco e solare. L’aggiunta del pianoforte serve quantomeno a dare maggiore dinamismo alla musica ed anche il cantato e la melodia risultano più accattivanti.

Il Mostro, scelto come singolo dai Vetrozero, ci dona una più intensa speranza, con un’intro che suona come qualcosa che ti fa sperare che il brano continui cosi fino alla fine. Alla strumentazione classica si aggiungono il synth e soprattutto la potenza dei ragazzi del profondo nord. Alla fine un bel pezzo (anche se ricalca eccessivamente, in alcuni punti (e se devo dirvi quali, chiedete pure) lo stile Subsonica) sul quale forse si poteva anche lavorare con più cura. In Treno Freno si torna su binari più classici. La voce di Glauco passeggia sotto braccio alla chitarra che quasi sembra di ascoltare Riccardo Sinigallia (e questo è un complimento) e il sound diventa sempre più pieno, quasi come Verdena particolarmente sentimentali e intimi, nel cammino verso l’orizzonte.  Tralasciando Contagocce, passiamo direttamente a Io + Solo – Vivo. Si parte con un accenno di Folk Rock e poi tutto diventa una specie di citazione volontaria o meno ai Litfiba, sia nell’aspetto musicale, negli assoli di chitarra, che nell’impostazione vocale e nelle parole di pelle sussurrate da Glauco. Soffiando Contro Vento, pezzo centrale di “Temo Solo La Malattia, rappresenta il cuore dell’opera, sia per la sua posizione nella tracklist che per le pulsazioni nervose della linea di basso e sia per il tema particolarmente passionale. Ultra Intro, parte bene come in un accenno Trip-Hop, ma poi si risolve in una melodia molto più rassicurante. Il risultato è comunque interessante perché la musicalità per quanto semplice è molto orecchiabile soprattutto in combutta con il ripetersi ossessivo e delizioso del basso e l’aggiunta eterea del flicorno. La seconda parte del disco diventa molto più spirituale della prima. Emodinamica dilata le atmosfere cosi come Una Pistola Non Dice:- Salve! la carica di elettricità. Solubile (cantata in collaborazione con N.A.N.O., dei C.O.D.) è palesemente una sorta di elegia dell’aspetto lirico. La musica si riduce all’ essenziale ed echeggia dietro la gigantesca presenza vocale. Il disco si chiude con Ninna Nanna. E non è una bugia. Il pezzo è davvero una ninna nanna, parla di sogni e suona di sogni, leggere, le parole di Glauco si sdraiano su note bianche e fluttuanti e vaporose di pianoforte.  Che dire. Mi è piaciuto? Non so. La formula proposta è abbastanza lontana dai miei gusti, rispecchia molto stereotipi eccessivamente ripetuti nel mondo della musica italiana. La musica stessa suona come una suppellettile giacché la voce e le parole si prendono tutto il palcoscenico. Dovrebbe esserci maggiore attenzione agli aspetti strumentali o comunque, se vorranno continuare su questa strada, quantomeno migliorare la ricerca melodica. Sono davvero pochi i passaggi degni di nota e non ci sono ritornelli o giri di basso, o melodie che ti s’inchiodano a fondo nel cervello. Quello che traspare è che, da parte dei Vetrozero, c’è tanta voglia di esprimersi, senza paura di sentirsi nudi a mostrare il loro fragile e al contempo prezioso equilibrio sentimentale e interiore. Questo significa che la loro musica trasuda anima e non è poco. Diffido più dei venditori di note che dei sognatori. Il problema è che per essere apprezzati non basta prendere il cuore e gettarlo in pasto ai lupi. Serve altro. Credo Che Glauco, Alessio e Daniele possano fare di più e forse lo sanno. Sanno che arrivati alla curva, a tutta velocità, per essere davvero bravi, essere diversi da tutti, è necessario andare avanti e lanciarsi dal dirupo, magari spalancare le braccia e provare a volare. Non serve svoltare come tutti. Forse ci hanno pensato troppo e questa curva è passata. Ma siamo in montagna. Di curve ce ne saranno tante.

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Dimartino – Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile

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Non ha la carica degli Zen Circus, la simpatia di Dente, i testi evocativi di Brunori, né ti fa muovere il culo come I Cani, come lo Stato Sociale. Non cazzeggia con musica e parole come Bugo e non esagera con l’italiano come Le Luci Della Centrale Elettrica ma Dimartino ha la capacità di penetrarti l’anima con delicatezza, pazienza, come un milione di gocce d’acqua e dietro di sé lascia solo un dente di roccia come lacrime di malinconia appese a una speranza. Riesce a evocare le stesse atmosfere che si creavano a casa vostra, quando da bambini, vi capitava giocando a fare i grandi, di far partire un vecchio disco di papà, di tipi che si chiamavano Piero Ciampi, Luigi Tenco o Sergio Endrigo. Restavate lì ad ascoltare senza capire cosa avesse di speciale quella musica che vi sembrava cosi strana, noiosa, diversa da quella della radio o dei cartoni animati. Aveva qualcosa che v’incantava, ma non riuscivate a capire cosa.

Il palermitano Dimartino in realtà sotto quel nome racchiude un trio composto anche dà Giusto Correnti (batteria e percussioni) e Simona Norato (pianoforte, Wurlitzer, Rhodes, Hammond B3, chitarre acustiche, chitarre elettriche) oltre che diverse partecipazioni (Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi presta la sua voce in “Cartoline da Amsterdam” cosi come la più che compagna d’avventura di Brunori Sas Simona Marrazzo, Mirko Onofrio ai flauti, sax tenore e xilofono, Giovanni Azzinnari al violino, Stefano Amato al violoncello, Luigi Gallo col corno francese, Gianluca Bennardo al trombone, Paolo Costola alle chitarre di colore e per gli arrangiamenti di archi e fiati abbiamo Mirko Onofrio). Tutto questo sotto la produzione artistica di Dario Brunori e la supervisione di Matteo Zanobini. Detto questo, sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un supergruppo ma non è cosi perché Dimartino significa cantautorato italiano del tipo più classico. Quello che conta è, infatti, l’atteggiamento, il modo di proporsi e di creare. Uno spirito che inneggia alla tradizione della nostra musica ed ha spinto lo stesso songwriter ad abbandonare il nome Famelika, sua vecchia band, di cui hanno fatto parte anche i suoi due soci, per l’attuale, più intimo Dimartino appunto.  Il secondo lavoro della band siciliana si riallaccia perfettamente a quell’alternative pop che già avevamo ascoltato circa due anni fa in “Cara Maestra Abbiamo Perso”.  “Sarebbe Meglio Non Lasciarsi Mai Ma Abbandonarsi Ogni Tanto E’ Utile” ripresenta i classici principi della canzone italiana inondandoli di parole sagaci e glorificando il genere ben oltre semplici testi d’amore. Già nelle prime parole di “Non Siamo Gli Alberi”, appare chiara la voglia di colpire senza fare troppo male. “Io odio immensamente le ferrovie dello Stato perché è lì che ci diciamo addio quattro volte al mese” inizia il brano e continua citando anche le parole che poi danno titolo all’album. Si comincia a giocare con le sentenze velando l’ironia con le atmosfere malinconiche rese ancora più commoventi dalle note del piano. “Non Ho Più Voglia D’Imparare” si presenta più carica del brano d’apertura creando una sorta d’inno disilluso contro il materialismo e l’ignoranza che regnano come scià nel resto della penisola. “Mentre guardavano il divo sul manifesto del detersivo, pensavamo a Monicelli che vola dal balcone…”. Semplici parole, semplice musica. Ma bastano a spiaccicarvi in faccia un riso amaro che vi viene subito la voglia di andare sul balcone, accendere una sigaretta e pensare. “Venga Il Tuo Regno” altro brano reso grande dalle parole di Dimartino. “I Laureati aspettano di lavorare. I lavoratori aspettano di morire”, tutto accompagnato da un sound tutt’altro che scoraggiato e che ricalca parzialmente i Non Voglio Che Clara di “Un Nome Da Signora”, con una maggiore quantità di BPM. Tutte le parole s’incastonano a creare un puzzle perfetto. Niente è lasciato sfuggire per caso dalle note e il suono s’impreziosisce nel finale senza inutili iperboli. “Amore Sociale” si snoda attraverso una struttura classicheggiante che sembra scritta vent’anni fa, con una melodia di piano semplicemente perfetta, anche oltre la bellezza della musicalità vocale. In “Cartoline Da Amsterdam” abbiamo la prima vera sorpresa. Il pezzo inizia con le solite parole che cantano metafore accompagnate delicatamente da note soffuse, ma nel pezzo fa la sua apparizione Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi che urla come un pazzo e gira il pezzo come un souvenir di Amsterdam innevata e per un attimo ci sembra di essere entrati in un film di Tim Burton ma gonfio di colori chiassosi. Con “La Penultima Cena” i palermitani tornano sui binari più tradizionali mentre in “Maledetto Autunno” sembra lanciata la sfida ai migliori parolieri della scena Indie Pop italiana, Fabio De Min su tutti. “Io Non Parlo Mai” folkeggia e trasuda emozioni lontane, di mare, sole, solitudine, speranza e fantasia. Di giochi di bambini soli sulla spiaggia di una terra lontana, di limoni e sudore. Le parole di Dimartino sono sogno e realtà che si fondono senza mai sparire sotto il peso della musica che somiglia a una carezza anche quando è solo un rumore elettronico in sottofondo. Siamo quasi alla fine. “Piccoli Peccati” spinge sulle pelli e sulle note più che negli altri pezzi dando alla musica un nuovo ruolo da protagonista vero nell’album. È il momento sicuramente più Rock e sembra chiara la voglia dei tre di fare i conti col passato, con la musica che li ha visti crescere. “Poster Di Famiglia” è una sorta di tunnel nel quale possiamo viaggiare attraverso i due anni che dividono il Dimartino dell’esordio con quello attuale, con ritmi incalzanti (la batteria ricorda Le Coppie” de I Cani) ritornelli urlati senza rancore ma con tanta gioia di vivere, nonostante tutto. E poi l’ultima “Ormai Siamo Troppo Giovani”, il brano forse più stile Brunori, frasi cariche di geniale amarezza che sembra piazzato volontariamente (“sembra” non direi) alla fine come per stringerci l’anima e non lasciarci tornare alla vita e alle sue bugie. Dunque un’ottima conferma per il trio siciliano, ancora una volta ispirato e stravagante pur senza alienarsi mai dal cuore della poesia italica fatta di musica, dei grandi Dalla, Venditti o De Gregori.  Probabilmente il problema di Dimartino è lo stesso che accomuna gran parte del gruppo dei nuovi cantautori italiani che sembrano avere sempre lo sguardo rivolto indietro nel tempo, immersi totalmente in una nebbia di nostalgia mentre i grandi già citati del passato sapevano cogliere con più efficacia il presente e cantarlo con occhi speranzosi di chi ride al futuro. Ma in fondo, buone composizione e belle parole, sogno e realtà che si mescolano continuamente, amore cantato senza bugie, emozioni che battono i denti a ogni parola. Che vogliamo di più. Forse manca ancora la capacità di trovare melodie. Oppure no. Forse la voce di Antonio Di Martino non è bellissima come altre. Oppure no. Forse Antonio Di Martino non sarà grezzo come gli Zen Circus, non sarà un cabarettista come Dente, non è paraculo come Brunori Sas e non è semplice come I Cani o Lo Stato Sociale. Non sarà montato come Bugo e non parla a vanvera come Le Luci Della Centrale Elettrica ma qualche difetto che vi aiuterà ad amarlo lo avrà anche lui. Ci stanno sulle palle i perfettini. Avete quaranta minuti e cinquantasette secondi per scoprirlo. One, two, three, four….

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Massimo Zamboni

Written by Live Report

Voglio narrarvi una storiella alquanto triste. Avete presente quando in strada o in un locale, dove diavolo volete insomma, incrociate lo sguardo di una donna e il vostro cuore inizia a battere i denti. Qualcosa di oltre il semplice piacere estetico, qualcosa di più assoluto. Vi fate forza, le dite qualche parola imbarazzata e stupida e voi sudate gonfi d’amore e poi sparite, entrambi, per sempre. O no. Sapete che quell’amore durerà per sempre ma poi, magari, la rincontrate e maledicendo Dio, capite che proprio in quell’istante avete smesso di amarla. Venerdì all’ex Wake Up di Pescara (si! Ha riaperto, almeno fino a maggio, con nome Zu::Up o qualcosa del genere (Zu::Bar, altro locale della zona andato in fiamme letteralmente qualche mese fa + Wake Up) sempre nella vecchia location) è accaduto qualcosa di simile. C’era il concerto di Zamboni, proprio lui, l’ex chitarrista e compositore di CCCP e CSI, le band che hanno segnato la nostra adolescenza “ribelle” a modo nostro, una delle più stravaganti e geniali formazioni che la fertile Emilia abbia mai prodotto. Lui è sul palco ed io lo osservo, curioso e intimorito mentre appoggiato al bancone mi gusto la compagnia di un Americano da cinque euro (lezione di vita numero 1 – Una consumazione all’ex Wake Up è sempre cinque euro, birra o cocktail. Fai la scelta giusta calcolando la proporzione a te ideale tra gradazione alcolica e gradevolezza). Sembra che il problema del tempo che passa non sia un suo problema, sempre uguale a quel giovane sognatore che con Ferretti vagava per la Mongolia. Mi vengono in mente mille ricordi, di amici svaniti, serate passate sotto un ponte, tra materassi vecchi, Peroni ad ascoltare Zamboni. Poi il concerto inizia. Lui solo sul palco, con chitarra, i suoi testi e qualche base. Ed io mi rendo conto che qualcosa sta per accadere. Le mie emozioni di cristallo cominciano a farsi in mille pezzi. Con una voce improponibile e testi pseudo impegnati, alterna canzoni che paiono semplici bozze a brani Spoken Words talmente anacronistici che puzzano come cadaveri imbalsamati e rispuntati dalla terra in un’altra dimensione spazio temporale. Siamo circa trenta persona. Quasi tutte siedono a terra, ai piedi del palco. Trepidamente in silenzio, si applaude con fare incerto. Qualcuno sembra apprezzare. La realtà mi sembra lontana. Vedo una mescolanza di ragazzi diversi, spaesati, che si chiedono perché sono lì. Altri hanno paura di urlare “Che è ‘sta merda” per timore di apparire ignoranti. E tanti sembrano rispettare più che gradire. Di scatto mi alzo e decido di andare. Non resisto che quasi mi viene da piangere. Tutto troppo imbarazzante, per me, per lui, forse anche per chi mi ha chiesto dieci euro. Punkow è crollata sotto i bombardamenti tanti anni fa. E noi neanche ce ne eravamo accorti. Il volto di Zamboni è Dorian Gray. La sua musica, il suo dipinto.

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Anche l’ arte vuole la sua parte! con Massimo Desiato alias Teschio Urbano

Written by Interviste

Intervista con Massimo Desiato alias Teschio Urbano, artista emergente della scena alternativa pescarese. Un lungo film noir anni ’30 nato tra ricordi di un’infanzia fatta di block notes pieni di schizzi e dark substance in continua evoluzione verso sperimentazioni plastiche sociali.

Ciao Massimo. Raccontami subito chi sei e chi è Teschio urbano.

Sono uno sperimentatore..mi piace giocare con le forme, con la materia, associarle per darle nuova vita; Teschio Urbano è uno degli alias con cui mi piace giocare.

Parlaci della tua arte. Com’è nata la tua passione? A che punto della tua vita artista, del tuo percorso, pensi di trovarti? Credi di essere già riuscito a sviluppare uno stile personale? Quali sono le tue tecniche predilette.

La mia passione nasce dai block notes che mi riportava mio padre dall’ufficio, mi diceva disegna e quando tornava, erano già tutti pieni. Il percorso è stato molto lungo e spesso dispersivo, era legato più ad un fatto di riproduzione di quello che vedevo, mentre negli ultimi anni ho scoperto la passione dell’interpretazione personale, la curiosità per i materiali più disparati, sapere come nascono e quali processi riescono a trasformarli sia nella forma che nella sostanza. Lo stile personale credo sia solo una delle tante parole per catalogare le idee, non credo sia fondamentale, credo conti più trasmettere un’emozione, riuscire ad entrare ‘dentro’ senza citofonare al cognome giusto ma semplicemente dicendo “ sono il fioraio”, lasciare e scappare. Le tecniche utilizzate sono ispirate a principi di riutilizzazione di materiali di scarto, la matericità e le straticromie sono senz’altro tra le mie preferite.

La tua vita ruota attorno alla città di Pescara. Credi che Pescara ti abbia aiutato o limitato con i tuoi progetti creativi? Qual è la situazione culturale attuale del capoluogo e come, la stessa, è cambiata negli ultimi anni?

Senz’altro mi ha insegnato a fare delle scelte anche in ambito creativo, la situazione culturale credo sia in evoluzione; si pensi per esempio all’Ex Aurum, al Museo Laboratorio a Città Sant’Angelo, all’Ex Mattatoio, allo Spazio Pep Marchegiani. Riutilizzare gli spazi è fondamentale in una città che presenta ancora tantissimi spazi da riqualificare.

C’è un qualche rapporto tra la musica e le tue creazioni?

La musica ha sicuramente un posto molto importante perché mi permette di relazionarmi con le idee di persone che hanno scelto di vivere di bellezza.

Come nascono le tue opere? Hai una musa, delle fonti d’ispirazione precise. Che importanza e che ruolo hanno contaminazione e “citazionismo” (penso agli omaggi a Slinkachu, ad esempio)?

Nascono dal bagaglio culturale e dalla voglia di sperimentare con le proprie mani, sporcandosele; ho la fortuna di essermi avvicinato agli stilemi e alle catalogazioni con la curiosità di un bambino seduto per terra a disegnare. Le mie muse sono i dettagli della vita, quelli che ti permettono di capire l’anima delle cose come ad esempio quando ti accorgi che il rumore dell’uovo con la mozzarella che cuoce produce lo stesso suono della puntina su un disco degli anni 30 o un aquilone multicolore sfracellato contro un pino un aquilone multicolore sfracellato contro un pino un aquilone multicolore sfracellato contro un pino, quando ti cade l’occhio su un aquilone sfracellato contro un pino o ti soffermi a guardare l’acromion di una persona che ti parla insistentemente di politica. La contaminazione è ovvia, mi piace pensare a quello che succedeva a Brajo Fuso, che dipingeva le sue Straticromie a metà degli anni quaranta e nella seconda metà degli anni cinquanta, essendo completamente all’oscuro dell’esistenza del dripping praticato dall’altra parte del mondo da Jackson Pollock già dal 1946 ma anche a Burri, Rotella, Fontana, Thierry Mugler, Alexander McQueen, Vivienne Westwood.

Quali sono le principali difficoltà che ti capita di affrontare nel tuo lavoro, sia a livello creativo sia espositivo?

Riuscire a trovare persone che vogliano mettersi in gioco senza pensare ai soldi.

L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?

Non credo sia possibile, però spero sempre di dare un’emozione prima di tutto, è l’unica cosa che la gente ti può offrire spesso.

Navigando nel tuo sito www.teschiourbano.com una delle prime cose che si nota è una citazione di John Milton da “Il Paradiso Perduto”, libro I, vv 59-69. Perché questa scelta?

La citazione è straordinariamente pertinente ad un mio progetto intitolato HE’LL in cui cerco di mettere in luce gli inferni personali attraverso l’arte. Le tematiche trattate sono: la vita di una geisha, l’anoressia, la malattia mentale e quella fisica, la vita di un clochard, l’omosessualità, la violenza sulle donne, la vita di un musicista, di un alcolista, di un carcerato. Ogni tematica sarà trattata singolarmente e rappresentata sotto diversi aspetti, che vanno dall’arte pittorica, alla scultura e all’arredamento passando dalla poesia e dalla performance.

Tra i tuoi diversi progetti o percorsi artistici hai spesso trattato tematiche sociali anche molto complessi come malattia o anoressia. Pensi che l’arte figurativa possa o debba avere anche una funzione sociale? O la scelta è dovuta ad altro?

Come ti dicevo l’arte non può distaccarsi dalle emozioni perché è proprio lì che nasce e si sviluppa, trovo che dare un significato a quello che si fa con un risvolto legato ad una tematica sociale sia fondamentale, anche semplicemente per parlarne e capire quanto siamo tutti legati a stretto giro di boa.

Guardando alcune delle tue opere (“L’Inferno di Ana” su tutte) sembra emergere una predisposizione per la materia oscura, dark, gotica, il rosso sangue e il nero. Figure antropomorfe ma demoniache. Tuttavia, conoscendoti, sembri una persona estremamente solare. Come mai questo contrasto?

La personalità di ognuno di noi offre dei contrasti importanti spesso levigati da remore, cosa che non si può fare con un’opera d’arte, risulterebbe piatta e scialba utile solo all’ego dell’artista.

Ho notato che spesso leghi le arti figurative, pittura e scultura, con la letteratura (scritti, poesie, ecc…) quasi come per evitare ogni forma d’interpretazione distante dal messaggio che vuoi mandare con le immagini.  Timore di essere frainteso o cosa? Non rischia di essere limitante per l’arte, la sua spiegazione (non ovviamente sotto l’aspetto tecnico ma piuttosto sotto quello emozionale) o credi che un punto di partenza debba comunque essere fornito dall’artista per permettere a chi osserva una maggiore partecipazione?

Credo sia importante legare all’opera quando è possibile un altro punto di vista, quello della scrittura è sicuramente uno dei più efficaci. I fraintendimenti non possono esistere, penso che si tratti, per lo spettatore, più che altro di associare una sua emozione a quello che vede.

Che cos è Arte?

Una forma di linguaggio.

Quanta importanza ha il web per la diffusione dell’arte e quanta importanza dai tu ad internet?

Non se ne può fare a meno, lo considero un’arma importante.

Dove possiamo ammirare i tuoi lavori?

Per il momento, dopo aver dato spazio al mio ego in alcune manifestazioni, credo di dover iniziare a gestire in modo più accurato le mie esposizioni dandogli un significato completo. Non parlo del MOMA ma comunque di spazi dove possa esprimere al meglio l’unicità.

I tuoi prossimi progetti?

Mi sto focalizzando sulla sperimentazione della plastica nelle sue forme più diverse e sulla street art.

Tra due minuti squilla il tuo telefono. È un tizio di Telemarket. “Blablablablablablablablablablablablablablabla… Da domani inizi a lavorare per noi. Avrai un fisso di € 1300,00 al mese e dovrai consegnarci dieci opere a settimana (che diventeranno di nostra proprietà)”.  Che rispondi?

La ringrazio ma non lavoro su commissione, buona giornata.

Dimmi quello che avrei dovuto chiederti e non ti ho chiesto? Poi, se vuoi, rispondi.

Potevi chiedermi perché continuo a farlo.

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