Silvio Don Pizzica Author

Era così tanto un bravo ragazzo. Poi ha conosciuto la trap.

Gianmarco Martelloni – Fiamme

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Vi è mai capitato di sbagliare clamorosamente e cedere Poggi e Volpi per un pacchetto di Frizzy Pazzy, o scambiare un vecchio vinile del Capitano Don Van Vliet per l’ultimo disco degli Offspring o giocare a calcetto e chiamare il fuorigioco neanche foste Franco Baresi, o giocando a tressette uscire di liscio con la venticinque cercando l’asso, o di vantarvi come grandi amanti della letteratura moderna sviolinando citazioni di Fabio Volo, o lamentarvi al cinema perché the Artist è in bianco e nero e nessuno ve lo aveva detto? O pensare di essere imbattibili a Pro Evolution e poi prendere quattro pappine da un cuginetto di tredici anni che ancora piscia nel letto? Ora non voglio dirvi, con presunzione, che questo disco sia un errore anche perché il giudizio, per quanto onesto, è sempre legato a chi lo emette, ma di certo è stato un errore far ascoltare questo lavoro a me. Un errore dovuto più al caso, effettivamente, che non all’uomo. Diciamolo francamente. Non basta dirsi cantautori per essere geniali musicisti di nicchia per forza bravi e talentuosi cosi come non basta fare rumore con una chitarra elettrica per essere Rock o scrivere quattro cazzate sul Web per sentirsi Chuck Eddy.

Gianmarco Martelloni, insegnante bresciano di letteratura italiana e latina, oltre che cantautore, si presenta a quattro anni di distanza dall’album d’esordio “La Superficie del Mare” dichiarando una svolta Rock in “Fiamme” che francamente deve essere stata accuratamente celata tra le dieci tracce affinché nessuno potesse accorgersene. Il disco è Pop e basta perché ogni apparente virata verso il Rock è la stessa che potresti trovare in un album di Raf o Biagio Antonacci. Considerando che Biagio ha a che fare col Rock tanto quanto mia nonna con la coltivazione del Papaver Somniferum, fate voi.

Il primo estratto dall’album è “Chiedici Scusa”, brano che alterna in maniera sistematica momenti energici (e parole a volte patetiche) ad altri calmi e quieti in uno stile già caro ai Negramaro (e che ritroveremo in tanti brani dell’album come una sorta di ancora). In “Ci Sono Fiamme”, Gianmarco Martelloni prova a ricalcare un alternative sound in stile Indie britannico ma il risultato non suona particolarmente convincente e anzi piuttosto forzato. “Tre Bandiere Bianche” e “I Giorni Della Scuola” volano verso il basso rasentando la tristezza imbarazzante. Suona invece fresca “L’Odore dei Fiori” che ha soprattutto il merito di distaccarsi da quella formuletta negramara di cui si parlava sopra e inoltre convince il cantato con fare ironico del bresciano in combutta con il violoncello di Elena Diana ad aggiungere profondità alla musica che nella parte conclusiva soprattutto, ricorda i bellunesi Non Voglio Che Clara, band di punta del panorama indie Pop italiano. L’unico brano che posso tranquillamente affermare che mi piaccia è “Il Vento”, con il suo intro alla maniera di Fanfarlo, anzi meglio, Arcade Fire, la sua sezione ritmica morbosamente e piacevolmente ripetitiva. Di sicuro, se dovessi consigliare da dove partire per una futura e reale svolta Rock (altrimenti impossibile) è proprio dal brano numero due del disco. Riagganciandomi parzialmente a quanto detto inizialmente, non è abbastanza ispirarsi, citare o cantare (come nel lavoro precedente) Piero Ciampi per potersi proclamare gli eredi. La strada è lunga, tortuosa e piena di difficoltà e innumerevoli saranno i passi falsi e i personaggi che si frapporranno tra voi e l’arrivo sperato. Molto più semplice è la via dell’effimero successo. Ogni artista può scegliere. Destra o sinistra? Detto questo, mi dispiace (mi dispiace veramente se un disco non mi piace) ma “Fiamme” suona troppo Raf, Antonacci, Negramaro, Vibrazioni, Renga per piacermi. Probabilmente avrà un buon riscontro radiofonico proprio perché utilizza sonorità Pop non troppo impegnative e di facilissimo ascolto (già Radio DeeJay si è interessata al suo primo lavoro). E tenete conto che, di solito, quando qualcosa non mi piace, finisce per vendere.

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Peggio Emilia – Anticittadino

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Se escludiamo dalle mie considerazioni il Proto Punk di band quali New York Dolls, Iggy Pop and the Stooges o quel genio visionario di Jim Carroll (dal cui romanzo autobiografico del 1978, Scott Kalvert ha ricavato il gioiellino Ritorno dal nulla – The Basketball Diaries interpretato da Leonardo Di Caprio) ma anche il punk degli albori, dei Ramones, dei Clash, degli Hüsker Dü, per intenderci, è innegabile che il genere (in parte anche la sua evoluzione Hardcore) possa essere considerato una sorta di eminenza grigia nel panorama musicale mondiale, al quale tanti hanno provato a rubare lo spirito per rivenderlo alle ragazzine in una bella confezione Emo Power Pop a qualità zero e vendite niente male (che volete farci, qualità e successo sono inversamente proporzionali con un crescendo nel tempo preoccupante). Salvo sporadiche eccezioni, penso alle virate Ska dei Nofx con l’innesto di El Hefe o alla commistione della Rock Opera con l’Hardcore Punk dei Fucked Up, per essere più attuali, o ancora ai fenomenali Paolino Paperino Band, per essere un tantino nazionalista, il genere Punk Rock, per la sua staticità musicale (ritmiche, cantato, accordi, giri di basso) e sociale (tematiche (anti) politiche, contro, slogan da centro sociale, un certo qualunquismo idealista realista troppo “reale” per essere credibile), ha sempre finito per essere considerato un genere di nicchia, per molti indegno di troppa considerazione, i cui fan si riducono a un identikit di se stessi, cosi come accade nel mondo (tuttavia molto più variegato) del Metal. I Peggio Emilia non si tirano fuori da quest’idea platonica di Punk, anzi portano all’esasperazione il genere, evitando quasi totalmente ogni possibile variazione sul tema o contaminazione. Batteria, basso, chitarra e voce fanno esattamente quello che ti aspetti, il sound tipico di un gruppo Punk italiano, in stile Punkreas (quelli meno ironici, allegri e più incazzati) o Impossibili (ultimo periodo intendo, quelli di Cani Blu non di Giancarlo mi ha Detto) ma in fondo ricordando un milione di band. Fermo restando, dunque, che musicalmente parlando quest’Anticittadino è in sostanza inutile in termini d’innovazione e crescita, devo ammettere che contiene alcuni spunti interessanti. Per prima cosa, la band, in vita da circa mezzo decennio, e con all’attivo l’album “La Peggio Gioventù” oltre a numerosi Live anche al fianco di Raw Power, Los Fastidios, Thee STP e De Crew e varie partecipazioni a compilation, e soprattutto Gio, il frontman, riesce a proporci un cantato in lingua italiana assolutamente credibile toccando soggetti che, per quanto a volte abusati, non appaiono quasi mai banali. Inoltre, nonostante il discorso possa essere limitato dal genere effettivamente non troppo complesso tecnicamente, l’esecuzione è perfetta e impeccabile, aumentando la credibilità dei Peggio Emilia malgrado le possibili difficoltà ovvie dovute al cambio di chitarrista (Dario per Teo).

Un altro punto a favore è rappresentato dallo spirito della band, che suona vivo anche nella loro capacità di valorizzazione dell’autoproduzione, fatta di diligenza e meticolosità e non di ritocchi digitali. L’ultimo motivo per cui vale la pena di ascoltare Anticittadino (o meglio, comprarlo) è il booklet, una sorta di mini galleria d’arte in cui espongono Akab, Officina Infernale, Ciro Fanelli, Simone Lucciola e Rocco Lombardi, il tutto impaginato da Enrico Coppola e Fabio Moratti. Passando ai temi affrontati, si passa dalle accuse al popolo italiano che vive perennemente nella felicità dell’ignoranza (“Se”), alle critiche alla società occidentale di “Dalla Parte Sbagliata del Mondo”. Ci parlano dell’ipocrisia della percezione di sicurezza sociale nella Noeffexxiana “Vox Populi” ma anche di quella dei tanti mini sfruttatori sessuali dei paesi in difficoltà (“Mal D’ Africa”, uno dei pezzi migliori e quello in cui più evidente è la somiglianza con i Paolino Paperino). Dei “Nuovi Schiavi” che facciamo finta di non vedere e di tanto altro. Ci sono un bel po’ di motivi dunque per dare importanza al genere. Se siete dei Punk dentro Anticittadino vi piacerà ben più del voto scritto sopra (lasciate stare il voto, potrebbe essere più alto o più basso, senza problemi). Altrimenti, ascoltatelo comunque, perché qualcosa che vi piacerà lo troverete di sicuro.

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Twoas4 – Audrey In Pain English

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C’era una volta, in un futuro impreciso inerte sabato d’Aprile, un ragazzo troppo infelice per quanto giovane che giocava solo a girovagare nel nulla. Il suo fuoco ardeva freddo, come la sua vita, come l’amicizia stanca dei suoi compagni di scuola, come il cuore umido della gente che sanguina nelle arterie del suo paesino morente. Sognando e volando sotto la pioggia, vide una vecchia casa incustodita e vi trovò rifugio. La porta solo socchiusa nascondeva pareti bianche di roccia levigata che sembrava respirassero a ogni suo passo. Non c’era nessuno, oltre a lui, ma sentiva i loro sospiri. Come in un film di fine anni ottanta, si precipitò in cantina alla ricerca d’un improbabile avventura e si ritrovò sommerso da scatoloni pieni di polvere, ragnatele, ratti morti, dipinti orrendi e un cofanetto che sembrava brillare. Col cuore colmo di pulsante curiosità e inquietudine, lo aprì e dentro trovo uno spesso cartoncino in bianco e nero, con un nome, Audrey, ad accarezzare la schiena di una donna di spalle in uno slip grigio che avrebbe dovuto essere rosso. Sopra le natiche, una strana sigla, Twoas4, e più su “In Pain English”. Chi è Audrey? Qual è il suo volto? Girò il cartoncino e lesse un elenco di dieci parole in grassetto intervallate da altre simili. Tutte in inglese, tranne che al punto numero cinque dove lesse “Le Nuvole di Quinz”. Non riusciva a capire ma alla fine c’era “qualcosa che, per esempio, di solito chiamiamo amore”. Totalmente in balia della sua fantasia, continuò a rovistare e pescò delle foto sempre senza colore. Un ragazzo con una chitarra, un altro con una batteria e due ragazze, di cui una, che giocherella col suo cellulare, gli sembrò abbastanza triste da somigliargli. Avrebbe voluto parlarle. Quel è il suo nome? Quindi prese in mano un lungo collage di disegni divisi imperfettamente come fotogrammi di una surreale pellicola anni trenta. Volti e parole danzano su note scure come la notte. In fondo allo scrigno, c’era un libretto spesso, con in copertina due donne di spalle e dietro, l’ombra di un uomo. Dentro trovò un breve racconto. Forse la storia della nascita di quelle dieci frasi in grassetto, narrata senza parlare di quelle parole ma parlando con quello che quelle parole significano per i ragazzi delle foto. Prima di svanire come uno spettro, il giovane si chiese un’ultima volta “Chi sono (io? loro?)? Chi è Audrey?Poi più nulla se nulla è musica.

Ora vi chiederete perché abbia deciso di parlarvi del contenitore e di quello che ha suscitato in me più che del contenuto. I motivi sono diversi. Per prima cosa, leggendo le parole di Alan e Oscar, ho voluto ricalcarne lo spirito e quindi non seguire una precisa linea e struttura convenzionale anche da un punto di vista redattoriale, puntando più sull’aspetto astratto che su quello critico. Secondo, ho trovato veramente nel packaging di “Audrey In Pain English”, quella magia che, di rado, si trova nei prodotti (scusatemi per il termine da mercante) delle band emergenti che spesso hanno anche pochi mezzi economici a disposizione. Ti permette di capire perché i dischi, per quanto possibile, vadano acquistati o rubati e non masterizzati. Per ultimo, devo ammettere, che la sostanza della forma è risultata notevolmente la parte più interessante del disco, o, quantomeno, ha creato un’attesa non totalmente ripagata, mentre i brani, nel complesso hanno finito col deludermi. Detto questo, per chi vuole, di seguito, alcune informazioni e considerazioni sulla band e sul disco sono comunque obbligatorie.

I Twoas4, nati nel 2008 a Grosseto, sono Oscar Corsetti (voce, chitarra, basso) e Alan Massimiliano Schiaritti (batteria e tastiere). Nel disco, registrato con riprese “live”, voci comprese, nella Sala Musicale del Primo Circolo di Grosseto e in seguito affidate per il mixaggio e la coproduzione a Paolo Mauri (Afterhours, Massimo Volume e Le Luci della Centrale Elettrica), troviamo inoltre la collaborazione di Christina Lubrani (voce sulla traccia 7), Luminita Ilie (voce parlata ai nei pezzi 1,3,5,6,8,9,10) e Paolo Mauri (basso nei brani 2,3,4,6,7,9). Questo “Audrey in Pain English” è il loro primo lavoro e si propone come un misto di Neo Gaze, Dark, Noise Rock, Gothic, Post Punk e Alternative Rock tutto interpretato in chiave Pop. Nel disco le diverse strutture dei pezzi in sovrapposizione tra loro e con la voce e le parole cantate o urlate in un italiano anomalo o un inglese altrettanto irriconoscibile (tutto questo non possiamo sapere se realmente voluto a meno che non si prendano per buone le loro parole), si mescolano senza un legame formale riuscendo però a mantenere intatta la portata melodica dei pezzi e quindi non mettendo mai in risalto gli aspetti rumoristi o sperimentali sulla forma più classica della musica. Se da un lato questo permette ai Twoas4 di fare del ritmo e della melodia il punto di forza della loro musica, nello stesso tempo ne limitano la complessità e la particolarità. L’aspetto sonoro si riduce a niente di superlativo, lasciando piuttosto alle corde vocali di Christina e Luminita il compito di superare il muro di banalità in cui si rischia di sbattere (anche se il loro resta un ruolo marginale). Alla fine, il disco si divide perfettamente a metà, tra alti (cito il pezzo preferito, “Last End”, con i suoi feedback, le sue schitarrate psichedeliche alla Rallizes Dénudés, la sua potenza) e bassi (la Baustelliana “Light One”).  Le parti più interessanti sono sicuramente quelle in cui la foggia Neo Gaze, Noise e Gothic è dilatata è messa in risalto, mentre non convince la voce di Oscar Corsetti, nel timbro come nell’intonazione. È il primo passo per la band Twoas4. Resta da capire cosa tenere e cosa mettere da parte per un futuro migliore.

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Miriam Mellerin

Written by Interviste

Dopo l’omonimo debut, i Miriam Mellerin (Diego Ruschena (voce, basso), Daniele Serani (chitarre) e Andrea Ghelli (sostituito a fine 2011 da Pietro Borsò, batteria))  ci regalano un’ intervista da non perdere. Amanti del  Post, Rock o Punk che sia, amanti del rumore, amanti della musica e delle chitarre ghignanti, questo è quanto la Tarantola ha da raccontarci!

Per prima cosa, come state?

Non male, grazie. Leggermente incazzati con il mondo ma speranzosi nel futuro.

“La gente che non viene mai intervistata è quella che dice le cose più interessanti” (D. Gilmour). Bella sfida dunque. Partiamo col botto. Qualcuno vi sta rubando la scena!!! Chi è il più sopravvalutato nell’indie italico (parliamo d’indie; evitiamo di citare i soliti “Amici”, “Ex Amici” “Amici degli Amici”, Vasco, Liga, Pelù, ecc…)?

Daniele: Vuoi dei nomi? Ahahah! Di sopravvalutati ce ne sono un sacco, sono tutti quelli che non hanno nulla da dire, da urlare. Sono quelli che smuovono le masse con i vestiti invece che con le idee, che si fanno le foto con instagram! Comunque parliamone…non è colpa dei gruppi ma della scena, se la gente giudicasse con le orecchie, sicuramente i gruppi che meritano avrebbero più spazio.

Quanto è stato difficile l’omonimo esordio?  E quali sono stati i principali problemi affrontati?

Diego: Questo disco è il riassunto di circa due anni di creazioni che non sono nate per formare un album. La vera difficoltà è stata nello scoprirsi, nel trovare quel filo rosso che lega tutti i nostri brani e nel costruirci l’identità, il sound, che meglio ci potesse rappresentare. Per Daniele e per me è stata anche la prima vera esperienza in studio: là il problema principale è stato quello di riuscire a immortalare le canzoni nel modo migliore possibile, esattamente come scattare una foto.

Quali sono le vostre principali influenze musicali, oltre a Marlene Kuntz, Jesus Lizard o Teatro degli Orrori? Chi pensate vi somigli nel panorama musicale mondiale sia a livello artistico sia nel modo di vedere il mondo?

Daniele: Oltre agli artisti nominati da te i Fugazi, soprattutto nel modo di vedere il mondo.

Diego: Per noi è fondamentale avere il controllo di tutto ciò che esce sotto il nome Miriam Mellerin, e il DIY è l’unico modo per farlo. Al nostro livello e con la nostra poca esperienza non possiamo permetterci collaboratori che interpretino il nostro mood alla perfezione, quindi ci troviamo impegnati quasi sempre in prima persona a realizzare grafiche, curare gli arrangiamenti, pensare alla promozione. Quindi sicuramente Fugazi, Shellac, Big Black e così via.

L’ultimo disco che avete ascoltato? E il vostro preferito?

Daniele: “Songs about fucking” (riascoltato mentre attendevo lo scorrere della lunga, lunghissima fila all’INPS). Non ho un disco preferito o meglio ne ho troppi.

Diego: “Gol Uruguayo”, dei Falta y Resto. Tra i miei preferiti c’è “Dell’Impero delle Tenebre”.

Pietro: Il mio preferito probabilmente è “Né al denaro né all’amore né al cielo”. Solo Faber sa come criticare ogni aspetto della vita umana con eleganza e arrangiamenti raffinatissimi, un genio.

Come nascono le vostre canzoni? Avete una musa?

Diego: Non c’è una regola. Non utilizziamo assolutamente strutture o formule standard, che probabilmente ci farebbero assomigliare molto di più ai Baustelle. Di muse ce ne sono state diverse. A volte tutto nasce da un episodio strumentale che rievoca delle esperienze vissute, a volte è l’esatto contrario.

Che cosa significa suonare oggi generi quali il Post-Punk, il Post-Rock o il Noise? Musica di nicchia e ormai difficile da reinventare. Che ruolo pensate di avere nel calderone dell’emergente alternative rock italiano attuale?

Diego: I generi, o “sonorità” come preferiamo chiamarli, si saturano nell’arco di qualche anno, magari vengono riscoperti e reinventati dopo generazioni. I contenuti no, sono in continuo mutamento e sono lo specchio della società. Un vero comunicatore non può isolarsi dal mondo i cui vive, deve correre insieme ad esso – quante volte gli artisti hanno saputo correre più velocemente del loro mondo! – per essere sempre vivo ed attuale. Noi vogliamo che anche la nostra musica corra. Ci piace plasmare le sonorità a seconda del messaggio, così le immagini che evochi potranno essere rivissute da chi ti ascolta. Non ci siamo mai preoccupati dell’immagine che diamo se suoniamo un riff invece di un altro, le scelte non le facciamo in base alle tendenze ma avendo il focus sul singolo brano e sul suo contenuto.

C’è qualcuno che è andato vicino a far si che i MM non fossero mai esistiti?

Diego: No. Ma siamo andati molto vicini a non poter pubblicare il disco. L’estate scorsa abbiamo passato un momento molto difficile dopo aver deciso di proseguire senza Andrea: siamo rimasti in vita grazie all’aiuto del nostro amico Leo, batterista incredibile, continuando a suonare dal vivo in alcuni festival, poi con Pietro siamo ripartiti con una nuova spinta. Ci siamo decisi a pubblicare il disco ed essere qui a parlare di questo lavoro.

Che cosa pensate dell’industria e del mondo musicale italiano?

Daniele: Una volta, parlando con un mio amico, mi sono trovato di fronte ad un immagine bellissima: “il panorama musicale italiano è molto simile ad un autostrada…ci sono molte corsie, quelle d’accelerazione, quelle preferenziali, d’emergenza…”. In Europa e nel mondo, ovviamente, le cose cambiano.

Diego: Più che industria la chiamerei artigianato. Pure dietro ai generi più mainstream ci sono grandi professionisti e grandi artisti che si rifiutano di “usare lo stampino”. Il mondo musicale italiano è estremamente variegato, all’interno della nicchia che sentiamo come nostra c’è un fermento incredibile, ma si sente ancora un grande gap rispetto all’estero. Siamo un paese che fa musica per ripiego, che non considera come dovrebbe l’arte e l’informazione, pur avendo un patrimonio culturale inimitabile.

Che cosa pensate di voi? Credete di essere veramente bravi?

Diego: Crediamo che in due anni abbiamo fatto dei gran bei passi. Che tecnicamente non abbiamo nulla da invidiare ai Berliner Philarmoniker. Che ai nostri concerti chi ci conosce poga quando suoniamo “Insetti”, mentre chi non ci conosce si ferma ad ascoltarci e a fine concerto ci chiede l’Album. Che siamo modesti, sicuramente!

Credete che l’immaturità trasudante le vostre canzoni sia più un valore aggiunto alla vostra musica o cercherete di limarla quanto più possibile?  O ancora lascerete che tutto accada naturalmente?

Pietro: L’essermi cimentato con pezzi non scritti da me mi ha costretto a entrare prima nella giusta ottica (ritmica, fisica e psicologica) e mi permetto di affermare che l’immaturità negli arrangiamenti o meglio nelle strutture è spesso dovuta ad accostamenti non inflazionati…anzi oserei dire originali…questo è uno dei motivi che mi ha spinto a entrare in questo gruppo!

Diego: L’immaturità che senti ci rende onore. Il nostro compito è crescere, maturare in senso qualitativo. Quello che facciamo, comunicare, richiede da parte nostra una grande onestà il che significa fare le cose perché sono sentite, non perché l’ha detto l’esperto di marketing o l’arrangiatore strapagato. Noi cerchiamo di dare il massimo, di fare quanto più possibile da soli per poter comunicare in maniera sincera col pubblico. Non ci basta apparire, non vogliamo spacciarci per dei miti dato che non lo siamo.

Ho trovato B.H.O.O.Q. il pezzo più bello del vostro disco (ne ho già parlato ampiamente nella recensione) e credo sia il migliore punto dal quale ripartire per acquistare la giusta personalità e creare un sound proprio? Quale pensate sia la sua forza? Ci sono pezzi che ritenete migliori? Quali brani vi sembrano che abbiano maggiormente attecchito tra il pubblico?

Pietro: Concordo, è incredibile la quantità di ghigni malefici che mi produce in volto questo pezzo quando lo suono…..mi esalta!

Daniele: B.H.O.O.Q è anche secondo me il pezzo più bello, la sua forza sta sicuramente nel periodo particolare che l’ha accompagnato. Ci sono sicuramente pezzi che mi piacciono più di altri, ma non sono per forza i migliori. Tutti i brani più o meno si sono ritagliati una loro nicchia nel pubblico, penso sia questo un punto di forza dell’album.

Stilnovo invece non mi è piaciuta molto. Prende in prestito le parole di Cecco Angiolieri e suona come un tentativo di intellettualizzare la musica nel modo più semplice possibile. Cosa ne pensate? Come mai questa scelta?

Diego: La storia della musica ci insegna che gli antichi greci recitavano i poemi cantando, con l’ausilio di strumenti musicali. La poesia e la musica, che venivano composte utilizzando la stessa metrica, da allora si sono sviluppate con sistemi differenti di notazione fino a ottenere una varietà incredibile di linguaggi. Con Stilnovo abbiamo voluto musicare una pietra miliare della poesia e rileggerla nel presente per cercare nuovi elementi di continuità. Un esperimento per nulla semplice, sicuramente molto ambizioso. Non siamo i primi a voler rileggere un classico sotto una nuova luce, già De André mise in musica “S’ì fosse foco” lasciandone però immutato il testo. Crediamo che la nostra versione abbia spessore e la vediamo trasmettere tanto a chi la ascolta. Specialmente dal vivo.

Cos’ è l’arte e cos’ è la musica?

Daniele: La musica è arte, l’arte è comunicazione

Quanta ideologia politica c’è (o ci sarà) nella vostra musica? Quanto v’interessa?

Diego: L’uscita è stata vissuta come un test d’ingresso piuttosto che un esame finale, sicuramente è stata una grande soddisfazione perché è il coronamento di anni di fatiche e sacrifici. Oggi ci sentiamo più ricchi d’esperienza: sappiamo che questo bagaglio non deve finire per intaccare l’umiltà e la motivazione, probabilmente ci servirà ad amplificare entrambe le cose.

Vi sentite le stesse persone di qualche mese fa, ora che il disco è uscito? E’ stata una liberazione oppure una sorta di esame di maturità?

Diego: L’uscita è stata vissuta come un test d’ingresso piuttosto che un esame finale, sicuramente è stata una grande soddisfazione perché è il coronamento di anni di fatiche e sacrifici. Oggi ci sentiamo più ricchi d’esperienza: sappiamo che questo bagaglio non deve finire per intaccare l’umiltà e la motivazione, probabilmente ci servirà ad amplificare entrambe le cose.

Chiudo come avevo chiuso la mia recensione. Io lo prenderei un secondo chitarrista. Voi no?

Pietro: Probabilmente toglierebbe quell’equilibrio che c’è tra noi e tra gli strumenti. Mi basta una chitarra acida come il veleno a squagliarmi le orecchie mentre suono… no grazie un’altra proprio no!

Daniele: No! Semmai inizio a fare gli straordinari e lavoro per due!

Diego: Niente da fare, mi dispiace Silvio 🙂

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Lo Stato Sociale – Turisti della Democrazia

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Lo Stato Sociale nasce nell’estate del duemilanove grazie ad Alberto Cazzola, Alberto Guidetti (Bebo) e Lodo Guenzi tornato a Bologna. Nel rifugio i tre decidono di dare sfogo alla loro creatività senza troppo pretendere dalla vita e probabilmente senza rendersi veramente conto di quello che stava nascendo. Grazie anche alla collaborazione con Paolo Torreggiani (My Awesome Mixtape) pubblicano il loro primo Ep, Welfare Pop. Da allora il progetto nato tra qualche birra e tante risate diventa serio. Il gruppo si amplia e nel duemilaundici la band divulga una coppia di singoli (in digitale) in concessione per Italian Embassy e per Rockit prima dell’EP “Amore ai tempi dell’Ikea” (Garrincha Dischi). Ora la storia è questa:

Turisti della Democrazia è il racconto di un ragazzo nel pieno del fervore giovanile, che urla le sue passioni carico di vita, ma finisce col ritrovarsi solo in cerca di una libertà che forse non sa nemmeno cosa significa se non speranza in un’illusione. Nel fare la conoscenza del mondo, finisce con scontrarsi con una realtà falsa, fatta di persone che per quanto possano apparire diverse le une dalle altre, gli sembrano solo estranee e aliene e una società in continua lotta contro il buonsenso. Comincia a riversare la sua animosità che un tempo era grinta verso tutto quello che c’è di sbagliato. Anche le piccole cose. Il prezzo di un aperitivo o una politica di ladri, la mancanza di lavoro o la falsità delle ideologie o ancora l’ipocrisia della chiesa cattolica. In questa lotta contro tutto, finisce col ritrovarsi ancora più solo, annoiato, senza neanche più la forza di lamentarsi, invischiato in un lavoro inutile e debilitante. Non ha più una ragazza e senza accorgersene si rifugia nelle piccole cose, senza i vecchi struggimenti adolescenziali. Si rintana nella musica (Blur, Apparat, Offlaga Disco Pax, Felix Da Housecat) ma si rende conto che la scena alternativa che tanto ama in fondo non è altro che l’ennesimo prodotto del sistema. Capisce che la pseudo indipendenza non fa altro che trasformare i giovani in dipendenti da un certo modo di essere diverso per forza. Essere vero diventa impossibile. Un’infinità di delusioni sfocia nella totale disillusione, e lui quasi incapace di vivere decide di farlo a modo suo. Capisce che nella sua testa tutto è più semplice. Anche amare. Perché lì le persone sono come le vuole. Anche la donna tanto bella e desiderata può reggere il confronto solo nella sua immaginazione. E le donne finiscono per scorrere nella vita come personaggi a caso, banali, pieni di sé, in fondo inutili perchè quello di cui ha bisogno è fuori dal mondo. Alla fine si ritrova a pensare meno per vivere serenamente.  Diventa, almeno all’apparenza, come tutti lo vogliono, ma non fa altro che farsi ipocrita. Non è capace di sorreggere la sua stessa falsità. Finisce per lasciar correre tutto e alla fine, quando ogni cosa sembra dover andare per un verso, probabilmente trova l’amore, di quello che in fondo hai sempre li, ma non vedi mai con gli occhi languidi.

A essere sinceri, quello che vi ho raccontato non rappresenta proprio la verità perché Turisti della Democrazia non è certo un concept album e soprattutto di storie ne racconta un’infinità, tutte diverse. A ogni ascolto sta a noi decidere se e come farci trasportare da una parola, una frase, una battuta, un’accusa o una nota. A ogni ascolto decidiamo noi quale storia vivere che sia di sdegno, d’amore, di musica passione o amicizia. Le storie sono infinite. Scegliete voi.

Le canzoni in sé sono tutte hit Electropop escluse rare eccezioni in cui è l’anima indierock a prendere il sopravvento o altri episodi più intimi. Non ci sono strade senza uscita. Un album vigoroso e trascinante, con ritmi ipnotici per quanto semplici e melodie ricercate senza suonare pompose e soprattutto orecchiabili. Un mix che ricorda in parte quello de I Cani ma che si presenta più ironico, più melodioso e con testi più simpatici e diretti oltre che ricco di frasi a effetto (“Il lavoro debilita l’uomo”, Ti donerei il mio cuore ma non si butta via niente del maiale”, ecc…). Sicuramente poco utili allo scopo e poco riusciti sono riferimenti politici che a volte sfiorano il qualunquismo (“Cromosomi”). I rimandi a brani di altri artisti sono volutamente innumerevoli e in alcuni casi esageratamente palesati (Girls and Boys dei Blur in “Vado al Mare”) o molto soffusi (La batteria di “Ladro di Cuori col Bruco” è stata mixata pensando a Like Something 4 Porno di Felix Da Housecat). La musica per quanto ripeta ossessivamente un certo cliché electropop riesce sempre a non annoiare, grazie a continui cambi di ritmo e inserti sonori che riescono a rendere l’atmosfera creata da tastiere, drum machine e voce, linea portante del genere, mai ripetitiva. A parte le piccole cose, se c’è un pezzo che non convince, potrei dire solo “Seggiovia sull’Oceano”. Il resto non ve lo leverete dalla testa. Un tripudio di citazionismo, ritornelli spettacolari, elettronica e chitarre, voce che quasi recita invece che cantare e parole brillanti. Questo è l’ultimo lavoro de Lo Stato Sociale. Un disco che, nel nome del Dio (Indie) Pop, si rivolge a tutti gli ultimi d’Italia, che in fondo non si sentono tali, ma si ritrovano sotto accusa solo perché autoesclusi dal sistema socio-culturale di casa nostra. Lo Stato Sociale, per quanto popular, non rappresenta direttamente un prodotto di questa cultura di merda che ci avvinghia tra tv spazzatura, politica meretrice, ignoranza esasperata, aperitivi a dieci euro, abiti firmati, macchinoni, repressione intellettiva. O meglio né è un prodotto come fiori nati dai cadaveri putrefatti sul terreno di battaglia. Spesso dal peggio nascono le cose più sensazionali. Tutto questo male italico genera il bene quando di mezzo c’è l’intelligenza e la passione. Passione che per i cinque turisti nello stato sociale significa anche amicizia, vero legante di una band che sembra non aver troppi problemi a dire quello che pensa senza facili paraculate e senza voler essere a tutti i costi contro. Nonostante lo Stato Sociale non rappresenti niente di mai sentito, di geniale, di nuovo, musicalmente parlando, dentro la loro musica e le loro parole c’è qualcosa che si lega alla nostra anima e ci forza all’ascolto continuo. Traspare sicuramente che quello che ascolti è vero frutto del sudore e delle coscienze di cinque ragazzi come te. Ma c’è altro. Senti di amarli perché capisci che loro sono come te, in tutto. Anche se forse, sei tu a non essere come loro. Cosa posso dirvi ancora. Non voglio rovinarvi la sorpresa. Ladro di Cuori col Bruco non mi ha fatto dormire, anche stanotte.  Se ancora non li conoscete, sappiate che sono piaciuti a chiunque io li abbia fatti ascoltare. Dite che a voi non piaceranno? Non mentite.

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Selezioni Music Live Experience PESCARA/CHIETI

Written by Senza categoria

Sabato 7 Aprile c/o la sala prove MASTER BLASTER di Corso Umberto I a Montesilvano si terrà una tappa delle selezioni di MUSIC LIVE EXPERIENCE che darà l’opportunità alle band selezionate di partecipare a MUSIC VILLAGE:
L’EVENTO CHE UNISCE LA MUSICA EMERGENTE E IL MONDO DELLA DISCOGRAFIA

Event Sound Promotion, in collaborazione con l’associazione Giovanile NET4FUN, svolgerà a Pescara/Chieti il 7 aprile, presso la MASTER BLASTER di Corso Umberto I, 590 a Montesilvano, le selezioni denominate Music Live Experience per accedere all’edizione estiva di Music Village, uno dei più importanti eventi musicali dedicati a band emergenti, che si terrà a Merine in provincia di Lecce in due edizioni:
– 26 Agosto/1 Settembre 2012 – Categoria Giovani under 22;
– 1/7 Settembre 2012.
Durante la selezione le band coinvolte avranno la possibilità di presentare due pezzi del loro repertorio che verranno valutati da un esperto presente che sceglierà i migliori progetti emergenti che rappresenteranno le Province di Pescara e Chieti a Music Village. L’evento in programma a fine agosto – inizio settembre darà la possibilità a 90 band, per un totale di 600 artisti, scelte in tutta Italia di trascorrere una settimana all’insegna del divertimento, aggregazione giovanile e formazione musicale.

www.net4fun.it/musicliveexperience

COS’È MUSIC VILLAGE?
Music Village nel 2012 è la tappa estiva del progetto Music Live Experience e da diversi anni Music Village è diventato uno dei più importanti eventi dedicati a band emergenti, proponendosi come un reale e importante momento di aggregazione durante il quale gli artisti hanno la possibilità di sottoporre agli operatori del settore musicale e discografico (etichette indipendenti e major, media musicali, promoter, produttori) il proprio progetto.

L’evento che in ogni edizione coinvolge più di 500 musicisti emergenti dando la possibilità alle band coinvolte di esibirsi dinanzi agli operatori del settore discografico (giornalisti, discografici, musicisti professionisti) e di partecipare ai seminari formativi gratuiti, tenuti da questi professionisti, finalizzati a far comprendere le dinamiche migliori in base alle quali sviluppare e proporre i propri progetti dando dei punti di riferimento capaci di guidare i giovani artisti emergenti verso il professionismo musicale.

Grazie a Music Village, ad oggi, si sono realizzati dei progetti concreti per alcune delle band partecipanti; ad esempio gli Jolaurlo, ha visto la produzione del loro primo album da parte della Tube Records (etichetta indipendente di Varese), distribuito da Venus; altre sinergie sono nate tra alcuni degli artisti intervenuti ed i rappresentanti delle case discografiche presenti.

Music Village non è un concorso, l’evento sente l’esigenza di distinguersi dalle altre manifestazioni musicali presenti in Italia e a concentrare l’interesse dei partecipanti sull’aggregazione musicale e sulla formazione artistica. Questo non ha eliminato uno dei particolari più interessanti di Music Village: la consegna, a tutti i partecipanti di una scheda di valutazione critica e costruttiva stilata dai professionisti presenti sulla base dell’esibizione live delle band.
Ogni esperto che interverrà all’evento ascolterà inoltre i demo degli artisti partecipanti ed esprimerà, attraverso la compilazione di una scheda di valutazione e un breve colloquio, un giudizio formativo che verrà consegnato ad ogni singolo artista in modo che lo stesso possa farne tesoro, comprendendo in maniera approfondita i pregi e difetti del proprio progetto. Sarà un incontro personale tra la band/artista e l’esperto in questione.

Durante il soggiorno sono previsti corsi e seminari che tratteranno tematiche formative quali:
• la figura del manager nel campo della musica e discografia; la distribuzione; le edizioni musicali.
• il rapporto fra artista e casa discografica.
• l’agenzia di booking – come proporre il proprio show agli organizzatori di concerti ed alle agenzie di booking.
• come promuovere al meglio il proprio progetto in maniera indipendente.
• come proporre all’estero il proprio progetto.
• come si produce un disco – le figure del produttore e dell’arrangiatore; l’importanza del testo in una canzone.

MUSIC LIVE EXPERIENCE, PROGETTO FINANZIATO DALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI – DIPARTIMENTO DELLA GIOVENTU’, OFFRE INOLTRE L’OPPORTUNITÀ DI:
– Iscriversi agli open day gratuiti sulle professioni della musica che si svolgeranno tra ottobre e novembre;
– Scaricare gratuitamente la dispensa sulle professioni della musica (disponibile da giugno);
– Tenersi aggiornato sulle novità del Music Business attraverso il nostro blog;
– Fare domande o ricevere consigli in campo musicale, scrivendo alla mail dedicata presente sul sito: www.net4fun.it/musicliveexperience

DI SEGUITO ALCUNI NOMI DELLA COMMISSIONE ARTISTICA INTERVENUTA NELLE ULTIME EDIZIONI:
Franco Zanetti (direttore di Rockol), Claudio Buja (direttore di Universal Music Publishing), Marcello Balestra (Warner Music), Giampaolo Rosselli (Sony BMG), Dario Guglielmetti (Tube Records), Federica Ceppa (talent and music executive MTV), Pietro Camonchia (manager Linea 77), Federico Montesanto (Pirames International), Max Brigante (dj Radio 105 e Rock TV), Max Zanotti (voce Deasonika), Marco Trentacoste (produttore della Vertical Vision e chitarra dei Deasonika), Mario Riso (ex batterista dei Movida e fondatore di Rock Tv), Saturnino (bassista Jovanotti), Livio Magnini (Bluvertigo), Lucio Contini e Cristian Perrotta (Vallanzaska – Maninalto Records), Eugenio Cervi (Venus), Massimo Luca e Paola Palma (Smoking Production), Antonio Notaro (Renilin), Paolo Gentile (produttore), Enrico Maria Magli e Oliver Dawson (programmatore musicale di Deejay TV), Andrea Piraz (produttore), Daniele Grasso (produttore, sound engineer, titolare degli studi di registrazione The Cave e MagicRoomStudio), Marco Verteramo (bassista dei Violadimarte), Ronny Aglietti (bassista di Alessandra Amoroso), Alessandro Cesqui (Novunque), Michela Cucco (manager Africa Unite), Madaski e Bunna (Africa Unite), Alessandro Ceccarelli (Estragon Booking), Filippo Bersani e Enzo Mazzeo (Scarlet Records), Paolo Martella e Fabio Viassone (Sounday), Beppe Platania (Wynona Records), Nicolò Zaganelli (Artevox Musica), Walter Mazzeo (Rude Records), Paolo Pellegatti, Masha, William Nicastro, Steve Angarthal (Rock Tv), Roberto Trinci (Head of A&R in EMI MUSIC PUBLISHING), Alberto Salini (Vice president presso AFI – Associazione Fonografici Italiani), Diego Calvetti (Direttore artistico del Platinum Studio), Luca Mattioni (Produttore, Arrangiatore e BMG Rights Songwriter) e molti altri.

Momenti di formazione quindi, ma anche di puro divertimento. I musicisti hanno l’opportunità di Jammare anche fino a tarda notte in due diversi punti musica allestiti: il palco (dove si tengono anche le esibizioni “ufficiali”) e l’acoustic corner, dove dominano le esibizioni unplugged.

Anche quest’anno Roland, Heineken e Reference Laboratory, come già da diverse edizioni, saranno gli sponsor dell’evento. Diversi e importanti anche i partner e media partner che da sempre supportano l’evento: Sounday, Rockol e Jam Magazine.

Tutte le band interessate a partecipare all’evento devono inviare un mp3 all’indirizzo email: musicvillage@espromotion.it o visitare il sito della manifestazione: www.net4fun.it/musicliveexperience nella sezione specifica dell’evento www.espromotion.it/musicvillage.
Infoline: 02/36637411

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X-Mary – Green Tuba

Written by Recensioni

La prima cosa che picchia nella testa, quando ci si ritrova davanti ad un gruppo come gli X-Mary è sicuramente un certo tipo di attitudine propria dei folli. Loro sono come quell’amico squilibrato che tutti abbiamo, che non si rade la barba da mesi, che si lava poco, che si sfonda di birra e poi si mette a far casino; che prende per il culo tutti ma devi sforzarti per capire se sta prendendo per il culo proprio te; quello sagace che sembra un ebete; quello che fa l’idiota con intelligenza; quello che non riesce a trovare una ragazza perché forse non esiste una che riuscirebbe a stargli dietro; quello che è sempre ilare e ti mette incessantemente di buon amore; quello che se c’è da prendere a calci nel culo uno stronzo, non si fa complicazioni. Tutto questo sono gli X-Mary. Sono anche una band di San Colombano al Lambro (Lombardia mica la California) che crea caos e musica da quasi vent’anni e che nel frattempo ha pubblicato diversi lavori tra cui “Day Hospital”, “A Tavola con il Principe”, “X-Mary al Circo” e “Tutto Bano” prima di “Green Tuba” appunto, coprodotto da Another Shame, Dischi di Plastica, Escape from Today, Le Arti Malandrine, Lemming Records, Noiseville, Smartz Records, Wallace Records. L’ingegnere del suono è Fabio Magistrali, che a detta della band ha rappresentato un valore aggiunto ben oltre le sue mansioni (“ci ha dato da mangiare, ha detto la sua e dato un sacco di idee (ultima ma non ultima quella dell’albero senza tronco in copertina” (foto di Davide Maione)). Per quanto riguarda la musica, gli X-Mary sono ancora più inenarrabili. Nel rispetto nella loro indole beffarda ma mai allontanandosi dalla realtà, indicano come loro generi di riferimento Rock, Pop, Punk, Bossa Nova, Pianobar, Latina e tra le principali influenze Luca Carboni, Henry Rollins, Ruben Camillas e Zagor Camillas.

Siamo vicini alla verità, più di quanto possiate pensare. Gli X-Mary propongono una miscela che ricorda lo stesso famelico spirito degli Ween, band statunitense formatasi a metà anni ottanta, caratterizzata proprio dalla capacità di fagocitare una miriade di generi diversi risputandoli poi con violenza in un Art Pop dissimile dagli elementi primari. Cosi come per gli Ween il risultato è un sound onirico e mordace. Una sorta di geniale e bonaria presa per il deretano di generi musicali diversi che nel caso degli X-Mary, sono rappresentati dalla tradizione della musica leggera italiana, la musica brasiliana, il Punk. Nello stesso tempo, nella capacità di ricerca di suoni e nelle sperimentazioni folli, la band lombarda ricorda (scusate se esagero) The Residents, anch’essi capaci di nascondere sotto una luce fatta di sarcasmo e divertissement un’analisi della musica, moderna e non, che puntualmente sfocia in una distruzione dei miti, in un anti-fanatismo di massa, ricco di estetica e pieno di sostanza, senza alcun didascalico citazionismo. Volendo invece fare un paragone tutto italiano, è sufficiente aggiungere alla capacità di ricerca di Freeman e Melchiondo e alle sperimentazioni dei bulbi oculari più famosi del mondo il punk demenziale degli Skiantos. Mi assumo la responsabilità piena di quello che dico e confermo che in molti punti la somiglianza è evidente sia nella composizione sia nella voce, cosi come nei testi. La discrepanza vera rispetto agli emiliani è che è maggiore la portata musicale, più ampia la lista dei generi toccati e forse gli X-Mary presentano la loro irriverenza in maniera meno aggressiva e più ricercata. Inoltre, l’aspetto demenziale del rock è meno evidenziato.  Quindi mescolate Ween, The Residents e Skiantos alle prese col Pop, la musica brasiliana, l’HardCore  e forse avrete capito di che parliamo. In realtà è impossibile capirlo (e descriverlo) senza ascoltare. “In Prima Fila”, brano che apre Green Tuba, vi darà un’idea migliore di quel paragone con la band di Freak Antoni fatto in precedenza. Stesso dicasi per “La Piazza Non C’è Più” anche se il testo e la musica si addolciscono fino a rendere plausibile la vicinanza con il Pop di Luca Carboni. La leggerezza sarcastica degli X-Mary continua con “Solo Mattia Mi Dà” e sfocia presto nel delirio. I quarantadue secondi di “Pasticciotti” sono la porta che apre sulla pazzia. “Gigia, il Cane di Cristiano, si è Persa nel Bosco del Castello”. Il nome non dice niente. E proprio per questo sembra dire tutto. I primi richiami alla musica sud americana si hanno con “La Rivista” che sembra sempre tuttavia indissolubilmente legata alla nostra penisola cosi come in “Tiziano Iron” si fanno sentire più prepotentemente le (s) porcherie noise, punk hardcore della band.

Con “Badula” siamo ancora oltre. Un sound tex-mex che sembra tirato fuori dall’intro di un duello Western fatto di tromba, pistole e Tequila. “Viados de Porao” prima de “La Giornata del Nuovo Pizzaiolo” rappresentano un’accoppiata da delirio puro. Metal, scream scaraventato nelle orecchie prima di un pezzettino Pop reso impazzito da un testo talmente concreto da sfiorare il surreale. Uno dei miei brani preferiti è la traccia tredici, “Racconti dell’Africa Nera” uno dei passaggi meno sperimentali del disco, eppure carico d’idee. Da segnalare anche “Io Amo Te” nella quale abbiamo scoperto non esserci seconde voci. Non l’avreste detto, vero? Il resto prosegue tutto sulla stessa reiterazione alternata fino alla traccia ventuno. Scatti veloci da un continente all’altro, urla, spettacolari passaggi pseudo Pop (“Alle 18 le Capre Bevono”), tutto frullato in un vorticoso ensemble di schegge che vanno dai ventinove secondi ai tre minuti e diciannove.  Insomma, gli X-Mary sono tanta roba e spero abbiate la curiosità, non solo di ascoltare quest’ultimo lavoro, ma anche di riprendere i vecchi e soprattutto di andare a vederli dal vivo, magari insieme ai Camillas (X-Marillas), in uno spettacolo indimenticabile per gli amanti del casino puro, delle illogicità musicate e dei punkabbestia. Avete presente quelle band che non vi entusiasmano su disco eppure live vi fanno uscire pazzi? Potrebbe essere questo il caso. Dalle mie parole non avete capito molto, suppongo. Non è solo colpa mia, credetemi e comunque, meglio cosi. Se li conoscete già, vi basterà sapere che c’è molto meno Hardcore del passato, che sono stati aggiunti i fiati e che dentro ci sono potenziali pezzi da radio le cui possibilità sono mandate a puttane dagli stessi X-Mary quando decidono di non superare qualche decina di secondi (è il loro stile (purtroppo, in questo caso, giacché alcune sembravano poter veramente diventare grandi pezzi) e se non avessero avuto queste caratteristiche, staremmo ascoltando altro). Se non li conoscete, cercate di non perdervi questa fintantologia di storie irrazionali in bilico nella storia dell’ arte dei suoni. Vi lascio con le stesse parole della band. Vi potrebbero aiutare a capire. “Se cerchi un singolo, ascolta “Mi Sento Solo”. Se cerchi una pseudo cover dei Camillas, ascolta “Picante”. Se cerchi grane, hai sbagliato gruppo”.

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Anche i Colapesce, nel loro piccolo, si incazzano.

Written by Senza categoria

I Colapesce non sono una grande band che riempie gli stadi con centomila persone e non vende milioni di dischi in tutto il mondo. Non sono della capitale, nè di Milano o Bologna o Londra. Vengono dalla Sicilia e tutto quello che vogliono è esprimere la loro passione per la musica consapevoli delle difficoltà alle quali può andare incontro una piccola band isolana. Il venticinque marzo scorso suonano al Toop di Battipaglia, in provincia di Salerno. Prima un concerto pomeridiano, poi l’alloggio in un garage invece che in albergo e quindi un bell’incidente. Tutto male quindi. E i Colapesce, tramite una nota su Facebook, hanno deciso di sfogarsi e raccontarci tutto quello che è accaduto. Di seguito le loro parole (su Facebook anche le foto della serata “garage”). Preferisco non commentare. Lascio a voi l’ onere del giudizio.
Umiliati e Offesi.
“Perfino il rock ti scava rughe sulla faccia…” (Perturbazione, Del nostro tempo rubato)
Ci siamo sentiti in dovere di scrivere una lettera per raccontarvi quello che ci è successo tra la sera di ieri e questa mattina. Speriamo serva a qualcuno…
Quando diciamo che veniamo dalla Sicilia pare che i promoter si spaventino.Succede sempre.”E ora, come li sistemo, questi?”Per noi isolani andare in giro a suonare non è una cosa semplice: siamo svantaggiati dalla geografia, lontani dai club e dalle autostrade. Lontani da tutto. I Cani o i Bud Spencer Blues Explosion (solo per citare due band con cui condividiamo l’agenzia, di cui siamo felicissimi e orgogliosi, e in parte lo stesso team) partono da Roma ogni fine settimana e dopo un weekend di concerti possono tornare a casa, riposarsi e poi ripartire. Noi no. Fare avanti e indietro dalla Sicilia è praticamente impossibile: insostenibile dal punto di vista economico ma anche da quello del tempo. Gli spostamenti sarebbero troppo lunghi.Per questo abbiamo scelto di essere gestiti come una delle tante band straniere che vengono a suonare in Italia: quando ci muoviamo lo facciamo per periodi lunghi. Stiamo fuori settimane intere (in questo caso dieci giorni filati), suonando anche in giorni della settimana in cui di solito si sta fermi e affrontando viaggi molto più lunghi della norma.Non ci stiamo lamentando, siamo stati noi a scegliere come affrontare il tour: “Un meraviglioso declino” è uscito da poco, ma è il frutto di un anno molto stressante emotivamente e non solo. Non vedevamo l’ora di portarlo in giro, di “uscire fuori”, incontrare e conoscere le persone che lo avevano ascoltato. L’altra sera, a Milano, è stato pazzesco. Il Magnolia era pieno di gente e tutti cantavano le canzoni. Lo sappiamo, succede a tutti quelli che suonano, ma noi ancora non ci siamo abituati all’idea. E come Milano, Roma, poi Bologna, Perugia, Bari. Anche nei posti più piccoli dove siamo stati, come il Morgana di Benevento e lo Youthless di Rieti, siamo stati accolti con grande calore e generosità sia da parte del pubblico che dagli organizzatori. Locali che pur senza gli stessi mezzi di quelli delle grande città ci hanno fatto sentire a casa. benvoluti e rispettati. Le ore interminabili trascorse in furgone, gli scazzi, il sonno arretrato valgono la pena quando poi si trasformano in serate che ci porteremo dentro e ricorderemo per un bel pezzo. Per questo quando dopo la data di Milano, la nostra ultima di questa prima tranche del tour, ci hanno offerto di suonare anche a Battipaglia abbiamo accettato senza battere ciglio.Per spezzare il viaggio eterno che ci avrebbe dovuto riportare in Sicilia, e anche perché tra suonare e non suonare noi scegliamo sempre la prima. Ci era stato proposto un concerto in orario pomeridiano, ma da subito abbiamo fatto sapere all’organizzatore, Roberto Forlano, che non sarebbe stato possibile suonare alle 18, con la speranza che lui avvertisse i gestori del locale. Milano – Battipaglia non è proprio una trasferta facile e volevamo il tempo per poter fare il soundcheck, riposarci un po’ e poi suonare. Nei giorni precedenti al concerto la nostra agenzia di booking e il management che ci segue ci hanno confermato in più modi – dietro rassicurazioni dello stesso Forlano – che non ci sarebbero stati problemi a suonare in un orario più tradizionale. E che il locale non sarebbe stato aperto al pubblico prima della fine del nostro soundcheck. Ovviamente non è stato così: siamo arrivati poco dopo le 19 e già c’era la gente che ci aspettava. Gente venuta anche da fuori solo per sentire il nostro concerto. Alla fine non abbiamo provato niente, siamo saliti sul palco e abbiamo suonato al nostro meglio.Poco prima di cominciare, uno dei gestori ci ha sgridato per il ritardo: per colpa nostra, ieri sera al Toop di Battipaglia, non hanno potuto trasmettere la partita della Juventus e per questo motivo hanno perso tre tavolate di clienti. E quindi dei soldi. Ci dispiace, ma noi eravamo stati chiari fin da subito: a Milano il nostro concerto sarebbe dovuto cominciare, secondo accordi, a mezzanotte e un quarto, per noi era impossibile rimetterci in viaggio prima di una certa ora e arrivare giù a Battipaglia entro le 17. Abbiamo messo comunque la sveglia all’alba e ci abbiamo provato, ma niente: con i miracoli ancora non ce la caviamo bene. Prima del concerto in tre abbiamo mangiato una pizza con la mozzarella di bufala.Da allora due hanno mal di pancia e febbre, mentre io – Lorenzo – ho passato tutta la notte a vomitare. Ma anche questo può capitare, non ne siamo felici, ma può capitare.Prima del concerto, il promoter aveva voluto comprare uno dei nostri vinili: noi li vendiamo a 15 euro, ma lui purtroppo ne aveva solo dieci. Ci ha promesso che a fine serata avrebbe provveduto a darci il resto. Non l’abbiamo più visto. Sparito. Non è stato lui a pagarci e neanche lui ad accompagnarci nel luogo che aveva prenotato per farci dormire. Ero già stato qui con Santiago, il progetto che condivido con Alessandro Raina, e ci era capitato di dover dormire in un luogo non proprio confortevole. Per questo avevamo espressamente richiesto di poter essere ospitati in un albergo, visto anche il grande viaggio che avremmo dovuto affrontare oggi per tornare a casa.Ci è stato detto che così sarebbe stato e invece ci siamo ritrovati in un garage umido, senza riscaldamento, pieno di insetti e con un bagno fetido e puzzolente. Che volete che sia, ci siamo fatti forza, è il rock’n’roll. Un po’ meno rock’n’roll è stato scoprire che non ci sarebbe stato spazio per tutti. Cinque membri, quattro letti. E un divanetto piccolissimo su cui io sono stato capace di resistere due ore, tra una vomitata e l’altra. E gli attacchi di panico. Per niente rock’n’roll, ma altrettanto schifoso, era il paio di mutande maschili ritrovato tra le lenzuola di uno dei letti. Per non parlare del letto in cui riposava il nostro bassista Giuseppe, crollato a terra dopo pochi minuti. Normalmente una cosa del genere l’avremmo presa a ridere e forse ci saremmo spostati a dormire altrove, a nostre spese, ma ieri non ce l’abbiamo proprio fatta. Ci siamo sentiti sconfitti, umiliati e violati come musicisti e, soprattutto, persone.Con noi nella stanza, separato solo da una tenda, c’era anche il padrone del garage. Molto gentile nel fornirci un giaciglio ma non altrettanto carino nel russare e scorreggiare per tutta la durata della nostra permanenza in loco.Così, tra una vomitata e l’altra, abbiamo deciso di partire. Metterci in strada e provare a tornare a casa. Senza avere chiuso occhio. Rischiando la vita.Cosa che è puntualmente successa quando, per un colpo di sonno del nostro Francesco, siamo stati tamponati sulla Salerno-Reggio Calabria. Un pneumatico è esploso e il furgone ha subito danni per un valore economico di circa settecento euro. Noi stiamo bene, e questa al momento è l’unica cosa che davvero conta. Per suonare la nostra musica in giro siamo disposti a sacrificare il tempo libero, gli affetti, le ore dovute al sonno, ma non la vita. L’incidente è stato sicuro una fatalità, ma tutto quello che è successo prima si sarebbe potuto e dovuto evitare. Sappiamo che molte agenzie hanno a che fare con lo stesso promoter e che da quelle parti sono passati e passeranno musicisti di assoluto livello. Ci chiediamo se verranno accolti tutti nello stesso modo, o se chi organizza concerti a Battipaglia, Campagna e Eboli abbia semplicemente un’idea classista della musica. Qualche settimana fa il nostro amico e conterraneo Cesare Basile ha subito un trattamento simile dalle stesse persone, finendo per dormire nella sua automobile, e anche altri gruppi ci hanno raccontato storie simili. Noi ci siamo stufati di stare in silenzio e non c’importa se per questo motivo perderemo delle occasioni: vogliamo rispetto e vogliamo essere trattati da persone e non come bestie. Di sicuro non torneremo più a suonare in concerti organizzati da quel promoter, e speriamo che questa lettera aperta dia coraggio anche a qualche altra band costretta, anche altrove, a suonare in situazioni inaccettabili. Ci piacerebbe che da questo nostro sfogo potesse nascere una riflessione su cosa voglia dire fare musica in Italia ora come ora. Poche ore fa il signor Roberto Forlano ha scritto sul suo profilo Facebook che per “evitare le tragedie si sta attrezzando”. Complimenti per il sarcasmo, speriamo anche cominci ad attrezzarsi pure per ospitare le band in un posto accogliente e non costringerle a rischiare la vita.
Lorenzo e tutti i Colapesce

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The Churchill Outfit – The Churchill Outfit

Written by Recensioni

Cosa c’è di più delizioso del viaggio, della rivelazione di mondi ignoti, esperienze spirituali e artistiche diverse, paesi seducenti, persone scombinate? Non c’è niente che ricarichi l’anima più di una partenza. Il problema è che non è cosi semplice farlo. Pochi soldi, poco tempo. Ma noi abbiamo un pianeta intero dentro la nostra coscienza. Non serve necessariamente salire su un aereo, una nave o quello che volete per percorrere chilometri. Basta inabissarsi in se stessi. La rogna è trovare il mezzo. Perché quelle immense distese nel nostro subconscio sono meno vicine di quanto immagini. Prima di riuscire a raggiungere la meta, senza il giusto trasporto, dovrete passarne di giornate ai confini del deserto. Eppure ci sono dei trucchi, per non sbagliare strada e andare in quel luogo fantastico. Per prima cosa svuotate la testa. Fate che sia più leggera dei vostri sensi. Ora lasciate partire l’omonimo dei The Churchill Outfit. “Tongue Like a Trigger”. Cominciate a sentire la vostra lingua danzare nella bocca. Tutt’intorno, particelle multicolori prima impercettibili vi girano da ogni parte. Niente vi potrà far del male. Ora siete soli col tempo che balla nello spazio. False forbici tagliano stagioni che diventano mari. Voi ne uscirete vivi. Riuscite ancora a vedere la copertina del disco poggiata davanti a voi? Vedete quell’uomo, quel cielo, quegli uccelli, quelle montagne, quella gente? Ora che siete calmi cominciate a correre lontano da quello che è il mondo fuori. “Vegetables” è parte del mezzo ipnotico, scegliete voi quello fisico. Rubate una moto, lanciatevi in un tubo, sparatevi da un cannone ma scappate verso di voi. Siete dentro ora. Iniziate a venerare il vostro cane. “Calypso”. Se avete fatto quello che vi ho detto, non vedrete orrori o altre immagini spaventose ma solo musica viva e danzante in una hall multicolore e calda come mille abbracci. Sai cosa sta succedendo. Dove si va? “Faceless”. Attraversa quel corridoio di gente senza volto.

Continua a nuotare verso la luce. Loro sono come eroina nelle tue vene stanche. “A Thousand Miles Away”. Manca un migliaio di miglia ancora. Goditi lo spettacolo del mare cangiante sotto un sole nero e splendente di luce accecante e di un colore mai visto prima. Rilassati e continua a volare. Ricordi come eri felice? Sei libero. “Kaleidoscopic”.  Riesci a specchiarti nel cielo. Vedi mutare la tua forma e cambiare il tuo colore a ogni ascolto. Fluttua nel vuoto e non chiudere gli occhi. Senti le luci profumate a ogni tua carezza. Ogni loro sospiro ti riempie l’anima. Non potrà cadere a pezzi. “Love. More. Uh”. Sei nel luogo che cercavi. L’amore oltre l’amore fisico. Tutto è amore intorno a te. Tutto quello che non sapevi prima di sapere, ora prende forma. Lei invece non sa che non tornerà. “Scarlet Green”.  È giunto il tempo ora. Vattene da lì prima che tutto diventi troppo. Ora hai imparato a essere un essere migliore. Segui il bagliore scarlatto della musica. Guarda la tua vita sfiorarti come un velo. Non darti spiegazioni. Questo è il tuo minuscolo pezzo di paradiso artificiale che ti mette al sicuro dal male. “Something to Hide”. Sei fuori, quasi. Ora hai qualcosa da nascondere. Qualcosa da custodire che non morirà mai e mai nessuna potrà vedere. Riprendi possesso della tua mente e delle tue percezioni. La vita fuori è una merda. Ora che il Cd è finito possiamo tornare sulla terra e parlare del disco e della band bresciana The Churchill Outfit. I cinque giovanissimi hanno all’attivo l’Ep “In Dark Times” per l’etichetta Produzioni Dada e diverse apparizioni live cominciano a rendere il nome della band noto a testate importanti e quindi al circuito indie. Questo permette loro di aprire per artisti di maggiore fama come 24 Grana e Zen Circus alla Festa di Radio Onda d’Urto. Fino a quando, questa estate i tCO decidono di tornare in studio con Fausto Zanardelli (Edipo) per mettere insieme i nove pezzi che imparerete ad amare. Come avrete capito il risultato è qualcosa di notevole. I tCO riescono a proporre in maniera efficace e credibile quel sound tipico della scuola neopsichedelica nord americana.  Mettono insieme quello che resta delle allucinazioni degli anni sessanta e settanta, quella de i mostri sacri The Beatles, The Doors, Jimi Hendrix, Love, The Zombies, Pink Floyd, Jefferson Airplane, XTC, Spiritualized, The Pretty Things. Partono da qui e riempiono le intercapedini del tempo con l’indie rock e il folk/blues più potente e intimo (la ballata “Love.More.Uh” ad esempio), acido (“Faceless” e “Scarlet Green”) e fresco (“Something to Hide”) dei nostri giorni. Quello a un passo dal garage revival dei The Raconteurs o Arctic Monkeys. Il risultato è una Neo Psychedelia (evidente in tutta l’opera ma soprattutto in un brano come “Kaleidoscopic”) distante dalle sperimentazioni dei Flaming Lips, senza il pesante apporto dell’elettronica come negli Animal Collective, e poco paragonabile allo space rock di scuola Spaceman 3.

Il risultato è più che altro molto simile a quello raggiunto da The Black Angels, band texana capitanata da Christian Bland, in giro da metà anni zero e autrice già di almeno una pietra miliare nel genere. O anche The Warlocks anch’essi statunitensi.  In alcuni passaggi la potenza del sound unito alla vena lisergica ricorda anche quel tipo di psichedelia più vicina allo Stoner Rock, Acid Rock o Heavy Psych dei come sempre americani, Dead Meadow, ma è comunque la matrice Indie Rock, Folk Rock, Garage Rock Revival a farla da padrone in stile The Brian Jonestown Massacre (USA? Yes man!). Intanto, prima di riascoltare, è già amore per “Scarlet Green”. Anche solo per questo c’è da dire grazie.

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Brunori Sas – E’ Nata Una Star?

Written by Recensioni

Chi meglio di Dario Brunori poteva redigere la colonna sonora di una pellicola intitolata “E’ Nata Una Star?”? La grande speranza meridionale ormai può dirsi una stella, almeno nella concezione tipica dell’indie cantautorale tricolore. Riempie i concerti, collabora con altri artisti, viene sullodato e nominato ovunque. Di cosa vogliamo parlare, allora? Non del nostro Dario, visto che davvero è impossibile non averne fatto la conoscenza.

Del film e delle canzoni quindi. Che ne dite? “È Nata una Star?”, che per ora non ho ancora visto, è diretto da Lucio Pellegrini (“E Allora Mambo”, “Figli delle Stelle”) ed è tratto dall’ultimo libro di Nick Hornby. Avete capito bene. Proprio quell’inglese che ci aveva fatto sognare pennellando le nostre passioni più romanticamente infantili. Il calcio (“Febbre a 90°”) e la musica (“Alta Fedeltà”). Questo soprattutto ma non solo.  Quello che ci racconta ora è la storia intelligente e ironica (nel tipico stile del londinese), di una famiglia che scopre le doti erotiche nascoste del figlio tardo adolescente palesarsi nel porno da Vhs. Acume e umorismo dunque nella sceneggiatura. Chi in Italia riesce a unire queste qualità nella musica meglio di Brunori? Della pellicola abbiamo praticamente detto tutto (dimenticavo di aggiungere che la storia è impersonata da Rocco Papaleo e Luciana Littizzetto) quello che si può dire di un film senza averlo visto e tutto quello che una webzine di musica dovrebbe dirvi sul cinema. Passiamo al disco. Per prima cosa chiariamo che non si tratta di una riproposizione di brani del calabrese già presenti nei due volumi precedenti. Quasi tutte le tracce sono cosa nuova (esclusa la bellissima “Fra Milioni di Stelle”) e agli undici brani originali targati Brunori Sas vanno aggiunte altre sei perle strumentali confezionate da Gabriele Roberto e due bonus track, “Sono Come Tu Mi Vuoi” versione Summit Studio e “Hot and Bothered (D. Ellington) ” in chiave Ap Beat. Che cosa lega quindi la storia di Hornby alle novelle che ci racconta Brunori? Apparentemente niente, o quasi. Escluse le pause strumentali, che qui abbondano anche a nome Brunori Sas (simpatica “Melodia a me” che sembra la colonna sonora di un matrimonio), le parole ci raccontano altre cronache che finiscono per vivere da sole senza la stampella della visione (probabilmente il momento più cinematografico è rappresentato da “Porno ‘82”. Qui la musica di Brunori si trasforma in maniera incredibile e probabilmente senza uno sbocco futurreale. Inoltre il brano non ha niente a che vedere con “Guardia ‘82” come lo conoscete, tranne che per la citazione del titolo). Come un bardo beffardo, il cosentino barcolla per la sua strada e ci racconta i piccoli mondi moderni che s’intravedono ai bordi del marciapiede. Amore disilluso (“Amore con Riserva”), confessioni tristi e ubriache (“L’Asino e il Leone”), la gioia della vita sofferta, dura, sogghignante. I ricordi degli anni ottanta che tanto hanno fatto amare Brunori a chi come me è cresciuto in quel decennio, è veloce e fugace e meno diretto rispetto agli esordi. Stavolta basta una parola, un Cynar o una Sambuca, per ricordare nostalgici passati passati insieme. Brunori è una star e sta facendo i conti col suo destino. Sempre melodie accattivanti, immediate (meno del passato, a essere sinceri), pungenti come le sue parole, più delle sue parole, ora più misurate visto il contesto. La struttura della colonna sonora appare già al primo ascolto molto più frastagliata del solito.

Se, in Vol. 1 soprattutto e in Vol. 2, si riusciva quasi a vedere un filo legare il primo e l’ultimo brano, ora quel filo manca o meglio è più difficile da scovare e questo finisce per dare al tutto una maggiore profondità pur nel consueto direct style di Brunori. Stile che da ora sembra sempre più qualcosa di personale, lontano dai rimandi a Gaetano (ricordate “Rosa”?), De Gregori o Bennato. Brunori continua a raccontarci la banale consuetudine senza banalità e soprattutto senza facili scorciatoie. Ancora una volta Brunori ci mette di fronte a noi stessi, nudi davanti alla nostra anima. E tutto intorno diventa un sogno danzante su note di piano soffuse. Stavolta ai bordi della strada Brunori non ha incontrato nessun povero Crito se non proprio te che te ne stai a piangere e ridere seduto al tavolo di un bar col tuo bicchiere in mano fino alle nove di sera. Brunori riesce ancora una volta a incarnare il ritorno del pop cantautorale italiano più classico aggiungendo un pizzico di neve che suona poesia e in questo trionfo dell’apparire chiamata Italia, non può che far bene al cuore. Detto questo non resta che entrare da protagonisti nella favola. Detto questo, non posso che confessarvi l’essermi trovato di fronte ad un buon lavoro, se messo in contrapposizione all’opera di Papaleo e Littizzetto che non si presenta (“non si presenta”! Non cominciate a dirmi che non si critica un film senza prima, prima vederlo) certo come una gemma della moderna cinematografia italiana (vista la simpatia per Hornby, spero di sbagliarmi di grosso). Ovviamente, resta da verificare quanto riesca a essere funzionale e in sintonia con l’opera visiva di Pellegrini. Tuttavia, al di fuori del legame con la pellicola, Brunori riesce comunque a realizzare un lavoro invidiabile (da tanti), che pur aggiungendo poco, in termini d’innovazione e crescita, al percorso artistico del cosentino, in ogni caso rappresenta un altro solido mattone nel muro solido della sua carriera sempre più vigorosa. Dove scema l’immediatezza (poche effettivamente le melodie di facile memorizzazione) vive lo stesso una scintilla scagliata già in Vol. 1 e luccicante ancora nella mezzanotte di Vol. 2. I brani non deluderanno i seguaci veri (forse i fan da “pezzo”, si! Quelli che di Sas conoscono esclusivamente “Guardia ’82” o “Italian Dandy”) e forse accresceranno il numero di estimatori. Se solo il cinema (il film, meglio) riuscisse a dare ancora più magia alle canzoni, all’immaginario. Se solo riuscisse ad aumentarne la portata seduttiva, allora potremmo veramente sognare. Fin qui c’è Brunori. La seconda parte dell’ album è, invece, in mano al compositore Gabriele Roberto. E la faccenda cambia. A dispetto di titoli quali “Il Duello”, “Videochat” o “L’Edicola”, i sei brani sono prettamente strumentali erappresentano un elegante modern classical vivido e affascinante che (non è detto che non) riuscirà ad acquistare maggiore forza espressiva o meglio a indirizzare in maggior misura l’emozionalità delle note, con l’aiuto delle immagini. I pezzi, brevissimi, sono scritti per una colonna sonora e la cosa suona evidente. Le note fluttuano come spire di fumo pronte a essere ingoiate in un unico respiro nel momento in cui le forme prenderanno vita. Qundo vista e udito avranno una sola anima. E alla fine arriva Duke Ellington a ricordarmi che suonare il “bop” è come giocare a Scarabeo senza vocali. Cosi io me ne vado al bar a ingollare Peroni con un tipo senza baffi che mi sembra di conoscere, insieme con quel sorriso amaro che solo i grandi sanno profondere.

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Dust – Kind

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Preparatevi ad ascoltare la Bibbia dei Dust. Preparatevi ad assaporare le note e le parole dei sei profeti del Rock di Milano; Andrea (voce splendida e autore di gran parte dei testi), Riccardo, Jimbo (chitarra solista dal 2009), Tomas, Gabriele e Muddy. Preparatevi a tutto. Per cogliere solo alcune delle sfaccettature del disco, servirà un notevole avvicendamento delle vostre percezioni. La giusta mescolanza di acume e beatitudine.  L’Ep “Kind” è il loro secondo lavoro, dopo il demo autoprodotto del 2009 “Tuesday Evenings” e la giusta conclusione di una peregrinazione a colpi di perfette esibizioni live e l’inizio di una nuova vita. Registrato al Mono Studio di Milano e prodotto da Matteo Cantaluppi (The Record’s, Punkreas, Canadians, Bugo), che avrà un ruolo primario per lo sviluppo del sound Dust, con l’apporto di Matteo Sandri (Sananda Maitreya, Il Genio) e il mixaggio, in due brani, di Paolo Alberta (Negrita) all’Hollywood Garage di Arezzo, “Kind” si presenta tanto breve (ventuminutieventottosecondi) quanto intenso e ricco di spunti. Partiamo dall’inizio. “O my Mind” (che vede la partecipazione di Giorgio Garavaglia, mandolinista e direttore d’orchestra) ci regala subito un giro che te lo levi difficilmente dalla testa e una melodia spensierata di quelle che ti mettono la gioia di vivere.

Il timbro intenso di Andrea allarga le nostre percezioni verso orizzonti Wave in stile The National. Un brano che si lega al passato in maniera indissolubile eppure suona alle nostre orecchie carico di una fresca e inaspettata originalità. Ti entra nella testa senza squarciarla e riempie quello spazio rimasto da troppo tempo vuoto nel tuo cervello. Il mix tra chitarra, voce e linea di basso sembra un melodioso ludico correre nel buio spazio vuoto del niente. Qualche cosa sembra già chiara. I Dust hanno scelto la strada popular nel traffico del Rock. Niente fretta però. Il secondo brano, “Ink Loaded Love”, con le sue elettriche sferzate e le urla soffuse, mette già in crisi le nostre certezze. I milanesi sembrano accarezzare un certo tipo di Grunge, meno legato all’Hard Rock, se volete, ma più Pop, mantenendo tuttavia viva la loro porzione d’anima Dark Wave. In pratica un groviglio complicato gettato da una muraglia sonora in fiamme. “In Collapse of Art” potete prendere la vostra testa e scaricarla nell’indifferenziato. Rallenta il ritmo e la musica si trasforma in materia oscura come il Blues. I Dust continuano ad attingere, anche involontariamente, dal continente Nord Americano. La malinconia dei Girls sposa le atmosfere folk meno folk degli Okkerville River (l’inizio del brano vi ricorderà certamente l’inizio di “Titletrack” dei sopracitati) ma il matrimonio si trasformerà nel giro di due minuti in un pandemonio nervoso che si risolverà in parte col ritorno all’origine, un ritorno alla pacatezza solo esteriore del blues degli episodi più malinconici di Dan Auerbach. Un brano che comunica l’incapacità comunicativa attuale dell’arte in Italia. Il trionfo dell’apparire sull’essere. Con “Never Defined”, riaffiorano le atmosfere Wave scuola The National (quelli più energici di High Violet) e la chitarra stilla gocce di Lsd che finiscono dritte nel cuore. Il brano, come a riassumere l’intero Ep, si palesa senza paura nella sua totale complessità. I rimandi ai grandi nomi sono infiniti e si accavallano all’interno del singolo brano cosi come nella totalità dell’opera. Eppure tutto si fonde in una divina unicità.

L’album si chiude con la romantica “Still Hiding, Still Trying” nella quale si torna a danzare tra le nuvole come in “Collapse of Art, ma abbracciati a una donna splendida, vestita di nero, con tacchi alti e labbra carnose, chiamata Morte. La voce prende le redini del nostro ascolto con una delicatezza sublime e ci accompagna all’uscita mentre la chitarra sventola note sotto una brezza umida e la batteria pulsa come un cuore rivelatore nel profondo della nostra essenza. Il sound nella sua delicata ricercatezza, nei suoi accenni psicheledici, nella sua teatrale, passionale empatica vocalità ricorda ancora quello di Christopher Owens e delle sue “ragazze” americane ma sempre senza scimmiotteschi rimandi. Ora potrà sembrare che vi abbia detto tutto. Non è cosi. Riascoltate l’Ep e tutto sarà diverso. Come ho detto (a mezza bocca) in precedenza, la caratteristica del sound dei Dust è proprio questa. Ti sembra di aver compreso solo fino a quando non rischiacci play. Il primo impatto che ho avuto è stato quello di una band di chiara ispirazione Buffalo Tom (o che comunque per uno strano scherzo del destino, lo sembra in maniera netta). Non è tutto qui. Ferma restando la struttura cardine chitarra/voce di un prodotto comunque rivolto all’apprezzamento popolare, la miriade di mondi musicali racchiusi nel disco si accavallano a ogni ascolto. Cosi come si avvinghiano le emozioni della vita, del vagabondare nel mondo, della socialità, dell’amore e della morte. Se una volta il Rock Pop-Punk spensierato, fuso al Folk e al Power Pop da muovere il culo, in stile Lemonheads sembrerà essere la colonna portante del tutto, il giorno dopo vi sembrerà piuttosto di essere cullati dalle atmosfere più melodiose e levigate del Blues, in combutta col Soul e il Grunge, specie nella parte cantata. Oppure vi sembrerà di riascoltare il miracolo degli Arcade Fire e del loro Pop-Wave, magari solo per un attimo. Vi sembrerà di ascoltare Wilco o i R.E.M o il Jangle Pop dei The Smiths. Un attimo che vi farà pensare abbastanza da far ripartire il disco dal principio. La prima pietra è ben salda. Aspettiamo la lunga distanza; aspettiamo un album oltre l’ Ep. Allora potremo dire veramente quale sia il valore dei sei. Intanto alcune cose sembrano chiare. Ai Dust piace la musica d’oltreoceano più di quella d’oltremanica. Ai Dust piace fare Rock senza suonare mai troppo pesanti (difficili, meglio). Ma soprattutto è chiaro che questo “Kind” come la Bibbia, si è presentato come il luogo in cui cercare le risposte, ma non fa nient’altro che avvinghiarci in continue altre domande. “Dream unless you can see the truth”. Dov’è la verità?

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May Day – Eppì

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“Uomini, adesso, non derideteci,ma pregate Dio che tutti noi assolva.” Voglio dirvelo subito, senza falsità. Cosi non ci siamo. Avete messo tutto (domanda?) in questo Ep e il risultato è poco più di niente. Il sound è derivativo (passatemi il termine indiesnob) fino all’eccesso e questo potrà certo piacere a tanti. Ma vi chiedo. È questo che volete dalla musica? Piacere a masse informi di ragazzini che della musica hanno un’idea ristretta a jingle pubblicitari e MTV o, nella migliore delle ipotesi, ai dischi del fratello più grande? Passiamo l’orrida (per un disco del genere) copertina, passiamo il Cd masterizzato (fisicamente intendo) come la copia di un disco fatta da un vostro amico e passiamo anche il facile titolo da simpaticoni che chiamano l’Ep, “Eppì”. Ma cosa sono veramente questi May Day? Oggettivamente parliamo di tre ragazzi nati a (non lo dico perché loro dicono porti sfiga) nel 2002. Dieci anni dopo sono ancora gli stessi che suonano il più classico Alternative Rock in lingua italiana.

In una decade hanno prodotto due dischi, l’omonimo del 2003 e “Come Ieri” datato 2005 e hanno all’attivo due partecipazioni a compilation firmate Sana Records e Indie Box Records. Sul lato live si sono dati abbastanza da fare, condividendo il palco con Linea 77, Punkreas, Meganoidi, Bambole di Pezza, The S.T.P., L’ Invasione degli Omini Verdi, Medusa, Ln Ripley. Riescono anche a vincere il primo Biella Music Contest e partecipano alle fasi finali di Arezzo Wave e Transilvania Live.  Ultimo riconoscimento la vittoria dell’Open Mic Summer Tour Contest 2011. Ma chi sono veramente questi May Day? Decidono di condividere l’Ep in download gratuito per potersi mettere in gioco soprattutto nell’aspetto live. Non vogliono necessariamente lucrare (né ovviamente fare i coglioni a loro spese, immagino) sulle spalle della musica. Sono onesti fino all’osso. E soprattutto sono bravi. Quindi, perché non vi sfogate quanto create? Suppongo non sia una questione di limitazione artistica. Forse è il timore di osare. Ma perché non vi lasciate andare? Che siano le grandi band soggiogate dalle case discografiche a uniformarsi a un certo tipo di suono. Voi, indipendenti e liberi fino al midollo, dovete regalarci qualcosa di più. Se ne siete capaci (io dico sì ed è questo il motivo del voto forse troppo duro rispetto alle mie parole. Odio vedere il talento sprecato).

I riff che ci scheggiano la pelle per i brevi minuti che ci accompagnano nell’ascolto dei cinque brani sono eccellenti in un certo senso prettamente estetico, ricercati quanto basta e orecchiabili ma devono sempre qualcosa a qualcuno, sia insospettabile (il riff del primo brano “Supermario” non vi ricorda niente?) sia troppo scontato (The Strokes, Placebo, tanto per fare qualche nome). Stesso discorso per la batteria che ricalca alla perfezione l’Alternative più vicino allo Stoner Rock. Tutto quello che sembra uscire dalle casse è un ovvio misto di Indie, Pop e Rock. La voce (che ricorda quella di Federico Dragogna) è discreta, molto migliorabile a dire il vero, soprattutto in fase di registrazione e i testi, come spesso accade nel mondo Indie, non rappresentano certo il punto forte di “Eppì”. I motivi sono nel complesso abbastanza immediati e facili, come di una band che cerchi il più ampio consenso. Ma a mio avviso i May Day non sono questi. Lo voglio credere. I primi venti secondi (non è l’unico momento, ovviamente) di “Vecchio” mi parlano di una band che ci sa fare e non di una band che vuole vendere. L’energia che schizza in alcune poderose virate Alternative Rock è quella di chi non vuole sfondare, ma vi vuole sfondare il culo. La strada devono sceglierla loro. Gabriele Serafini (chitarra e voce), Francesco Petrosino (Basso e voce) e Patrick Seguini (batteria) hanno in mano il loro futuro. Piacere a chi di musica capisce poco col rischio poi di non piacere a nessuno e diventare un’altra delle tante band che spariscono dall’Italia ogni anno. Oppure darsi da fare e mettere in musica tutta la loro anima creativa.

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