I romani Montecarlo Fire dopo una lunga gavetta durata dieci anni piena di live, colonne sonore per campagne di marketing, partecipazione a manifestazioni e festival, si presentano al pubblico con il loro primo lavoro finito, un album composto di dieci brani e intitolato Come il Giorno e la Notte. L’impressione generale ascoltandolo è di un album uscito in ritardo e rimasto forse per troppo tempo nella mente e nelle corde del gruppo. Fortemente legato alla musica italiana tra gli anni 80 e 90, come quella dei Litfiba ai tempi di Desaparecido, il sound di molti pezzi, come “Cerca”, “Il Buio” e “Nicole” risulta un po’ datato, nonostante la presenza di sporcature di chitarra e richiami più moderni. Riverberi, delay, tastiera sintetizzata e voce effettata sono le basi fondamentali che danno la direzione nella maggior parte dei pezzi, dalla classica ballad “Prendimi” alla più straniante “Lei”, mostrando una forte attitudine New Wave, corollata da atmosfere cupe e testi che raccontato le vicende di una generazione al confronto con una realtà precaria e frammentata, in perenne balia e prigionia di un’adolescenza senza fine. La band capitolina che può vantare un frontman e cantante, Albert Laspina, di madrelingua inglese e dalla voce piena e avvolgente, propone un mix di brani nelle due lingue, ed infatti è proprio nei pezzi in inglese come “Snow” e “Taste of Hate” che il gruppo e il cantato sono più convincenti e interessanti; l’uso meno preponderante e più oculato dei delay e del synth li avvicina a gruppi come White Lies e King of Leon. Come il Giorno e la Notte dei Montecarlo Fire è nel complesso un album suonato da professionisti e prodotto altrettanto bene, ma è un lavoro che ha lo sguardo rivolto verso il passato, legato a triplo filo all’esperienza della band e celebrativo di tanto lavoro, cosa che lo porta a suonare datato, quasi privo di slanci e sperimentazioni. Speriamo le capacità del gruppo riescano a trovare per il futuro nuova linfa e un maggiore sguardo in avanti.
Simona Ventrella Author
The Antlers – Familiars
Dimenticatevi tutto, le ferie, le non ferie, il mare, la spiaggia, le partite a carte, i selfie, il lunedì, il lavoro… prendete tutto appallottolatelo, accartocciatelo, insomma dategli la forma che volete e buttate via, recatevi nel vostro posto felice e rimaneteci per un paio d’ore, Questo è a grandi linee quanto vi serve per ascoltare Familiars l’ultimo lavoro full lenght dei The Antlers. Perdere le connessioni mi sembra la definizione migliore per questo disco nel quale, come di consueto per Silberman e compagni, la forma canzone, tradizionalmente concepita, si perde quasi completamente in un flusso emotivo, a favore di brani che si costruiscono su schemi di suoni che tendono a ripetersi, dove le parte orchestrale capeggiata dalla tromba di Darby Cicci, si ritaglia una parte molto importante di sostegno ed enfasi. Il risultato è un flusso musicale caldo e avvolgente ma mai caotico. La formula vincente sta proprio nel ricercato equilibrio tra struttura ed emozione, tra un basso che avvolge la melodia, la raffinatezza leggera del piano e la maestria nella gestione minimale dei synth, base imprescindibile per tutti i nove brani. Su questo tappeto di suoni palpabili come immagini e fortemente evocativi si stagliano i versi di Peter Silberman, drammatici e introspettivi, che uniscono un pervasivo senso di tristezza ad una forte analisi e conoscenza di se stessi, spinta al limite, fino al distacco da un proprio sé vecchio e irriconoscibile.
Un lento bruciare tra paranoie, fantasmi e redenzione, il tutto sussurrato, sottolineato attraverso l’uso del falsetto. Un ascolto catartico, dai suoni dilatati ed eleganti che ti proietta in un mondo soffice e doloroso con apici d’intensità in brani come “Doppelgänger”, “Director” o “Hotel”. Senza dimenticare il pezzo d’apertura, nonché primo singolo, “Palace”, che esprime appieno la sapienza e l’accuratezza con cui sono stati concepiti i brani che accompagnano l’ascoltatore dentro la storia, senza sovrastarla me prendendone parte, come una vera e propria colonna sonora con lievi arrangiamenti dal gusto Jazz. Nessun colpo di scena eclatante o cambi di direzione scuoteranno il lento percorso che da un palazzo interiorizzato si sviluppa per poi riflettersi su se stesso alla ricerca di un nuovo rifugio familiare. Diverso dai precedenti Hospice e Burst Apart, meno elettronico ed effettato, più orchestrale e minimale, alla ricerca di una morbidezza e leggerezza tipiche del sogno. Un disco da ascoltare con calma per apprezzarne la profondità e lasciarsi toccare le corde della propria emotività.
A Night Like This Festival
Metti un paesino di duemila anime vicino a Ivrea nel Canavese, magari con vicino un rilassante lago; mettici degli instancabili organizzatori e aggiungici tutti i volontari che riesci ad immaginare, tre palchi, quasi tremila persone, una buona dose di cibo e litri di birra e soprattutto, the last but not the least, una line up notevole composta da quasi venti band. Bene, ora immagina tutto questo calderone fotonico concentrato in un unico giorno. Sembra impensabile ed invece questo è successo veramente il 19 Luglio a Chiaverano, dove si è tenuto per il terzo anno consecutivo A Night Like This Festival. Un’edizione partita con grandi aspettative, che non ha deluso le migliaia di persone che hanno affollato il borgo piemontese, grazie ad una formula vincente basata principalmente sul binomio locale/internazionale. Il risultato è stata una line up varia ed equilibrata che ha miscelato i talenti del territorio come gli Yellow Traffic Light, gli Invers, i Niagara e i più conosciuti Nadàr Solo, a gruppi di respiro e peso internazionale con Austra, Slow Magic e The Soft Moon, senza ovviamente dimenticare nomi ormai affermati del panorama italiano come Soviet Soviet e His Clancyness. Un grande flusso musicale ininterrotto, un super tetris di gruppi e palchi, con incastri studiati per evitare eccessive sovrapposizioni, e non lasciare mai a digiuno lo spettatore. I live si sono avvicendati dalle 19.00 fino a notte inoltrata, seguiti da diversi dj set. Un vero tour de force per instancabili ascoltatori. Sul palco principale, chiamato il palco delle Colline, l’inizio è stato tutto rock e schitarrate con gli Wemen di Carlo Pastore e i Nadàr Solo. Conclusa l’esperienza Rock and Roll è stato il momento per l’attitudine Post Punk di prendere il sopravvento con l’energia diretta dei Soviet Soviet, una garanzia, e quindi la potente chiusura dei fratelloni americani, The Soft Moon, con il loro Post Punk dalle forti sfumature New Wave. Il tutto perfettamente alternanato con le sonorità Pop psichedeliche degli Hys Clancyness, non in formissima in questa occasione, e quindi con le atmosfere sintetico-siderali degli Austra, con la strabiliante voce di Katie Stelmanis, che all’improvviso ci catapulta nel bel mezzo di un rito ancestrale, con una perfomance impeccabile.
Il secondo palco, quello dell’esploratore, è stato fin dall’inizio, ad eccezione degli oscuri rockettari, nonché ottimi, Invers, un crescendo di synth giocosi e psichedelie, dalle elettro sperimentazioni dei Niagara, al Pop fresco e giovane dei Love The Unicorn, fino al momento dell’esibizione di Slow Magic che, indossata la usuale mascherona, nonostante si stesse sciogliendo, ha presentato un set immaginifico fatto di suoni, emozioni e accostamenti inusuali. Probabilmente lo spazio allestito e la mancanza di un’ambientazione hanno reso il tutto meno impattante ed esperienziale, ma il pubblico si è comunque dimostrato caldo e partecipe. Il terzo palco, quello del quieto vivere, lo spazio dedicato a emergenti e nuove proposte, è stato l’unico ad avere alcuni spiacevoli problemi tecnici dovuti a cali di corrente, che però non hanno fermato le band che si sono susseguite. La proposta in questo piccolo angolo ha spaziato molto; per citarne alcuni, dal Rock New Wave dei MasCara in set semi acustico, ai suoni più Folk e Blues dei Pocket Chestnut e al cantautorato di Johnny Fishborn. Dopo dodici ore di musica, e qualche zanzara di troppo, non si può che essere soddisfatti di aver partecipato a un festival così. A voler tirare le somme credo che l’anima di questo evento si possa facilmente riassumere nel vedere sullo stesso prato a pochi metri di distanza la tipica coppia residente, lei ben vestita e truccata, lui un po’ meno, con mini cagnolino annesso e dei giovani ragazzi svizzeri muniti di zainoni e bicchieroni di birra, godersi lo stesso spettacolo, sotto lo stesso cielo e davanti allo stesso palco. Speriamo che festival così continuino a essere presenti e portare grande musica. nel nostro paese.
Nadàr Solo (Theater Quinto Festival)
Nuovo appuntamento per il Theater Quinto Festival, e nuovo report per noi di Rockambula. Dopo l’entusiasmante serata che ha visto come protagonista Dargen D’Amico e il suo rap anomalo, si cambia registro e genere, per un live all’insegna dell’Alternative Rock nostrano. Gli headliner della serata sono i Nadàr Solo, il trio torinese, che dall’uscita dell’album Diversamente Come? sta girando lo stivale in lungo e in largo riscuotendo sempre maggiore successo e notorietà, grazie a un sound coinvolgente e immediato; ma facciamo un passo indietro. Parlavamo di serata improntata all’Alternative Rock e infatti il menù proposto dal The Theater ci offre la possibilità di ascoltare, come opening act, ben tre band del panorama milanese. Non è mai facile aprire un concerto e scaldare il pubblico, ma diamo atto che tutte e tre le band, che si sono avvicendate sul palco, hanno trasmesso la loro passione, con diverse perfomance ricche di energia. Primi fra tutti i Jana’s; al quintetto milanese spetta aprire le danze, facendosi apprezzare subito dal pubblico. La formula proposta sul palco è quella di un rock deciso e intenso, con una batteria incisiva, molto presente, a volte troppo, e una buona dose di attenzione nei confronti della melodia e delle liriche. Un mix tra brani inediti e cover, nello specifico “Sangue di Giuda” degli Afterhours e un’inconsueta e coraggiosa “Anna” di Battisti. Dopo un inizio a tutto gas si cambia formazione, è il turno dei Tales of Unexpected. Il quartetto ci piace, siamo sempre all’interno del territorio del Rock, ma con un passo diverso, le forti influenze Grunge si fanno sentire decise e il sound generale è più armonioso. Musicalmente il gruppo è interessante e propone brani ben impostati con un giusto equilibrio tra momenti più melodici e momenti più duri; unica pecca il cantato non sempre pulito all’ascolto.
Che dire, al The Theater si suona e anche bene. La terza band già dal nome dimostra il suo lato aggressivo e infatti i Killer Sanchez ci propongono un live d’impatto, con tante carne al fuoco e picchi vicini allo Stoner, che spesso però creano confusione nell’ascolto e il risultato live non è perfetto. Ci siamo, è arrivato il momento di fare una pausa per un veloce cambio palco. Tre band in apertura non sono poche da gestire sia per i tecnici, che si prodigano per fare in modo che tutto funzioni bene nei cambi e sia per gli ascoltatori un po’ impazienti. Nonostante un aperitivo musicale decisamente lungo nessuno ha mostrato segni di scoraggiamento e al momento opportuno si sono tutti radunati sotto al palco pronti per i Nadàr Solo. Si parte con un inizio strumentale, una sorta d’ intro, di quelle che mettono subito in chiaro le cose, e che portano un messaggio preciso: qui si fa Rock, siete pronti? Le canzoni scorrono veloci e il trio per tutta la durata dell’esibizione dimostra un grande affiatamento e un carattere deciso e ben definito, nonostante composto da tre personalità ben distinte, soprattutto nel modo di suonare, e di vivere il live. Cosi che Filippo, il batterista, finisce scatenato e senza maglietta, il chitarrista, Federico, rimane per tutto il tempo perfettamente concentrato e statuario nell’esecuzione, per arrivare fino all’irrequieto Matteo, che si contorce attorno al basso e al microfono. Un mix inaspettato che riesce a creare un live intenso e a dare anche al disco la giusta dose di forza e spessore. Semplicità e passione sono senza dubbio le qualità migliori che emergono al primo impatto, così come la voce di Matteo De Simone, dal timbro quasi acidulo, che ben si mescola con i suoni, senza però perdervisi dentro. D’altronde la qualità dei testi rappresenta un punto di forza di tutto l’album e non poterne cogliere il senso sarebbe un peccato.
Ci avviciniamo alla fine del concerto e in maniera inaspettata abbiamo la possibilità di ascoltare un nuovo brano inedito e a seguire il singolone “Il vento”, corredato dall’immancabile coro del pubblico, e che grazie al featuring con il Teatro degli Orrori ha dato una buona spinta in termini di visibilità a tutto il lavoro. Dopo un’abbondante ora di piacere, arriviamo alla conclusione, anche in questo casa lasciata ad una coda puramente strumentale, quasi liberatoria, una concessione artistica che mostra anche il lato genuino del gruppo. Che dire anche questa sera il The Theater e tutto il suo staff, sono riusciti a creare quella magia che solo i live possono dare, che ci sia poca o molta gente, che l’acustica non sia proprio quella della Royal Albert Hall, che sia venerdì 13 e il meteo non promette niente di buono. Niente di tutto ciò può fermare la voglia di portare avanti dei progetti musicali che contribuiscono a rivitalizzare anche una zona più periferica, come Rozzano. Non ci resta che aspettare la prossima puntata del Theater Quinto Festival, alla quale non mancheremo.
Time Zero – Silenzio/Assenso
Sulle ceneri calde e al grido di battaglia “post fata resurgo”, i The Banditi rinascono sotto il nome di Time Zero con una rinnovata line up e un nuovo album Silenzio/Assenso. La band romana ha affrontato un cambio importante di formazione che ha coinvolto voce e batteria e portato alla realizzazione di un album innovativo, che disegna una nuova rotta musicale dalla forte impronta elettronica. Messe nel cassetto le sonorità balcaniche, del precedente lavoro, le otto tracce di cui è composto Silenzio/Assenso ci catapultano in un mondo fatto da synth, sequencer e drum machine, nel quale s’innestano decisi elementi Rock alla Nine Inch Nails. Le liriche asciutte e taglienti, a volte feroci, contribuiscono a creare atmosfere dark e dare un mood sfacciato a tutto il disco. Un Songwriting ragionato che li avvicina ai nostrani Subsonica nell’attenzione verso le parole, con uno sguardo improntato al contenuto e alle immagini evocate da un lato, e al suono e al suo impatto sul risultato complessivo dei brani dall’altro. Nella mezz’ora abbondante di ascolto il quartetto romano ci regala molti pezzi interessanti che propongono inusuali soluzioni Elettrorock. Prima fra tutte, “Soluzione” è l’assoluta hit dell’album, ritmica, travolgente, parte in sordina per poi esplodere in un riff contagioso, che non ti scrolli più di dosso. “Cane”al contrario è la più sporca, nervosa e cattiva, e insieme a “Prurito” sono i due brani in cui l’attitudine Rock del gruppo prende il sopravento sull’elettronica, grazie ad una massiccia dose di chitarra distorta. “Satellite” e “Cellula” mantengono alto il ritmo sintetico e il livello di ballabilità, ma con risultato meno aggressivo e nevrotico. Chiude bottega “Varietà”, che in scarsi tre minuti riassume tutto lo spirito dei Time Zero spettinadoci con un attacco al fulmicotone, per poi lasciarci con un mix elettro prog, ritmicamente rallentato. Silenzio/Assenso rappresenta un’ottima prova musicale, originale, anche se non priva di alcune incertezze o scivoloni in alcuni brani causati da suoni datati, un po’ troppo 90ties. La scelta vincente è l’utilizzo della voce non distorta ed effettata, il timbro graffiante e metropolitano di Nicola Pressi crea e mantiene la giusta tensione che regge il gioco tra base elettronica ed elementi rock. Speriamo che questa rinascita possa rappresentare per i Time Zero una nuovo punto zero da cui costruire il proprio futuro.
Monaci del Surf – Monaci del Surf II
Il mondo della musica è percorso, fin dalle sue più remote e ancestrali origini, dalla diatriba tra serio e faceto, una discussione che ha ormai trasceso anche le origini della stessa. Musica impegnata vs musica scanzonata, da questo punto di vista la sfida infinita potrebbe risolversi, o trovare una svolta interessante, con un incontro di wrestling. Ma vediamone i partecipanti: da un lato, nell’angolo blu, la sacralità del messaggio impersonata dall’altissima figura di un monaco, asceta per definizione e portatore di saggezza, dall’altro lato del ring,un surfista californiano vestito solo con un paio di ciabatte e una camicia floreale, emblema della vita easy e libera. L’agguerrito incontro/scontro, energetico come una supernova in esplosione, fonde i nostri due sfidanti in un unicum quartetto che si fa chiamare I Monaci del Surf. Musicisti armati di chitarre elettriche, che a che al grido di Let’s Rock si scatenano per la gioia di scalmanati ascoltatori. Il loro nuovo, secondo, capitolo musicale della saga “monachesca” si chiama Monaci del Surf II. L’album non stravolge la filosofia del gruppo, ma abbandona al passato l’aspetto legato alle colonne sonore alla tarantino, per dedicarsi quasi esclusivamente alla realizzazione di reinterpretazioni in salsa Surf Rock di sigle televisive, temi famosi e brani d’annata. Unica eccezione all’interno delle quattordici tracce è il primo brano inedito “Que Viva la Fiesta”, strumentale per quasi la totale durata pezzo, marchiato a fuoco da riff di chitarre Surf e ritmi dal polveroso Messico, un mix da movimento di bacino assicurato.
La miscela messa insieme dai quattro luchadores è vivace e mette allegria, ogni brano è una sorpresa, spesso spiazzante a partire da “Il Pranzo è Servito” a “Benny Hill” passando per “Stadium”,cara ai tifosi di calcio del bel paese, toccando punte quasi parossistiche col la gelida Russia e “Korobeinki” meglio conosciuto come il tema di Tetris. Non manca un breve tributo alla venere tascabile Kylie Minouge con i cavalli di battaglia “Locomotion” e “Can’t Get You Out of My Head”. Un vero e proprio tour tra il gli anni 90 fatto di tormentoni, ricordi nostalgici e un pizzico di gusto trash, infatti incappiamo nell’immancabile cover di “Sweet Dream” e “Better of Alone” di Alice dj. La ricerca della cover perfetta sembra essere il pallino dei quattro monaci e sul finire di quest’album danzereccio ci propongono una nuova versione di “Have Love,Will Travel” dei The Sonics, che credo conti oramai più di tredici cover ufficiali, una “Teach Me Tiger” con la suadente voce della giovane Levante, a cui diamo un dieci per il confronto con April Stevens e l’intramontabile “Senza Fine” di Gino Paoli, che a malincuore in questa nuova veste elettrica perde molta della sua bellezza e viene svuotata dal sua fascino armonioso. I Monaci del Surf sono degli ottimi musicisti, energici e trascinatori di folle, con uno spirito solare e scanzonato e uno stile ben definito asciutto e non pretenzioso. Capita però che ai brani manchino degli spunti davvero originali e variazioni sul tema. Il disco diverte e si fa ascoltare con piacere, ma la scelta dei brani, sebbene molto riconoscibili, penalizza le potenzialità del gruppo. Se ripensiamo alla sfida inziale in questo volume II il surfista ha preso il sopravvento sul monaco, con una mossa speciale, ci toccherà aspettare per scoprire chi vincerà il round finale.
Borghese
Il centro Italia come fucina di validi artisti è uno dei paradigmi musicali, che negli ultimi anni si sta configurando e imponendo, non solo come opinione personale, ma anche come sostanziale realtà di successo. Fa parte di questa ondata di freschezza un artista che, tra le pagina di Rockambula e non solo, ha riscosso un notevole interesse, che sta girando l’Italia con una serie di live show, è prossimo alla ristampa del disco e molto altro ancora. Conosciamo meglio Borghese e il suo album L’Educazione delle Rockstar.
Partiamo dalle domande semplici: una pistola, un passamontagna e una 24 ore, sono questi gli oggetti che hai scelto per raccontare l’immaginario di Borghese. Da cosa nasce questa scelta e cosa rappresentano per te questi oggetti?
La 24 ore è il simbolo di quello che sono nella parte della giornata in cui non mi occupo di musica, diciamo una metafora della quotidianità che ognuno a modo proprio cerca di sublimare o di sfuggire. Il passamontagna è una scommessa aperta con un sedicente produttore con cui ho avuto a che fare prima di entrare in TouchClay Records, il quale diceva, riferendosi alla mia musica, che c’era bisogno di una certa faccia per avere dei risultati in musica; evidentemente non alludeva alla mia. Ho pensato di uscire col mio progetto allora senza alcuna faccia: una provocazione e al tempo stesso una sfida. La pistola giocattolo è il trait d’union di tutto: mi sentivo un infiltrato in clandestinità nel mondo della musica che come arma poteva disporre solo della voglia di giocare e un certo sense of humour.
Prima abbiamo citato il passamontagna; per Borghese l’anonimato e il mascheramento sono il simbolo della spersonalizzazione dell’individuo e della dissimulazione della realtà o un semplice espediente visivo per catturare e colpire l’attenzione di un pubblico distratto?
Come ho già detto la mia era solo una provocazione ad personam, principalmente una rivalsa nei confronti di una concezione estetizzante della musica, che oramai reputo superata (e persino stupida se proposta da un soggetto organico allo show business come può essere un produttore). Solo in seconda battuta il significato è stato dall’esterno globalizzato e politicizzato: mi sentirei di dire che la valenza sociale del disco è stata “eterodiretta”. All’oggi, dopo sei mesi di concerti, di interviste e recensioni, e dopo che nessuno, tranne quelli che sono venuti in concerto a vederci, mi ha visto in faccia, mi piace il fatto di poter essere in un certo senso un Dottor Jekyll and Mister Hyde, uno Spiderman che ad un certo punto della giornata dismette i suoi abiti e diventa qualcosa di più affascinante. In pratica così facendo sono diventato un clandestino nella mia stessa vita.
In questi giorni è uscito “Bella Ciao”, il secondo singolo dell’album. Oltre a farti i complimenti per il passaggio su XL, mi piacerebbe sapere come è nata l’idea di riscrivere uno dei capisaldi, di quelli intoccabili, della tradizione musicale della lotta partigiana, tramutandolo in una dichiarazione di guerra contro la società moderna? Hai avuto più detrattori o sostenitori?
Più che un passaggio su Repubblica è stata un’autostrada percorsa con un TIR carico di tritolo: il nostro articolo ha fatto quasi 900 mi piace e diverse migliaia di visualizzazioni, molto di più di quanto abitualmente riesce a fare un emergente al primo disco: evidentemente il pezzo (lo ricordo per non passare per presuntuoso, non riscrive la “Bella Ciao” partigiana ma ne usa il titolo e le prime cinque note della melodia per parlare della fuga delle nuove generazioni dall’Italia) ha colpito forte un problema che ogni ventenne sente proprio. In quel pezzo, forse il più distorto di tutto il disco, rifletto sul concetto di fuga e di liberazione e come in Italia per una ragazzo oggi siano quasi coincidenti: per molti scappare da questo paese è una liberazione, non è un’alternativa, ma una necessità. Qualche polemica in effetti c’è stata, anzi qualcuno mi ha pure mandato a quel paese (per rimanere in tema), ma non mi stupisce, lo avevo messo in conto e in fondo anche cercato. Quelle due parole in Italia sono un dogma assoluto, che viene usato per manifestare oramai solo antagonismo di facciata; quei due o tre contrari saranno gli stessi a cui, dopo 20 anni di anti-Berlusconismo all’acqua di rosa, (di quell’antagonismo radical che si tura il naso quando sente l’odore forte del popolo), sta bene che due extraparlamentari (Renzi e mister B) di cui uno pregiudicato (Mister B.) scrivano la nuova legge elettorale nella sede del Pd.
Un altro brano che mi ha colpito subito al primo ascolto è L’Odore. Una contraddizione in termini in forma canzone: tematica forte e di denuncia contro la sensibilità delle parole e la delicatezza della musica. Un contrasto voluto, una scelta stilista o solo fortuna?
Contrasto voluto, of course, “L’Odore” parla di una vita sotterranea e scura, parla di segreti inconfessabili, di passioni che si dipanano nel buio. Parla di una relazione immorale, di un amore impraticabile che nonostante non possa essere esplicitato diventa insuperabile e poetico, proprio nei suoi lati più fisici, come appunto l’odore. Comprendo che è un pezzo che possa piacere molto ad una donna; le donne hanno un interiorità molto intricata, un’altra faccia della luna molto marcata, albergo di fantasie che tengono ben strette e che coltivano in segreto, rendendole sempre più magiche, quasi esoteriche. L’uomo no, l’uomo è un animale e basta, lo è da quando aveva una clava tra le mani e forse lo è ancora di più da quando impugna un iphone. Sono un femminista convinto, lo sapevi?
Abbiamo parlato molto dei testi e meno degli aspetti musicali. Sei uno di quei cantautori che compongono da sé anche la musica o ti sei affidato a dei collaboratori. Come nasce una canzone di Borghese?
Le modalità sono tre e mi permetto di elencarle dandomi la terza persona in senso di altera supponenza e rigido contegno. Borghese esce di casa di sera, beve e tornando a casa appunta i pensieri sghembi. Modalità due: Borghese esce di casa, prende un aereo o un treno per un viaggio e appunta tutto quello che succede in testa, mentre il terreno si muove sotto il suo culo (sono appena rientrato dalla Cambogia, quindi annuncio che il secondo disco è già praticamente scritto). Modalità tre: Borghese guarda una sit com in tv, appunta una battuta e riflette sul tema. Per quanto riguarda l’arrangiamento, in sala o in studio mettiamo a confronto le idee tra me, Giacomo Pasquali (chitarrista e deus ex machina della TouchClay Records) e Daniele “Verz” Domenicucci, drummer nonché ingegnere robotico nei ritagli di tempo.
Rockit ti ha definito un cantautore fuori moda e prossimamente aprirai un concerto de Le Luci della Centrale Elettrica; come ti poni all’interno del panorama Indie italiano e nei confronti dei tuoi colleghi cantautori. Ti definiresti più una mosca bianca o una pecora nera?
Cercherei di non farmi accostare ad alcuna pecora, non è un animale molto popolare dalle parti nostre (Abruzzo ndr). Le pecore le infilziamo con dei bastoncini e ce le mangiamo. E nemmeno alle mosche che come è noto hanno molta affinità con le deiezioni organiche. Preferisco, se proprio devo essere associato ad un animale, preferisco essere me stesso, l’unico uomo che amo, nonché l’unico animale che viva con me dentro casa mia.
L’arte della provocazione e dell’ironia sono il tuo biglietto da visita, ma quanta rockstar e quanta ideologia ci sono, se ci sono, dietro Borghese?
Forse in realtà non c’è né la rockstar né l’ideologia in me e questo mi solleva un po’, considerato che sono due categorie vecchie su cui ormai si può e si deve scherzare su. L’ironia mi appartiene davvero, il distacco ironico è fondamentale nel mio approccio alla creatività ed alla giornata stessa. Senza la buona dose di ironia pensi che ci sia qualcuno che oggi potrebbe mettersi una cravatta senza sentirsi un cappio al collo, un camice senza sentirsi un macellaio o una tuta da lavoro senza sentirsi uno schiavo? Ci vuole molta ironia per vivere il presente di questi anni.
Ringraziandoti per questa intervista non posso non farti il classico domandone finale, quali sono i progetti futuri di Borghese e dove possiamo trovarti o vederti?
Al momento siamo impegnati in studio, ci siamo messi in mente di ristampare il disco aggiungendo tre bonus tracks con collaborazioni (per gli amanti dei termini anglosassoni, featuring) con artisti che ci stimano e che stimiamo. Poi da metà di marzo ripartirà il tour che, come abbiamo fatto nei mesi scorsi, toccherà il Nord, il Sud di questa pazza Italia. Su internet siamo dappertutto: sul bellissimo sito (ad opera di Giuseppe Zaccardi) www.borgheserock.it , su fb: www.facebook.com/borgheserock.it. Inoltre se volete sapere di più su google potrete trovare tutta la corposa rassegna stampa de “L’Educazione delle Rockstar” visto che dal Manifesto al Fatto, da Rumore a Rockit hanno parlato tutti quanti, e bene, del nostro esordio.
Aldrin – Educorum
Lo spazio, l’universo, le stelle hanno da sempre attirato l’attenzione e l’interesse dell’uomo che a sua volta si è cimentato fin dall’alba dei tempi a dare un senso all’infinito cosmico, fisici, astronomi, teologi, filosofi e perfino musicisti. I romani Aldrin, anche loro vittime del fascinoso cosmo, rientrano decisamente nell’ultima categoria, sebbene si siano scelti il nome dell’astronauta americano Buzz Aldrin, che toccò per secondo il suolo lunare. Il loro nuovo lavoro Educorum, il terzo per la precisione, sarà disponibile e scaricabile gratuitamente online dal 22 marzo. Sei tracce di Instrumental Rock con un lavoro ritmico e di chitarre prominente e creativo, volto a creare atmosfere dilatate e definire spazi imprendibili, ma allo stesso tempo consistenti e reali. La ricerca dei suoni e delle soluzioni ritmiche sono il punto focale dell’album che sopperisce all’assenza, quasi totale, del cantato o al suo uso non tradizionale, quando presente. Curiosa la scelta dei titoli, una semi contraddizione interna, che invece di lanciarci nell’iperuranio immaginifico ci portano in luoghi fisici e attimi del quotidiano, come se tutta la forza verbale dei testi mancanti fosse sintetizzata nei titoli, che velatamente sono più amari e critici dei suoni.
“Mara Caibo” è un esempio calzante, il titolo è immediatamente associato al più famoso tormentone raffaelliano, ma il quartetto romano sviluppa il tema a modo proprio, dando gande spazio al ritmo della batteria e alle lunghe ripetizioni inframmezzate da cambi decisi di ritmo. L’apice del brano, che detta una decisa svolta, è la registrazione di una delle tante bagarre televisive di uno dei tanti reality show nostrani, dopo questo momento ricco di intensità, il brano si chiude rallentando e ritornando al suo principio, chiudendo il cerchio e dando un senso alla citazione. Lo stesso meccanismo si ritrova, forse in maniera meno evidente, in “Non ti si È Visto più giù al Bar”con un inizio esplosivo e ritmato da Rock ribelle, che via via sparisce in un gioco più intimo e slow in cui le chitarre cedono il passo ad un basso più presente. Si prosegue con “Il Mio Hair Stylist”e ”I Signori della Sinistra”, entrambe morbide ed eteree, con un’impronta più marcatamente Ambient e vicine allo stile dei Mogwai, la prima disturbata dall’incursione di una voce femminile che da un lontano autoparlante ci ricorda di dover amare le persone, e la seconda che chiude l’album lasciandoci in tensione verso quel misterioso infinito, oscuro e lontano, che ci avvolge e ci attira. Gli Aldrin con Educorum ci consegnano un album ben fatto suonato con capacità, ricercato nei suoni e nelle atmosfere, per un ascoltatore di nicchia alla scoperta dell’universo.
7 Training Days – Wires
Una conferma di come il Centro Italia sia sempre più una fucina di band promettenti e con ottime capacità.
Continue ReadingRego Silenta – La Notte è a Suo Agio
Prima prova sulla lunga distanza per i Rego Silenta, quartetto di Romagnano Sesia che ha presentato a gennaio il primo full length La Notte è a Suo Agio. Il disco completamente autoprodotto rappresenta, per i quattro piemontesi, la sintesi di quasi dieci anni di attività, dagli inizi come cover band, fino all’attuale formazione. Dieci anni di lavoro, live, sperimentazioni musicali e di generi tutti raccolti in quattordici brani, che danno vita a un lavoro molto ricco, probabilmente in maniera eccessiva, in cui si incrociano molte influenze diverse e una varietà di stili che, se da un lato sicuramente fanno emergere l’ottima padronanza e preparazione musicale del gruppo, dall’altra parte ne appesantiscono l’ascolto. La Notte è a Suo Agio può essere definito un concept album, che basa lo storytelling sulle tematiche legate al sogno e le divide in quattro momenti ben distinti: il dormiveglia, la sensazione di cadere, il diversamente incubo, infine nell’ombra. Un taglio narrativo prevalentemente intimistico e noir, che predilige l’incubo, il tormento, i toni scuri e cupi della notte, alle candide nenie e alla dolcezza del riposo.
In questo viaggio onirico, tra stati d’animo in notturna, metafora di un più ampio percorso esistenziale, i Rego Silenta spaziano e attingono a piene mani dalla loro storia, passando dalla denuncia sociale di “Beni Primari” e“Può Essere Paura”, brani ispirati al Rock italico degli anni 90 degli Afterhours e dei Litfiba, all’apripista “L‘a(m)issione”, ballata Rock dal gusto più moderno sulla falsa riga dei Ministri. Proseguendo nell’ascolto troviamo il momento di rottura duro e crudo con lo Stoner di “Guardando in Terra Mentre Defecavo” e la psichedelia ipnotica di “Un Pretesto”, uno dei brani più toccanti, che con il recitato del cantante e un finale in crescendo che ricorda lo stile dei Massimo Volume. Passo falso nel Folk Balcanico con “Rumore” dove la massiccia aggiunta di fiati ci porta diretti in una piazza dell’Europa dell’est.Per fortuna lo scivolone rimane un episodio isolato e subito dopo siamo nuovamente riportati alle atmosfere Rock, più consone al quartetto, con “C’è una Menzogna” e il brano di chiusura “Elogio alla Banalità”. La Notte è a Suo Agio è un disco d’esordio nel complesso pretenzioso, soprattutto per lunghezza ed eccesiva varietà della proposta musicale. Un eccesso di zelo, di chi ha voglia di mostrare, per la prima volta, tutta la propria storia e le proprie capacità, ma che lascia, in questo modo, l’ascoltatore confuso e distratto rispetto all’intensità della scrittura e alla bravura dei musicisti.