Stefano Capolongo Author

Landlord – Aside

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Scrivere dei Landlord senza citare la loro partecipazione ad X-Factor sarebbe inutile e controproducente, nonché sintomo di incoerenza intellettuale. Se spesso queste “fortune” si rivelano in realtà controproducenti per artisti e band, stavolta stiamo assistendo ad un’interessante eccezione.
Portatori di un sound pulito e preciso, di soluzioni melodiche interessanti – anche se non rivoluzionarie – e di una delicata voce femminile (Francesca Pianini), i quattro di Rimini hanno potuto, grazie alla enorme cassa di risonanza della prima serata, portare nelle case degli italiani un sound diverso dal solito prodotto impacchettato e pronto all’uso da consumarsi in pochi mesi. I Landlord hanno davvero qualcosa da dire e cominciano a scrivere la loro storia con un EP dal titolo sibillino Aside fuori per INRI (e scusate se è poco).
Cinque tracce per poco più di venti minuti sono sufficienti a scrollarsi di dosso la pesante eredità televisiva: Let me tell you I don’t care about it / Leave it behind, get by, get by è il ritornello dell’opener “Get by” e sembra ribadire più volte questo concetto. I Landlord confidano nella bontà del proprio progetto e non abbandonano la strada maestra (in “Still Changing” il termine “stay” è ripetuto molte volte) facendo di un’elettronica sapientemente addolcita il proprio marchio di fabbrica. Royksopp, Arcade Fire e The National sono tra gli ispiratori del quartetto ma nessuna di queste influenze è così evidente da risultare sgradevole o troppo presente, tutto appare in perfetto equilibrio.

Aside è solo un assaggio di qualcosa che si preannuncia esplosivo, nonché il perfetto compromesso tra Electro, Trip-Hop e Pop, laddove quest’ultimo fa rima con ricercatezza e distinzione.
I Landlord preferiscono restare, almeno per ora, volutamente Aside e far leva sulle proprie possibilità, forti di una capacità compositiva superiore alla media e di un’attitudine elegantemente Pop che li rende padroni di un linguaggio di respiro internazionale.

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Explosions in the Sky – The Wilderness

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Oltre quindici anni di carriera alle spalle, sette album all’attivo, quattro colonne sonore tra cinema e TV e la consacrazione nell’olimpo delle migliori band post rock di sempre. Cos’altro chiedere agli Explosions in the Sky dopo un lavoro eccellente come Take care, take care, take care, la cui apertura e rottura col passato aveva cominciato a scalfire l’unicità dei Mogwai? Ebbene, le vie del Post Rock sono infinite così come sembrano essere le frecce nella faretra di Hrasky e soci che, senza troppi fuochi d’artificio, dopo cinque anni dall’ultimo lavoro in studio sfornano The Wilderness.
Un titolo secco e preciso e una scelta non usuale per i quattro texani che apre le porte della nostra percezione su una landa selvaggia che però, a detta dello stesso Hrasky, non proviene da nessuna esperienza di vita à la Into the wild e si configura come mezzo per creare la sensazione di un viaggio dove le cose non vanno nel modo in cui ti saresti aspettato.
The Wilderness, seppur ben ancorato all’aspetto strumentale chitarristico e marchio di fabbrica della band, spesso riluttante ad un uso massiccio dell’elettronica, appare come un album innovativo. L’accoppiata “The Wilderness” – “The Ecstatics” racchiude il core sound dell’intero lavoro ed è qualcosa di sorprendente nel suo essere così lontano e allo stesso tempo così vicino alla loro tipica eleganza. Lungo le nove tracce di The Wilderness si possono apprezzare dei richiami vaporosi agli anni Settanta (“Logic Dream”) che ne dimostrano la profondità e l’accuratezza sonora. “Disintegration Anxiety”, che divide il tutto a metà, è una corsa contro il tempo in pieno stile EITS, “Colors in space” conclude la sua cavalcata trionfale in un’estasi mistica che apre alla splendida, finale e riflessiva “Landing Cliffs”.

Un sound positivo che conduce per mano tra luoghi, persone, ricordi, parole, voci e rende The Wilderness un disco satellite rispetto ad un ascoltatore ormai in continuo movimento.
Le parole di Michael James su John Congleton, storico produttore della band , ben fotografano la situazione della band e la gestazione di questo disco: “Ok John, sei stato un tipo strano per tutto questo tempo. Facciamolo ancora più strano.” E l’abbiamo fatto!.
Se il Post Rock è ancora un pasto digeribile è anche merito loro.

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Pugaciov Sulla Luna – Freestanding

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Tesoro, arrivo sulla Luna e ritorno: i Pugaciov sulla Luna sono di nuovo tra noi. Dopo l’omonimo EP, confortante esordio del 2014, è arrivato il primo LP che reca un titolo esegetico, Freestanding.
Ma a quale tipo di libertà e autonomia si riferisce la band trentina? Innanzitutto stilistica. Arduo riuscire ad associare le dieci tracce ad una corrente precisa e circoscritta quanto invece più agevole considerarle come il frutto di tante esperienze diverse canalizzate da una forte carica spirituale e, pertanto, spiccatamente simboliche. La copertina sarebbe già di per se degna di un trattato di simbologia. Un robot che tra fili e circuiti (e un corpo che ricorda vagamente il Millennium Falcon) mostra occhi umani e un’espressione clownesca e che sembra stia per pronunciare qualcosa. Qualcosa di importante.

I Pugaciov non vogliono svelarci tutto subito e si sentono padroni di un’altra libertà, quella della discrezione. Poche notizie, qualche reticenza, zero divismo.
La messa a fuoco però arriva in fretta, giusto il tempo di assaggiare le tante contaminazioni presenti nell’album. Dal Garage (“Look!The World!”) al Post Rock (“Chains and wings”), dall’Alt (“Testa di cristallo”) al quasi Folk (“Freestanding”) e più in generale una scorpacciata di anni ’90, non importa che sia il Grunge degli Screaming Trees, il Noise dei Sonic Youth o l’Indie Noise dei Dinosaur Jr., tutto si colloca perfettamente nelle metriche di Riccardo Pro e soci dando vita ad un lavoro d’impatto ed equilibrato di cui “John Coltrane Twisting Blues” risulta essere un’esaustiva summa.
Non è solo per quell’intro un po’ ruffiano à la Indochine né per il faccione androide in copertina che questo disco suona così affascinante: c’è tanto, molto di più. Freestanding è la prova che si può fare centro unendo misura, savoir-faire e un pizzico di attitudine weirdo.

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Atom Made Earth – Morning Glory

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A distanza di due anni da Border of Human Sunset  tornano i marchigiani Atom Made Earth con il loro Progressive 2.0.
Ambient, Post Rock e Psichedelia si rincorrono in Morning Glory, uscito il 7 Gennaio 2016 per Red Sound Records e album che si allaccia all’episodio precedente per stile e scansione ma che segna una decisa falcata in avanti per la band.
Quando si va a ficcare il naso nell’enorme calderone del Post Rock si rischia spesso di bruciarsi, andando ad incensare lavori che, seppur qualitativamente validi, peccano enormemente di originalità e personalità. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che gli Atom Made Earth trasmettono ad un primo, superficiale, ascolto. Il sound è vario e balza sapientemente tra un’epoca e un’altra senza sbavature. Dalle tiratissime ed esplosive atmosfere in stile Explosions in the Sky e Mogwai di “Thin” e October Pale si passa a “Reed” al cui interno respirano chiaramente i Public Service Broadcasting. Ma è con estrema scioltezza che i ragazzi sanno tornare agli anni ’70, quelli che hanno visto nascere il genere: dagli Arti e Mestieri o Area di “Baby Blue Honey” si passa a certe suite stile Colosseum/Caravan di “Stac”. La lista di reminders potrebbe allungarsi ma ciò non toglierebbe freschezza all’album, solido del suo personalissimo trait d’union progressivo.
Andando più a fondo, però, ci si accorge che la volontà della band anconetana non è quella del mero esercizio di stile o quella di compiacere i maestri quanto piuttosto quella di creare un proprio linguaggio adatto ai complicatissimi anni ’10. Parlare ancora oggi di Progressive classico sarebbe anacronistico e gli Atom Made Earth ne sono consapevoli perciò decidono che la creazione di nuove tematiche debba ripartire proprio da un’epifania come la gloria del mattino, in qualunque accezione la si voglia interpretare.
Lo stile a cavallo tra varie decadi trova una nuova via d’uscita in un Post Rock da soundtrack che ben si adatterebbe, per restare fortemente attaccati al presente, ad una serie televisiva americana.
La strada è lunga ma il bagaglio è ben pieno. Sentiremo parlare di loro.

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Morning tea – No Poetry in It

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Avevamo lasciato Morning Tea, moniker sotto il quale si cela Mattia Frenna, due anni fa con Nobody Gets a Reprieve (Sherpa Records), suo promettente e brillante disco d’esordio. Da allora un denso tour italiano e la presenza al Birmingham Popfest uniti ad un ottimo riscontro di critica hanno alimentato il fuoco creativo del folksinger milanese. Uscirà a febbraio, ancora una volta per Sherpa Records, No Poetry in It, giusto e naturale prosieguo del primo lavoro in studio. Il titolo dell’album, tanto evocativo quanto esplicito, ci parla di squarci di vita vissuta, istantanee di storie personali raccontate in modo diretto e asciutto. Non c’è nessuna magniloquenza nelle parole di Frenna, quanto piuttosto la ricerca di un ermetismo sia melodico sia testuale. “Florence” ne è una dimostrazione lampante: divisa tra il piano ed esplosioni Noise Elettro sintetizza il testo in uno statement glaciale: “I miss something/I miss something/I miss something/I miss something/I just don’t know what the fuck it is”. C’è tanto ricordo e qualche elemento di nostalgia nelle parole di Morning Tea e quelle corde appena pizzicate, il lieve tocco sui tasti del piano in “Letter to a Friend” e “Sad song” o, ancora più esplicitamente, nella stessa “No Poetry in It” arrivano a toccare il cuore di chi ascolta, riuscendo ad entrare nel suo complesso mondo interiore. A metà tra ricordo, perdita e un pizzico di speranza Morning Tea si confida come ad un vecchio amico, senza troppi giri di parole. No Poetry in It è un disco in antitesi col suo stesso titolo in cui la poesia è il racconto stesso della vita nel suo incedere, raccontata in maniera diretta. Una scelta vincente.

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Brother and Bones – Brother and Bones

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Prendete quel sound sporco ma preciso americano tipico dell’epoca Post Grunge, calatelo su cinque ragazzi della Cornovaglia che puntano a diventare immortali come Braveheart con le loro canzoni e avrete i Brother and Bones. Giunti al loro album d’esordio omonimo nello scorso agosto, gli inglesi (già opening act di Bastille e Ben Howard) stanno intraprendendo un lungo tour che vede toccata anche la nostra penisola (Milano e Torino). Ma cosa portano sul palco i Brother and Bones? Prima di tutto storie, raccontate in maniera epica ma incredibilmente vicine alle vicende quotidiane di tutti. “Omaha” ne è l’esempio più luminoso: cavalli neri al galoppo, citazioni bibliche, muscoli e testosterone si mettono al servizio di una narrazione spettacolare e intima allo stesso tempo che ci narra dell’essenza stesso dell’essere umano. La formula classica doppia chitarra-voce, basso e batteria consente alla band di spaziare tra vari ambienti passando attraverso porte che recano nomi come Pop, Grunge, Folk, Indie. La batteria si incendia grazie al combustibile di “Kerosene” che apre le undici tracce e ci parla di un amore vissuto a mille all’ora; la timbrica di ispirazione Cornelliana ci trasporta immediatamente in un’altra dimensione. Proprio giocando con le sue variazioni, i B&B riescono a rimanere attuali e moderni pur serbando un sound ormai lievemente datato. Declinando voce, chitarre e timpani al 2015 escono vincitori sia in momenti particolarmente raccolti come “Save you Prayers” e “For All We Know”, sia in situazioni dove si schiaccia di più l’accelleratore (“Crawling”, “Everything to Lose”). Freschezza dunque, coperta però da un lieve velo di nostalgia per il passato che, se in questo Brother and Bones può essere segnalato come valore aggiunto, nel prossimo lavoro dovrà necessariamente essere assimilata e messa in bagaglio. Al primo full length non ci si aspetta una qualità così elevata ma, complici anche gli ottimi East West Studios di Los Angeles, tutto ci appare già come un prodotto completo e credibile. I ragazzi sono la perfetta band da locale, dove si suda e si beve birra fino a perdere i sensi. Adesso però i grandi palchi li stanno aspettando e loro sembrano essere ormai pronti.

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L’Introverso – Una Primavera

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“Mi rialzo da me, mentre affondano i marciapiedi”. L’Introverso da Milano stanno per dare alle stampe il loro primo album, Una Primavera, lavoro che parla di sconfitte incassate e di immediate resurrezioni con un taglio Brit Pop, Indie Rock. Dall’opener “Tutto il Tempo”, gradevole presa di coscienza di stampo Coldplay (anche se a loro piacciono gli Oasis)  si passa a “Manie di Grandezza”, pezzo con volontà catchy dal ritornello orecchiabile che risulta essere il brano centrale del lavoro ma che non riesce a pieno nell’intento del singolo spaccatutto, vittima di un eccessivo controllo e determinismo. D’improvviso però ci troviamo di fronte ad un calo, un freno a mano fisiologico poco motivabile che una band apparentemente “macchina da guerra dal vivo” non può di certo permettersi: “Il Finestrino” parla (anche) di sesso in macchina ma non percepiamo nulla di un momento così intimo; “Uguali” sceglie un arrangiamento irritante di stampo sanremese come anche “Prima o Poi”. Cosa succede, quindi? I quattro di Milano, e questa è una nota di gran merito, hanno ascoltato, studiato e fatto proprie molte formule tipiche del Brit Pop senza però, e questo è il problema, riuscire a plasmare  un prodotto nuovo e fresco e rimanendo spesso aggrappati a un certo Pop melodico italiano da (bassa) classifica. Ma non tutto è perduto, un disco va ascoltato fino alla fine per dare un giudizio. Sai che c’è, potrebbe andare meglio e credimi avrei diritto al meglio. Sento di rinascere, da oggi voglio una primavera per me: questo estratto dalla traccia di chiusura “Primavera” racchiude l’essenza di ciò che L’Introverso vuole esprimere. Semplicità, molto contenuto e una poetica diretta e precisa che, insieme a “Estranea” (dentro c’è tanto Marlene Kuntz) va a risollevare le sorti di un lavoro indubbiamente sopra la sufficienza ma a tratti incomprensibilmente tedioso. L’introverso ha idee, know-how e voglia ma per arrivare dritti al cuore dell’ascoltatore (come afferma lo stesso Nico Zagaria, voce della band), magari proprio come un “Pugno allo Stomaco”, bisogna liberarsi dalla gabbia virtuale e cercare di osare sempre di più.

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Alessia Luche – Talent Show

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Se ci limitassimo a parlare degli arrangiamenti che formano l’ossatura di Talent Show, il nuovo disco di Alessia Luche risulterebbe un lavoro gradevole e innocuamente delicato. Gli sprazzi Funk in “Trasformazioni di Me” e “Io Vivo nella Musica” sono la porta d’ingresso di un album che si presenta in maniera ingannevole come chiassoso e avventuroso. La speranza dunque è che Talent Show sia, giocando proprio sull’antitesi, deputato a spazzare via l’ombra ingombrante della partecipazione alla pattumiera televisiva che risponde al nome di Amici di Maria de Filippi. Niente di più lontano dalla realtà. Dietro alle strisce colorate della copertina c’è il grigiore comunicativo di chi parla di cambiamento ma non riesce a scrollarsi di dosso la formula stantia della ballata d’amore, peraltro priva di contenuti. Ne sono la prova la pausiniana “Amori Imperfetti”, la ammorbante “Amsterdam” e “Suppergiù”, dove non è di certo la presunta atmosfera vaudeville a salvare capra e cavoli. L’unica nota di colore vera e prepotente è relegata all’ultima posizione della tracklist. Quella “At Last” di Etta James, eseguita con la jazzista Erika Kertész racchiude le vere radici di Alessia Luche che fuoriescono senza patinature e arrivano dirette nella loro semplicità.
Dov’è questa “Gioventù delle Idee” da lei stessa cantata? A cosa serve costruire un personaggio tra siti web, piattaforme streaming, social e videoclip se poi il prodotto è poca cosa? E’ la logica del talent; Alessia Luche ha ottime potenzialità ma un album come questo finisce per svilirle. Onore alla band, impeccabile sotto ogni punto di vista, ma Talent Show è un disco di cui non sentivamo davvero il bisogno.

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La Sindrome di Kessler – La Sindrome di Kessler

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Pezzi al limite dell’imitazione di Afterhours (“Fanfarlo”), Marlene Kuntz (“Parabola di un Desiderio”) e Virginiana Miller (“Le direzioni”) potrebbero, ad un primo ascolto, non essere un buon biglietto da visita per La Sindrome di Kessler. Il primo album della band campana prende spunto dall’omonima teoria americana secondo cui l’enorme mole di detriti spaziali e l’effetto domino scaturito dalle loro collisioni potrebbe causare l’impossibilità di utilizzare satelliti orbitanti intorno alla Terra per le prossime generazioni.  Il caos. Tuttavia il disco sembra molto più ordinato di quanto il nome non suggerisca e, superata l’empasse dovuta ai forse troppi reminder, avviene la vera deflagrazione. “La Detonazione delle Nuvole” è il punto di rottura in salsa Post Rock che spinge la bellissima “Sinuose Alterazioni” a spiccare il volo, raccontandoci cosa è l’inafferrabile e quali siano le sue conseguenze. “Una Carezza in un Pugno” è il fulcro su cui si basa l’intero disco: la spigolosa e mai celata vena Grunge rimarcata dalle doti canore di Antonio Buomprisco racchiude passione sensuale, quasi un culto. La sindrome di Kessler è una prece, un grido d’aiuto ma nello stesso tempo una liberazione e l’inizio di qualcosa di nuovo. Per la band è anche l’inizio di qualcosa di bello, la strada giusta è stata già imboccata.

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Misfatto – Rosencrutzis Dead

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Sono passati ormai venticinque anni dalla prima apparizione in studio della trip-rock band piacentina Misfatto. Era proprio il 1990 quando vedeva la luce Il Peso dell’Innocenza, album nato in pieno periodo grunge. Di quelle atmosfere i Misfatto sono sempre rimasti figli, portando avanti una carriera che ha visto anche la pubblicazione, a nome del chitarrista Gabriele Finotti, di un volume edito da Zona chiamato La Chiesa Senza Tetto, un romanzo gotico ispirato ad una chiesa di Lisbona rimasta in piedi dopo il terremoto del 1755. Proprio dalla compenetrazione di musica e testo del libro nascono gli ultimi tre album della band Heleonor, Heleonor Rosencrutz e Rosencrutzis Dead. L’ultimo lavoro, uscito a maggio, è dunque la chiusura naturale della trilogia iniziata nel 2013. Siamo di fronte ad un lavoro intenso, dove la perfetta fusione tra cantato e linee melodiche è l’obiettivo primario della band. Dalla dimensione quasi rarefatta di “Kamaleon” si corre verso la deflagrazione di “Rosencrutzis Dead”, brano manifesto della band, passando per la carica “Walking Down the Sea” che ricorda i migliori Skunk Anansie . La voce di Melody Castellari è una gemma incastonata tra riverberi e distorsioni che creano una densità compositiva strepitosa e una pienezza sonora assai gradita in tempi del ritorno di fiamma per li lo-fi. Rosencrutzis Dead non è un ascolto facile, almeno al primo play. Ascoltandolo varie volte però si scopre un mondo meraviglioso fatto di messaggi segreti e codici nascosti e si entra, a piccoli passi, in un’idea. Nel periodo della musica usa e getta, dell’ascolto mordi e fuggi, la riconoscibilità diventa un elemento sempre più importante per essere ricordati nel calderone dell’epoca moderna e i Misfatto, oltre a un equilibrio e una credibilità disarmanti, possono fare vanto di questa rara dote.


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Andrea di Giustino – Il Senso dell’Uguale

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Doti canore impeccabili al servizio di un delicato Pop italiano d’autore. A questa descrizione risponde il lavoro del cantautore sulmonese Andrea di Giustino, insegnante di tecnica vocale applicata e padre de Il Senso dell’Uguale, il suo nuovo album targato Hydra Music. Ma cosa è il senso dell’uguale? E’ la presa di coscienza che la vita non è solo come ci appare e tantomento come le nostre convinzioni la modellano nel tempo. Essa è fatta di mille sfumature ed è proprio di Giustino a dircelo nell’omonima traccia: “spostarsi a sinistra serve a comprendere che spesso la vita è questione di punti di vista”. Da questo concetto fondante si dipanano le nove tracce dell’album in cui ci sono due idee importantissime a fare da collante: la maturità e la conseguente consapevolezza. Perciò se ”Controindicazioni” è un guardarsi indietro e capire gli errori commessi in una storia d’amore, “Punto a Capo” è ciò che accade dopo un tale discernimento interiore, fino a capire che ciò che conta è “Morire Vivo” perché la vita offre un solo tentativo. Il linguaggio più usato è quello della musica d’autore. Spesso al cantautore bastano i tasti di un pianoforte per accompagnare le parole o un leggero riff in background. Notevole la scelta synth de “L’alchimista di Parole”, forse la traccia più interessante dell’intero lavoro. Il Senso dell’Uguale è un disco cauto, misurato e che non esce mai dagli schemi ma che centra perfettamente l’obiettivo prefissatosi. Parlare della vita e dei suoi mille punti di vista non è cosa semplice, specie se non si possiede un ricco vissuto. Andrea di Giustino, invece, ha molto da raccontare e sa come tradurre tutto in musica con l’eleganza di un artista consumato che punta sempre a migliorare se stesso.

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The Cave Children – Quasiland

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I The Cave Children arrivano direttamente dal buco nero della crisi europea ovvero quella Atene che fatica a trovare anche il benché minimo spiraglio di ripresa. Nonostante ciò, i toni del loro astrale debutto Quasiland risultano più colorati e positivi di quanto si possa immaginare. Il disco, uscito lo scorso 14 aprile per la greca Inner Earrecords, attinge a piene mani dai Novanta e Zero mescolando un’attitudine chiaramente Pop Brit Pop a derive di natura Dream e psichedeliche senza risultare mai indigeste. Al primo play ci accoglie la gradevolissima “Maybeland” con il suo basso ipnotico e il prezioso contributo dei fiati, probabilmente la migliore traccia tra le dieci di Quasiland. Nonostante l’apparente positività, a livello testuale non mancano i riferimenti alla drammatica situazione socio-politica greca che emergono in brani come “I Seedeath”, dove spicca prepotentemente la lessonlearned da Tame Impala e soci o l’accoppiata “Antigone”-“Metaphor”, la prima una dolce ballad di stampo Oasis e la seconda a metà tra i Weezer e i Blur. Tale commistione di generi, pur trattandosi di un esordio, risulta nel complesso discretamente riuscita sebbene necessiti ancora di una vera e propria fusione in un prodotto unico, nuovo e personale. Meritevole di menzione è la conclusiva “Vixentapes”, brano tiratissimo di ispirazione floydiana che fornisce in maniera più chiara un’altra volontà della band: la fede al lo-fi. La scelta viene proprio dai ragazzi greci, ovvero mantenere vivo il dogma della bassa fedeltà che aveva contraddistinto i primi demo. In Quasiland manca molto per arrivare ad uno standard qualitativo accettabile ma non dimentichiamoci di essere di fronte ad un debutto. Già molto è stato fatto, i ragazzi continuino per questa strada.

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