Vincenzo Scillia Author

Circle of Chaos – Crossing the Line

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Anche per quanto riguarda il Death Metal, cosi come per ogni altro stile musicale, se non sai dove metter le mani non vai a parare da nessuna parte, soprattutto oggi che c’è un’inflazione del genere e nascono band giorno dopo giorno, sempre pronte a scimmiottare i loro riferimenti, che siano In Flames, Dark Tranquillity o Ceremonial Oath. Si rischia di esser monotoni, palesarsi senza idee e automaticamente suonare noiosi; un pò come è successo agli Svedesi Circle of Chaos che, in questo secondo disco intitolato Crossing the Line, tutto hanno fatto tranne che metterci personalità utile ad evitare i problemi di cui sopra. Il disco esce a distanza di quattro anni dal modesto Black Oblivion ed è anticipato da un EP del 2012 che, detto sinceramente, lasciava presagire il successivo passo falso fatto dal quintetto. E non a caso, anche quel Two Heades Serpent si rivelò un lavoro sciacquo e deludente.

Con questo nuovo disco, sembrano essere centrate le tematiche, i titoli sono forti e d’impatto e la produzione è discreta eppure ci ritroviamo comunque con un sound trito e ritrito tanto che gli unici colpi messi a segno arrivano con le sole “Sign of insanity” ovvero la traccia d’ apertura, “Ascending Disorder”, “War N Terror” e “Blood for Blood”.  Queste citate sono, nel bene o nel male, le tracce con qualche particolarità in più, che sia un riff graffiante, un assolo più coinvolgente o una melodia genuina; il resto passa tutto inosservato. Di questo Crossing The Line l’ unica cosa veramente  interessante è l’ artwork: colpisce ed è piacevole anche se comunque è troppo poco per un disco che  non ci ha convinto per niente sotto l’aspetto musicale. I Circle of Chaos sono un gruppo con buone potenzialità, probabilmente basterebbe loro poco per creare, non certo un capolavoro ma almeno un disco più piacevole e ascoltabile. Lo stesso album d’ esordio aveva degli interessanti particolari sui riff e sulle melodie e la cosa non poteva che suggerire la presenza di buone basi e proprio quelle devono  essere sfruttate al meglio. Purtroppo questo Crossing the line è stato un passo falso ma non c’è da scoraggiarsi, il tempo c’è e le capacità permettono ben altro; siamo fiduciosi.

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Death SS – Resurrection

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C’è poco da fare, quando si parla di Steve Sylvester e dei suoi Death SS si spendono solo belle parole, questo perchè si va incontro alla garanzia e ci si imbatte in un marchio di fabbrica registrato. E’ vero che per la storica band tricolore gli ultimi anni sono stati poco positivi, non per questo sono reduci da una “sorta” di scioglimento e la reunion è avvenuta proprio grazie a Resurrection (la loro nuova fatica nonché oggetto principale della nostra recensione). Ogni opera dei Death SS ha sempre una singolare caratteristica che distingue il nuovo disco dal precedente; da sempre la loro bravura sta anche nel far differenza addirittura tra i pezzi stessi dell’album, ogni traccia rappresenta un’esperienza diversa, Resurrection ne è la prova. La proposta della band è la solita: Heavy Metal di alta qualità con riff, assoli, eleganti giri di chitarre e superlative atmosfere, nulla è messo da parte e i tanti anni d’ esperienza di Steve e soci hanno un peso specifico notevole. Come già detto in precedenza ogni pezzo ha un proprio punto di forza, una particolare caratteristica che rende particolarmente unica la produzione dei Death SS, una sorta di continua attrattiva verso ogni singola proposta del platter. “Revival”, ovvero la traccia d’apertura, è quella più elettronica dove l’ uso degli effetti e delle tastiere è davvero consistente, caratteristica presente anche in altri pezzi come “The Darkest Night” e “Star in Sight”.

Il contributo di Freddy Delirio è stato a dir poco fondamentale. “The Crimson Shrine” e “Dionysus” sono atmosferiche ballate che strizzano l’occhio al Gothic, anche in questo caso la band mostra chiaramente le mille sfaccettature di Resurrection, non tralasciando mai però le salde fondamenta dell’Heavy Metal. Un plauso speciale va alla coppia Freddy Delirio e Glenn Strange che, più di una volta, si rivelano parte fondamentale del disco, ascoltare la cupa e tendenzialmente horror “Ogre’s Lullaby” per rendersene conto. Passiamo ad un altro brano forte del disco di Steve Sylvester, si tratta di “Santa Muerte”, una song aggressiva che sfodera probabilmente i più bei riff dell’intero supporto. Resurrection è un lavoro dai mille volti, la genialità di Mr. Sylvester ne esce alla grande, è facile comprendere l’estro artistico di un artista dalle larghe vedute. Questi Death SS dopo tanti anni sono ancora in grado di sbalordire il pubblico, senza troppi giri di parole sono una vera e propria garanzia del genere in Italia.

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Artemisia – Stati Alterati di Coscienza

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Unire sonorità dedite allo Stoner Rock con quelle del Progressive è una cosa che gli Artemisia ormai sanno fare benissimo. Dal 2006 (anno di nascita del gruppo) ad oggi di tempo ne è passato e i ragazzi hanno acquisito esperienza e maturità, non è un caso infatti che Stati Alterati di Coscienza sia un disco degno di nota. Iniziamo a dire che attraverso i testi cogliamo una ricerca personale degli autori che con grande maestria riescono ad esporli attraverso lo studio di miti e leggende. E’ più o meno un viaggio all’ interno della propria anima, si passa dalla gioia alla paura, facendo di tanto in tanto apparire una sorta di spettro che potremmo inquadrare come una guida ed un ostacolo allo stesso tempo. Insomma parliamo di un lavoro di un certo rilievo non solo musicalmente ma anche per quanto riguarda le tematiche che lasciano ampio margine a personali riflessioni. Analizzando il sound del disco sentiamo subito dei graffianti riff mescolati a sgargianti giri di chitarra, ciò crea un suono a volte ruvido, a volte dolce e quieto. Basso e batteria sono ben coordinati mentre la voce di Anna Ballarin è un vero e proprio tocco di classe, a metà tra sensualità e rabbia, insomma, una chicca. Stati Alterati di Coscienza è un fiore all’ occhiello della discografia degli Artemisia, è un lavoro maturo che racchiude il sapere degli artisti, i testi lo testimoniano. “La Strega di Portalba” è indubbiamente un ottimo biglietto da visita che mette subito in chiaro le potenzialità del disco e del gruppo stesso. “Insana Apatia” mostra l’ interessante sbalzo piano/forte del disco (la quiete e poi la tempesta), è da questa traccia che si comincia a fare sul serio. La successiva “Il Pianeta X” mostra la vera anima Stoner degli Artemisia, anche in questo caso si alternano momenti dove si picchia forte con altri più fiochi. “Mistica” invece suona come un melodico e candido brano dove troviamo Anna davvero ispirata. Le ultime due canzoni che vale la pena citare sono “Vanità” che nei suoi cinque minuti mette in mostra il lato più tranquillo del gruppo e la conclusiva “Presenza”. Stati Alterati di Coscienza è un disco ben riuscito, Anna Ballarin e soci possono vantarsi di aver creato un disco di elevato spessore, i veri rocker potranno ritenersi soddisfatti.

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Crematory – Antiserum

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Potrei dire che i Crematory li conosco più per i loro anni di attività, la loro gavetta e i loro tredici dischi piuttosto che per un lavoro in particolare che si sia fatto notare rispetto agli altri.  Il difetto di questa band sta nel non voler azzardare; il gruppo teutonico è sempre stato sulle sue, a cavallo di una proposta Gothic Metal fatta di chitarroni e tastiere, standardizzato e prevedibile. Potremmo dire che il loro fu un andazzo rischioso se teniamo conto  che in terra dovevano fare i conti prima con pilastri come i Lacrimosa e i Lacrimas Profundere e successivamente con Eisheilig, ASP, Leichnweter e L’ Ame Immortelle.

Questo per dire che la proposta dei Crematory non è mai cambiata più di tanto nel corso degli anni anche se c’è stata qualche variazione in cui, il più delle volte, si riscontrava sulla melodia dell’ album e sulla lingua madre ma per il  resto non sono andati mai oltre; forse una speranza la diedero con Revolution nel 2004 ma non fu più di una illusione, si trattava di fumo negli occhi. Il problema reale è che non hanno mai spiccato per originalità, non dico che dovevano essere innovativi ma almeno un pizzico di personalità dovevano averla. Ora a distanza di quattro anni dal sufficiente Infinity, la band si rimette sul mercato con Antiserum un lavoro che ancora una volta non smentisce l’immobilità della band, anzi, addirittura sembra siano regrediti.

In questo disco sembra che i Crematory si siano addirittura adattati alla moda del Gothic Metal attuale: potenti riff che sono tutti dello stesso andazzo, un cantato in growl  che si posa su delle banali melodie create per la maggiore dalle tastiere ed un sound rimbombante degno delle più alte tecnologie del momento. Insomma anche in questo nuovo capitolo dei ragazzi teutonici non c’è nulla di nuovo, tutto è rimasto come era: nessuna nuova idea, nessun cambiamento solo musica trita e ritrita. Detto con sincerità, durante l’ ascolto non sono riuscito neppure ad individuare una traccia di spicco che facesse la differenza rispetto ad un altra. Sono all’ incirca venti anni che i Crematory sono in circolazione; saltando una piccola pausa che si sono presi verso il 2000, la band è comunque restata ferma senza cambiamenti o per esser più cattivi miglioramenti. La cosa dispiace perché in sede live i Crematory sono degli assi: sanno tenere un palco, sono bravi ad interagire con il pubblico e soprattutto sono degli ottimi musicisti. Speriamo di non ritrovarci in un “eterna illusione”, io personalmente continuo a  sperare, certo la fiducia e pochissima  ma non è mai detta l’ ultima parola.

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Cripple Bastards – Nero in Metastasi

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La storia del Grind italiano ha un nome: Cripple Bastards. Dal 1988 sono l’emblema della sfacciataggine, dell’onestà, sia musicale che morale e del tabù. Sempre e comunque senza peli sulla lingua, ritraggono la società e la realtà di oggigiorno con sincerità adoperando termini e argomenti scottanti che a qualche finto tonto perbenista possono dare fastidio; ricordo ancora il loro capolavoro Misantropo a Senso Unico, un disco che fu una vera e propria rivoluzione, dal sound alle tematiche. Parlare di anticonformismo è inutile, nessuno lo è mai fino in fondo ma Giulio e soci negli anni si sono distinti, nel bene o nel male, a torto o ragione si sono fatti  strada e si sono creati un proprio spazio nel Mondo della musica estrema, un pò per bravura e un pò per intelligenza e spiccato senso della provocazione. Almost Human  ruppe totalmente i canoni; questa raccolta, a causa della copertina che ricordiamo ritraeva una donna in un momento intimo con un uomo che le puntava una pistola alla tempia, creò non pochi problemi al gruppo. Di aneddoti da raccontare ce ne sarebbero e chiaramente tutti furono causati dalla loro audacia e voglia di sbatter le cose in faccia.

Oggi i Cripple Bastards danno una nuova prova delle loro doti e lo fanno con Nero in Metastasi, un album di diciotto canzoni che sono delle vere e proprie sfuriate di cazzotti. In questo nuovo disco i quattro ragazzi non risparmiano nulla se teniamo conto che i titoli e i testi sono sempre d’ impatto e stessa cosa per quanto riguarda lo stile: violento, aggressivo e inequivocabile. Il disco suona come un uragano, da “Malato Terminale” a “Morti Asintomatiche” e quasi tutte le tracce girano intorno alla durata di due minuti, il che lascia intendere il concentrato di potenza che c’è in ognuna. L’album vanta anche  un ottimo sviluppo del suono nel senso che i riff, i blast e gli assoli si riescono ad ascoltare in maniera limpida e pulita e questo è indubbiamente un traguardo importante per i Cripple Bastards se consideriamo che ricercano da un pò di tempo tale stile.

Tracce che vanno ascoltate obbligatoriamente sono “Lapide Rimossa”, la successiva “Promo Parassista” e “Passi Falsi”,  pezzi che in un modo o nell’ altro fanno la differenza. Alcune canzoni vennero presentate un pò di tempo fa nell’ EP Senza Impronte, il risultato fu buono, Nero in Metastasi è perciò una sorta di consacrazione, un confermare delle intenzioni passate. I Cripple Bastards sono un orgoglio tricolore, si può condividere la loro filosofia come la si può snobbare, fatto sta che hanno dato qualcosa alla musica estrema italiana.

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Demonical – Darkness Unbound

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C’è poco da lamentarsi sui Demonical, tra le nuove (più o meno) leve del Death Metal sono i primi della classe e riescono a cogliere sempre il centro:  conoscono i giusti dosaggi di riff, blast beat e assoli per creare un pezzo  degno di nota. Darkness Unbound è la nuova fatica di Sverker e soci, una ventata di freschezza per il genere di cui loro fanno parte nonostante scimmiottino talvolta  i Dismember. Ricordo ancora con ammirazione il loro penultimo disco, Death Infernal, un lavoro che, come questo, mi rese felice, assicurandomi che, nella scena Death, non stavano presenziando solo pupazzetti privi di idee.

Chiaramente in questo nuovissimo Darkness Unbound non c’è nulla di innovativo o di originale ma la capacità del gruppo di assestare  possenti riff ed assoli in un sound limpido e pulito è un qualcosa di veramente interessante. In “The Order” (cavallo di battaglia tra l’ altro) si riesce a cogliere perfettamente quella loquace melodia che rende la traccia ancora più appetitosa.  In “Contempt and Conquest” si sottolineano le levigate parti blast dei Demonical ed anche i giri di riff sono una sorta di specialità in questa traccia. Passando a “Words Are Death” e “Deathcrown”, due tracce che mettono in risalto la vera cattiveria e aggressività dei ragazzi svedesi, palese come non risparmino nulla tra riff, batteria che sembra un vero e proprio rullo compressore ed assoli.  Ve l’ho detto, in queste nuove orde di band Death Metal i Demonical sono quelli che più riescono a proporre qualcosa di sensato e godibile; hanno tecnica, audacia, grinta, insomma le caratteristiche giuste per “sfondare”. Un gruppo che ho ascoltato e seguito con piacere e spero soltanto che non si perda per la strada ma lasciamoci questo pessimismo alle spalle e poghiamo con Darkness Unbound che credetemi male non vi farà.

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Girl With The Gun – Ages

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Sensuale da un lato, atmosferico dall’altro, sono queste le principali caratteristiche di Ages, il nuovo disco delle Girl With The Gun che prima di tutto si fregia della calorosa voce di Matilde De Rubertis già singer degli Studiodavoli. L’album è un concentrato di Folk, Electro e Rock, una miscela intrigante soprattutto per come proposta da questi talentuosi artisti, soprattutto Andrea Mangia, in arte Popolous, che in un modo o nell’altro è riuscito anche questa volta a rivolgere in dose massiccia i riflettori verso di se. Ages riesce a mettere sullo stesso piano o meglio, ancora in equilibrio, i generi indicati prima diventando insomma un prodotto che farà invidia. Chiaramente il disco è affascinante anche grazie all’operato di Andrea Rizzo che regala effettivamente una concreta dimostrazione di come si suoni una batteria: coordinato, veloce al momento giusto e lieve quando serve.

Tutte le tracce si lasciano ascoltare senza mai stancare ma un occhio di riguardo va anzitutto ad “Hold on for Cues” che mette subito in chiaro la bellezza pura del platter mostrandosi come una di quelle canzoni che sa nascondere e svelare il suo alone di mistero. La successiva “Fireflies” è anch’ essa singolare, una traccia che mette allo scoperto tutte le doti dei musicisti. Infine c’è “Hover”, che sembra quasi partorita dai Cure: ritmata, sprizzante ma nel frattempo calma, è un altro cavallo di battaglia di Ages.  Il gruppo è riuscito a produrre un disco di una certa qualità: da ascoltare in macchina durante un viaggio o distesi sul letto in un momento di riflessione o ancora facendo jogging, è sempre il momento giusto per Ages. Quando artisti di un certo talento e di invidiabile esperienza si accordano su di un disco fatto con intenti sinceri il risultato può essere solo buono e Matilde e soci lo sanno bene.

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Eudaimony – Futile

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È capitata nel periodo giusto l’uscita di questo disco d’esordio degli Eudaimony, band formatasi a Luglio 2007 da membri già noti nella scena Black Metal svedese e teutonica: Marcus E. Norman chitarrista dei Nalgfar, Matthias Jell ex vocalist dei Dark Fortress, Jorg “Thelemnar” Heemann batterista dei Secrets of the Moon e Peter Honsalek che in serbo ha il progetto Nachtreich. Parlavamo del periodo d’ uscita di Futile, il disco che ha lanciato gli Eudaimony; un inverno freddo, proprio come la musica da loro proposta. È stato fatto un coroso preambolo per questa band e questo lavoro a dir poco disdicevole, si sono create false illusioni gettando solo tanto fumo negli occhi. Futile è un disco che si fa ascoltare senza troppi inceppi, gira liscio indubbiamente ma non è il capolavoro che molti dicevano.

A esser pignoli questo è un platter che sa di poco, che non sai mai se accostare al Black o al Gothic Metal, rivelandosi semplicemente come una via di mezzo tra i due generi, un Symphonic Black Metal che però, con molta onestà non riesco a catalogare neanche in tal modo con esattezza visto che strizza un po’ l’occhio anche al Doom. Cantato per la maggiore in Black, atmosfere Gothic e stordenti riff che farebbero torcere il naso a band come Taake, Mayhem e Celtic Frost, quella degli Edaimony è un proposta trita e ritrita che, se vogliamo, oltretutto potremmo dire eseguita con più efficacia da altre band, come gli October Tide ad  esempio. Nel disco, le tracce che bene o male risaltano rispetto alle altre sono“Mute” con il suo alone sinistro, la title track, la successiva “Portraits” che cambia decisamente i toni rispetto alle altre partendo dal cantato per costruire la melodia e infine c’è “Godforskaen”, una traccia strumentale in  cui le tastiere padroneggiano per buona parte. Insomma Futile non è nulla di eclatante; si lascia ascoltare ma la voglia di farlo girare ancora nello stereo è pochissima.

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Lili Refrain – Kawax

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Non c’è nulla da fare, se componi un certo tipo di musica a base di sinistre atmosfere, curiose melodie e riff sgargianti vuol dire che con la testa viaggi e sei veramente alla ricerca di qualcosa di nuovo e se viaggi e fai viaggiare vuol dire che sei un artista a trecentosessanta gradi e forse anche un po’ visionario. Lili Refrain lo ha dimostrato; la polistrumentista romana attiva dal 2007 è riuscita attraverso la sua voce, la chitarra e qualche loop a creare un disco che suscita mille emozioni. Kawax, questo il titolo dell’ album che tanto ha fatto impazzire il sottoscritto è un lavoro inspirato, a tratti angoscioso capace di emanare passione e trepidazione. Il disco ha suscitato sentimenti positivi fin dal primo ascolto, come si trattasse di un colpo di fulmine, immediato e contro il quale nulla si può fare. La capacità di Lili Refrain di miscelare Ambient, Gothic, Blues e teatralità è un qualcosa di eccezionale; la giovane artista è riuscita nell’intento di creare un album introspettivo e riflessivo allo stesso tempo. Kawax è un viaggio mentale, dal primo all’ultimo pezzo; il bello del disco anzi è proprio il lieve mutamento che subisce traccia dopo traccia, il tutto senza farci accorgere di nulla.

Venendo proprio alle canzoni, quelle che si fanno notare da subito sono “Kowox”  che ha un fascino e uno sprint tutto suo con dei suoni elettronici a dir poco fenomenali; la successiva “Goya” con i suoi arpeggi di chitarra, i suoi cori e la cupa atmosfera che trasmette un senso d’inquietudine fuori da ogni canone; un’altra traccia da segnalare è “Nature Boy”, padroneggiata da un clima che si addice a un film horror grazie anche alle grida di sottofondo che fanno il loro effetto. Non sono da meno “Echoes” e la conclusiva “Sycomore’s Flame”. La prima citata lascia un senso di quiete, è rilassante, il pezzo giusto da dedicare al famoso Caronte, il traghettatore di anime; “Sycomore’s Flame” è molto probabilmente la canzone più melodica del platter, una chiusura in bellezza se si considera il suono degli effetti e della chitarra.

Kawax  è una perla di disco e il 2013 non poteva concludersi meglio che con un uscita del genere. Parlando invece di Lili Refrain, non possiamo fare altro che elogiare questa giovane artista dotata di coraggio e altruismo; la sua vena artistica è di quelle introvabili e, detto sinceramente, penso che sarebbe capace di creare una colonna sonora per i film di Dario Argento sulle streghe; insomma, “La Terza Madre” del noto regista avrebbe avuto un altro colorito con il tocco di Lili Refrain.

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Deathless Legacy – Rise From the Grave

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Un po’ di  tempo fa gironzolavo sui social network in cerca di qualche gruppo nuovo, ne trovai abbastanza, tutti di generi diversi ma chi mi suscitò una forte curiosità furono i Deathless Legacy, una band nata inizialmente come tribute dei Death SS. Comunque, caso vuole che mi metto ad ascoltare il loro disco d’ esordio, Rise From the Grave, un lavoro che miscela Gothic, Black ed Heavy Metal con l’ influenza di Steve Sylvester sempre presente non solo musicalmente ma anche per quanto riguarda i costumi e il gusto per l’ orrido. La musica proposta è un concentrato di aggressività ma con un pathos oscuro, sinistro, dovuto anche alle doti canore della singer; innegabile inoltre una certa similitudine con i Necrodeath nonostante la voce femminile.

Rise From the Grave si fa ascoltare con molto piacere, scorre in maniera limpida senza stancare un minuto, anzi, la voglia di sentirlo una seconda, terza e quarta volta è tanta. Parliamo di un disco fatto con voglia e passione da una band che, nel bene o nel male, di esperienza ne ha, soprattutto se contiamo i molti show dal 2008 ad oggi. Guarda caso in uno di questi, precisamente l’ esibizione di Halloween a Firenze del 2011, hanno come special guest proprio il già citato Steve Sylvester. Viene da porsi un quesito: perché un’icona di questo calibro dovrebbe disturbarsi per un gruppo underground del genere? Probabilmente anche il noto rocker deve averci visto del buono e considerando che comunque è stato palesemente d’ ispirazione per il grintoso sestetto, ecco prendere due piccioni con una fava.

In Rise From the Grave le tracce che subito si fanno ascoltare sono in primis: “Will or the Wisp”, la successiva “Queen of Necrophilia” e “Death Challenge”, quelle che subito attirano l’ attenzione per motivi diversi. Andando per ordine, nella prima citata c’è l’ ottima prova di Steva a fare da scheletro, nella seconda troviamo un botta e risposta tra chitarre e batteria eccezionale, mentre nella terza sono le tastiere a creare l’ atmosfera e fare da padrone. Non sono da sottovalutare “Flamenco de la Muerte” e la successiva “Spiders”, anche queste aggressive e dalla tinta cupa. Insomma i Deathless Legacy sono da tener in considerazione e se queste sono le premesse dinanzi a loro c’è solo un futuro roseo, potremmo considerarli una promessa per la musica estrema.

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Devil – Gather The Sinners

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Pian piano i Devil si fanno strada, crescono progressivamente perfezionando il loro stile e superandosi. Gather the Sinners ne è la prova e parliamo di un altro centro fatto dalla magistrale Soulseller Records. Stoner, Psichedelia, Southern, ci trovate tutto in maniera compatta e amalgamata, aggiungeteci  le sinistre melodie che sfornano Eric Old e Murdock con le loro chitarre e avrete un prodotto di altissimo livello. Ancora una volta i Black Sabbath e i Witchfinder General lasciano la loro pesante influenza, evidente soprattutto e chiaramente per quanto riguarda i primi. Ciò non toglie comunque che i Devil siano riusciti ad  indirizzare questa influenza sulla retta via facendola propria in modo originale. Riff taglienti e baritonali, questa la principale caratteristica di Gather the Sinners, un lavoro che mostra le capacità di Jimmy e soci. Il disco in questione acquista  charme soprattutto in una stanza buia, diventa il Caronte di un viaggio mentale, queste almeno le modeste considerazioni del sottoscritto. Insomma i Devil hanno fatto centro, hanno sfornato un disco di qualità in cui i cavalli di battaglia sono l’opener ovvero “Southern Sun”, “They Pale” e “Darkest Day”. Questo disco vanta di un’ottima registrazione e di un eccellente mixaggio, insomma è stato lavorato ad hoc senza tralasciare nulla; da un po’ l’effetto del Rock anni 70 ma con  attrezzature moderne. Gather The Sinners è un disco che va ascoltato assolutamente, non deluderà affatto, anzi.

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Heretic – Angelcunts & Devilcocks

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Ci hanno fatto divertire e ci hanno fatto danzare con un genere che loro stessi hanno catalogato come Black’n’Roll, con alle spalle tre dischi e svariate raccolte; ora gli Olandesi Heretic tornano con un quarto album intitolato Angelcunts & Devilcocks e il loro stile sempre pacchiano. Certo, per chi non lo sapesse, premetto che non si tratta di un gruppo che che ricordi Burzum, Taake, Celtic Frost o Immortal; qui parliamo di cinque loschi individui che sanno lavorare con la melodia ed hanno ritmiche dannate e piuttosto meticolose. Piuttosto potremmo accostarli agli ultimi Satyricon, anche se più sdolcinati, oppure ai polacchi Black River. Anche l’artwork del disco ha il suo simpatico colorito da un lato (forse potevano risparmiarsi il cartone animato), ma se è trattasi di scelta provocatoria, probabilmente è azzeccata. Ma veniamo ad Angelcunts & Devilcocks: il disco contiene dieci tracce, tutte molto catchy, e con un ritornello evidentissimo e canticchiabile; un lavoro che si rifà al Black, al Punk e al Rockabilly in stile Misfits. Le tracce da dover tenere in considerazione principalmente sono l’opener “Hail the Best”, la title track, “Sweet Little Sacrifice”, la successiva “Morbid Maniac” e “Let me Be your Altar”.

Tutto il disco segue un solo filo logico dato da un preciso sound e strutture delle canzoni che regalano un ascolto stabile e lineare che chiaramente sarà un arma a doppio taglio perché suscettibile di diverse e antitetiche valutazioni, questo soprattutto per quanto riguarda la proposta attuale degli Heretic. In quest’ottica, per il web ho notato diversi critici che hanno totalmente annientato la band e il loro Angelcunts & Devilcocks eppure io sono sempre del parere che la musica è come ciò che mangiamo e di deve tenere conto delle emozioni che ci fa provare. Questo lavoro non è affatto malvagio e vi invito a provare ad ascoltarlo; probabilmente qualcuno coglierà qualcosa di buono a lungo andare perché in fondo è un disco che non stanca nonostante la volgarità.

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