Black Country, New Road – For the First Time

Written by Recensioni

Godiamoci l’ennesimo nuovo talento post-qualcosa.
[ 05.02.2021 | Ninja Tune | post-punk, post rock ]

Conclusione: questo disco è una bomba e la cosa non è affatto una figata, perché ci stiamo esaltando per artisti che non fanno altro che rileggere un passato neanche troppo nascosto e lo fanno con una straordinaria efficacia.

Manuel Agnelli potrà anche prendervi in giro raccontando in tv quanto siano innovativi gli Idles ma la verità è un’altra e loro, come i Fontaines D.C. o i nostri Black Country, New Road tutto fanno tranne che cercare di rivoluzionare la scena alternativa mondiale. Non è una figata, dicevo, perché uno come me, attento e curioso verso il nuovo, è proprio dal nuovo che si aspetterebbe l’esaltazione, ma senza indugiare su questo aspetto, godiamoci l’ennesimo nuovo talento “post” qualcosa.

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La band londinese nasce nel 2018 ed è col singolo Sunglasses del 2019 che inizia a far drizzare le nostre orecchie malate; da allora non molto altro fino ad oggi e all’album d’esordio For The First Time che, già dall’opening Instrumental, pare prendere le distanze da quel noto singolo (qui presente) introducendo elementi propri del klezmer (che ritroveremo in Opus), genere tradizionale degli ebrei ashkezaniti dai ritmi ballabili, mescolati a improvvisazioni jazz e suoni post punk.

Con la seconda traccia, Athens, France, salta inevitabilmente all’orecchio l’accostamento con il post rock degli Slint che, per quanto evidente, sarà solo uno specchietto per le allodole che nasconde riferimenti ben più ampi e l’intento di superarne i cliché in favore di una sperimentazione estetica strumentale più latente invece proprio negli Slint. Con l’avanzare dell’ascolto si noterà una certa ripetizione stilistica apparente che potrebbe annoiare eppure, ascoltando con maggiore attenzione, si riuscirà a godere della varietà strumentale (vedi Science Fair) che man mano si accumula fino ad esplodere con intensità indescrivibile.

Inutile arrischiarsi nella ricerca di precisi punti di riferimento; superati gli Slint, affoghereste nell’avanguardia jazz, poi negli Swans o ancora nei The Microphones se sarete in grado di cercare il meno scontato tra le righe e via dicendo fino a non capire che, in realtà, ciò che state ascoltando è qualcosa di esistente e non ancora esistente al tempo stesso, ed anche lo stile vocale di Isaac Wood, così come il sassofono di Lewis Evans (utilizzato in maniera ben diversa dai Viagra Boys, nonostante il comprensibile ma inaccettabile accostamento), non faranno altro che confondervi, specie quando il tutto finisce invischiato nei sintetizzatori.

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For the First Time è un disco che si lega al passato ma non si barrica dietro lo stesso; che lo distrugge e ricostruisce partendo dalla stessa materia prima ma edificando il tutto con strumenti diversi. Proprio da questo atteggiamento, il risultato diventa il capolavoro che di cui stiamo parlando.

Sotto l’aspetto lirico, nonostante le tematiche cupe proprie di post punk e art rock, non vi sembrerà mai di assistere all’ennesimo canto del cigno disperato di un genere tanto datato quanto in fermento e le banalità non la faranno mai da padrone ed in tal senso la comprensione dei testi sarà cosa non utile ma necessaria. Nonostante l’apparente prevedibilità, è proprio questa che i londinesi fanno a pezzi, giocando con gli ascoltatori meno accorti pronti ad osannare la seconda venuta degli Slint.

L’immenso spettro sonoro utilizzato, la disconnessione delle parti cantate con il free jazz, l’utilizzo poetico della vocalità che unisce cultura pop occidentale e decadenza, canti, urla e spoken word; tutto questo non fa altro che spostare l’asticella dal pretenzioso all’ambizioso e solo la non palese linearità dei brani impedirà la creazione di suoni atti anche a fare breccia immediata nell’ascoltatore, lasciandoci a bocca aperta per quanto udito eppure incapaci di dare indicazioni precise sui brani più d’impatto come se tutto non fosse altro che un unico cangiante flusso sonoro.

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Ultimo paragone obbligato è quello con i black midi, eppure anche qui è necessario sottolineare piuttosto le divergenze che non le similitudini: se questi ultimi riescono a fare in maniera sontuosa qualcosa di così identificabile da potersi antipaticamente definire derivativo, nel caso dei Black Country, New Road c’è il tentativo di andare oltre, ed è questo che li pone un gradino sopra anche nel caso in cui non troviate plausibile porli più in alto per la semplice estetica dei pezzi.

Per la prima volta, o almeno finalmente, un disco tanto “vecchio” finisce per suonare più “giovane” di quello che ascolterete domani: scommettiamo?

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Last modified: 16 Marzo 2021