Consapevolezza nell’insicurezza, un apparente paradosso che solo chi conosce davvero lo spleen può comprendere appieno.
[ 23.02.2024 | MiaCameretta | indie rock, alt rock, indie folk ]
Legare la musica a situazioni personali è sempre un’arma a doppio taglio, soprattutto quando si è piuttosto inclini a sentimenti come malinconia e spleen. E, nonostante questo, è un processo che a volte risulta pressoché inevitabile.
Il mio rapporto con i Black Tail inizia nell’estate del 2018: l’occasione è un concerto proprio nel mio paese d’origine (che tendenzialmente non sa neanche cosa sia il fantomatico indie rock), in una serata agostana che però si presenta più settembrina che estiva (ma questo dalle mie parti succedeva spesso, almeno fino a poco tempo fa). Mi bastano pochi secondi di conversazione per capire che ho a che fare con persone che sentono – parlo proprio a livello emotivo – le mie stesse cose, che viaggiano su binari piuttosto convergenti con i miei (e, credetemi, mi è capitato davvero poche volte).
Un concerto in cui, tra le altre cose, la band esegue anche un pezzo degli Sparklehorse, di cui custodisco persino un video in cui si vede un sacco di gente passare davanti incurante di tutto (ma avrebbero tirato dritto anche se a suonare fosse stato Mark Linkous in persona) ma che è comunque bello, in un certo senso. Del resto, mi sembra una perfetta rappresentazione del fatto che, mentre noi siamo qui a struggerci per la musica, il mondo lì fuori va avanti tranquillamente.
Il secondo momento topico del mio rapporto con il gruppo arriva nel marzo 2020, in piena pandemia: tutto sembra sospeso, il tempo dilaga inesorabilmente e i Black Tail tirano fuori il loro nuovo album. Come se fosse la cosa più normale del mondo (e lo era, a ripensarci oggi).
Un disco pieno di voglia di vivere e che usciva durante una primavera inaspettatamente distopica, uno squarcio di speranza improvviso e vitale.
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Tanto premesso, quando Cristiano Pizzuti e Roberto Bonfanti – rispettivamente voce/chitarra e batteria – mi hanno annunciato che il gruppo a stretto giro avrebbe pubblicato un nuovo laboro, è stato come fare un tuffo nel passato. Come addentare una madeleine di proustiana memoria.
Wide Awake on Beds of Golden Dreams è il quarto album in studio della band di Latina, il primo registrato insieme alla nuova bassista Cristina Marcelli (confermatissimo invece Simone Sciamanna alla chitarra).
Una casa in fiamme da tipico Midwest americano è l’immagine che introduce il nuovo lavoro del quartetto laziale, che con To Be Allowed to Be (titolo bellissimo) presenta il primo sussulto emotivo: una ballata delicata che viene impreziosita da chitarre che suonano come un sogno ad occhi aperti, il tutto incastonato in un incedere caldo e desertico quasi da Calexico.
Tra la delicatezza alt-country in salsa Wilco di Josephine (forte di uno dei ritornelli più semplici e al tempo stesso riconoscibili del disco) e le melodie jangle pop di Silver Feathers, l’album sembra proprio voler prendersi cura di te, accarezzandoti e sfiorandoti con un tenera amorevolezza.
Le fascinazioni a metà tra i già citati Sparklehorse ed Elliott Smith rendono l’introspettiva e soffusa Blissful Summer / Neon Heartbreak uno degli episodi più intimi ed emozionali dell’album, ma degna di nota è anche la rassicurante placidità della semiballad Haze.
La conclusione affidata a Candle sa davvero di viaggio in solitaria attraverso le infinite e desolate pianure statunitensi, con una coda che sfuma su delle chitarre mai così vive e incisive. Suoni da Grande Cosa Americana, per dirla con Stephen Markley.
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Wide Awake on Beds of Golden Dreams è un album che, attraverso la sua dolce e innocente insicurezza, riesce ad infondere una certa fiducia nel futuro. Non necessariamente un lavoro felice, ma un disco conscio – se non addirittura fiero – delle proprie vulnerabilità e fragilità.
Consapevolezza nell’insicurezza. Sembra un paradosso, ma nella mia testa (e credo anche in quella di molte delle persone che si imbatteranno in questo disco) ha decisamente un senso.
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Last modified: 21 Febbraio 2024