Dall’insospettabile San Pietroburgo arriva lo shoegaze che tutti i cultori stavano aspettando.
[ 10.04.2019 | autoprodotto | shoegaze, dream pop ]San Pietroburgo, Russia. “La città più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre”, la definirà Dostoevskij in uno dei suoi più celebri romanzi. E premeditato è anche il colpo al cuore che con More i Blankenberge decidono di assestare a tutti quelli per i quali lo shoegaze è un modo di essere, di vivere le cose, prima che un genere musicale. Il sophomore del quintetto russo arriva due anni dopo l’esordio con Radiogaze e, a conti fatti, è un vero e proprio colpaccio, uno di quegli album che faresti bene ad essere orgoglioso di aver pensato, plasmato e infine pubblicato.
Basta premere play per capire subito di essere nel posto giusto: voce onirica e sognante, chitarre robuste, basso pulsante, batteria che picchia decisa. L’opener Islands è già sufficiente per poter ammettere a sé stessi che ci si abbandonerà voluttuosamente, anima e corpo, a questi quaranta minuti di riverberi ed emozioni. Il climax sensoriale cui anelano le distorsioni di Look Around è un vero pugno nello stomaco, roba à la My Bloody Valentine e Chapterhouse. In una manciata di minuti i Blankenberge prendono tutte le ineffabili ed evanescenti emozioni dello shoegaze che fu e le catapultano nel 2019. Come se il tempo si fosse fermato. O come se ne fosse passato talmente tanto che è davvero giunto il momento di tornare a provarle, in maniera totalizzante, quelle emozioni.
Perché chi crede che quello di More sia semplice revival derivativo e nostalgico farebbe un torto a questi cinque ragazzi: oggigiorno raramente un disco dalle simili coordinate riesce a suonare tanto fresco, sincero, credibile… bello, semplicemente. Go ha fin dal titolo quell’attitudine punk che ti fa sussultare: diretta, senza fronzoli o inutili orpelli, con l’unico scopo di distorcere qualunque cosa le si pari davanti, in primis la percezione sonora ed emotiva di chi vi si imbatte ascoltandola. E la coda rilassata, sospesa lascia quasi smarriti, come se quell’energia, quella rabbia introspettiva fosse stata in verità solo frutto della propria onirica fantasia.
Emozioni. Parola che verrà abusata in questa sede, ma il caso lo richiede espressamente. Perché quando in Until the Sun Shines il sax si fa largo tra i riverberi della coda strumentale capita davvero di sentirsi il cuore in gola, come quando ci si ritrova davanti ad un qualcosa di talmente bello che piangere – di gioia – risulta la reazione più naturale cui ci si possa abbandonare.
La cosa davvero entusiasmante di queste nove tracce è che, alla fine, viene addirittura da ringraziarli, questi russi: perché riuscire a provare sensazioni tanto vivide e totalizzanti senza andare indietro di venti e passa anni ed evitando di scomodare nomi storici della scena è un’esperienza sorprendente e bellissima. Cose che fanno bene al cuore, semplicemente. In un’epoca di uscite discografiche infinite nel tempo e nello spazio, di ascolti mordi e fuggi, di liste di dischi nuovi da ascoltare fatte e poi lasciate a prendere polvere, i Blankenberge dimostrano di meritare tutte le attenzioni del caso: ritagliarsi per loro una quarantina di minuti del vostro tempo vi sarà sembrata, alla fine, una delle migliori decisioni che abbiate preso ultimamente.
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Last modified: 26 Aprile 2019