Un gruppo che si sta facendo spazio nel complesso panorama musicale italiano, ma la loro vita artistica nasce da molto lontano, addirittura dai banchi di scuola. La formazione ovviamente nel tempo ha subito variazioni, si è evoluta musicalmente ed oggi sta riscuotendo il successo che merita. Ne abbiamo parlato con loro.
Partiamo con la più scontata delle domande forse… Da dove nasce il nome Blastema?
Nasce sui banchi di scuola dove ci siamo incontrati io e Matteo (erano gli anni ’90); ci assillavano le sonorità alla Nirvana / Marlene Kuntz; abbiamo trovato il termine semplicemente cercando su un vocabolario. Indagando abbiamo scoperto che aveva un significato adatto, ce lo siamo portati dietro nel tempo e alla fine siamo diventati un po’ il nome che ci siamo dati, un po’ come succede a un bambino… E’ stato un gesto forse inconsapevole, ma ha veicolato molto della nostra trasformazione… Senza volerlo è stato un po’ un preludio a ciò che siamo diventati.
L’ultimo singolo lo avete definito una bella contaminazione per i Blastema che ha aperto una nuova strada al gruppo che potrebbe sfociare nel nuovo album… Ce ne potete parlare?
“I Morti” è un apripista perché ricalca esattamente quello che vorremmo fosse il nuovo disco a cui stiamo lavorando (siamo in studio a registrare con questa nuova produzione) e che porterà fuori un lato dei Blastema che non è stato ancora completamente sviscerato. Questa contaminazione fra elettronica, cantautorato e rock è quello che ancora abbiamo da mostrare: di certo non abbiamo limiti nel senso che abbiamo 13-15 pezzi nuovi da buttare fuori… Il discorso è solo “come” buttarli fuori”. (nb: proprio in questi giorni è uscito il loro nuovo disco)
“Lo Stato in cui sono Stato” è il primo con una major alle spalle… Come ci siete arrivati?
Ci siamo trovati per caso come nella maggio parte delle vicissitudini della nostra vita… Semplicemente Luvi De Andrè (figlia di Fabrizio ndr) ha sentito in rete alcune cose che abbiamo fatto, ci ha chiamato e da lì abbiamo avuto questo percorso che ci ha formato e che guardiamo con un po’ di nostalgia e di fierezza perché ora facciamo da soli.
Cosa ricordate dell’esperienza Sanremo? E’ stata fondamentale per voi?
E’ stata fondamentale come tutte le altre cose che ci sono successe, ci ha insegnato molte cose: eravamo un po’ una band simile a un pesce fuor d’acqua in quel contesto, ma ci siamo portati via un po’ di soddisfazioni nonostante ci fosse molta paura, magari dopo anni ti dimentichi pure di quella paura.
Gli Skunk Anansie vi hanno voluto per aprire i vostri concerti… Quanto vi rimane di quei giorni?
Ci rimane soprattutto il cammino professionale che ci hanno fatto fare nel senso che ci hanno fatto cambiare mentalità. Credevamo che essere musicisti (e forse è più in generale l’errore che fanno i ragazzi che in questo momento si avvicinano alla musica) fosse fare qualche pezzo ed avere molti atteggiamenti. La realtà dei fatti è che essere un musicista vuol dire lavorare almeno sei giorni a settimana come un operaio con pochissimi atteggiamenti e tanta, tanta sostanza. Quando trovi un gruppo che riesce a garantirti un concerto di elevata qualità e lo fa così spesso capisci che suonare è prima di tutto sacrificio e poi quella che religiosamente chiameremmo dedizione.
Oggi suonate davanti a migliaia di persone… Preferite il contatto con la massa o i club come pubblico?
Il paradosso è che i Blastema preferiscono stare vicino alle persone perché noi adoriamo il nostro pubblico e i camerini. La difficoltà di un concerto è parlare alle persone perché o si trovano degli argomenti forti e quindi demagogici oppure si fa quello che si è preposti a fare ovvero un concerto, ma la musica raramente è una comunicazione così integrata, è una sorta di conoscenza spirituale tra quello che accade sul palco e sotto il palco. Un concerto è trovare sintonia fra quello che fai, l’aspirazione, la preghiera cosmica che aspiri a fare quando suoni e lo stato d’animo che induci. Ultimamente è pieno di sobillatori, va di gran moda la sedizione ad esempio con questi rapper che parlano di rivoluzione, ma quest’ultima la fa Bob Marley quando parla e fa alzare i cuori.
Secondo voi il Rock è vivo o morto?
Pensavo proprio giorni fa a un’intervista di Canova che è un nostro grande lustro nazionale come produttore (Tiziano Ferro ecc.): secondo lui in Italia il rock non può più esistere. Noi pensiamo invece che “rock” sia un termine decisamente ampio e anche sconveniente in quanto ampio e quindi possiamo tornare al discorso di prima dei sobillatori. Quando una cosa diventa un mezzo si dimentica il fine. Quindi rigiro la domanda: com’è fatto un gruppo rock secondo me? E’ fatto da strumenti? Davide Fabbri che è il gestore di un locale a Forlì ed è un nostro grande amico dice che il rock adesso è una scheda tecnica! Basso, chitarre, batteria, tastiera. Viene da pensare spesso ai Beastie Boys: che cosa sono? Sono nati come Hardcore, si sono sviluppati come rapper, hanno mischiato il tutto con l’elettronica. Forse bisognerebbe un pochino evadere la scheda tecnica nel senso che ci sono tanti esponenti di tanti generi musicali che non sono ovviamente rock, pensiamo a un quartetto classico.
Cosa consigliereste a una giovane band alle prime armi?
Di fare quello che gli piace finché gli piace farlo perché gli serve. Emergere è un brutto termine, sconveniente. Il nostro batterista ha vent’anni, noi trentasei, due mondi completamente diversi ma tutti siamo d’accordo sul fatto che non esiste una linea comune che venga identificata come una corrente perché in realtà non esiste più l’esigenza personale ma quella economica di tirar fuori un prodotto. Ciò che consigliamo è fate in modo di non fare questo mestiere e continuate a farlo così non avrete necessità di dover ottenere qualcosa.
Un saluto per i lettori di Rockambula…
Ciao lettori di Rockambula! E un po’ anche vaffanculo! (risata generale!!!).
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Last modified: 21 Febbraio 2019