Dopo un’attesa di ben sette anni, Doug Martsch confeziona l’ennesima perla di una carriera unica e irripetibile.
[09.09.2022 | Sub Pop | indie rock, alt rock]
I’m gonna keep trying. È quello che Doug Martsch canta nella nuova Fool’s Gold e che deve pensare fin dal lontano 1993, anno del debutto discografico della sua preziosissima creatura, i Built to Spill.
Da allora di anni ne sono passati tanti e nel mondo tutto o quasi sembra essere cambiato, anche in ambito musicale; l’estetica slacker un po’ sfigatella, le chitarre a scandire ogni minuto della propria vita musicale, un’attitudine indipendente portata fin quasi al parossismo: tutta roba che oggigiorno appare quanto mai vetusta, eppure…
Eppure il musicista di Boise sembra non accorgersi del tempo che passa e di quello che gli accade intorno, continuando ad andare dritto per la propria strada: una strada che, anno dopo anno, uscita dopo uscita, l’ha portato a divenire un vero e proprio simbolo della scena alternativa internazionale.
Escludendo il disco tributo all’indimenticabile Daniel Johnston, il decimo album in studio dei Built to Spill arriva dopo un’attesa di ben sette anni dall’ultimo. Ed è anche il primo che la band pubblica tramite Sub Pop, la leggendaria etichetta di Seattle che ebbe un ruolo determinante nel boom dell’indie rock underground che, tra fine ’80 e primi ’90, investì l’intero mondo della musica. Un’unione che simbolicamente è una sorta di cerchio che si chiude.
Non sono più i tempi della formazione con tre chitarre: qui Doug è accompagnato da João Casaes e Lê Almeida, membri della band psych/jazz brasiliana degli Oruã (di cui, per un’inaspettata coincidenza, avevamo già parlato qui).
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Diciamolo subito, così da sgomberare il campo da ogni dubbio: When the Wind Forgets Your Name è un grande album. E lo è soprattutto se lo si pensa in riferimento a capolavori come Perfect From Now On e Keep It Like a Secret, pubblicati ormai più di venti anni fa. È quasi commovente constatare come l’intima essenza del suono dei Built to Spill non sia stata minimamente intaccata in tutto questo tempo, ma anzi riesca a rinnovarsi pur restando fedele ai principi che l’hanno resa tanto unica.
L’esempio più lampante di tutto ciò è un brano come Fool’s Gold, secondo singolo estratto dall’album, con il proverbiale chitarrismo di Martsch che si unisce alla sua classica poetica da underdog della vita.
It don’t matter what they say, I’m gonna break my heart someday: c’è tutto Doug Martsch in queste righe. Il tema ricorrente della sua disillusione, la presa di coscienza circa la sua fallibilità, il suo essere immarcescibile nei confronti di tutto ciò che lo circonda.
E poi quel solo finale, che sfuma via come un sogno svanito troppo presto, a suggellare un brano che sa davvero di instant classic per il repertorio della band.
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Uno dei motivi che mi ha sempre fatto amare visceralmente la musica dei Built to Spill è la sua capacità di farmi provare emozioni che è per me quasi impossibile riscontrare altrove.
Prendete un pezzo come Elements: chitarre sognanti accompagnate da un sorprendente organo, la voce di Doug lontana come fosse un’eco, un’atmosfera sospesa e liquida da cui farsi cullare dolcemente, per quello che forse è il brano più psych/dream pop di sempre del gruppo. È questo il Paradiso, vero?
Nel disco c’è però spazio anche per momenti più energici e roboanti: il riff dell’opener Gonna Lose è tra i più robusti del lotto, con quei chitarroni e una sezione ritmica potente da vero e proprio power trio.
E, se si parla di chitarroni, non si può non pensare alle radici del suono dei Built to Spill. Spiderweb combina alla perfezione le due più grandi influenze della band: un’intro di cui andrebbe fiero J Mascis unita a un solo in cui fa capolino tutta la venerazione di Doug per la poetica chitarristica di Neil Young.
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Se Rocksteady è forse l’episodio più pop e smaccatamente indie rock del disco (in alcuni momenti sembra di tornare ai tempi di There’s Nothing Wrong With Love), la doppietta finale Alright–Comes a Day è la sublimazione del connubio tra chitarre e sentimenti, che è poi il vero filo conduttore di ogni lavoro della band. La chiusura finale con quei tre minuti interamente strumentali sa di vera liberazione: le chitarre che si librano nell’aria sprigionando tutta la loro potenza emozionale, un vortice di bellezza che fa venire il magone e chiude nella maniera migliore possibile l’ennesima perla di una carriera commovente e invidiabile.
When the Wind Forgets Your Name è un disco per chiunque: per chi da sempre ama questa band e per chi l’ha solo sfiorata senza mai conoscerla appieno, per chi non ne ha mai sentito parlare ma soprattutto per chi ha la voglia e la curiosità giuste per addentrarsi nel magico universo di Doug Martsch, un tipo all’apparenza bizzarro che viene dall’Idaho e che sa scrivere canzoni come nessun altro.
Life goes on and on year after year / Don’t recommend it, but I’m glad I’m still here: è proprio vero, Doug. E ne siamo felici anche noi.
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Last modified: 3 Ottobre 2022