Quindici anni dopo, il vero primo album dei Casa ha più senso che allora.
[ 04.10.2021 | Dischi Obliqui | experimental rock ]
«Se le masse non sanno
come si presenti la loro giornata
dipende solo
dalla precisione ancora insufficiente
dei loro sogni»
(citazione dello scrittore tedesco Bernward Vesper dal romanzo Il viaggio presente nel libretto)
Il nuovo album dei Casa, progetto fondato dal mentore Filippo Bordignon, si pone a conclusione di un ciclo personale di tre album che mi sono regalato in questi giorni di pioggia e che paiono avere un comune denominatore che va oltre l’aspetto stilistico.
Come Claudio Milano e Davide Riccio, anche il vicentino ci regala un’opera di non facile ascolto, sperimentale ma senza la pretesa di essere innovativa, completamente depauperata di ogni ornamento inutile, pienamente libera e senza alcun desiderio di piacere ad ogni costo, in totale contrapposizione sia al commerciale sia all’alternativo per forza di cose.
Le scelte in controtendenza di Bordignon sono una prerogativa del musicista che già ne diede prova quando, nel 2015, decise di rinunciare all’esposizione live della sua musica per concentrarsi sulla produzione in studio come unico membro fisso sempre brillando per audacia e talento.
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Questo nuovo disco non è un modo nuovo e maturo di interpretazione del presente in quanto trattasi di registrazioni del passato, inizialmente rifiutate dalle tante piccole etichette presenti nella capitale meneghina, realizzate da Bordignon e Fabio De Felice ad occuparsi della composizione elettronica.
Un complesso concept incentrato sui personaggi degli anni di piombo come il terrorista Ulrike Meinhof, il giornalista e agente segreto Guido Giannettini, l’editore Giangiacomo Feltrinelli e ovviamente le Brigate Rosse, registrato nel 2006 e riarrangiato, missato e masterizzato a Vicenza da Gigi Funcis tra l’agosto 2020 e febbraio 2021.
Elettronica ipersatura che crea mondi inquieti tra dark ambient, post-industrial, dark jazz e quella che gli stessi autori hanno definito, con lo spirito sarcastico delle scene avanguardistiche underground anni Ottanta, “punk’n’loop extraparlamentare”.
Come detto in principio, questo disco arriva a dare un calcio alla voglia dell’alternativo presente di essere parificato al commerciale eppure si tratta di un’opera di tanti anni fa; il passato che spiega il presente e, che ci crediate o no, non vi è alcuna forzatura nelle mie considerazioni. Innanzitutto perché gli arrangiamenti e le partizioni, le tracce di Nova Esperanto erano ancora forme incompiute a cui, oltre ai due noti, metteranno mani Gigi Funis ed altri per trasformarle in ciò che stiamo ascoltando; ma anche perché lo spirito ma soprattutto la voglia di rimarcare con decisione il preciso ruolo di artista/musicista, oggi è acuita e rivendicata con una sorta di benevole violenza ma era già presente alle origini, quando probabilmente l’entusiasmo creativo mascherava il tutto rendendo le cose più tollerabili dagli stessi demiurghi.
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Tornando al disco, nonostante la pesantezza sia dell’elettronica, sia dei suoni, della struttura compositiva e dell’utilizzo della voce a tratti limitata a rumori volutamente sgradevoli e parole sconnesse, l’ascolto è inspiegabilmente piacevole con le sue infinite contaminazioni a creare un blob amorfo solo all’apparenza ma in realtà ben distinguibile, una sorta di miscela tra turbante e rilassante come guardare un film di Cronenberg, come una cena a casa di Burroughs, come un sogno folle che danza al confine con l’incubo.
L’estetica fuori da ogni logica di mercato di un disco come Nova Esperanto rappresentava, al momento della sua creazione, una sorta di colpo di coda di un intero mondo nato negli Ottanta, un sottobosco anarchico fatto di registrazioni grezze scambiate tra amici, di libertà creativa che esplodeva in piccoli luoghi pieni di idee, di curiosità e di punk in evoluzione come nel caso di realtà quali i Gustoforte.
Se nel 2006 questo disco non poteva che suonare come atto finale di una minirivoluzione incompiuta, oggi acquista un nuovo ruolo, quello di portavoce della miriade di artisti che non ci sta a sentirsi dare del rosicone solo perché non raggiunge i numeri del trapper di turno o della band rock passata dalla tv. Un ruolo di artista libero e indipendente che mette sé stesso prima di ogni cosa, il vero sé stesso, quello che si traduce nelle sue creazioni, che esiste solo perché loro esistono esattamente come ce le presentano e che, così facendo, (ri)traccia una linea di demarcazione tra musica come intrattenimento, lavoro, soldi e successo e musica come Arte.
Siamo destinati a ripeterci, ora più che mai, ma un disco come questo è esattamente ciò di cui non pare avere minimamente bisogno il mondo là fuori ma è ciò di cui ho disperato bisogno io e spero anche tu che stai leggendo ed ascoltando Casa, Nova Esperanto.
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Last modified: 10 Novembre 2021