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“Diamanti Vintage” Nirvana – Bleach

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Doveva esplodere, ed esplose. L’America delle crisi finanziarie, le guerre da mantenere, il disadattamento della società multietnica e le angosce giovanili presero fuoco, e la tranquilla Seattle in quel di Washington State divenne l’occhio del ciclone grunge, la rivoluzione musicale che scaraventò letteralmente i ricordi R’N’R in soffitta. E questa ribellione mastodontica, della quale il mondo ne avrebbe parlato fino ai suoi tragici eventi è stigmatizzata in “Bleach” (candeggina) dei Nirvana capitanati da un poeta maledetto e dolcissimo, Kurt Cobain, il disco più influente di quegli anni, e da cui il poi conclamato Movimento Grunge  ne trasse linfa, panacea e ispirazione per via della sua disperazione elettrificata, quella ossessione destabilizzante di precarietà sociale che  infiammò il già labile cosmo giovanile mondiale.

Camicie di flanella a quadrettoni indossate alla rinfusa una sopra l’altra, anfibi e jeans strappati furono le divise distintive di quell’epoca, come del resto pogo, urlo e distorsioni malvagie nella musica, musica esasperata, dolorante. Malata e con tutte le mostrine della rabbia in primo piano; Bleach ed i Nirvana portarono l’occhio dell’internazionalità in quella cittadina, quella Seattle che mai si sarebbe aspettata tanta pubblicità “mai chiesta dai benpensanti”, e la forza magnetica della nuova ventata fece nascere molte band e altrettante filosofie ribelli che però si esaurirono nel giro di pochi anni, tra disgrazie e rese.

Amplificatori a palla, pedaliere affumicate, giugulari turgide e sudore spasimante furono i connotati di questo disco pioniere, una folle esuberanza che finì per travolgere tutto e tutti, una valanga di domande sonore e malessere mentale e corporeo che si rintracciano in tutta la tracklist, quell’isterica collettiva che –  con ancora i fili abrasi e penduli di uno screamo punk – graffiano, masturbano e fanno a pezzi “Blew”, “School”, “Negative creep”, “Swap meet” mentre con “About a girl” la malinconia agra prende il sopravvento, ma è solo una questione di pochi minuti, poi tutto ritorna a deflagrare come in una stupenda guerra di sensi riottosi.

Non un disco, ma Bibbia col jack.

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I Migliori tre dischi italiani del 2012 secondo Rockambula.

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Un buon intenditore di vino e musica qualificherebbe questo 2012 come un’ottima annata. Non servono altre parole per raccontare dodici mesi di merda, almeno per tutto il resto che ci ha vomitato l’esistenza. Dal disastro della Concordia allo scudetto della Juve, dall’incendio di Comayagua alla rielezione di Putin, dall’umiliazione spagnola alla finale degli Europei alla strage orrenda di qualche giorno fa. Trecentosessantacinque giorni da dimenticare che però sono stati fantastici almeno in quel piccolo mondo da sogno fatto della nostra musica. Un anno speciale, alla faccia dei Maya. Di seguito le scelte dei nostri collaboratori sui migliori tre album ascoltati quest’anno, nella speranza che possano aiutarvi a non perdere nulla o anche per andare a recuperare pregiate perle sfuggite al vostro orecchio di alcolizzati di Rock e non solo. Buon divertimento.

Silvio Don Pizzica ha scelto…

Alio Die – Deconsecrated And Pure
Venti anni di curriculum alle spalle, decine e decine di dischi, una abilità prolifica artistica da far concorrenza a Charles Bukowski, quest’anno Alio Die (“un altro giorno”) ha scelto di farci dono di tutta la sua energia caotica con Deconsecrated and Pure, una delle imprese più possenti e lancinanti mai realizzate dal milanese. Elettronica minimale, glitch e rumori vari, musica sacra e field recordings. Niente di quello che ascolterete è come quello che avete già ascoltato.

The Churchill Outfit – The Churchill Outfit
Allucinazioni anni sessanta/settanta, The Beatles, The Doors, Jimi Hendrix, Love, The Zombies, Pink Floyd, Jefferson Airplane, XTC, The Pretty Things. Indie Rock e Folk/Blues robusto e spirituale, acre e sano. Garage revival stile The Raconteurs o Arctic Monkeys. Neo Psychedelia a la The Black Angels, band texana capitanata da Christian Bland o anche The Warlocks. Stoner Rock, Acid Rock, Heavy Psych, Dead Meadow, The Brian Jonestown Massacre. Insomma, tanta tanta roba!!!

String Theory – 3Rooms
Gli String Theory (da Teramo) sono Sergio Pomante (sax ed effetti), Lorenzo Castagna (chitarra ed effetti) e Silvano Marcozzi (batteria e percussioni). Gli String Theory sono estemporaneità e autonomia totale di estrinsecazione. Una delle migliori cose che mi sia capitato di ascoltare in questo 2012. Scusate se mi ripeto. E “Roma Capaci” è un capolavoro.

Riccardo Merolli ha scelto…

Drink to Me – S
“Non c’è niente di terrestre, una botta talmente forte da rimanere spiaccicati sul pavimento, Musica per chi scopa. Provare per credere, ascoltare pezzi come Henry Miller, Picture of The Sun e Disaster Area per comprendere la potenza. Nell’anno dell’elettronica del Male non poteva essere altrimenti.”

S.M.S. – Da qui a domani
“Il ritorno dell’ex frontman dei Diaframma Miro Sassolini incontra la poesia di Monica Matticoli. Una delizia dei sensi per chi vuole lasciarsi trasportare da queste atmosfere, nei loro testi appare una sconcertante struttura poetica e le loro canzoni sembrano appartenere ad una generazione senza futuro.”

Nicolò Carnesi – Gli Eroi non escono il Sabato
“Se scappi potrai trovare di meglio oppure soffrire in eterno, se resti non hai mai capito un cazzo della vita. Un sound  introverso  spezza l’equilibrio tra dover essere cortesi e diventare giustamente stronzi, cantautorato attuale con tanta freschezza e fantasia. Nessuno vuole santificarlo prima del tempo ma il disco è veramente forte.”

Marco Vittoria ha scelto…

Massimo Zamboni – 30 anni di ortodossia
In un cd e in un dvd rivivono le emozioni di un’epoca in cui essere punk era davvero essere alternativi, e i Cccp sapevano come distinguersi dalla massa! Massimo Zamboni, chitarrista della band si fa accompagnare in questa testimonianza live dal suo ex compagno di avventure Fatur, da Nada, Cisco, Giorgio Canali e Giorgio Canali.

Tindara – Quando parlo urlo
Un’ottima prima prova che miscela alla grande rock, grunge, stoner e pop senza deludere mai. Quando i Marlene Kuntz (Luca Bergia, batterista della band piemontese, ne è il produttore) incontrano i Violent Femmes inserendo a sprazzi i Days of the news (li ricordate?). Certo che come debutto è proprio promettente e se il buongiorno si vede dal mattino…

Franco Battiato – Apriti Sesamo
Il nuovo imperdibile album del grande cantautore siciliano. Al basso il grande Faso (Elio e le storie tese). Mai scontato nei suoni, gradevole sin dall’apertura della confezione con sovracartoncino trasparente che contiene il cd. A sessantasette anni e dopo decine di lavori non smette di innovare ed innovarsi.

Max Sannella ha scelto…

Rio Mezzanino – Love Is A Radio
Un disco che sogna, e non lo fa come una sicurezza “a traino”, piuttosto ne fa vanto, vizio e virtù di una stramaledettamente  fascinosa  santeria  atea che contamina chiunque possiede uno spirito ed un’anima aperta e geniale che ama il buio o l’oscuro come fonte di luce

The Charlestones – Off  The  Beat
Questa band da disdetta alle limitazioni stilistiche per espandere il suo sentimento in avventure elettriche che sorvolano anche certi anni Sessanta americani, e lo fa con una maturità intensa che poi corrisponde a questo bello slancio discografico.

Santobarbaro – Navi
una spiritualità ombrosa che vive di elettronica, pulsioni dark e appigli di visioni lontane, ovattate, quella capacità strabiliante e manipolatrice che si pone sempre a confine tra sogno e delirio, silenzio e rumore, con tutta l’attenzione riportata per creare vere e proprie filiformi sinfonie intime e color torba.

Marco Lavagno ha scelto…

Aftherhours – Padania
La Padania non è verde, ma investita da tutte le combinazioni di grigio. Fredda e tagliente come il violino di “Costruire per distruggere”, storta come le ritmiche pazzoidi di “Ci sarà una bella luce”, pungente come la chitarra di Xabier Iriondo (e a proposito di luce: che illuminazione il suo ritorno!), anticonvenzionale come la voce di Agnelli, mai così pronta a mettersi in gioco. Tecnica squisita e mente aperta a 360 gradi. Non ci sono limiti di ritmica, di note e di parole. Tutto suona così fuori dal comune; destabilizzante ma incredibilmente naturale. Un flusso compositivo istintivo e incasinatissimo che presenta alcune pause riflessive, forse ancora più dolorose (“Nostro anche se ci fa male”). Un microcosmo intimo, specchio riflesso dei paesaggi desolanti che osserviamo tutti i giorni con gli occhi pieni di rabbia e di rivolta.

Nobraino – Disco d’Oro
Li ho scoperti con questo disco nonostante siano anni che bazzichino palchi e compongano canzoni con estrema facilità. Si un disco facile, piacione, che ci riporta alle radici della nostra musica popolare senza troppe pretese, se non quella di compiere il “Record del Mondo di chi sta più bene”. L’oro è il suo colore: ballabile (“Tradimentunz”), circense, sorridente, elegante nella sua rusticità. Lorenzo Kruger guida una improbabile ciurma con un carisma invidiabile e una voce perforante. E come riesce a trapanare quando parte “Film muto”, pura poesia spiccia tra “muscoli e cervello”.

Fiorella Mannoia – Sud
La signora torna in grande stile. Sempre più rossa: di fuoco e di passione. Ma anche nera di Africa, elegantemente bianca di pace e speranza. Si presenta scalza, umile anche davanti alla sua prima esperienza da autrice (la combo con Fossati in “Se solo mi guardassi” è semplicemente da manuale). Non il solito album che ci si aspetterebbe da una cantante come Fiorella Mannoia. Sud è il miglio prodotto della sua carriera: ricco di influenze musicali (ve lo aspettavate Frankie Hi-Ngr?), carnale, reale, sognatore, moderno e sociale, senza mai scadere in facili banalità. “In viaggio” è un sereno abbraccio d’addio. “Dal tuo sentire al mio pensare” è lo sguardo intenso e curioso di una bambina, occhi che non si scollano dall’obiettivo e bocca che si apre appena per lo stupore. Stupore per chi con la musica sa ancora emozionarci.

Marialuisa Ferraro ha scelto…

Management del dolore post operatorio – Auff!!
Irriverenti, incazzati e vagamente spacconi. In una parola: punk. Rispolverata la lezione dei CCCP e riletta in chiave indie, la band di Lanciano si presenta al pubblico italiano con una ricetta di rabbia misto gioia di vivere. Di alzare la testa e farsi sentire ce n’era proprio bisogno in questo 2012 di crisi e i MaDe DoPo sono i figli musicali perfetti di questo nostro tempo.

Teatro degli Orrori – Il mondo nuovo
Omaggio ad Aldous Huxley e a Storie di un impiegato di Fabrizio De Andrè, finalista al Premio Tenco di quest’anno, il Teatro degli Orrori partorisce un disco fortissimo, che li consacra e li consolida nel panorama musicale nostrano. L’attenzione ai temi del lavoro (che manca) e dell’immigrazione riassume le pagine più tristi della cronaca di quest’anno, facendo della band la vera portavoce di un disagio che purtroppo non è solo generazionale.

Calibro35 – Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale
Atmosfere calde, a tratti cullanti e a tratti danzerecce, mescolate a citazioni colte e rifacimenti di grandi successi jazz, in un involucro squisitamente strumentale: i Calibro35 hanno questa formula immaginifica da colonna sonora cinematografica che non riesce proprio a essere mero sottofondo musicale, ma delinea scene dal contorno netto e preciso, scalda, consola, indigna. Se l’obiettivo di ogni musicista è suscitare emozioni, questa band ci riesce meglio di chiunque altro, senza, oltretutto, servirsi dell’uso della parola.

Vincenzo Scillia ha scelto…

Mombu – Zombi
“Zombi” dei Mombu è un disco fresco, in parte innovativo, un vero e proprio spiraglio di luce. Il loro Jazz che si affaccia su di un Rock sperimentale e avvolto da atmosfere Africane per cosi dire, è stato un vero colpo a segno. Nessun disco del panorama Underground ha avuto, almeno sul sottoscritto, l’ impatto che ha dato “Zombi”. I Mombu sono un gruppo di grande valore, dalle mille risorse e probabilmente è anche la band dell’ Anno.

Kubark – Ulysses
Immaginate di girovagare in una grande metropoli come New York, oppure gironzolare per il centro di Napoli con l’ intento di fermarsi in ogni bar e buttarsi giù un cicchetto di tequila, altrimenti, se volete, pensatevi a Milano ad ammirare le più belle showgirl che si esibiscono nei vari locali, alternativi e non. “Ulysses” dei Kubark può fare da colonna sonora a questo vagabondaggio, comprende sensazioni che si possono provare in ogni situazione citata.

Il Teatro degli Orrori – Il Mondo Nuovo
Indubbiamente il Teatro degli Orrori è un gruppo che si è dato veramente da fare ultimamente, infatti è una delle band Rock più interessanti che sono girate su MTV. La loro sfida cominciata alcuni anni fa ha visto esiti positivi tra partecipazioni a diversi festival  e riconoscimenti ottenuti. Per una volta possiamo dire che ad avere visibilità è stata una band degna e “Il Mondo Nuovo”, ovvero il loro ultimo disco, ha dato prova della loro capacità.

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“Diamanti Vintage” Depeche Mode – Violator

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Risultato della felice idea di unire le ombre wave con i singulti dark, il nuovo percorso artistico dei Depeche Mode centra perfettamente le mire del successo oltre ogni limite, successo che già con il precedente Black Celebration si poteva presagire anche per via della prestanza artistica di Anton Crobjin che ne cura maniacalmente i video ed i make off, e “Violator” già nasce con il lusso e la potenza del disco per eccellenza della band, quella sacralità musicale che tagliò per sempre i freni alla loro trasgressività color pece.

Un opera capitale dell’elettronica, atmosfere cupe, violacee e malate sconvolgono l’intera stesura, una perfetta risintonizzazione del sound in cui Gahan e soci nuotano e sollevano con arguzia e professionalità eccelsa, tanto che con questo disco realizzano l’apice e la mondialità degli anni della “controriforma” wave; il disco che poi contiene le “colonne sonore di una generazione”, di quelle masse che si sono riconosciute in pezzi come “Personal Jesus”, “World in my eyes” o in “Halo”, “Enjoy the silence”, tracce che sono rimaste incastonate nella storia della musica rock come i comandamenti della Bibbia. Gli anni Novanta sono portatori di rivoluzioni varie e variopinte, ma i segreti custoditi dai DM hanno l’obiettivo preciso di travalicare le mode e gli affanni pop, loro inventano un marchio che avrebbe dovuto proiettarli in un futuro di lucidità e libertà totale, ma la droga è dietro all’angolo e non tarderà molto a disintegrarne gli impatti positivi e la prorompente notorietà.

Tuttavia rimane un testamento – in questo capolavoro scuro – che supera barriere e geografie temporali, tracce indelebili che hanno letteralmente consumato ascolti ovunque anche se i fantasmi del passato sono tutti qui riuniti a dare “festa magnificamente mesta” alla tracklist: chi non ricorda le onde strazianti che tracimano dolore Smithiano in “Waiting  for the night”, il minimalismo computerizzato di “Policy of truth”, la tenerezza fosca dell’armonia che tinge “Blue dress” cantata da Martin Gore o la finale “Clean” in cui Gahan pare intravedere un fievole raggio di sole ad illuminare la sua anima costantemente in pena? Gli anni passano come una scure sul capo, ma la dolcezza amara di questo caposaldo è intatta, immacolata e maledetta come i miracoli di agnostici fati, e i Depeche Mode paiono non essere mai svaniti del tutto, la loro anima lacerata ancora gira un’ossessione a cui rendere conto.

Disco di buio basilare come la luce.

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“Diamanti Vintage” I Garybaldi – Nuda

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Prima – con la forte turbolenza elettrica che arrivava dagli States della controcultura e dagli amplificatori di un giovane di colore chiamato Hendrix – si chiamavano i Gleemen, poi   – con l’avvento alato del suono progressive – si tramutarono in I Garybaldi, una delle  formazioni tra le più originali del panorama di allora, non tanto per la sfrontatezza che dimostrarono, piuttosto per i riferimenti che non troppo nascosti ancora “succhiavano” gli echi di quell’America che non voleva abbassare la cresta, di quella terra di grandi esplosioni musicali.
“Bambi” Fossati voce e chitarra, Angelo Traverso basso, Maurizio Cassinelli batteria e Lio Marchi alle tastiere, questa la storica formazione della band e “Nuda” è il loro manifesto sonoro corredato da una bellissima cover disegnata per l’occasione da Guido Crepax, un disco che nonostante tutto non abbandona mai lo spirito e il gancio Hendrixiano – vera avanguardia in quegli albori Seventies – e lo si sente nelle incursioni di chitarra elettrica che spande dappertutto il move-it psichedelico, i rifferama evolutivi e intricati che Bambi elabora come una intelaiatura aracnide che “spancia” negli anni sessanta alcaloidi “Maya desnuda”, la Little Wing tricolore che prende il nome di “26 Febbraio 1700”, incunbolo di Fender spasimante e fiorita che mette i brividi addosso, mentre con il rock leggero che “L’ultima graziosa” mette in scena , il registrato accusa un momento di defaillance, ma è solo una caduta di secondi.
Ma poi, a rialzare maestosamente il tutto ci pensa la suite del “Moretto da Brescia”, tre atti prog che hanno i Genesis come padri spirituali e dove giochi medievali di tastiere, voci e  atmosfere ancient si sposano con gli strumenti tecnologici vigenti “Goffredo”, “Il giardino del re”, e “Dolce come sei”, formando un trittico eccezionale e punto di fusione massimo a ponte di due ere soniche.
I Garybaldi rimangono tutt’ora nella memoria viva di chi  – in quei frangenti acidi – ricercava il ponteggio tra la libertà della terra promessa yankee e i voli verticali di un nuovo modo di adoperare la musica , un  sistematico reseat con il passato e un moderno impatto dei suoni; loro ci riuscirono per un poco, poi l’avvento di altri stimoli d’ascolto li ingoiò tra il limbo ed il nulla.   
Bei tempi davvero quelli in cui si volava senza ali e senza nessuna controindicazione.

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“Diamanti Vintage” Buzzcocks – Another Music In A Different Kitchen

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Anche se moltissimi non lo ammetteranno mai, i Buzzcoks di  Howard Devoto e Pete Shelley erano il terzo incomodo del punk inglese, lo snodo fondamentale tra il riot- move sanguinario dei Sex Pistols e la faccia pulita dei slogan giustizieri dei Clash; certo dai primi hanno colto l’irruenza e la strafottenza, e lo si può ascoltare in questo loro esordio fulminante “Another music in a different kitchen”, il disco che comunque li consacra in prima battuta a simbolo, a fibbia stretta, di questa triade (gli Stranglers sono già più scostanti) che del ribollio dei malesseri umani e sociali ne fecero bandiera da sventolare.

Maestri indiscussi per band che verranno dopo  – Libertines tra tante – i Buzzcocks si affermano immediatamente anche per quel vizio proforma di mischiare il sound ribelle con un pop istantaneo, che non riconosce stilemi precisi, ma che fuoriesce dalle loro melodie elettriche con tic beatlesiano, e per questo  “condannati” e bollati dall’ortodossia crestata come damerini che giocano col fuoco, ma era forse solo invidia anche perché questo disco è un riferimento, una bibbia ascoltabile da cui tutto parte, da cui tutto torna; magari la definizione di pop-punk può assestarsi benevolmente come stile preciso, come differenziazione peculiare della British Invasion che faceva fuoco ovunque, l’importante era crederci e loro, gli educati incazzati di Manchester, la loro parte non la mandavano a male.

Tracce ben tese tra fulminazioni punkyes e melodie pop che una volta unite fanno fiamme elettriche e una certa “grazia corale”, scaletta che è rimasta nella storia per via di pezzi memorabili, la corsa schizzata di “Fast cars”, “Reply”, il pogo che invade le chitarre battute allo spasimo “Love battery”, “Sixsteen”, il beat beatlesiano che appunto affiora dentro “I don’t mind”, “Autonomy” e la velocissima “I need”, brano che li apparenterà  – forse allargandosi un po’ troppo per immedesimazione – agli americani Ramones, ma questa è tutta un’altra storia se non addirittura fantasia popolare del tempo. Tutti brani che fecero la fortuna anche delle miriadi di radio libere che in quegli anni focosi trasmettevano l’intrasmissibile e pure di una generazione (minoritaria) che nei Buzzcocks intravedeva una via praticabile verso l’ammorbidimento del punk, ma era ed è rimasta fantasia, quello che invece conta e che la band è sopravvissuta a tutti ed alle elemosine che le label del 1978 cercavano di dare a queste formazioni pur che gli facessero vendere dischi su dischi.

Pietra miliare alla quale legarsi come amanti.

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“Diamanti Vintage” Rem – Document

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I REM,  band capitanata da Stipe,  ha già forzato i pareri critici del popolo underground americano, è riconosciuta in tutti gli stati ove ci sia un ballroom per suonare rock, in ogni piazzale di un college dove poter giostrare in santa pace accordi e melodie elettriche, ma si rimaneva comunque nel seminterrato della notorietà, ancora aggrappati al mondo degli outsider, e occorreva un qualcosa per fare il grande salto, il passo grande verso l’uscio “di casa”.
Prova e riprova arrivano ad incidere dischi di ottimo livello, ma sempre lì ad un centimetro dal tutto; l’occasione gli viene data dal produttore Scott Litt, e nasce “Document” il quinto di carriera e picco discografico che li catapulta immediatamente nel giro che conta, un disco che non suona solamente ma parla di politica e di diritti civili, un registrato che fece e fa spessore culturale oltre ogni limite di ascolto, e che tutt’ora rimane il manifesto “programmatico” dei REM per tutti gli anni a venire. Canzoni che rimangono appese alla storia del rockerama mondiale, canzoni destinate a cambiare per sempre gli obiettivi sonori dell’accademia alternativa di milioni di altre band e che praticano la libertà ed i sogni di generazioni che vogliono finalmente esibire i loro ideali di autodeterminazione.
Michael Stipe alla voce, Peter Buck chitarra, Mike Mills basso e Bill Verry alla batteria, sono un “quadrilatero” di poesia che si aggancia immediatamente ai refrain, quelle quasi filastrocche che si attaccano all’orecchio come un tic e che non se ne vanno più, e con queste nove tracce realizzano un disco il cui suono diventa il marchio e il modo di dire “suono alla REM”, il simbolo universale di una classe unica e mai contestata; pop alternativo e nomade, rock espansivo e quadrato, tutte caratteristiche che porterà la band di Athens (Georgia) a vendere cifre da capogiro, ma non si montano la testa, riescono a rimanere loro stessi convincendo chiunque con quel mood di semplicità che li contraddistingue. Document è un disco di rinnovamento, un distacco sonoro dai precedenti lavori che apre un nuovo corso ed una nuova “inquietudine” per tanti rivali e per altrettanti detrattori, ma la storia cancella tutto e rimangono nell’aria gli inni contro i privilegi e le assurdità “Finest  Worksong”, “Welcome to the occupation”, la rivisitazione del brano degli WireStrange”, oppure chi non ha mai versato una lacrima ascoltando “Fireplace” o cantato a squarciagola sudando e gioendo a mille con “It’s the End of the world as we know (and I feel fine)” e “The one I love”?   Nessuno può dire di no.

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“Diamanti Vintage” Tuxedomoon – Half-mute / Scream with a view

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Le metamorfosi creative oramai stanno impazzendo, tutte le pieghe della sperimentazione danno i numeri e scenografie neuroniche al limite dell’assurdo; dalla Bay Area Californiana, dopo aver imperversato in certi frangenti new-vawe, i Tuxedomoon cambiano letteralmente rotta sonora e si costituiscono parte integrante di un delirio immaginifico che pur conservando certi sciami canterburyani brandisce aspetti pazzoidi e acidi da lasciare il segno nella discografia americana di allora. “Half-mute/Scream with a view” è l’emblema di questo cambiamento, un bel calderone di free-jazz, elettronica-funky, tastiere enfatiche, visioni di luoghi lontani e declinazioni drogate, un disco che farà scuola e che nella sua materialità mutante, inciderà fortemente sull’allure intellettuale di quegli anni Ottanta sempre in cerca di cose da strapazzare e rendere poi in musica.

I Tuxedomoon, oramai  calibrati nella formazione a tre (Steven Brown sax, Peter Principle basso e Blaine L. Reinenger al violino), producono una specie di avanguardia sonora che tra colto e ispirazioni galattiche, assume l’intraprendenza della distanza come fattore basilare della loro mira musicale, prendono in prestito arie cinematiche e le trasferiscono su letterature antiche, viaggi a ritroso nella storia di popoli e culture fino a tratteggiarne sensazioni, colori e velleità in una tracklist mirabolante ai confini della schizofrenia intelligente; con i Pere Ubu e Television ancora conservati nel profondo dell’animo stravagante, il trio americano si concerta su giacigli sonori che concedono volentieri licenze ed improvvisazioni cosmiche “Nazca”, “59 T 1”, odori e rimasugli di vawe che si distinguono in “Volo vivace”, sensazioni diaboliche che scandiscono il tempo di “Tritone (Music Diablo)” oppure la movenza distrofica dell’eccezionale “Loneliness” quattro minuti di robotica ossessa che tramanda tutte le posture di un Captain Beefheart all’apice della carriera.

Un disco istintivo, vero, matto quanto ci pare ma stupendo nella sua estensione distorta, un viaggio che si fa film o un film di un viaggio in quella parte di inizio degli anni Ottanta dove nulla era dato per scontato e tutto era dato oramai per perso, fintanto che la rivoluzione Tuxedomoon arrivò per dare un “contegno storto” che raddrizzò un milligrammo di storia rock & affini.             

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“Diamanti Vintage” Iggy Pop – Lust for life

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E’ proprio vero, nei moment peggiori della vita, avere nel circondario un amico che ti può tendere più che una mano oltre che far comodo, è  un miracolo dal quale devi rendere conto finche i tuoi piedi calcheranno vivi questa terra, e l’Iguana Iggy se ne ricorderà per tutti gli anni a venire. Il miracolo di cui sopra si chiama Bowie, amico da tempo di Iggy Pop, quest’ultimo drogato fradicio e in uno stato depressivo cianotico per via dell’assenza (da due anni) dei suoi sodali Stooges, allontanatisi per incongruenze e dissapori con lui stesso, e Bowie, colto da pietà artistica lo invita nel suo regno inglese e  – dopo non poche storie –  riesce a farlo contrattizzare in seno alla casa discografica Virgin.

Bowie in quel periodo era già attivo con lo stupendo album Heroes ed in pochissimo tempo scrisse quasi tutti gli arrangiamenti, le musiche e timbriche per l’album dell’amico mentre James Newell Osterberg Jr. (questo il vero nome di Pop) ne scrive i testi e le metafore bollenti in quello che sarà per la storia del rock, il caposaldo e faro per una marea infinita di band a venire; “Lust For Life” è il disco della rinascita personale dell’artista di Muskegon, il disco scuola del rock universale, la colonna sonora di una generazione di strapazzati e ai limits del bad thing lussurioso, tracce suonate dal fior fiore di musicisti che Bowie assoldò per l’occasione quali, oltre a Bowie stesso al piano, Carlos Alomar e Rick Gardiner alle chitarre ed i fratelli Sales alle percussioni, ed il resto è pura cronaca di storia.

Disco di blues sguagliato e tenace  matrice garage che riemerge come sangue bollente; chi non si è mai eccitato o se ne è andato in giro fumatissimo con negli orecchi con le celeberrime “cattive compagnie sonore” di “Lust for life”, “Sixsteen”, la dinoccolata “The passenger”, tutto l’ìimpossibile di droghe, alcool e sesso depravato che scorrono in “Tonight” e nel blues sbavato di “Turn blue” o fatto l’amore con la ragazza del momento mentre sullo stereo scorreva la deviante “Fall in love with me”? Chiunque vedeva e vede in Iggy Pop l’arma ed il corpo contundente fatto uomo che – per antonomasia –  il rock abbia mai creato, e questo fulminante disco non era altro che il primo gradino della rinascita di un artista che ancora oggi – a distanza di anni ed anni – incute rispetto e fa architrave dell “ascolto grande”

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“Diamanti Vintage” Ivan Graziani – Ballata per 4 stagioni

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Forte  delle innumerevoli esperienze sui palchi di tutt’Italia al seguito di Lauzi, Lucio Battisti e Antonello Venditti, un giovane e concretamente sognatore Ivan Graziani, si “mette in proprio” accasandosi alla casa discografica Numero Uno del maestro Mogol, e, sempre accorto agli scambi artistici diretti e indiretti con l’amico e sodale Venditti, esce allo scoperto con questo ottimo disco “Ballata per 4 stagioni”, l’esordio ufficiale di un artista che in futuro colorerà la scena musicale italiana di canzoni simbolo nonchè scuola diretta per molti cantautori a venire.

Con una voce in falsetto, vero e proprio marchio dell’artista, Graziani è un personaggio di una genialità creativa non trascurabile, un talento poetico e diciamo anche chitarristico (anche se in questo album il suo amore primario sembra essere il pianoforte o le tastiere in generale, ma che in secondo tempo abbandonerà) che si fa notare subito e con interesse, la sua è una forma melodica malinconica e briosa nel contempo, amori, ricordi, trasparenze e brividi sono la costante delle sue opere/canzoni, e che in questo disco vengono fuori come gemme primaverili, quell’estetica cantautoriale che lo porterà tra i grandi della storia sonante italiana.

Dieci canzoni arrangiate anche da un valente Claudio Pascoli e  che scorrono straordinariamente in una dolcezza di timbri e vezzi che in un certo modo rivoluzionano al contrario gli impeti della canzone contro di allora, praticamente ricollocando la poetica diretta sopra le metafore infingarde che si nascondevano nella protest song e che da li a poco andrà a scemare, e questo valore aggiuntivo proposto da Graziani viene premiato e salutato da stampa di settore e critica come una ventata di “tradizione in avanti” esemplare; canzoni tenere e luminose, canzoni a presa rapida come l’atmosfera slogata di “Dimmi ci credi  tu?”, i ricordi in salsa progressive “I giorni di Novembre”, il folk-pop a giostrina di “Il campo della fiera”, o l’intimità di una donna “Come”, una tracklist pensante e ben costruita, subliminata nel finale dalla bella ballata lounge tra sax e trombe “E sei cosi bella”, traccia che chiude un primo successo discografico che ne aprirà altri,  molti, nel dopo di carriera.

Disco basilare della discografia di un cantautore sfortunato ma che ha fatto luce –  con la sua alchimia di semplicità e talento – su incomprensioni e marchette pop di cui la musica di allora godeva e ci si infagottava senza ritegno.

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“Diamanti Vintage” Elvis Costello – This year’s model

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Che caratteraccio e che prepotente che era Elvis Costello. E quella volta che nel porticato di un hotel di lusso in Ohio prese a battibeccare con la security di Stephen Stills che sosteneva la supremazia dei musicisti americani rispetto a quelli inglesi? Botte da orbi.
E quell’altra al Saturday Night Live quando volevano impedirgli di suonare Radio Radio, che era un inno di protesta contro gli Yankee? Lui se ne fregò, e quelli del programma televisivo lo aggredirono a sediate. Il suo sangue scorreva così, ribelle, stizzoso e iracondo  come un punk, ma con un retaggio musicale che la maggior parte dei rocker di fine anni Settanta ignorava.
Nella sua testa solo Small Faces, Stones e Kinks: This year’s model è il parto fortunato di un’incontro con il produttore Nick Lowe e con la band degli Attractions e un grande capolavoro della storia rock cominciò a frignare per i quattro venti.

Un rocker con una somiglianza strepitosa a Buddy Holly e vetriolo nelle vene, musicista in perenne conflitto con tutto e tutti, in questo disco cambiò i connotati al beat sixteen e lo nutrì di scompensi punkeggianti tra Farfisa e melodie, pop slabbrato e marcette per organo Night Rally, ma è una destabilizzazione psicotica che farà ombra lucente regnante sulle ombre minori della new-wave già esistente e malata di suo.
Costello aveva il ritmo della new wave e il sarcasmo di un britannico rebelde astioso, dentato ma colto: lanciò un suono secco e spigoloso, erede del pub rock ma in linea con i tempi, pronto per essere inquadrato nella foto di gruppo di un’epopea di profondi e resettanti cambiamenti, non solo in fatto di musica.
La sua “back-wave” poteva essere melodica Little Triggers, deflagrante Pump It Pump, e anche dettata dalla stupenda grafìa Dylaniana Lipstik Vogue, ma restava comunque tagliente e lesiva.
In I Don’t want To Go To Chelsea  sentenzia, sputa fiamme e “offende” il quartiere simbolo della Londra più elegante, ma lui era altrove a far conoscere alle platee questo capolavoro che divenne un manifesto della new wave e lui occhialuto cantautore scapestrato andò a firmare anche tantissime foto segnaletiche – per risse a catena –  dalle polizie di stato americane.

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“Diamanti Vintage” Litfiba – Desaparecido

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Già da qualche anno la ribalta new-wave tutta italiana dava suoni e mosse scaltre con i Gaznevada, Neon, Denovo, quando i giovani Litfiba –  sebbene con piccole esperienze alla spalle – affrontano la forza discografica con questo “Desaparecido”, un disco che contiene impronte stilistiche di stampo Ultravox, qualcosa dei primi U2, Japan per allargarci un po’, ma che comunque li posta, anche con l’aiuto di molta stampa alternative di allora, ad inaugurare una nuova e fresca stagione musicale che li vuole fautori di un nuovo rock tricolore e  che da li a poco esploderà in tutto il suo splendore zingarato e mezzo sangue.

La formazione che vede Piero Pelù alla voce, Gianni Maroccolo al basso, Ghigo Renzulli alla chitarra, Ringo De Palma batteria e Antonio Aiazzi alle tastiere, assume tutte le caratteristiche di allora, si veste della wave oscura e decadente, abbraccia un mix di Inghilterra, oriente, torbidi sogni e nebbiose poetiche gotiche che vanno a  costituire immediatamente uno status di massa, un simbolo di appartenenza giovanile, uno specchio riflettente che durerà nel tempo, fino ai nostri giorni; otto takes che la voce di Pelù – incontrastato personaggio della band –  anche per via di una fisicità selvaggia e prestante, gestisce alla perfezione con timbriche retrò e spunti memorabili di tensione e dolcezza, mentre il resto della band si prodiga tra epicità, segmenti evocativi e una pianificazione di gruppo che rende il giusto, che evoca scenari di successo e una certa avanscoperta lungimirante.

Disco senza controindicazioni salvo la frenesia meticcia, otto tracce che tra sintetismi tattici e sonorità a caldo entrano prepotentemente a far parte della storia incandescente di questa formazione toscana, a partire dalla epicità inneggiante di “Eroe nel vento”, il buio atmosferico che veste “Lulù e Marlene”, il medioriente che avanza sinuoso in “Istambul”, i respiri zingari e il caliente sogno spagnolo “Tziganata” e “ Desaparecido”, tutti piccoli brividi che incalzano in un disco che rimarrà – e lo è – simbolo ed elegia di una stagione d’oro imbrunito che forse non si replicherà mai più.

Da li a poco il grande boom,  grandi conferme e punto di riferimento per tutta la scena alternative italiana che ancora oggi, tralasciando rancori, dissidi, mani tese e riappacificazioni, guarda ai Litfiba come padri spirituali e tara dalla quale è quasi impossibile rendersi autonomi musicalmente.

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“Diamanti Vintage” Acqua Fragile – Acqua Fragile

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La Premiata Forneria Marconi, appena li ascoltò in un concerto durante un festival pop di avanguardie e nuove tendenze li presentò ad un allora giovane Lucio Battisti direttore e discografico della Numero Uno il quale non ci pensò su un attimo a scritturarli, mentre Mamone – allora il manager della scena live per antonomasia – dopo avergli fatto cambiare nome da Immortali in Acqua Fragile, li fece esibire come supporto in concerti memorabili con Curved Air, Gentle Giant, Soft Machine e vari altri, e la notorietà non si fece attendere, tanto che anche la critica – mai ampollosa e rassicurante come in quegli anni storti – ne scrisse  grassettati ed euforici commenti.

Bernardo Lanzetti, Pier Emilio Canavera, Gino Campanini, Maurizio Mori e Franz Dondi, si fecero conoscere in tutta Italia, la loro musica – un condensato di Genesis, Gentle Giant e sprazzi chiaroscuri di Velvet Underground – diventò man mano la colonna sonora dei affollatissimi raduni di massa alternativi che in quei tempi si tenevano in ogni cm quadrato della nazione, e il loro universo sonoro approdò in questo primo lavoro discografico omonimo, un disco che mise d’accordo la critica formale, ma scatenò la reazione di quella underground che non gli perdonò mai – alla band emiliana – di fare la controfigura inverosimile dei Genesis e di Peter Gabriel in primis. Ora può essere anche vero che il sound d’oltre manica influenzasse morbosamente la costruzione parziale del disco, ma da farne una guerra ce ne correva, ed ascoltare quelle sette tracce che costituivano l’ossatura del disco non tutto è andato in malora, specialmodo nelle brezze west coast di “Science fiction suite”, “Going out” come nella dolcezza immutabile di “Morning comes”, inno agli svolazzi del progressive in alta uniforme.

Un disco che divise la controcultura, un disco che come arrivò non se ne volle più andare, ed ora un disco da ripescare e risollevare verso l’alto.

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