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“Diamanti Vintage” Litfiba – Desaparecido

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Già da qualche anno la ribalta new-wave tutta italiana dava suoni e mosse scaltre con i Gaznevada, Neon, Denovo, quando i giovani Litfiba –  sebbene con piccole esperienze alla spalle – affrontano la forza discografica con questo “Desaparecido”, un disco che contiene impronte stilistiche di stampo Ultravox, qualcosa dei primi U2, Japan per allargarci un po’, ma che comunque li posta, anche con l’aiuto di molta stampa alternative di allora, ad inaugurare una nuova e fresca stagione musicale che li vuole fautori di un nuovo rock tricolore e  che da li a poco esploderà in tutto il suo splendore zingarato e mezzo sangue.

La formazione che vede Piero Pelù alla voce, Gianni Maroccolo al basso, Ghigo Renzulli alla chitarra, Ringo De Palma batteria e Antonio Aiazzi alle tastiere, assume tutte le caratteristiche di allora, si veste della wave oscura e decadente, abbraccia un mix di Inghilterra, oriente, torbidi sogni e nebbiose poetiche gotiche che vanno a  costituire immediatamente uno status di massa, un simbolo di appartenenza giovanile, uno specchio riflettente che durerà nel tempo, fino ai nostri giorni; otto takes che la voce di Pelù – incontrastato personaggio della band –  anche per via di una fisicità selvaggia e prestante, gestisce alla perfezione con timbriche retrò e spunti memorabili di tensione e dolcezza, mentre il resto della band si prodiga tra epicità, segmenti evocativi e una pianificazione di gruppo che rende il giusto, che evoca scenari di successo e una certa avanscoperta lungimirante.

Disco senza controindicazioni salvo la frenesia meticcia, otto tracce che tra sintetismi tattici e sonorità a caldo entrano prepotentemente a far parte della storia incandescente di questa formazione toscana, a partire dalla epicità inneggiante di “Eroe nel vento”, il buio atmosferico che veste “Lulù e Marlene”, il medioriente che avanza sinuoso in “Istambul”, i respiri zingari e il caliente sogno spagnolo “Tziganata” e “ Desaparecido”, tutti piccoli brividi che incalzano in un disco che rimarrà – e lo è – simbolo ed elegia di una stagione d’oro imbrunito che forse non si replicherà mai più.

Da li a poco il grande boom,  grandi conferme e punto di riferimento per tutta la scena alternative italiana che ancora oggi, tralasciando rancori, dissidi, mani tese e riappacificazioni, guarda ai Litfiba come padri spirituali e tara dalla quale è quasi impossibile rendersi autonomi musicalmente.

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“Diamanti Vintage” Acqua Fragile – Acqua Fragile

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La Premiata Forneria Marconi, appena li ascoltò in un concerto durante un festival pop di avanguardie e nuove tendenze li presentò ad un allora giovane Lucio Battisti direttore e discografico della Numero Uno il quale non ci pensò su un attimo a scritturarli, mentre Mamone – allora il manager della scena live per antonomasia – dopo avergli fatto cambiare nome da Immortali in Acqua Fragile, li fece esibire come supporto in concerti memorabili con Curved Air, Gentle Giant, Soft Machine e vari altri, e la notorietà non si fece attendere, tanto che anche la critica – mai ampollosa e rassicurante come in quegli anni storti – ne scrisse  grassettati ed euforici commenti.

Bernardo Lanzetti, Pier Emilio Canavera, Gino Campanini, Maurizio Mori e Franz Dondi, si fecero conoscere in tutta Italia, la loro musica – un condensato di Genesis, Gentle Giant e sprazzi chiaroscuri di Velvet Underground – diventò man mano la colonna sonora dei affollatissimi raduni di massa alternativi che in quei tempi si tenevano in ogni cm quadrato della nazione, e il loro universo sonoro approdò in questo primo lavoro discografico omonimo, un disco che mise d’accordo la critica formale, ma scatenò la reazione di quella underground che non gli perdonò mai – alla band emiliana – di fare la controfigura inverosimile dei Genesis e di Peter Gabriel in primis. Ora può essere anche vero che il sound d’oltre manica influenzasse morbosamente la costruzione parziale del disco, ma da farne una guerra ce ne correva, ed ascoltare quelle sette tracce che costituivano l’ossatura del disco non tutto è andato in malora, specialmodo nelle brezze west coast di “Science fiction suite”, “Going out” come nella dolcezza immutabile di “Morning comes”, inno agli svolazzi del progressive in alta uniforme.

Un disco che divise la controcultura, un disco che come arrivò non se ne volle più andare, ed ora un disco da ripescare e risollevare verso l’alto.

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“Diamanti Vintage” Grand Funk Railroad – Closer to home

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Durissimo, in quello spicchio di tempo, contendere una benchè minima visibilità o un quadrato di stage all’ombra di uno strano “dirigibile” di nome Led Zeppelin che si apprestava ad imbambolare l’America. Fortuitamente però nel 1969 si esibirono al festival pop di Atlanta davanti a 200.000 persone e finalmente il loro combustibile –  fatto di volumi al massimo sporchi di hard-rock, soul e blues – s’incendiò di meritato interesse. Il trio del Michigan dei Grand Funk Railroad (Mark Farner chitarra, Don Brewer batteria e Terry Knight al basso, che poco dopo lasciò la formazione per diventarne manager, favorendo l’entrata a Mel Schacher), sulla scia dell’inaspettato successo incide il primo album “On Time” dove una “Heartbreaker” diventerà vangelo per moltitudini di bassisti. Ma è nello stesso anno – con il secondo “Closer to home” – che la scuola GFR si conferma come punto di riferimento basilare dell’hard-rock mondiale. Monster Magnet docet. L’Lp è un’indisciplinata regolazione di riff, assoli, deflagrazioni e ballad ricercatissimi, un rullo compressore che schiaccia e carezza simultaneamente gli impianti stereo comperati a rate; il calibro vocale di Farner “colloquia” in ottave roche e rabbiose con la sezione ritmica a maglio di Brewer e con il pump delle quattro corde di Schacher, creando un ritmo irrefrenabile, impattando Southernità e tendenze soul-blues importantissime nell’innesto e fusione di stilemi “nuovo corso” che la band imbastisce in ricami sorprendenti. “Sin’s a good man’s brother, Aimless lady e Nothing is the same” introducono alla potenza caratteriale del registrato, mostrando i muscoli corporali e d’intento protesi a svegliare l’ascolto dalle “eventuali distrazioni” che in quel periodo portavano ancora nei bagnasciuga della San Francisco Flower. La ballata sentimentale arriva con “Mean mistreater”, mentre con “Get it together e I don’t have to sing the blues” prende il sopravvento il rock-soul funkeggiante, spumoso e hook che fa “worm up” per le tracce finali di questo stupendo incunabolo discografico. Non particolarmente amati dalla maggior parte dei puristi musicologi di allora, i Grand Funk Railroad conquistano le nuove generazioni che vedono in questa orgia di sonorità calde-elettriche un power-trio di riscatto, di orgoglio “nazionale”, una guida “ruvida e ribelle” a stelle e strisce, e che in “Hooked on love e I’am you captain” trovano il loro inno da gridare. Seguiranno altre produzioni di successo: “Live album, Survival, il premiatissimo E Pluribus Funk” ma poi la vena pian piano si asciuga a favore di una commercialità vuota e da classifica, fino a diventare da cult band  che era a mera “dollars machine” contesa tra Wal-Mart e la gadgettistica da Starbucks. Alla fine l’oblio e il declino totale. Closer To Home è uno spregiudicato vinile che ha stigmatizzato – come si dice nella filosofia attuale – l’ingranaggio dell’era dei distorsori del rock duro, hard.

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“Diamanti Vintage” Rolling Stones – Exile on main st.

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Mick Jagger , l’arrogante per eccellenza all’uscita di questo disco disse: “L’ho finito da solo, altrimenti, con tutti gli ubriachi e drogati che giravano in quel periodo..”. Odiava quel suono grezzo, ruvido e mixato indecentemente. Al contrario, a Keith Richard, piaceva moltissimo, amava la riconquista della selvaggia onda del rock e finì che si accollò i meriti e gli onori, portando il suono della sua chitarra sui massimi livelli espressivi.

Album doppio, diciotto tracce che lucidano a fondo l’anima sporca di Richard che, accantonate certe transizioni esotiche, rigurgita in queste outtakes ripescate da bauli segreti, tutti i demoni e  i fantasmi “neri” che scalciano nella sua testa; “Exile on main st.” è il disco che “brucia la pelle” a suon di folk, rock’n’roll, boogie, blues, gospel, voodoo plateale e honky-tonky delle paludi del South, cardiopalma da 67 minuti che emana un’incredibile voglia di strada, un incessante fluido di feeling atavico e suoni di terra secca.

Si può benissimo cesellare tra le radici di un lavoro tradizionale – inteso come recupero estetico dei “rumori del diavolo” – in cui la chitarra la fa da padrone, annebbiando un po’ la fisionomia sexy di Jagger, che  –  ad un attento ascolto è messo in seconda fila dal suo amico-nemico-rivale.

Registrato a metà, tra gli studios Sunset Sound di Los Angeles, e la villa in Francia di Richard, questo caposaldo – a posteri – della discografia degli Stones, è un inno pazzesco al boogie di razza innalzato al massimo da pompate di fiati, scartavetrate di pianoforti e odi di slade e gospel che inducono al tremore; Casino boogie, Rip this joint, Tumbling dice, Rock off sono le piste che più di tutte scialacquano negli acquitrini salmastri dell’Old South of America – fenomenale la rivisitazione di Shake your hips del grande bluesman Slim Harpo – ma è tutta l’atmosfera che gira in questo album che fa agitare, in fondo, il vero spirito sonico/primordiale degli Stones.

Wyman, Jagger, Taylor e Watts, fanno miracoli a stare dietro alla forma smagliante, quanto diabolica, di un’impossessato Richard che tra sferragliate di chitarra e genuflessioni al sacro fuoco del gospel –blues Sweet Virginia, goliardie country Torn and frayed, scatenamenti woodoo satanici I just wont to see his face e solismi d’armonica, percussioni e acustica Sweet black angel, sfoga rabbia e divinazione che poi in seguito si dovranno cercare con il lumicino.

Lancinanti le performance di Bill Preston alle tastiere, Bobby Keys al sax, Jim Price alla tromba e Jim Miller – quest’ultimo alle percussioni roventi nel revisitez blues Stop breaking down di Robert Johnson.

Dopo questo disco “rotolante” come Dio comanda, l’inferno quello vero, la droga che si impadronisce di Richard e la caduta dei Rolling Stones nel torpore di una vana creatività che si prolungherà per molto.

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“Diamanti Vintage” The Cure – Three Imaginary Boys

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É storia appurata, se non ci fosse stato in giro in quegli anni, tra le masserizie squarciate del dopo punk, lo spirito allucinato degli Joy Division, di loro non ne avremmo saputo mai nulla, o forse non sarebbero mai esistiti.
Prima Easy Cure con il naso dell’istinto, poi Robert Smith alla chitarra e voce, Michael Dempsey al basso e Lol Tolhurst alla batteria fondano il nocciolo primitivo della più grande leggenda oscura del rock che prenderà il nome The Cure, l’emblema notturno del buio.

Ma qui siamo alle origini della loro novella, e sebbene Smith e soci si vestono di nero e si bistrano gli occhi di nerofumo, siamo lontani da come li conosciamo oggi; è l’esordio di una band che vuol fare ballare, divertire, saltare tra ritmi punk-reggae e baldorie beat anni 60, dove la malinconia fondamentale dell’epoca sale in gola solo in sparuti episodi disseminati nella tracklist.
Three imaginary boys” arriva come a far pace – dopo il singolo dell’anno prima Killing an Arab che tanto aveva fatto infuriare le comunità islamiche per via del suo contenuto oltraggioso – col mondo intero, e colpisce subito nel segno per la vivace stravaganza ed eccentricità surreale di cui si colora.

I “giocherelloni del Sussex”, come saranno chiamati scherzosamente i The Cure, guadagnano le prime pagine delle riviste rock, fra i protagonisti della nuova corrente post-punk guidata appunto dai Joy Division e Siouxie & The Banshees. Il resto lo fa la bizzarria della proposta musicale: un suono magro, con la chitarra di Smith in primo piano e atmosfere diafane che prendono spunto dalla psichedelia Endrixiana quanto al glam di Bowie.

I ragazzi hanno vent’anni e il suono può sembrare ancora immaturo, abbozzato, ma fresco e irriverente 10.15 Saturday night, Object e So what, emozionante nella rivisitazione distorta e ubriaca di Foxy Lady di Endrix, terribile nell’urlo lancinante di Subway song e allucinato nello swing che si scalda per poi prendere fuoco in uno stranissimo reggae-free jazz Meat hook; il romanticismo nebbioso, che poi cova nel carattere dei musicisti, trapela nel gioiello del disco, quel Fire in Cairo dal ritornello lento e imbambolante in cui sono cantate le lettere in inglese dell’alfabeto – i, erre, effe ecc -, che lascia presagire – col senno di poi – la via maestra della band verso la “linea gotica” che li incoronerà – nel giro di due/tre album – portavoce ufficiali della nuova generazione di sconfitti.
Tuttavia rimane un esordio allegro e pimpante, ancora vergine e immacolato rispetto al  tetro dark che abbracceranno in futuro, dove prenderanno coscienza che l’essere depressi è la vera realtà,. se non l’unica, per essere felici senza un sorriso e per sorridere senza una smorfia di viso. Disco essenziale come un’arcobaleno prima – e non dopo – la tempesta no-future che bussa all’uscio.

 

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“Diamanti Vintage” Juri Camisasca – La Finestra Dentro

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Anche l’affezione del pubblico, sempre più fitto, giovane, curioso confermò questo giovanissimo e introspettivo capellone milanese, Juri Camisasca, come una vera cometa oscura in quella scena contemporanea ed alternativa che poi erano i roventi anni Settanta; oramai la protest song, la canzone di protesta politicizzata, stava quasi per chiudere le ali, tanti erano gli eventi e le rivolte da indurla a smarrirsi da sola, avanzavano nuove necessità ma soprattutto nuove idee sonore e nuovi carotaggi interiori che si presero – a lato di un cantautorato visionario – una parte consistente della scena progressive imperante.

E appunto un eroe oscuro, delirante, sui borders dell’esistenzialismo minimale, si palesò in Camisasca con questo esordio discografico “La Finestra Dentro” – introvabile oramai – prodotto da Franco Battiato, allora filiforme sperimentatore metafisico, un disco che definire ossessivo è ben poca cosa, ricco, venato e svenato di pads atmosferici al limite della claustrofobia, interiore oltre le viscere, ma anche un profondo sguardo in tralice sulla fragilità dell’uomo e della sua precarietà di rapporti, tracce in cui sembra passeggiare un Kafka al limite di se stesso “Metamorfosi” fino a straziarsi “Scavando col badile” sul concetto che prima o poi l’animale (in primo piano sempre topi) avrà la dominazione sull’uomo; certo un disco per allora rivoluzionario nel senso stretto del contenuto, ma non di facile approccio se non dopo attenti ascolti, acustica ed elettronica si fanno la corte, poesia e analisi psicologica si contendono la tracklist come del resto l’intensità rovesciata di questo artista contende forse con sé stesso quella quadratura allucinata informale che si trasformerà in una nuova tendenza espressiva unica nella sua storia.

Nella penna di Camisasca gira molta disaffezione e non manca quell’autodistruzione morale tipica del disagio artistico, umano e sociale dei Settanta specie in “John” storia di un amico ritrovato e che la vita lo ha costretto a fare il travestito, in “Galantuomo” si cerca la negazione della vita e più sotto, nella finale “Il regno dell’Eden”, l’autore si “reincarna” in Dio, in un vero delirium tremens tra cori infantili, chitarre ed effetti elettronici che chiudono questo disco trasversale che già allora anticipava i tremendi tempi moderni della nostra mostruosa società. Un disco premonitore e a suo modo, esemplare, stupendo, che concede uno spicchio di sole in “Un fiume di luce”, unica traccia che ti fa alzare lo sguardo, lo stesso che appena finita ti ricade come ad un manichino senza più fili tesi

Amanti degli sconvolgimenti d’anima, spasimanti degli spiriti maledetti, fatevi avanti, questo disco è merce rara per chi è profondo.

 

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“Diamanti Vintage” Radio Birdman – Radios Appear

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L’Australia dei mitici Radio Birdman, folgori istantanee che durarono quanto una eclissi di sole, guarda all’America stupendamente laida del garage di Detroit, quella dei stordimenti elettrici di MC5, Stooges, ma la lingua popolare li vuole collocati tra le ortiche del punk sebbene i rifferama del chitarrista Deniz Tek lasciano all’immaginazione scenari molto più distanti dell’azzardata approssimazione; e questo bel disco “Radios Appear”, bardo assoluto della loro parabola, in pressappoco cinquantatre minuti di scalmane di gruppo, lascia il segno indelebile della grande nevrosi rock che correva in quel periodo già tanto agitato di suo, e che li colloca come agguerriti rivali dei newyorkesi Television, quelli  di Marquee Moon, che da tempo graffiano la scena dell’East Side.

Chitarrismi forsennati, ansie, urgenze espressive e la vivacità di una epoca di rinnovamenti e scoperte culturali, sono le prerogative principali di queste dodici canzoni di una tracklist che rimarrà impressa per l’eternità, il manifesto musicale di questo sestetto indimenticabile che dall’altra parte del mondo fornì una risposta inequivocabile alle alte baronie elettrificate esistenti non con l’aggressività ma con la baldanza innica e corale di una gioventù ribelle che contrapponeva al tagliente e crestato cosmo punk sovraffollato di sputi e droga la sbavatura (a modo) di canaglie di (buona famiglia); un album in cui la band cita il sommo Edgar Allen  Poe  “ Descent into maelstrom”, traccia monumento ad un tocco di chitarra febbrile e ad una voce – quella di Rob Youngher – al top dell’immaginifico, poi una marea di solforazioni anni Cinquanta che si immolano in “New race”, “What gives?”, “Do the pop”, la bella arietta grigia  che tira in “Man with golden helmet”, un trucilo di wave che si insinua dentro “Hit them again” per arrivare al pezzo forte contenuto nel numero dieci della scaletta, quella stupenda cover di “You’re gonna miss me”, grande successo di Roky Erickson ed i suoi 13th Floor  Elevator.

Diabolico rock’n’roll, una vera celebrazione negli anni dei terremoti ideologici e di costume.

 

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“Diamanti Vintage” Alan Sorrenti – Aria

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Chi è passato, nel lontano 1972,  dalle parti del prog italiano, senz’altro non avrà potuto non essere magicamente ammaliato dalla voce melodiosa e aliena – apparentemente stonata o fuori giro – del cantautore musicista napoletano Alan Sorrenti che con lo stupendo vessillo sonoro “Aria” inizia a volare nella musica “alternativa” che in quegli anni era aeroporto per centinaia di band e solisti che volevano “dire” in maniera  non conforme la loro poetica ed i loro intimi canti.

Con dalla sua il violino jazzato di  Jean Luc Ponty (Mahavishnu Orchestra, Zappa e Tony Esposito) ed altri musicisti, Sorrenti  sperimenta e modula nuovi meccanismi melodiosi, altrettante partiture interpretative  che mescolavano poetica psichedelica, mediterraneo soffuso e un cantos libero da dogmi e schermature, una timbrica personale che subito lo porta all’attenzione di addetti ai lavori e ad un pubblico che – proprio in quei frangenti – era sempre più innamorato intellettualmente da una certa cultura “assorbita” da  idiomi sonori  e dettagli tra oriente e terra nostra, praticamente una fusion antesignana dell’odierna world; lunghe suite, atmosfere volatili e suggestive sono la predominante di questo disco, quattro “pezzi” di non facile assunzione di primo ascolto, ma una volta rodato lo spirito introspettivo e illuminante, è come intraprendere un viaggio, un trip, che svezza categoricamente ogni indugio a forma di  interrogativo.

Si potrebbe definire – con il pregio dell’unicità – pop-folk progressive o folklorico, una tipologia aerea di ambient vissuto a ipnosi psichedelica che si espande per tutta la durata della tracklist; testi onirici e d’amore contorto ma dolce, sono la tramatura lirica che va a trasformarsi in canzoni che hanno passato indenni quasi trent’anni di musica come la lunga suite di “Aria”, l’inno melodioso che fa da traino  a tutto il lotto e hit indimenticabile “Vorrei incontrarti”, il mantra trasversale tra un tripudio di mellotron, flauti, basso che ricorda molto da vicino le atmosfere dei Van Der Graaf GeneratorLa mia mente” e il finale lunare dove l’ancia di Andrè Lajdi ricama in maniera stupefacente “Un fiume tranquillo” degna chiusura di un sogno sonoro che Sorrenti – l’anno dopo – riproverà a replicare in “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto” ma che purtroppo ne uscì come un’anatra zoppa dopodiché l’artista partenopeo si perse in strade di seconda, sempre più rivolte ad un pop commerciale fino a scomparire del tutto dalla scena.

Una pietra miliare del progressive “fiabesco” italiano e di quella immensa Napoli che guardava alla musica come modalità per esternare l’anima di un popolo con l’arte al posto del sangue.

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“Diamanti Vintage” Camel – Mirage

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L’europa, ma principalmente l’Inghilterra, è una esplosione incontrollata di formazioni e gruppi immolati alla musica Progressive che si perde quasi il conto, sigle, idiomi e quant’altro possa servire a far parte dell’armata Brancaleone di questo stile è ben accetto; un gruppo strabiliante e purtroppo mai riconosciuto come tale, sono i Camel con i loro suoni fiabeschi dove Elfi, Gnomi e creature inverosimili banchettano in una fantasia bucolica e volante molto personale, dove lunghissime suites prettamente strumentali fanno la differenza con le altre numerosissime band che affollano questo bengodi sonoro.

Andy Latimer chitarre e flauto ( che spesso cura anche la voce nei momenti sporadici), Peter Bardens tastiere, Andy Ward batteria e Doug Ferguson al basso arrivano con “Mirage” al secondo step della loro carriera, un lavoro si diceva arioso, polposo di tastiere e passaggi chitarristici che non appesantiscono mail la tramatura totale del disco, un viaggio “in silenzio” che pare attraversare boschi, declivi e praterie con il fruscio della psichedelica imperante del periodo, quel senso immaginifico di pace interiore che non inciampa nei barocchismi ampollosi che spesso vanno a griffare le anticipazioni su vinile di questo apparato atmosferico stupefacente; un disco luminoso, forte di quella scia solare che benedice il quartetto, e anche portato a prendere in visione il lato fantasy della letteratura per fonderla con un mood appropriato, grasso di particolari e vivo di accorgimenti colti.

Infatti nella stesura, i Camel prendono spunto “Nimrodel e le sue particelle” da Il Signore Degli Anelli di J.R.R. Tolkien, ma poi è una dolce bandanza di cavalcate e voli mentali che non si contengono, un ascolto talmente in alto e free che porta i sui massimali acrobatici nei ricami di Hammond che vibrano in “Earthrise” e nei svolazzi di flauto in “Supertwister”; la storia li scoprirà dopo decenni e questo è davvero imperdonabile, ma anche in quelle ere certe raccomandazioni esistevano già, gli inghippi delle major viaggiavano forte, tanto che una – senza far nome – fece da testimone alla multinazionale di sigarette Camel che denunciò la band inglese per plagio e sfruttamento di logo registrato e poi condannati ad un risarcimento cospicuo. Un disco dove regna una quiete affascinante ed un’eleganza compositiva e strutturale senza uguali, senza concorrenza. Da riscoprire vivamente.

 

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“Diamanti Vintage” Peter Hammill – The Silent Corner And The Empty Stage

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I Van Deer Graaf Generator si sono oramai sciolti e l’anima guida della formazione inglese, Peter Hammill, arriva al suo terzo e formidabile album solista, “The silent corner and the empty stage”, apice sonoro che chiude la tripletta dorata iniziata con “Fool’s mate” del ’71 e “Chameleon in the shadow of the night” del ’73, album in cui – nonostante la scissione di gruppo –  il resto dei VDGG continua a suonarci dentro, come a non lasciare da solo il capitano di quella astronave progressive che li aveva portati ad esplorare l’inesplorabile nei meandri di quelle decadi frastornatamente psichedelici.

Infatti Jackson, Banton, Evans e – come ospite – Randy California degli Spirit sono presenti in tutte le partiture di questo album inbastito da Hammill, ne scandiscono tutti gli sprint, le decelerazioni, le curve melodiche ed i deliri “astronomici” fino a disegnarne le fasi ellittiche e convesse di un nuovo trip di inestimabile valore; sette “parti sceniche”che si sbattono, si agitano e vanno a colmare grandi lucentezze liriche dove il progressive, quello di matrice drammaturgo psich, si inalbera e dilata in momento sonori di alto pathos poetico, quel fool thing in cui l’eroe Hammill ci si ritrova alla grande, quasi posseduto da uno sciamanesimo di grazia e ribellione.

Strofe, frasi, andamento incalzanti e declivi amorevoli di psichedelica ben costruita sono i panneggi adulterati che la tracklist conserva e sparge durante l’ascolto, niente nostalgie per i VDGG, piuttosto la propensione a superare i limiti – se limiti si possono chiamare – delle direttrici disegnate dalla sua band e, se proprio il superamento di queste ultime crediamo non sia il caso di starle a stigmatizzare, rimaniamo ben protetti da una prova discografica – differente – ma di livello divino, oltre la libertà delle proprie forze mentali e creative; lavoro molto definito, tonico nelle esposizioni sognanti, drammaticità e immensi respiri tra pianoforti, flauti, classicità e improvvisazione free si dilaniano una per una su di un ascolto frenetico e sbalorditivo, la fonetica stizzita “Modern”, l’intimità cosmica di “The Lie (Bernini’s Saint Theresa)” , il progressive centrato come un amore infinito “Forkasen Gardens”, la ballata acustica folkly “Rubicon” e la  potenza sobillatrice del rumorismo “The lie”, quando a fine ascolto rimane nell’aria un senso di beatitudine d’altri tempi che non vuole sparire per un bel po dal giorno rimasto.

Un sesto acuto indispensabile per le architetture Prog del tempo, un incunabolo discografico da collezionare per chi ama le cose semplicemente infinite.

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“Diamanti Vintage” Lucio Battisti – Anima latina

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Malandrino fu quel viaggio in Brasile e Sudamerica che portò il Lucio Battisti nazionale ad un travagliato parto di questo bel disco Anima Latina, un lavoro intenso, amalgamato in due contrapposti generi musicali, un antesignano lavoro world che comprende le influenze latine – poi assottigliate al minimo – e le vibrazioni personalizzate di tutto quello che dalla Canterbury del Nord arrivava come vento oltre i nostri confini.

Un disco possiamo dire sperimentale, ricco e nutrito di ELP, Genesis e quant’altro faceva Progressive; ma la fama di Battisti è stata anche quella di fagocitare nello spirito che lo pervadeva in quel dato periodo enormi patrimoni di stilemi e sonorità quali new-wave, disco, il prog stesso, molto di beat e abbastanza di R’N’B’ che, una volta rielaborati dalla sua fervida immaginazione, fuoriuscivano in un continuo gioco di sfumature capaci di scavare un solco pieno d’agio e novità stupefacenti per il tempo che correva.

Un Battisti più spirituale e meno cantante? Sì certamente, a pieno titolo, ed è qui che infatti l’artista lascia da parte la forma canzone strofa/ritornello/strofa per abbracciare il cantos senza paramenti, il volo libero del “cante jondo” che si libra su percussioni, cesellamenti armonici e sensibilità estrema fino allora – nella sua odiernità – mai adottate per quello che discograficamente conosciamo.

Al contrario però anche un lavoro poco accessibile – per chi non abituato a vedere e sentire il cantante di Poggio Bustone in queste vesti “alternative”,  per la stesura a tratti criptica dei testi, quell’oscurità che fievolmente affiora nelle sottotracce espressive, ma che una volta chiusi gli occhi, ti faceva immaginare e sognare cose distanti dal tran tran festivaliero che becchettava l’Italia della canzonetta; gli ortodossi drizzarono il pelo, gli innovatori lo acclamarono a tal punto che rimase in classifica per ben 65 settimane di cui 13 al primo posto della Hit Parade.

Non era poco per quel 1974 musicale che oramai si rivolgeva solamente all’esterofilismo d’avanguardia, il progressive d’oltremanica arrembava tutto il resto d’Europa e formazioni come King Crimson, ELP, Gentle Giant e vari erano gli alati eroi altolocati del nuovo rock e dettavano legge ovunque, ma questo grande capolavoro si conficcò in mezzo a loro come una spina nel fianco, e i dolori dei Golia – in un certo modo –  si piegarono al cospetto di questo Davide della storia sonora del nostro Paese.

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“Diamanti Vintage” Francesco Guccini – Radici

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Uno dei capisaldi della lunghissima discografia di Francesco Guccini, “Radici”, quarto album al centro di cambiamenti sociali e rivoluzioni culturali che rimarranno impressi nella memoria di chi li ha vissuti e cantati, canzoni eterne che dopo il periodo “giovanile” del grande cantautore cominciano ad incanalarsi nel filone espressivo che si potrebbe apparentare con il progressive, lunghe suite, poetiche senza limiti e quella intensità splendidamente provinciale di raccontare storie e favole urbane oramai impresse nella roccia della storia della musica italiana.

Ed è con questo disco che Guccini diventa il sommo poeta scomodo, è qui che la poetica incontra il sogno, metriche, rime in un costante ed infinito filo logico che intreccia e ricama cose di tutti i giorni e cose immaginarie, ed è grossomodo un lavoro che rompe certi schemi sonori, via la protest song e si agli spazi d’anima, tutte ambientazioni di vita che l’artista amplia e riconsidera tra dolci struggente e crude parole inestimabili; non parliamo di qualità ma di storia, melodie e sonorità che si sposano con ricordi e buoni fiaschi di Sangiovese, atmosfere da cantina fumosa, bagnate di amicizie di anni, amori nascosti e nebbie invernali che non vogliono finire mai, ma che forse è stato anche un bene perché quelle nebbie, negli anni, hanno conservate integre le vibrazioni stratificate di “Radici”, la supremazia poetica e rarefatta de “Il vecchio e il bambino”, gli intarsi chitarristici de “Canzone della bambina portoghese” o l’inno generazionale inossidabile che a tutt’oggi viene sempre riproposto nei live a distanza di anni e anni “La locomotiva”. Un continuo dissolversi di fole che riempiono l’album fino a tramutarlo in un libro d’amarcord, libro che il Vate Guccini sfoglia con una sei corde acustica, una erre moscia e un pensiero che non conosce palizzate. Da riscoprire vivamente.

Si dice che tutto passa e poco rimane, che emerita cazzata.

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