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“Diamanti Vintage” Francesco Guccini – Radici

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Uno dei capisaldi della lunghissima discografia di Francesco Guccini, “Radici”, quarto album al centro di cambiamenti sociali e rivoluzioni culturali che rimarranno impressi nella memoria di chi li ha vissuti e cantati, canzoni eterne che dopo il periodo “giovanile” del grande cantautore cominciano ad incanalarsi nel filone espressivo che si potrebbe apparentare con il progressive, lunghe suite, poetiche senza limiti e quella intensità splendidamente provinciale di raccontare storie e favole urbane oramai impresse nella roccia della storia della musica italiana.

Ed è con questo disco che Guccini diventa il sommo poeta scomodo, è qui che la poetica incontra il sogno, metriche, rime in un costante ed infinito filo logico che intreccia e ricama cose di tutti i giorni e cose immaginarie, ed è grossomodo un lavoro che rompe certi schemi sonori, via la protest song e si agli spazi d’anima, tutte ambientazioni di vita che l’artista amplia e riconsidera tra dolci struggente e crude parole inestimabili; non parliamo di qualità ma di storia, melodie e sonorità che si sposano con ricordi e buoni fiaschi di Sangiovese, atmosfere da cantina fumosa, bagnate di amicizie di anni, amori nascosti e nebbie invernali che non vogliono finire mai, ma che forse è stato anche un bene perché quelle nebbie, negli anni, hanno conservate integre le vibrazioni stratificate di “Radici”, la supremazia poetica e rarefatta de “Il vecchio e il bambino”, gli intarsi chitarristici de “Canzone della bambina portoghese” o l’inno generazionale inossidabile che a tutt’oggi viene sempre riproposto nei live a distanza di anni e anni “La locomotiva”. Un continuo dissolversi di fole che riempiono l’album fino a tramutarlo in un libro d’amarcord, libro che il Vate Guccini sfoglia con una sei corde acustica, una erre moscia e un pensiero che non conosce palizzate. Da riscoprire vivamente.

Si dice che tutto passa e poco rimane, che emerita cazzata.

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“Diamanti Vintage” Violent Femmes – Violent Femmes

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Tre  storditi intellettualoidi di Milwaukee, Gordon Gano, Brian Ricthie e Victor De Lorenzo, per la gente del posto tre fancazzisti drogati di tutto, si incontrano e senza nemmeno guardarsi negli occhi, condividendo solamente la passione storta per il rock libero da complicazioni, decidono di formare una band e in due giorni, prendendo in prestito il nome di una nota marca di assorbenti decidono di chiamarsi Violent Femmes, e mischiando i loro gusti spalmati dal gospel, al folk, trucioli jazz, punk e gli albori di una timida new-vave cominciano la loro avventura che si dipana tra suoni acustici ed elettrici, un insieme di stimolazioni e novità che in poco tempo prendono la curiosità di pubblico e addetti ai lavori

Con Faulkner, Cash, Richman ed i suoi Modern Lovers, Pastorius ed altri geni in circolazione tra i neuroni, i VF diventano subito idoli di folle di nerd, intraprendono con l’aiuto del chitarrista dei Pretenders, James Honeymann, un tour che finalmente li sbarca nella Grande Mela ed è proprio lì che il fenomeno Violent Femmes deflagra in tutta la sua potenza, in tutta la sua grazia maledettamente sgraziata, ed è il trionfo.

Tra Modern Lovers e Talking Head, il loro sound infatua tutta l’America underground, e questo loro album omonimo pieno di cori ubriachi, attitudini punk, melodie radiofoniche, cabaret, ed improvvisazioni ritmiche utilizzando anche bidoni, pentolacce, lamiere ecc, va a colpire il segno e li porta a generare una scia di ascolti paurosa; dieci tracce gettonatissime e stilose che prevedono cambi d’aria e di gusto immediati alla giovane America che ne rimane sconvolta, lo shake avvitante “Kiss off”, lo slogamento punk con un giro di basso e cordame di chitarra folli “Add it up”, il pop-surfer che ondeggia simpaticamente tra le rime di “Promise”, lo stuzzicante xilofono che viene suonato come dentro una jam session alcolica “Gone  Daddy gone”  e la lenta ballata dal pad sausalito “Good feeling”, un lungo addio di violino e  piano che vanno a chiudere il cerchio di una band che lungo i dorsali degli anni Ottanta generò un equilibrio tra stranezza ed bellezza tutt’ora mai superata.

Lester Bangs disse che questo disco era un piacere per le orecchie e che difficilmente poteva suonare meglio, ma aveva solamente scoperto l’acqua bollente!

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“Diamonds Vintage” Francesco De Gregori – Bufalo Bill

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A dispetto d’ogni re che ha il suo oro, d’ogni regina che ha il suo diadema,  il nostro “Principe” Francesco De Gregori, dopo Rimmel, vanta un suo secondo gioiello, Bufalo Bill, il disco della sua completezza e trasformazione nella maturità, che sebbene sempre refrattaria ad ogni confronto col mondo fuori, splende come un dispetto conto terzi fatto all’ingranaggio discografico mai come allora delineato al sensazionalismo della leggerezza commerciale di un “pop per tutti”.

E appunto  il successo commerciale di Rimmel trova un De Gregori spiazzato, sdoganato nelle classifiche modaiole, il mondo che lui ha sempre rifuggito a gambe levate, e da lì che vediamo il cantautore “rintanarsi” di nuovo nelle sue cripte espressive, culle di purezze e fecondità.

Il mondo di De Gregori è sempre una meravigliosa strana favola a parte, un ricco vocabolario di metafore, sillogismi e “mezze parole” che introducono nella profondità  – scambiata sempre per assurdità ermetica – dei personaggi, storie e scene che a grandi passi o gattonando, fanno andirivieni nelle sue straordinarie canzoni, nei suoi spaccati di sogno “fissati” in cristalli di poesia.

Con quel cantato anarchico, che non segue metrica o contrappunti, l’artista romano stria di venature agrodolci, amare e gigione le composizioni del suo spirito, le capovolge e le passa al setaccio del significato in cui mirare, fino ad estrarne solo il preciso distillato che occorre per ammaliare e avvelenare, di  piacere armonico, un qualsiasi palato in cerca di schietti aromi lirici.

Pulito da ogni retorica decadentista, il disco è una vera rivoluzione di parole e assemblaggi, sempre girovago nella buona semplicità e con quel pianoforte che viene a trovare casa tra le tracce per arrotondarne le curve e per stilizzare ancor più le direttrici sognanti dei cantos, delle immaginazioni e degli orizzonti, nuovi, che si vanno a definire.

Una lotta continua il dover scegliere la traccia o le tracce da mettere in un’ipotetica lista graduata di emozioni, veramente impossibile sacrificarne una per l’altra per decifrarne una linea d’arrivo diretta al cuore, tutto si amalgama nell’insieme e niente si stacca dal corpo caldo di queste dieci gemme d’autore; ci sono dischi ove è possibile, ma questo non è un disco, ma un poema gentile e malinconico di velluto e carta paglia senza prezzo, dove non ci sono avanzi o fondi di tessitura e dove la fantasia cede il passo alla realtà delle cose.

Quello che si può fare è un azzardato assaggio di infinitesimali gocce di rugiada poetica, come nelle illusioni borghesi dell’infanzia L’uccisione di Babbo Natale, nella metafora amarognola sull’espansione maledetta dell’America verso l’Ovest degli indiani Bufalo Bill, ispirata da “La ballata di Cable Hogue” film di Sam Peckinpah  o sulla “profezia” dei legami politici sporchi Disastro aereo sul canale di Sicilia, magari fermarsi nella coscienza che fa preghiera nella dolcissima Santa Lucia oppure riflettere sul dramma festivaliero del suicidio di Luigi Tenco Festival; ma un’avvertenza è d’obbligo, prima di assaggiare in pieno questo disco è sempre bene chiudere gli occhi e scordarsi di essere pesanti sulla terra, perchè il Principe non ama ritornare sui suoi passi una volta distribuiti con garbo ed eleganza i semi giusti per il germoglio di questi autentici “fiori di campo”, ha un carattere che non concede bis ma un cuore immenso come le note del suo filtro tra realtà e i poveri eroi di essa

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“Diamonds Vintage” Otis Redding – Otis Blue

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Certamente non teneva in mano la mossa, l’eleganza e il lusso geniale di Sam Cooke, Marvin Gaye e Ray Charles, ma aveva più anima soul di tutti messi insieme.
Il verbo/sound della Stax di Memphis, le origini povere e proletarie, la passione umanistica che fu presa anche come  colonna sonora per l’I have a dream di Martin Luther King, che in questo timido ragazzo trovò il portavoce melodioso, l’interprete stupefacente della lotta per l’uguaglianza. La sua era una voce da brivido, completa e travolgente, come dimostra l’indimenticabile I’ve been you too long,  capace di prendere e ridare ogni sfumatura emozionale di qualsiasi canzone.
Il terzo album della sua purtroppo breve parabola, stampato nel 1965, due anni prima della sua tragica fine in un incidente aereo, trasformò definitivamente Otis Redding in una divinità black.
Eccolo qua, è arrivato “The Big O”, come lo stuzzicavano con affetto e goliardia i suoi musicisti e colleghi. “Quella ragazza ha rubato la mia canzone”, dichiarò dopo che Aretha Franklin aveva fatto sua Respect.
Con la identica mossa agile, in questo disco Redding catturò e fece suoi i classici del soul quali My Girl di Smokey Robinson, Wonderful World, Shake, Change Gonna Come – tutti di Sam Cooke, Down in the Valley di Solom Burke, del blues. E andò anche a ritagliare una scheggia  di rock – Satisfaction –  dei Rolling Stones.
Diventarono tutte suoi pezzi d’anima da distribuire al mondo, grazie anche all’accompagnamento slanciato, frizzante e magnificamente impetuoso dei Booker T & The M.G’s, il gruppo che, insieme alla sezione fiati dei Memphis Horns, fece della Stax la regina, la Black Queen della storia del riscatto dei neri.

Otis canta il soul, quel cataclisma dolce e possente che finì troppo in fretta, e lo ha cantato ieri, lo canta oggi e lo canterà fino che il globo non finirà il suo giro dispettoso che divide l’umanità in colori.

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“Diamonds Vintage” Bob Dylan – The basement Tapes

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Più che uno stupendo doppio raccoglitore di tapes “di seconda”, un tracciante sulla musica popolare di Bob Dylan e di quello che accadde in quella fattoria vicino Woodstock nel 1967 in cui il Maestro – in convalescenza dopo un incidente di moto – e la Band – esausta da un lungo tour – si ritirarono.per registrare per gioco e relax – in un idilliaco mix d’alcool, marijuana e risate –  quello che poi – impresso su nastro di un vecchio registratore –  uscì, come un miracolo, in questo Basement Tapes, disco nel 1975. Prima che la CBS mettesse le mani sulle registrazioni, le stesse furono preda di bootleg “The great white wonder” e scippi da parte di artisti che ne fecero successi: la Baez, i Byrds e Manfred Mann che con “Mighty queen” – poi mai sfruttata da Dylan –  fece la sua fortuna. Ripeto uno stupendo vinile in cui la tradizione, il divertimento e la voglia di dire sprizza come una sorgente di acqua balsamica, in cui Dylan si sgola, canta e si ubriaca con i vecchi compagni di rock & road di sempre Orange juice blues, Long distance operator, suona pezzi nuovi di zecca mai sentiti prima This wheel’s on fire e Goin’ to Acapulco e si lascia trasportare all’indietro in un divertissements di old traditional Apple sucking tree, Clothes lines saga, Ain’t no more cane. The Basement Tapes è il frutto dell’allegra brigata che contemplava tra le file – oltre che Bob –  Levon Helm batteria, mandolino e basso, Garth Hudson ogano, fisarmonica , pianoforte e sax, Richard Manuel pianoforte, batteria e armonica, Robbie Robertson chitarre elettriche e acustiche e Rick Danko al basso e mandolino, ma principalmente, da parte di Dylan, l’elaborazione cosciente del passaggio della musica americana dalla sua fase Folk a quella rockeggiante, ovvero l’intero patrimonio americano che viene messo in discussione. Il disco suona come un esame ed una scoperta della memoria delle radici sopra un bel sorriso, audace e venerabile ma anche un insieme di tracce che vengono a patti con un vecchio senso di mistero talmente intenso che non si è più ascoltato da moltissimo tempo; forse i vecchi demoni di Dylan che non si vogliono sopire o probabilmente l’alcool che li ingigantisce, li dilata. Ma questo poco importa a chi ne fruisce la sintesi sonora, resta solo il fatto che, in quella cantina della Big Pink Factory nel West Saugerties di New York, i nostri si sono divertiti sonoramente, fino a tramandarci memorie e fonti maestose dove abbeverarci,  senza parsimonia, alla bisogna.

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“Diamonds Vintage” Eugenio Finardi – Sugo

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Sugo di Eugenio Finardi è stato l’album della giusta carica  in un anno teso e difficile. Un 1976 insanguinato dalle Brigate Rosse, sporcato dallo scandalo Lockead e bloccato da una crisi petrolifera che opprimeva  una già deleteria situazione sociale di conflitto sindacale. Un giovane capellone italo-americano munito di una voce di grazia gentilizia impugna la sua chitarra e, dopo un album già edito dalla Cramps nell’anno prima “Non gettate alcun oggetto dal finestrino” e prodotto dall’amico Alberto Camerini, riversa nelle piazze e nelle allora Radio Libere questo disco di rock e filettature jazz-prog che oscura per un lungo periodo tutte le scremature cantautorali che in quel dato momento si rifacevano alle poetiche esterofile e lontano dalla realtà contingente. Finalmente qualcosa di lotta scorrevole e testualità aderente, che riporta in vita la necessità di sognare e nel contempo di svegliarsi dal torpore fatalistico. Inno della gioventù con la sua Musica Ribelle, Finardi con le tastiere, il basso e chitarra del trio Fariselli, Tavolazzi e Tofani degli Area e due amici della sua band giovanile Il Pacco cioè Camerini alla chitarra e Walter Calloni alla batteria, denunciava con il sorriso di “un nuovo cantautore” l’urgenza di far sapere a tutti quello che a tutti era nascosto, la voce di una generazione che non voleva stare al gioco; e la cosa funzionò a dovere e una sorta di manifesto liberatorio cominciò a girare tra gli sconfitti del sistema  che rialzarono la testa per guardare negli occhi il demone da combattere. Non canzoni di lotta, ma canzoni alla portata di tutti, cantabilissime, gioviali e pensierose, ma con tutta la sostanza di colore in un buio pesto. Contraddistinto da una loquacità inverosimile, Sugo è una linea di confine tra rock, canzoni di amore e per l’appunto dettagli tecnici progressive che in quell’anno di grazia – sull’onda dei grandi suoni che arrivavano dall’Inghilterra – cominciavano a volare di moto proprio Quasar . La creavità , la “Fantasia al potere” bussava forte in quei frangenti e canzoni come La radio, La C.I.A. e Sulla strada aprirono un varco di novità assoluta, un nuovo progetto di “cantautorare” la vita reale senza ricorrere – come era stato fatto fino allora – ad impeti di prolissicità testuale politicizzata né slogan d’arrembaggio. Ma è purtroppo una carica questa di Sugo destinata ad esaurirsi già con il successivo album Diesel, dove Finardi non saprà più replicare, se non cedendo alle lusinghe del pop, la voglia di esserci e contare tutte “quelle facce da bambino e i loro cuori infranti”.

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“Diamonds Vintage” The Stranglers – The Raven

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No, sicuramente la cosa non poteva funzionare, ed infatti non funzionò come doveva.  In quel 1975 dopo aver calcato i palchi sotto il nome di Jonny Six, questi quattro giovinastri scavezzacollo Jean Jacques Burnel, Jet Black, Hugh Cornwell e Dave Greenfield vogliono e decidono finalmente di chiamarsi The Stranglers, vanno fortuitamente in tour con una giovane Patti Smith, incidono tre dischi che tra alti e bassi, “Rattus  Norvegicus” tra tutti, apparizioni sporadiche nelle hit-charts inglesi e fallimenti modaioli non li esportano alla grande ribalta, fintanto che un giorno tagliano corto col musicarello punk bagnato dalle allucinazioni tastieristiche dei Doors ed imbracciano un percorso sperimentale fatto di elettronica, colorazioni oscure della new vave sempre pixellata di punk e la schizofrenia attitudinale degli anni sessanta; era il 1979 e nacque un piccolo capolavoro che la storia tramanda come un alfabeto basilare, “The Raven”.

Un disco nero come la fuliggine, carico di quelle tensioni atmosferiche che segneranno per sempre la loro pur corta carriera, freddo il giusto per restare sulle coordinate – se non addirittura le barricate – della metamorfosi che l’aria inglese di quei tempi, del  No Future tirava a manetta; dolcemente “tetro” come fu definito all’epoca, e cosi  suona ascolto dopo ascolto pure oggi, un carico sensoriale che arriva da ogni direzione lo si ascolti, una continua stimolazione per testa e cervello che mantiene integra la sua missione, quella di de-potenziare e distorcere gli standard consueti della “bella musica” intesa come pulizia snob.

La new-vave d’Oltremanica è in subbuglio, il punk non accenna a diminuire la sua ribellione ed il romanticismo inizia a prendere piede in un contrasto cromatico fuori dall’ordinario, e questo disco si impone all’attenzione delle masse come un linea d’orizzonte rimarcante, dove fare affidamento tra il prima ed il dopo di questa rivoluzione musicale; tracce che si fissano nella mente per le infinite soluzione “below zero” come in “Ice”, “Baroque bordello”, dentro le cattedrali di sintetizzatori “Dead loss angeles”, l’elettronica spiazzante che si fa noir, horror meglio dire,  dentro la concupiscenza di “Meninblack” e la trasparenza in plexiglass che in “Shah saha a go go” accenna ad una dance sincopata aliena attraversata da correnti “tedesche”; poi, a distanza di poco tempo gli Stranglers – questi strangolatori del tempo che fu – furono inghiottiti nel nulla, forse in quel drammatico No Future che nonostante tutto – o niente – segnò le stimmate di un’epoca di gloria irsuta e lacrime dark.

Pietra miliare ben oltre il tempo.

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Epater le Bourgeois capitolo 4

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Quella sera a letto ripensai al fratello del tassista, al mio amico Andrea e a Piera.
Mi chiesi come fosse lei nella realtà. Lontana dagli sguardi del padre, da quella casa, da quel quartiere così fuori sync rispetto alla sua gonna al ginocchio e a quella sua aria da vergine di ferro.
Non avevo mai avuto grande intuito con le donne. Né fortuna. La mia ultima e forse prima storia risaliva a due anni prima quando incontrai Francesca, una ragazza di Bari che era venuta a passare le vacanze estive in Abruzzo.
Aveva una famiglia imbarazzante, di quelle che in spiaggia si portano riserve di cibo per un intero esercito e parlano a due toni più alti del normale come se il mondo non potesse sentirli altrimenti.
Lei era carina però. Venne per due settimane tutti i giorni nel bar dove lavoravo ordinando sempre la stessa cosa. Una cedrata grazie.
Fin quando un giorno non mi chiese sfacciata se la accompagnavo al concerto degli 883. Fu amore. Non tanto per il concerto degli 883, che in realtà non vedemmo mai perché nel tragitto in motorino verso il paese vicino cademmo sulla strada bagnata come due pere mature.
Fu amore perché in quell’occasione, in cui lei rimase perfettamente intatta e io mi ruppi una caviglia, si rivelò premurosa come mai nessun essere femminile era stato con me fino a quel momento.
Ogni giorno veniva a trovarmi a casa, si sedeva vicino al mio letto e mi raccontava aneddoti spassosi sulla famiglia. A volte piangeva piano dicendo che si sentiva in colpa e che se non mi avesse chiesto di accompagnarla non sarebbe successo niente. A volte mi leggeva le sue poesie. Scriveva roba che probabilmente non avrebbero pubblicato nemmeno sui biglietti dei cioccolatini ma in quel momento lei mi sembrava Sibilla Aleramo solo con le tette più grosse. Due tette così non le ho viste mai più. Forse furono quelle il vero motivo per cui mi innamorai di lei. Perché ce le aveva grosse ma le nascondeva come un segreto da difendere. Le faceva vedere solo a me. Anche se non riuscii mai a toccarle.
L’ultimo giorno di vacanze io non mi ero ancora rimesso in piedi e lei venne a salutarmi. Pianse tutte le sue lacrime e dicendo che non mi avrebbe dimenticato mai mi accarezzò sotto la cinta come se fosse l’ultima volta che avrebbe toccato un uomo.
L’anno scorso ho scopetto che si è sposata con un maresciallo dei carabinieri e che hanno fatto un bambino. Lo hanno chiamato Max.
I miei ricordi vennero interrotti all’improvviso da un gran frastuono di chiavi. Venti secondi dopo i Clash invasero la casa. Le cose si mettevano bene.

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“Diamonds Vintage” Emerson, Lake & Palmer – Emerson, Lake & Palmer

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Un 1970 all’insegna delle nascite di grandi formazioni seminali della storia del progressive mondiale, tra queste gli Emerson Lake & Palmer , una delle band che più di tutte hanno lasciato un graffio, un segno trasversale nell’enciclopedia immortale dei suoni altolocati, fuori dalle orbite del pop rock, distanti dalle prosopopee del rock classico; Keith Emerson, già tastierista e leader dei Nice, Greg Lake voce e basso già alla corte dei King Crimson e Carl Palmer furente batterista degli Atomic Rooster, decidono di solidarizzarsi in un trio che, sebbene additati da molti come eredi fotocopia dei defunti Nice, cercano di fondare una propria storia, e dopo una effervescente incursione al Festival dell’Isola di Wight – sempre in quell’anno – il loro motto sonoro si impone sulle masse e da li a poco la fortuna benedirà il trio a venire.

L’omomino album è il primo vagito della band, una miriade di suoni ed atmosfere mutuate dalle forti appariscenze sinfoniche della musica classica frammista a stupende incursioni creative d’avanguardia e l’uso basilare di strumentazioni elettroniche come il Moog, il VC7 , Mellotron ecc, stupende macchinazioni di suono per voli e catapulte nell’infinito cosmico; non manca di certo i sintetizzatori che danno quelle atmosfere lancinanti di duelli e corpo a corpo immaginari, urli e strepitii immaginifici, molto più che realistici, ma soprattutto l’effettistica che il trio muove sul palco e dentro dischi futuri che oramai fanno parte della storia delle storie musicali.

Disco in cui la triade si gioca il tutto e splende in sei tracce seminali, dove la predominanza di Emerson sulle tastiere è alta, e che fa da traino alla dolcezza di Lake e alla energia di Palmer sulle pelli sempre più sofisticate, tra suite preziose e assoli personalizzati il disco dipana urgenze e passioni incontrollabili; la rielaborazione del classico di Bela Bartok  “The barbarian”, i dodici minuti che intrecciano acustiche, elettroniche e soliloqui di tasti “Take a pebble”, ancora un classico rielaborato dagli ELP “Knife edge” del compositore Janacek, o la lunga episodica in tre atti (Clotho, Atropos, Lachesis) che fanno parte della mitologia greca con cui “The three fates” si fregia di immortalità.

Con “Tank” Palmer si prende una rivincita a suon di tom e rototom mentre la conclusiva “Lucky man” è una dolcezza di chitarra acustica in cui Lake fissa ai posteri la sua straordinaria figura quasi da mediatore tra la caratterialità spesso prepotente di Emerson e la figura della terza ombra Palmer che, già dall’inizio, non vede di buon occhio il monopolio sonante delle tastiere su tastiere che in futuro si prenderanno l’intera scena di questa storia progressive bella quanto combattuta tra i personaggi primari.

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Epater le Bourgeois capitolo 3

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Ti troverai bene a Torino- Ripeté il mio padrone di casa.
Sì ti troverai bene – Gli fece eco Piera.
Magari Piera può farti fare un giro della città se ti va- Aggiunse Lui.
Quella che suonava come una definitiva benedizione del mio arrivo in città mi trascinò con tutta la sua potenza al mio presente.
Se fino a quel momento Torino era stato un progetto ora era diventato un fatto reale.
Se fino al giorno prima avrei magari potuto cambiare idea con un insolito colpo di testa ora ero là. Non potevo mica tornare indietro.
Perché avevo lasciato l’Abruzzo. Avevo salutato tutti gli amici che per un motivo o per l’altro avevano scelto di restare. All’ombra di quella montagna che era tanto dolorosamente bella quanto capace di tenerti in trappola se voleva. Loro avevano deciso di restare e io di andarmene ma io non mi sentivo mica più coraggioso di loro solo perché avevo fatto un paio di valigie e preso in affitto una stanza in un’altra città.
Perché avevo deciso di andarmene. Per me una città valeva l’altra. Avevo deciso di fare l’università per fare contenti i miei genitori e avevo scelto Ingegneria perché il fratello di mia madre, Ingegnere a sua volta, mi aveva assicurato che con quel pezzo di carta avrei trovato lavoro molto più velocemente degli altri. Se alla fine scelsi Torino fu perché se dovevo andarmene tanto valeva andare lontano. Non sopportavo l’idea di fare la vita dei pendolari che vivono gli anni dell’università sul vagone di un treno maleodorante con la valigia sempre in mano. Non sopportavo l’idea di una madre che avrebbe piagnucolato al telefono chiedendomi se sarei tornato per il suo compleanno e che mi avrebbe caricato di lasagne e barattoli di sugo quando fossi ripartito.
Quando l’avevo detto ad Andrea che me ne sarei andato lui mi disse solo che era contento che qualcuno avesse trovato il coraggio di fare quello che non era riuscito a fare lui. Gli risposi che non stavo partendo per la guerra e che avremmo continuato a vederci. Che sarei tornato presto gli avevo detto.
Lui sostenne che una volta che te ne vai non puoi tornare perché una volta che te ne vai non sei più lo stesso.
Io gli dissi che non lo sapevo se era così. Che con me avrei comunque portato lui, i dischi che avevamo comprato insieme e il mare. Ti puoi dimenticare del mare?..
Che studi?- Chiese Piera riportandomi lì.
Ingegneria – Risposi io.
Ah, pure io.
Intanto fuori cominciava a piovere.

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“Diamonds Vintage” Tim Buckley – Lorca

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Poesia e delirio. Il quarto disco di questo immensamente geniale cantautore americano, figlio della fragilità e della solitudine profonda, è uno stato allucinatorio continuo di sommo brivido; Tim Buckley crea un clima scarno, al limite dello zen, scevro da ogni appiglio  effettistico, crudo ed estasiato, un viaggio sonoro all’interno metafisco della coscienza per arrivare ad uno stato nirvanico sofferto, costipato. Prodotto da Herb Cohen, “Lorca” è dedicato al poeta spagnolo, musicato solo con una chitarra elettrica e una dodici corde acustica, un piano elettrico e sparute percussioni; l’artista si studia, guarda dentro di sé come in uno specchio, e indaga sulle sue inquietudini, incubi, scheletri, e lo fa con l’innocenza di un iniziato che va alla ricerca del proprio io, trasferendo nella voce il richiamo ancestrale della verità. Un disco proto-psichedelico verso i confini dell’auto-analisi, una prova personalissima per misurare la drammaticità della non-melodia in uno stato d’incoscienza, per soppesare l’Universo nella specificità di “conduttore primordiale” di gioia e amarezza. Diviso tra il male di vivere e la voglia di rinascere, Buckley con John Balkin, Underwood e Collins – la band che lo accompagna – fa della suggestione dolente il piatto forte di queste cinque tracce,che non concedono minimamente nessuna occasione di essere penetrate da spiragli mercantili o quanto meno da rotazioni di massa; tutto sa d’arcaica preveggenza di un futuro incerto e di un qualcosa che sarà interrotto. Il canto-vocalizzo di Buckley sonda l’angoscia filtrata attraverso il giro nero e ipnotico d’organo ossessionante Lorca, poi viene deglutito nelle salivazioni acide e acri dei deserti del vuoto e della solitudine Anonymous proposition; il senso di desolazione e di nullità è prepotente, beffardo e sardonico, ma un leggerissimo soffio di vitalità arriva con l’incoscienza di una mezza serenità umana di congas e melodia I had talk with my woman, si consolida teneramente nel soliloquio di chitarra svogliatamente blues in riva ad un mare – raffigurazione onirica della vastità di una vita dove potersi perdere per sempre rimane il solo espediente per sparire – Driftin’, fino ad arrivare all’esplosione-implosione di Nobody walkin’, in cui Buckley da vigore alle sue corde vocali in uno strepitoso poeticale gipsy impazzito, pezzo con il quale, il cantautore confonde totalmente la sua asetticità , il suo torpore drammaturgico, nascondendo –  per poco –  la sua vera disfatta interiore dietro un raggio di sole che non lo scalderà mai. Disco stupendo, basilare; qualcuno affermò che Buckley fu per il canto ciò che Coltrane fu per il sax, Hendrix per la chitarra e Cecil Taylor per il piano, e a questo punto, ogni parola in più è del tutto superflua.

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“Diamonds Vintage” Carole King – Tapestry

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Questa ex prodige girls, poi ex moglie di Gerry Goffin con il quale scrisse pagine memorabili di songwriter pop che sbancarono, per ugole d’altri,  hit e charts lungo l’ossatura sghemba degli anni 70, decide un giorno di riprendersele quelle canzoni e di fissarle in un disco immortale e miliare al quale si attingerà sfacciatamente da parte di tante eroine a venire. Carole King, ragazza/donna di New York, hippies acqua e sapone e tenera pianista, con il suo Tapestry del 1971 diventa – nel frangente –  la bandiera vivente della protesta soffice e di emancipazione della donna libera, del corpo e dell’amore autodeterminato – e per la storia, la più alta espressione cantautorale female americana. Nonostante i successi scritti per gli altri, la King è una “novizia” come figura fisica, non identificata nell’immagine al grande pubblico, anche per una sua terribile timidezza, ma ben presto la familiarietà del suo temperamento umano e sonoro, la sua fragilità di donna e la forte genuinità espressiva, la renderanno icona dell’intimità di pensiero e causale di riscatto da una società grossolana e dal fiato corto. E il disco centra al millimetro la gloria discografica – sei anni in classifica ovunque –  e la risposta a tutte quelle aspettative utopiche e modello di base da seguire. La critica si spella le mani per questa cantautrice uscita definitivamente allo scoperto e le canzoni contenute in questo Tapestry, già esaltate dalle doti vocali di Aretha Franklin (You make me feel (A natural woman), James Taylor You’ve got a friend o It’s too late –  splendida ballata sulla quale si accapiglieranno in futuro  per reinterpretarla Quincy Jones, Celine Dion e altri noti personaggi, si riprendono l’ulteriore splendore originario della serenità di quel piccolo loft con vista sull’Hudson dove tra un tè cinese e la compagnia di un gatto affettuoso furono state scritte. Raffinatezza e semplicità con soffici maculazioni jazzy accompagnano le tranquille confidenzialità di Tapestry, So far away, il leggero tremore di I feel the earth move o il soul  caldo di Way over yonder; pietra filosofale per tante cantautrici “della confidenza” Fiona Apple, Tori Amos, Sheryl Crow, Natalie Merchant e Suzanne Vega, Tapestry rimane la punta acuminata e solitaria della carriera “in solo” di Carole King, tutto poi si affievolerà  intorno a questo fenomeno tutto al femminile, anche se le sue canzoni oramai fanno parte dell’arredo insostituibile di questa, di quella e dell’altra “parte del cielo”.

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