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Ciao Lucio..

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C’è chi lo ha chiamato poeta della canzone italiana…
Io penso che sia piuttosto limitativo definirlo in tal maniera…
In fondo Lucio era uno di noi, ma con un talento snaturato per la musica e una cultura infinita che da sempre riversava nei suoi testi.
La sua era una genialità che forse in Italia hanno avuto solo Fred Buscaglione e Fabrizio De Andrè, due artisti totalmente diversi ma che hanno rivoluzionato la storia della musica italiana.
Così ha fatto anche Lucio, che in oltre cinquant’anni di carriera è stato capace di districarsi in generi come il jazz e la canzone d’autore.
I versi di “Caruso” e “Attenti al lupo” o di “Com’è profondo il mare” e “Canzone” erano sì antitetici ma entravano subito nella testa delle persone.
Non ha mai attraversato una crisi in fatto di vendite perché il pubblico lo ha sempre amato e rispettato.
Anche lui però amava il suo pubblico…
Lo dico perché ho avuto la fortuna di incontrarlo in un paio di occasioni grazie a un mio carissimo amico.
Voglio però raccontare della prima volta che lo vidi, a L’Aquila, dove arrivò sulla sua macchina nel pomeriggio di un giorno d’estate di alcuni anni fa.
Eravamo un nutrito gruppo di persone, ma finchè non firmò l’ultimo autografo e fatto l’ultima foto non se ne andò via.
Gli piaceva il contatto con la gente, era sempre ironico e scherzoso con tutti.
Nell’ultimo tour con Francesco De Gregori nel 2010 venne invece invece a Pescara in inverno, dopo l’annullamento della data estiva allo stadio Adriatico.
Fu un concerto molto intenso, in cui due mostri sacri della canzone si alternavano nelle loro hits a volte anche improvvisando.
A fine spettacolo però, dopo due ore di musica suonata volle stringere la mano a tutti coloro che si erano avvicinati al palco e firmò autografi a tutti (me compreso) insieme al suo collega.
Non racconto questi episodi per vantarmi, ma solo per far capire che Lucio era una persona umile, che amava il suo mestiere e ancor di più il suo pubblico.
E così citando alcuni suoi versi: “caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò…”
Ciao Lucio!
La tua opera vivrà per sempre.

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“Diamonds Vintage” Deep Purple – Made in Japan

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Credo fermamente che in ogni casa che “musicalmente” si rispetti,  ci sia una copia  – oltre all’album III° degli Zeppelin e il The dark side of the moon dei Floyd –  di questa pietra miliare dell’hard-rock universale, il Made in Japan originale dei Deep Purple, quello racchiuso dentro la copertina color oro e del quale ci si fregiava come di possedere una Bibbia miniata da Amanuensi doc.
Un giornalista del Kerrang Music Magazine un giorno disse…”..Ci sono momenti in quest’album che non ho mai sentito nella storia della musica rock..”, e aveva la ragione tutta dalla sua parte.

I Deep Purple già avevano tre fenomenali album in attivo, In Rock, Fireball e Machine Head, ed usarono alcuni dei pezzi contenuti per presentarli in tour in Giappone nel 1972, e ne venne fuori questo mastodontico doppio Lp che registrarono in tre serate e precisamente due a Tokio e una ad Osaka; il Made in Japan rivoluzionò e aprì la strada ad un nuovo modo di registrare la musica live, non più cellophane tapes ma strumentazioni d’avanguardia che potessero captare i suoni come in presa diretta e remixarli immediatamente all’esecuzione.
Paice, Lord, Glover, Blackmore e Gillan fecero sobbalzare il popolo rock d’oriente con invenzioni, cataclismi, riarrangiamenti ed evoluzioni sinfoniche che combattevano ferocemente tra il chitarrismo carismatico di Blackmore e l’ugola divina di Gillan, le due primedonne assolute di tutta la band; questo live è rimasto scolpito nel granito sovrumano di un’interpretazione che non ha mai riconosciuto eredi o pretendenti al trono dell’hard rock, nessuno ha mai potuto inserirsi nella velocità di Hammond e sviso di Highway star come nelle ottave di grazia ipersonica di Child in time.

La storia aveva già messo lo zampino e l’alloro sulle armonizzazioni infuocate della band che con un semplice ingranaggio di power chord inventò il riff di chitarra che tuttora rimane esempio da manuale, Smoke in the water, immortale pezzo mai superato, ma pure l’assolo di batteria dalle mille battute sincopate The Mule, la voce di Gillan che imitava di gola quello che Blackmore tirava fuori dalle corde elettriche tormentate di Strange kind of woman e le allucinazioni psichedeliche di tasti Hammond, spaziali elucubrazioni psicotrope di Lord e Glover Space Truckin e Lazy, sono lì ad iridarsi della gloria eterna, pura manna di vinile che ha sfamato milioni d’accreditate moltitudini.
Correva l’anno di grazia 1972, il popolo rock nipponico visse la potenza suonata di una nuova esplosione atomica, il resto del mondo ne subì le divinazioni radioattive dalle quali non volle schermarsi. Mai.

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“Diamonds Vintage” Family – Music In A Doll’s House

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Profondo 1968, siamo sul crinale di una nuova “scissione creativa” che va ad indagare in una direzione ben precisa, quel rock progressivo che da lucentezze tutte King Crimsoniane, e che si allunga fino all’apoteosi di rock-psichedelico che da lì a poco sarà strada privilegiata per sciami infiniti di band seminali.
I Family, Roger Chapman voce, Charlie Whitney chitarra, Jim King sax, Rob Townsend batteria e Ric Grech violino, sono una delle formazioni di punta della “stravaganza” freakkettona che in quegli anni era dote e costume importantissimi, piacciono molto ed agitano come pochi il sistema alternativo dell’epoca; sul palco sono indomabili e casinari, su disco tutta un’altra cosa.

Music In A Doll’s House” è il disco della rifinitura, sempre con le peripezie beatnik della California in fiamme, ma del contenimento forzato che, in una dozzina di pezzi, stenta a reprimersi fino a sbottare nella sua quasi totalità libertaria, meravigliosamente senza ritegno alcuno.
Tutto è barocco e cangiante, stili e sonorizzazioni che si surriscaldano ed inseguono come nel corpo di una corsa ad ostacoli che non si vuole restringere dentro paratie, pompe magne d’arrangiamenti e architetture sonore, un’avanguardia inaspettata che guarda molto negli occhi di Zappa come motore ionizzante della fantasia creativa, ma anche dentro l’estetica di un rock esplosivo e – a tratti – fuori delle righe – se intese come tali; è l’era dei Mellotron, dei VC7 ed altre strane congetture tecniche che la band di Leichester fa andare a braccetto con arie epiche, cori rinascimentali, trombe e stravaganserrai che colpiscono ad ogni cambio di pezzo.

Tante le sensazioni cosmic open-space The Voyage, The Breeze, Winter, molte le acidosità metedriniche che svalvolano nelle ossessioni di Never Like This, Be my fiend, Peace of mind dove addirittura florealità indù, litanie muezzin ed Ohm tibetani fanno capolino profumato, poi qua e la – ascoltando attentamente il registrato – animosità Hendrixiane, pulsazioni di Peter Gabriel e plumbei sunset blues, emergono divinamente a completare questo disco giocoso e profondo.
Prodotto da Dave Mason dei Traffic, Music in a doll’s house è un missile puntato oltre le barriere del flower power imperante in questo periodo, un missile del quale non ritroveremo più per sempre la traiettoria tra i pindarismi d’oggi.

TRAKS

Chase
Mellowing grey
Never like this
Me my friends
Hey Mr. Policeman
See through windows
Varation on a theme of Hey Mr. Policeman
Winter
Old song, new song
Varation on a theme of the breeze
Varation on a theme of me my friend
Peace of mind
Voyage
Breeze
Three times time

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“Diamonds Vintage” Santana – Abraxas

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Nell’ultimo atto degli anni 60 i Doors si stavano già defilando verso il tramonto, ancora resistevano i Jefferson Airplane e Grateful Dead a salmodiare lessici politici e funghi allucinogeni, ma tutto sembrava un copione che aveva già ampiamente esaurito il punto di forza, quando poi, come un miraggio reale, arrivò Abraxas e uno strano sole illuminò il rock con un rock mai sentito.

Trentasette minuti primi di spiritualità e carnalità avvolti in passioni latine, afro-cubane, arroventate dallo spasimo lacerante di una Gibson cavalcata da Carlos Santana chitarrista chicano che, con una formazione che resterà nella storia Gregg Rolie tastiere e voce, David Brown basso, Michael Shrieve batteria e Mike Carrabello, Josè Chepito Areas alle percussioni indiavolate, incendiò le gioie inespresse del dopo-Woodstock.
Un mix di cool jazz, blues, rock e musica latina tempestato da ritmiche di congas e timpani scolpito dal tocco chitarristico di Santana; questa era la nuova frontiera che in quegli anni si delineava all’orizzonte, un insieme di stili imparati e forgiati negli anni giovanili passati in Messico. La copertina la dice lunga del periodo psichedelico che si stava vivendo, immagini, volti, panorami tra fede e spiritualità, sensualità,eccessi di droghe, penitenze e suggestioni venivano effigiate per contendere lo spazio intermedio tra realtà e sublime e per dare – soprattutto – una visione optometrica divinatoria alla musica.

Il disco – tralasciando due brani di “servizio” Se a cabo e Incident at Neshabur – prende l’anima e il corpo e ne fa un tutt’uno di meraviglia, e lo si tocca con Singing winds, crying beasts, una specie di voodoo di piano, percussioni e chitarra in crescendo che introduce all’alchimia magica del “passetto famoso” di Black magic woman, canzone scritta e scartata da Peter Green dei Fleetwood Mac e che il combo Santana innalzò a monumento di note; un’altra cover fa bollire l’album, il celeberrimo latin jazz di Oye como va di Tito Puente.
Tremendi i due pezzi che si riappropriano del rock Hope you’re feeling better e Mother’s daughter che vedono la firma di Gregg Rolie e poi l’unico pezzo vergato da Santana, Samba pa ti, la canzone più suonata al mondo, con quegli assolo di chitarra sofferti che sono diventati classici e materia di studio per ogni chitarrista a venire.
Suggella lo spirito bestiale di Abraxas El nicoya, un atavico e pazzo combustibile tribale di percussioni e chitarra acustica che strappa il cuore come un sacrificale rito Azteco.

E’ un disco che è rimasto in cielo come una stella, un punto cardinale inaudito che ha fatto smarrire la strada maestra a molti, e a molti l’ha fatta ritrovare, dopo un vuoto girovagare tra le macerie lasciate dal “sogno floreale”.

Traks:
Singing winds, crying beasts
Black magic woman/Gipsy Queen
Oye como va
Incident at Neshabur
Se a cabo
Mother’s daughter
Samba pa ti
Hope you’re feeling better
El nicoya

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“IL CIELO OGGI”, IL NUOVO SINGOLO DI FRANCESCO-C

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Capita qualche volta di tornare alla ribalta, in un mondo in cui capita molte più volte di cadere in un baratro di muffa e ragnatele. Ma magari dopo la franata si prende un po’ di tempo, si medita su ciò che ci sta intorno e ci si abitua alle umide mura per poi costruirsi una fune robusta come la nostra corazza e con molta fatica si risale, scrollandosi di dosso un po’ di ruggine.
Sta capitando così a Francesco-C, cantastorie punk-rock from Aosta, che ha toccato buone vette a inizio millennio per poi essere sbattuto nel polveroso armadio dei residuati Mescal dopo un album del 2005 (a mio avviso strepitoso) intitolato “Ulteriormente”. E in effetti 7 anni fa Francesco fu profetico, con un titolo così non poteva esserci una fine immediata.
Dopo qualche live e un lunghissimo silenzio il “ragazzo”, torna in questo 2012 con un nuovo singolo: “Il cielo oggi”. Una canzone densa, ma semplice, quasi minimale e che nonostante le sonorità più pacate conserva il vecchio spirito punk del cantautore.

In uno scenario che adora i giri di parole e finti poeti ubriaconi, il rock made in Italy aveva bisogno del suo ritorno.

Bentornato a galla Francesco.

 

Trovate il singolo e tutta la discografia di Francesco-C su iTunes a questo link: http://itunes.apple.com/it/album/il-cielo-oggi-single/id494886476

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“Diamonds Vintage” Genesis – Trespass

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Affatto disillusi dal flop del loro primo vagito nel mondo del rock con From Genesis to revelation, la band di Peter Gabriel, già nel pieno dell’entravesti, studia la mossa risolutiva per esordire in maestà e in pompa magna alla corte di quel movimento “staccato da terra” che da Canterbury dipanava la sua tela magica astrale e in conflitto con il mondo restante del rock.

Trespass” è il risultato pratico di quella teoria progressive che non cercava il “consenso di base” piuttosto la velleità illuministica “dell’elevazione elettiva” della musica verso l’opera irraggiungibile, il summa del suono, l’apoteosi della lirica. Ed è anche il disco che apre ai Genesis la strada futura che li porterà tra i grandi Cattedratici del genere.Con Peter Gabriel alla voce, Anthony Phillips chitarre e voce, Anthony Banks tastiere, voce, mellotron e pianoforte, Michael Rutherford chitarre, basso, violoncello e John Mayhew batteria e percussioni, i Genesis sono pronti a spiccare il volo e lo fanno con i lunghi minutaggi delle suites e delle complessità variabili dei toni in quest’album che fa da anello di congiunzione ad un’ancora filatura psichedelica che si spalma sui landscapes neoclassici, su cui le mirabolanti  soggettazioni di Gabriel spandono eclettiche quanto favoleggianti scene miracolistiche.

I Camel, gli Yes e Gentle Giant, altri capisaldi del progressive del  nuovo stampo britannico a divenire, sentono nei Genesis l’arrivo di un gruppo che non solo mina i loro territori d’azione, ma vedono nell’espressionismo carismatico di Gabriel e del suo perfettismo nel calarsi “anima e corpo” nelle storie che canta, “illustra” e dipinge, l’alter ego, l’affresco umano che potrebbe oscurare l’immortalità – intesa come veicolo fantasmagorico – delle loro epiche egocentriche, l’incomodo teatrante a smascherare con un’altra maschera “i trucchi” di un suono che non resta lì, ma lievita ad alte quote. E la guerra “tra bande” si aguzza fino a portare sulle scene una gara tipo: “ chi è il più maestoso (scenicamente) del reame ?”. Il disco è pura espressione espansa d’emozioni, forte di un songwriting colto e sognante, libero come l’aria e ricco di strutture timbriche e melodie che catalizzano subito l’attenzione della critica sul quintetto inglese; stupendi i passaggi di tastiere, calde e fredde di Banks che sposano i macramè di flauto di Gabriel Looking for someone, White mountains, di velluto l’eleganza e la finezza corale di Vision of angels, acuta e impreziosita dai rubini acustici di Rutherford l’efficace turbativa emozionale di Stagnation.

Forse in Dusk e The knife, il velo d’ombra e l’inaspettata scossa elettrica alla ELP che le spazza non sono proprio in linea con la geometria dell’intero disco, ma qui stiamo parlando dell’iniziazione di una band e certi “peccatucci” non sono mai un difetto, ma da vedere come nei di bellezza votata alla classe. E’ solo l’inizio della fantastica storia dei Genesis, ne seguiranno puntate che rimarranno stelle inchiodate tra i cieli di Canterbury; il progressive d’ora in avanti ha la sua eccellenza in più da badare e della quale fregiarsene fanaticamente.

 

Tracks list

Looking for someone
White mountain
Visions of angels
Stagnation
Dusk
The kinfe

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“Diamonds Vintage” Siouxsie and the banshees – Juju

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Le continue invenzioni in termini di look e di comportamento fanno degli anni 80 un turbinio d’elementi essenziali della mitologia punk; Siouxie and the Banshee ne sono l’esponenzialità acuta e oscura, un tetro e bel connubio tra E.A.Poe e oltraggioso potere, in cui la scena inglese alternativa si rotola avidamente.Dopo i necro-fasti del precedente Kaeidoscope (1980), e in seguito ad un forzato stop causa defezioni clamorose nella band originale, Susan Janet Dallion in arte Siouxie, John McGeoch alla chitarra, Steven Severin al basso e lo stravagantissimo Peter “Budgie” Clark – ex Big In Japan e Slits –  alla batteria, danno fuoco alle micce, sotto consiglio amichevole di Robert Smith dei Cure, al quarto album della loro lugubre e fortunata carriera, Juju, uno dei vertici assoluti dell’arte visionaria di Siouxie.

E’ il disco che – per la primissima volta – presenta alcuni squarci nelle atmosfere oppressive e plumbee degli esordi, mettendo definitivamente in luce una Siouxie padrona della sua calda voce ed evocativa; e allineandosi alla nuova corrente del punk più sottomesso alle nebulose darkeggianti – che già sta portando nuovi illustrazioni sonore come giovanissimi Cure, Sister of mercy e Bauhaus – la band inglese si distende in sonorità malinconiche e tristi, depressioni stupende dettate dagli Joy Division, dei quali SETB ne aspireranno linfa vitale per tutta la loro carriera.Dunque linee di basso compressate, chitarre drogate d’acido e anfetamina, i menzionati Joy Division che barcollano visionari in Sin in my heart, e percussioni ossessive che cingono strette Halloween, Monitor ed Head cut; l’ombra della poetessa noir Patti Smith volteggia nell’aria, dove anche un sensoriale groove orientale padroneggia nelle retrovie sonore dell’intera track list, ma principalmente nella traccia Arabian knights, anticipazione “mediorientale” di un fermento che guarderà oltre confine dalla metà degli anni 80 fino alla fine.

Magnifico disco che tocca le sperimentazioni innovative e prende ancora risorse dai terreni malsani del punk, un banco di prova che consolida il marchio Siouxie and the Banshee tra i favori di un pubblico vastissimo e amante del nero come colore primario delle destrutturate asocialità della vita.

 

Tracks

Spellbound
Into the light
Arabian Knights
Halloween
Monitor
Night shift
Sin in my heart
Head cut
Voodoo Dolly

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Impressioni di Sanremo

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La “terra dei cachi” ci ha da sempre abituato alla monotonia e alla monocromaticità. Si parla di musica è vero, ma di musica che non solo si ascolta dalle “monotone” casse della TV ma la si osserva pure dal suo tubo catodico, con quell’occhio critico da casalinga frustrata che ci portiamo nel DNA tutti noi italiani.
Il festival della canzone nostrana attrae non poco l’italiano medio che di musica “mediamente” non sa una mazza di niente. Eppure come davanti a una partita dei mondiali, diventiamo subito tutti critici esperti. E critica sia. Da quanti anni siamo costretti a sentire le solite opache invettive nelle prime pagine di tragici settimanali scandalistici, o in noiosi talk show che evidenziano le sbavature di mostri (più o meno) sacri della nostra canzone popolare?

Altro che rose sboccianti, il povero Festival sembra tutti gli anni chiudere i battenti in mezzo ad una triste composizione di crisantemi.
Che la musica italiana sia davvero morta? Puo’ darsi, se ci si limita a dar retta ai soliti melodici incravattati o ai residuati dei reality show. Ma il mondo è bello perché vario, siamo d’accordo? E così ricordo con piacere che Sanremo è stata teatro di grandi scoperte, anche negli ultimi anni, penso a Negramaro, Raphael Gualazzi, ma anche ad Elisa e non mi sono sforzato neanche troppo per tirare fuori tre grandi nomi.
Forse ad uccidere il Festival non è la canzone mielosa e stracciapalle, ma proprio l’ottusa visione di un audience che ancor prima di sentire l’ombra di melodia celebra il suo funerale.

Nulla di nuovo, e la storia si ripete anche quest’anno con le polemiche da bar intavolate dai fan dei Marlene Kuntz per la loro presenza a Sanremo.
Venduti e incoerenti. Fighette isteriche pronte ad incipriarsi per vendere qualche disco in più. Impuri. Proprio come lo furono Afterhours , Silvestri o Frankie Hi Nrg (anche qui niente sforzo a trovare tre nomi). Commerciali schifosi, come se vendere quattro dischi in più e farsi conoscere da qualche quindicenne arrapata sia uno scempio e una vergogna.
Credo che detto questo io inviterei tutti a leggere il comunicato stampa dei Marlene (presente in un altro articolo qui su Rockambula) e non sprecherei altre parole su quanto mi stupisca sempre dell’intramontabile moda di indossare paraocchi.

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Top 5 di Marco Lavagno

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Premetto che sono un grande fan di Nick Hornby, e di conseguenza proprio come Rob Flemmings (il protagonista del suo best seller “Alta Fedeltà”) un fanatico di classifiche.

Ma la classifica è soggettività. Il nostro cervello sforna sempre classifiche. Ditemi che non avete mai fatto una classifica sulle ragazze più gnocche del liceo, oppure sui giocatori di calcio più forti mentre appiccicavate le figurine Panini, oppure la top 5 dei Cavalieri dello Zodiaco, oppure sulle migliori boy band in circolazione (sono old school e ho sempre preferito i Take That se non addirittura i Jackson 5).

Bene io che ho fatto tutto questo posso anche permettermi il lusso e lo sfizio di stilare la classifica di quelli che per me sono i migliori album “stranieri” del 2011.

Qui non troverete chicche e neanche gruppi che in questi casi fa figo nominare (odio i Radiohead e mi irrita che ogni santo anno siano sempre nelle classifiche delle riviste più quotate), semplicemente troverete 5 dischi che un ascoltatore di musica pop (per altro principalmente mainstream) pensa di poter far girare ancora nel suo stereo negli anni a venire. Spero fortemente di essermi sbagliato e trovare in futuro qualche chicca targata 2011, che in questo anno frenetico mi è sfuggita dalla mani.

 

SOCIAL DISTORTION – HARD TIMES AND NURSERY RHYMES

 

Non si puo’ dire che Mike Ness sia un personaggio che abbia rivoluzionato il mondo del rock, non lo è mai stato e molto probabilmente lo sa benissimo. In più nessuno oserebbe dire che possiede la poetica dialettica di Bob Dylan ma neanche quella di Eddy Vedder. E nessuno avrebbe potuto mai immaginare che dopo 20 anni di carriera un macho tutto bicipiti e tatuaggi sfornasse uno dei miglior dischi punk rock sotto il marchio (ormai tutto suo) di Social Distortion.

Di distorsione ormai non c’è più molto, solo una sfumatura che orbita intorno a melodie (sia nella voce che negli assoli di chitarra) dalla disarmante semplicità.

Questo disco non ha pezzi memorabili, non ha idee innovative, non influenza generazioni (il caro Mike ha ormai 50 anni!) e il bello è che suona talmente onesto da non avere nessuna pretesa di essere tutto ciò.

 

Miglior brano: “Machine Gun Blues” – muscolosa e maschia. Ti viene da affittare una vecchia cabrio anni 50 solo per girare in centro città a fare il bullo.

 

KASABIAN – VELOCIRAPTOR!

 

L’album dell’anno era loro. Ce l’avevano in mano, si diceva fosse il loro capolavoro, super elaborato e sperimentale, il loro “Ok Computer”. Ebbene ho sperato che non fosse così fino alla data della sua pubblicazione.

Perché a me piacciono i Kasabian vecchio stile, quelli tamarri, quelli che ti fanno sentire ad un rave party quando attaccano con il riff di “Underdog”, quelli che mi sanno di Led Zeppelin con il loro appeal anni 70 e quelli arroganti e strafottenti come lo erano i fratelli Gallagher. Sinceramentene nei panni di sfiniti indie stanchi, solo perché fa figo esserlo, non me li vedevo proprio. E per fortuna dal primo ascolto del nuovo disco ho capito che i Kasabian non sono e non vogliono essere i nuovi Radiohead, per nulla.

La tendenza alle ritmiche rilassate si sente in alcuni episodi di “Velociraptor!” ma anche negli episodi più “stanchi” si sente il grido della band. L’energia sprigionata da un carnivoro assetato di rock‘n’roll, quello puro che se ne fotte di fare la hit del momento e il punto esclamativo del disco sottolinea questa presa di posizione.

Forse la stampa e la stessa band hanno pompato troppo un disco fin troppo perfettino, curato e arrangiato con maestria da Sergio Pizzorno e compagni. Un carnivoro violento e bastardo ma tenuto un poco al guinzaglio.

 

Miglior brano: “Goodbye Kiss” – mielosa e disperata, sradicata via da un crooner americano del dopo guerra e strapazzata nel frenetico sound puzzolente delle factories inglesi

 

ADELE – 21

 

Mi sapeva di fenomeno da baraccone questa giovanissima ragazzina cicciottella. Il solito prodotto sfornato da una major: voce spaziale come entrée, faccino simpatico come main course e canzonette usa e getta di contorno.

Ma quanto mi piace sbagliarmi in questi casi: quando il pop da classifica è di qualità, e questo disco è incredibilmente magnifico!

La voce oltre ad avere la tecnica richiesta ha personalità, potenza e grande espressione e per non parlare delle canzoni: forse poche volte nella storia della musica si sono mescolati così bene pop e la vera soul music, quella del periodo d’oro dell’Atlantic per intenderci. Ci sono il ruffianismo delle melodie da alta classifica e c’è l’aggressività che sposa la classe, attributi che appartinevano solo a certe pantere del passato come Aretha e Tina Turner.

L’ombra della povera Amy Whinehouse (soprattutto nell’anno della sua morte) è sempre in agguato, pronto ad aggredire, ma Adele lo dribbla alla grande e ha il carisma e l’intelligenza per piazzare tantissime altre hit negli anni.

 

Miglior brano: “Rumor Has It” – così soffice la sua voce e così indiavolato il drumming che prepotente la accompagna, la ragazza è più cattiva di quanto possa sembrare il suo paffuto faccino.

 

FOO FIGHTERS – WASTING LIGHTS

 

Grandissima rock band che non è mai riuscita a tirar fuori un disco degno del suo nome. Quest’anno hanno sfatato il mito!

Dave Grohl, caso unico nel music business (come si è riciclato lui nessuno mai), prende per mano una band sull’orlo della crisi e rispolvera muscoli tonici come il marmo di un rock durissimo, offensivo e altamente ispirato.

Meno “power-pop” e più chitarra, meno video per MTV e più urla forsennate. La formula è vincente!

La band suona alla perfezione, senza perdere quel suo storico equilibrio tra humor e violenza. Propone tre chitarre e una ritmica a dir poco cafona, tanto che pare aver registrato questo album davanti a 50.000 persone festanti.

Questo è un disco “all’antica”, sa di live e di sudore. Di quelli da sentire ad alto volume. E gli antichi dei del rock, imprigionati in fitte ragnatele ringraziano e si danno una bella spolverata.

 

Miglior brano: “I Should Have Known” – finalmente Grohl guarda indietro, in faccia ai fantasmi. Ospita Kris Novoselic che impone un basso distortissimo in questo grido al cielo, verso l’amico Kurt.

 

NOEL GALLAGHER’S HIGH FLYIN BIRDS

 

Il 2011 è stato anche l’anno del braccio di ferro tra Liam e Noel. Prima Liam coi Beady Eye e tante maligne parole, poi Noel con questo disco solista nascosto da criptici uccelli che ambiscono ad alte quote. E le quote Noel, a differenza dell’arruffato e sconclusionato collage proposto fratello, le alte quote le raggiunge in pieno.

Con calma e meditando, in sella a un airone che aleggia leggero e rilassato: pochi colpi di ali ben assestati e si arriva in vetta.

Prende pezzi vecchi, scarti degli Oasis e qualche nuova canzonetta. Frulla tutto insieme ai migliori dischi di Beatles, Stone Roses e Primal Scream e il beverone suona fresco e piacione.

Lo sappiamo: Noel non è un genio, ma è ancora sua la cattedra del corso “come scrivere la canzone pop perfetta” e dimostra di avere ancora molto da insegnare. Anche a suo fratello.

 

Miglior brano: “AKA…What A Life” – ritmiche insistenti su cui la voce di Noel si scaglia, come onde morbide su duri scogli.

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(2011) Cosa c’è piaciuto?

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Un 2011 in (indie)musica arrivato alla fine non senza difficoltà, con un freddissimo tremolio nelle orecchie, non mi rimane che sparare qualche stolta sentenza senza credenziali.
Ebbene questa insignificante classifica personale non segue un ordine di classificazione ma l’ordine che la memoria vuole portare.

“Nati per Subire” degli Zen Circus rappresenta un disco che di prepotenza entra nella classifica come fece nella home di Rockambula, non potrei immaginare una scaletta senza una delle migliori band italiane.

“La futura classe dirigente” dei Carpacho! diventa senza troppi inutili giri di parole il miglior album pop dell’anno, ce ne fossero di pop band così! Il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore.

“Poveri Cristi. Vol.2” della Brunori SAS invece spezza le ali a chi credeva nella fine del cantautorato dolce ma di protesta, per chi in qualche modo ha ancora voglia di sognare.

“Cattivi Guagliuni” dei 99 Posse segna il ritorno di una storica band rap hip hop, un disco rimasto congelato per dieci lunghi anni ma comunque attualissimo. Cattivo.

“Innocent Awareness” dei Christine Plays Viola, la migliore band new wave italiana senza ombra di dubbio, la costola noir dell’indipendente italiano.

“Il sorprendente album d’esordio dei Cani” degli elettro pop low fi i Cani, un disco impazzito di ritmica e testi, una grande sorpresa da tirare tutta d’un fiato.

“The Watermelon Dream” del barbuto menestrello Bob Corn, soltanto lui e la sua chitarra, un viaggio infinito, una passione innata.

“Lacrima/Pantera” dei tostissimi The Death of Anna Karina, la prima volta in italiano non delude le aspettative, potenza da vendere.

Poi tantissime sono state le altre cose belle, non basterebbero centinaia di articoli per menzionarle tutte, realtà che nonostante tutto e tutti si sbattono per portare la musica italiana ad alti livelli.
Tante anche le delusioni, ma questa è un’altra storia.
Un occasione per sperare in un 2012 ad alti livelli di produttività calendario Maya permettendo.

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Fantasmi Rock

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ANNO 2011: FANTASMI NEGLI ARMADI DEL ROCK?  PIUTTOSTO VECCHI MERLETTI!

DELLA SERIE: Quando è dura ammettere che oramai sei solo un vecchio idolo sbiadito. Lettera a tutti loro.

2011 ANNO HORRIBILUS. Chissà che cosa cercheranno gli elefanti del rock quando andranno a morire nei loro cimiteri? Chissà, oltre che ha diventarne istantaneamente un culto, forse si camufferanno da alieni con il vizio di essere nuovamente umani sopra la media o magari più in la travestirsi da atrofici remagining rimontati in occasione di un videogioco o un fumetto manga per frustrati ultra-teenagers tinti nero corvino.

E di tutta quella zuppiera colma di suoni, passera e crisi d’astinenze di filiera che cosa ne resterà o meglio rimarrà a sgomitare tra un via vai di neuroni con la gotta e cellule con le stampelle griffate da Cavalli? Anche questo non è dato sapere e quantomeno immaginare, visto l’andazzo in passerella che tanti Signori Gerovital ancora tentano di arrancare, brandendo chitarre d’annata e tutine in latex che al cospetto Mr. Bolan poteva assurgere a divinità ancestrale, un Pan dell’entravesti morigerato senza l’assillo della buoncostume tiranna.

Non se ne può francamente più di assistere a rimpatriate, tributi, omaggi e tutto il carosello collettivo che rimette le tende in piedi pur di decantare che la “loro ora” non è pervenuta per un errore del parallelismo strabico di un meridiano Greenwich alticcio e nient’altro; il senso dell’idiozia targata Barnum non conosce fasi, tutto si appunta in una generale mischia borotalcata che vuole riprendere in mano lo scettro e il desco del fu e che va a contare pure su di una cassa di risonanza – magnetica farebbe all’uopo – megafonata che, magari con strategie da Ben Hur riprogrammate, distruggono, oscurano e ridicolizzano, l’enorme cristalleria dei gironi pentecostali di neofiti  musicisti intermedi.

Signor Osborne, Mister Iggy, Lady Roxette e Baba Elton e Villa Arzilla in colonna, stop con il vostro Buddha Bar all’inebriante fragranza di naftalina, dopo che avete avuto l’immensa fortuna di lavorare e farvi le ganasse come ippopotami del Serengeti non credete di fiutare – non sniffare mi raccomando – un tiraggio di un’altra aria che vi disintossichi dal protagonismo alla Highlander e finalmente inforcare stivaletti di gomma e andare a pescare gamberetti come il tenero Gump?

Lo so che siete venuti in pace e che avete bisogno di condividere le vostre esperienze analogiche (illogiche?) per vedere “ finalmente l’effetto che fa” proiettati nell’avanzamento della tecnologia dell’odierno, ma anche a teatro una replica va bene, la seconda si traccheggia, ma la terza è uno spillone nelle architetture riproduttive, e dovreste saperlo bene voi che in fatto di riproduttività quelle zone sono di gran lunga più delicate di una Morositas. Cari elefanti, ma almeno l’avorio delle vostre dentiere è quello originale o maestria Made in China?

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Top 2011 di Silvio Don Pizzica

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Annata di grandi conferme, qualche volto nuovo e ritorni inaspettati. La band californiana Girls al secondo album si gioca tutto quello che può. All-In vincente, in un mix di Indie Pop, Indie Rock, Jangle Pop, Noise Pop, con lo stile di un Costello delirante. La loro vittoria è l’ingresso nella storia della musica. Ottimi anche gli esordi di S.C.U.M. e Chapel Club, entrambi londinesi ed entrambi alla ricerca del Dream Pop perfetto, in viaggio da strade diverse. Partono dal Post-Punk i primi, dallo Shoegaze i secondi. Dove arriveranno, lo ascolteremo tra qualche anno. 

Non possiamo non citare anche Wild Beasts, una macchina da grandi album e Mirrors, band che sembra la reincarnazione in chiave Pop dei Kraftwerk. Altri esordi eccezionali, James Blake tra i fenomeni più chiacchierati di quest’anno (con Anna Calvi) e gli islandesi Dead Skeletons che con il loro mantra psichedelico e potente sono di certo la perla nera del 2011. Tra i grandi del passato, buonissimo rientro dei Low, Tom Waits e John Foxx mentre sembrano ormai aver gettato la spugna Coldplay, sempre più irritanti, Bugo, Cristina Donà e Current 93.

  • GIRLS – Father, Son, Holy Ghost
  • S.C.U.M. – Again into Eyes
  • CHAPEL CLUB – Palace
  • WILD BEASTS – Smother
  • DEAD SKELETONS – Dead Magick
  • MIRRORS – Lights and Offerings
  • JAMES BLAKE – James Blake
  • TIM HECKER – Ravedeath, 1972
  • WEEN- Caesar Demos
  • COLIN STETSON – New History Warfare Vol. 2: Judges
  • DESTRUCTION UNIT – Sonoran
  • BRAD MEHLDAU – Live in Marciac
  • INADE – Antimimon Pneumatos
  • PRIMORDIAL – Redemption at the Puritan’ s Hand
  • THE FIELD – Looping State of Mind
  • BON IVER – Bon Iver, Bon Iver
  • ALVA NOTO – Univrs
  • ST . VINCENT – Strange Mercy
  • DENIZ KURTEL – Music Watching Over Me
  • PEAKING LIGHTS – 936   3.58
  • Migliore raccolta:
    Disco Inferno – The Five Eps
  • Migliore esordio:
    S.C.U.M. – Again Into Eyes
  • Miglior album sperimentale, ambient, avantgarde e stranezze varie:
    Tim Hecker – Ravedeath, 1972
  • Migliore album live:
    Brad Mehldau – Live in Marciac
  • Migliore album Metal:
    Primordial – Redemption at the Puritan’s Hand
  • Migliore album di elettronica (Dubstep, House, Techno, Electronic, ecc…):
    The Field – Looping State of Mind
  • Migliore raccolta di elettronica (Dubstep, House, Techno, Electronic, ecc…):
    Demdike Stare – Tryptych
  • Migliore artista maschile:
    James Blake
  • Miglior artista femminile:
    Anna Järvinen
  • Miglior album italiano:
    Verdena – WOW
  • Delusione dell’ anno:
    Ladytron – Gravity the Seducer

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