Interviste

Lilia

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Lilia Scandurra, in arte semplicemente Lilia, è una giovanissima artista pescarese che sta facendo tanto parlare di sé in questi mesi, grazie alla pubblicazione dell’Ep 44 e ad alcune convincenti esibizioni live, tra cui quella a Streetambula Music Contest dove ha ricevuto il riconoscimento Wallace Multimedia come miglior presenza scenica, premiata dal grande e storico leader dei Diaframma Miro Sassolini. In occasione dell’esclusiva video offerto a Rockambula, abbiamo parlato un po’ con lei di passato, presente, futuro e numeri.

Ciao Lilia, come stai?

Questa è la domanda più difficile del mondo, no comment! Scherzo, mi sento bene (ride ndr)

L’ultima volta che ti ho visto suonare dal vivo eri a Pratola Peligna (AQ), un paesino abruzzese dove c’è un grande fermento e dove hai fatto breccia nel cuore del pubblico. Avevi già suonato lì in occasione di Streetambula Music Contest, quando Miro Sassolini ha premiato la tua performance con un riconoscimento speciale. Che esperienza è stata e cosa ti ha lasciato? Credi nell’utilità dei contest?

È stata una bellissima esperienza, prima di tutto perché quando si partecipa ad eventi organizzati con il cuore, torni a casa con il sorriso, pieno di energie positive e voglia di credere in quello che fai. Lo Streetambula Music Contest è stato il secondo concorso a cui io abbia mai partecipato e lì ho avuto l’occasione di conoscere nuove persone ed interessanti realtà artistiche ed è soprattutto questo che conta per me.

Cerchiamo di chiarire che tipo di musicista sei. Da sola sul palco, in compagnia solo del tuo portatile, mescoli un’Elettronica leggerissima a suoni e parole multiformi usando piccole tastiere e percussioni generate da drum-machine oltre che la tua incantevole voce. Tu l’hai definita Elf-tronic, qualcuno la chiamerebbe Dream Pop. Spiegaci la tua musica lasciando da parte le definizioni.

Per me suonare vuol dire (anche) “giocare”. Quando mi esibisco sento scorrere dentro di me vibrazioni che risvegliano una parte istintiva e un po’ “mistica” perché è in atto un processo creativo, ed è anche per questo che preferisco la dimensione live:  i brani registrati in studio sono come un “diario di bordo”, le performance sono “avventura”.

Sul palco non ti affianchi ad altri musicisti e le tue possibilità di movimento sono limitate dalla necessità di controllare il computer e tutto il resto. Quanto questa scelta minimale gioca a tuo vantaggio e quando può trasformarsi in un limite, sia in ambito compositivo e sia in merito alla capacità di riempire il set?

Allacciandomi alla risposta precedente, quello che mi piace di questa dimensione è proprio la possibilità che ho di divertirmi. Ho iniziato il mio percorso artistico cinque anni fa, esibendomi con la mia chitarra (e registrando poi un disco nel 2011, Il Pleut, che ho portato in giro talvolta in solo, talvolta accompagnata da ottimi musicisti) ed il limite personale che sentivo allora era proprio quello di sentirmi “racchiusa” in una bolla, dove abbracciavo la chitarra quasi fosse uno scudo protettivo. Con questo progetto sento invece molto forte la libertà di movimento, posso saltellare, spostarmi, premere, automatizzare, come un’alchimista nel suo laboratorio,  e tutte le piccole scatole magiche (aka laptop, drum-machine etc) di cui dispongo, sono piccoli e potenti giocattoli che mi permettono di suonare, trasformare la voce, registrarla in tempo reale per creare atmosfere.

Da poco è disponibile (qui) il tuo Ep 44. Come nasce un lavoro come questo, quali sono le tue ispirazioni e i tuoi punti di riferimento?

Voglia di sperimentare  ed ossessione (due mesi passati nella mia camera che pian piano è diventata un piccolo home studio) sono due fattori che hanno inciso fortemente nella creazione di 44.

Raccontaci il perché del titolo. In realtà io già so qualcosa e non posso negare che la storia è affascinante.

I numeri pari mi fanno sentire tranquilla. 44, è un numero che mi fa stare bene per vari motivi (sui quali non mi dilungherò per non sembrare una psicolabile (ride ndr)), ed è proprio per esprimere il benessere che ho provato nel registrare l’ep che ho scelto il mio numero preferito.

Lilia è indissolubilmente legata ad un’altra band che tanto sta facendo parlare di sé. I Two Fates. Cosa vi avvicina e ci sono delle affinità anche stilistiche tra voi?

Tiresia e LorElle (le due anime dei Two Fates appunto, ndr) sono amici preziosi. La loro caratteristica più potente è il coraggio di osare, e il loro naturale pregio è quello di riuscire a condividere: emozioni, sapere, pensieri e momenti. Tiresia si è occupato del mixing e del mastering di 44 e continueremo a collaborare per il prossimo lavoro (vero, Tiresia? (ride ndr)). Ci sono tante affinità che ci accomunano ma anche interessanti differenze stilistiche che rendono produttivo il nostro scambio.

Credi che una musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana o sei, volente o nolente, relegata ad un ruolo marginale?

Sì, lo credo. E il mio obiettivo è quello di emergere, sempre rimanendo un’artista che fa parte di un sottobosco che sia poco mainstream.

Perché hai deciso di fare questo nella vita? È solo questione di passione o ci sono stati eventi in particolare che ti hanno fatto prendere certe decisioni.

Non nascondo che all’inizio è stato “strano”. Come un po’ tutti quelli che si “scoprono”  eseguendo repertori inediti, ho cominciato molto timidamente perché ero abituata a suonare per me. Nel mio primo live ho eseguito tre canzoni… e mezzo. Ero terrorizzata! Inoltre, come spesso accade, il fatto di esibirmi davanti a degli ascoltatori mi ha aiutata a migliorarmi. Inoltre prima di suonare sono sempre un po’ nervosa ma, non appena  comincio, questo stato d’animo lascia spazio ad un benessere che mi riempie. Tutti dovrebbero avere uno spazio dove poter provare questo.

Restando in tema, nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?

Quest’anno mi sono laureata in Lingue Straniere e di tanto in tanto faccio lavori inerenti al mio campo di studio. Inoltre negli ultimi mesi ho registrato le voci per i due EP di Dear Baby Deer (ascolta qui) , progetto di Gianluca Spezza (ex Divine), che si divide tra Italia e estero. Secondo me si può scegliere di essere musicisti a tempo pieno, con molti sforzi e tanta umiltà. Bisogna essere concentrati e non lasciare nulla al caso.

Tra i tanti complimenti e apprezzamenti, non manca mai anche chi trova il modo di criticare ed in fondo è giusto così. Tra le cose che più ti si rimproverano ho trovato più interessanti anche se non sempre condivisibili queste di seguito: 1) alcuni brani sono troppo lunghi, ripetitivi e pesanti 2) il live è troppo scarno 3) dovresti lasciare a qualcuno più esperto la parte relativa al lato elettronico e dedicarti più alla voce. Quanto c’è di condivisibile?

Le critiche costruttive non mi danno fastidio, anzi.  Con 44 mi sono messa in gioco totalmente, sapendo che avrei potuto ricevere pareri contrastanti. Una cosa che chiedo sempre alle persone che ascoltano il mio lavoro è di darmi un parere sincero, perché ne ho bisogno. Sono una musicista profana – non ho mai studiato- ma ho sempre dedicato tanto tempo a quello che mi fa stare bene. Sono testarda e questo fa si che io rincorra ciò a cui voglio arrivare senza compromessi. Il live è minimale perché è così che sono io, i brani sono forse troppo lunghi ma non ho il dono della sintesi e per me non esiste superfluo: se una canzone nasce lunga sei minuti e cinqanta la lascio così. Mi piacerebbe un giorno provare a condividere il palco con qualcuno che possa arricchire la performance, ma questo non perché io voglia lasciare a qualcuno di più esperto il “lavoro sporco”. Mi diverto tanto a fare tutto da sola per adesso (oltre ad essere una formula comoda quando mi sposto), e mi divertirei suonando con qualcuno.

Qual è la cosa più bella che la musica ti ha regalato e quella assolutamente da dimenticare?

Una cosa sola, che abbraccia entrambe: la consapevolezza di essere “delicata”. Una cosa che gioca a favore di chi si espone, perché significa possedere sensibilità. Nello stesso tempo è qualcosa che viene piacevolmente “dimenticato”, quando, appunto, ci si espone.

Di cosa parla Lilia nelle sue canzoni (in inglese)? E cosa vuole trasmettere?

Di immagini simboliche, metafore, esperienze reali o immaginarie. Per me sono piccole pillole terapeutiche o formule magiche. Vorrei trasmettere sensazioni che siano difficili da esprimere.

Quando la musica è arte e quando semplice intrattenimento?

Ho lasciato questa domanda per ultima, lo sai? È la più bastarda che mi abbiano mai fatto (e con questa risposta, mi riallaccio all’ultima domanda *risata malvagia* )

Quali ascolti hanno portato Lilia a comporre la sua musica? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?

Pensandoci su, mi sono resa conto che tendo a prediligere voci femminili, per una questione di studio personale. Fever Ray, Bat for Lashes, Grimes, Norah Jones, Tori Amos, Portishead…Poca musica italiana. Nutro un amore incondizionato nei confronti di Nick Drake.

Ultimamente proprio Tiresia dei Two Fates ha messo in luce uno dei problemi attuali della scena musicale italiana, data dal ruolo delle etichette, anche indipendenti. Da un lato chi le critica di non avere voglia di sbattersi troppo dietro ai gruppi, dall’altro chi accusa invece le band di non voler fare il lavoro “sporco” di crearsi una fanbase, vendere merchandising, ecc.. Che idea ti sei fatta e che rapporto hai con le etichette?

Sono affascinata da queste discussioni, ma preferisco non pronunciarmi perché sto ancora osservando da un punto di vista “distaccato” poiché momentaneamente non sto lavorando con nessuna etichetta. 44 è un album autoprodotto, registrato in casa e disponibile in formato digitale. È gratuito, perché il mio obiettivo è raggiungere tante orecchie, e, per lo meno per me, non è indispensabile cercare guadagno dove non ci sono costi da recuperare. Sono più concentrata sull’investire energie e tempo per far si che ciò di cui la gente fruisce sia godibile. E a curare la dimensione live, che è la cosa che per me conta maggiormente.

Come ti stai muovendo per promuovere la tua musica e dove credi di poter arrivare?

Finora mi sono occupata personalmente della mia promozione. Grazie allo Streetambula Project  è da poco sbocciato un magico sodalizio con la deliziosa Roberta D’Orazio (Mola Mola), che mi sta facendo da Ufficio Stampa. Inoltre sta nascendo una collaborazione con un’agenzia di booking che mi darà la possibilità di portare in giro il mio progetto.

Grazie mille per il tuo tempo e per le tue parole. Un’ultima cosa prima di salutarti. Ho avuto il piacere di conoscerti e sei una persona deliziosa, sempre disponibile e carina con tutti, sempre. Dimmi qualcosa di cattivo, verso chiunque. Ce la fai?

Facilissimo! Qualcosa di cattivo, verso chiunque. (Vedi: “Spirito di patata”)

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Codeina

Written by Interviste

Ciao ragazzi. Complimenti per la vostra ultima fatica Allghoi Khorhoi. Partiamo da una domanda banale ma necessaria. Che c’entra il nome di una creatura leggendaria, un enorme verme che vive nel deserto del Gobi con i Codeina e la vostra musica?

Ci piaceva l’idea di un verme, per consuetudine creatura infima, non considerata, disprezzata, che in questa occasione assume una posizione di forza. L’Allghoi Khorhoi è un mostro mitologico che si nasconde in lunghi cunicoli scavati sotto il deserto e attacca l’uomo con scariche elettriche o secernendo acido. Quest’essere è talmente radicato nel folklore di quelle zone che ancora oggi la sua figura è vissuta con grande rispetto mantenendo allo stesso tempo il potere di incutere timore. L’abbiamo interpretato come un simbolo di rivalsa, di ribellione dal basso. Una rivoluzione nascosta e silenziosa, che striscia nelle profondità del terreno ed è pronta a esplodere all’improvviso.

Passiamo a voi. Come nasce una band come la vostra e un album come Allghoi Khorhoi?

I Codeina nascono nel 1998 in uno scantinato di periferia. Da qui passano gli anni accompagnati da tanti cambi di formazione alla ricerca degli elementi più “psico-sociopatici”. I Codeina che vedete oggi suonano insieme da tre anni e, fortunatamente, non si registrano danni a persone o cose. Allghoi Khorhoi non è nient’altro che la naturale evoluzione di Quore. Hidalgo Picaresco, il nostro primo album. Un’“evoluzione” del processo creativo, con un approccio più libero e maturo alla proposta e all’elaborazione del pezzo. Allghoi Khorhoi è la prosecuzione di un’esigenza comune di tradurre in musica disagi e insoddisfazioni quotidiane, da una sfera personale e intima a un’altra più ampia e strutturata, sociale e culturale, che riguarda l’intero nostro paese.

La codeina è un derivato della morfina ma Codeine è anche il nome di un mitico gruppo Slowcore statunitense. A quale di questi due paragoni siete più legati? Conoscevate la band di Stephen Immerwahr al momento di scegliere il nome e c’è qualcosa che vi lega, musicalmente parlando?

Dovendo scegliere a cosa siamo più legati, sicuramente sarebbe il derivato della morfina. Ai tempi non conoscevamo i Codeine e non esiste un legame musicale nonostante sia un gruppo che oggi apprezziamo.

Ascoltando i brani di Allghoi Khorhoi sembrano ritrovarsi diverse chiavi di lettura. C’è qualcosa in particolare che unisce le dodici tracce, sotto l’aspetto delle tematiche trattate più che, ovviamente, sotto quello puramente musicale?

Senza alcun dubbio il nervosismo quotidiano. Ogni singola traccia nasce come un esercizio atto a reprimere, veicolare ed espellere il nervosismo che viviamo quotidianamente in qualcosa che sia legale, lecito e magari anche terapeutico.

La vostra musica rimanda soprattutto al più canonico Alternative Rock in lingua italiana. Gli scomodi paragoni si rifanno a Verdena, Afterhours e Teatro degli Orrori. Quanto c’è di vero in queste similitudini? Quanto sono cercate e quanto sono naturale evoluzione dovuta alla vostra formazione personale?

Afterhours direi forse per i primi dischi, per gli altri due paragoni le fonti “estere” da cui hanno e abbiamo attinto sono prettamente le stesse. Noi non facciamo che suonare ciò che maggiormente ci piace ascoltare.

La scena alternativa (passatemi il termine) italiana si sta spaccando pericolosamente in due tronconi. Da una parte il cosiddetto Indie Pop Cantautorale stile Dente, Luci e Brunori, Lo Stato Sociale e dall’altra chi prova a suonare più Rock, violento, nudo e crudo. Per ora il pubblico sembra apprezzare più i primi ma è veramente una questione di scelte o piuttosto un sapersi “vendere” con più efficacia?

Pensiamo si tratti di scelta della massa: semplicemente il cosiddetto pop cantautorale è parte della storia musicale italiana che tutti conoscono (Battisti, De André, Dalla, De Gregori, Guccini ecc ecc.) mentre non ci vengono in mente gruppi per così dire “violenti nudi e crudi ” che abbiano un seguito di simili proporzioni… Basta chiedersi quale sia ancora oggi il festival musicale più importante in Italia…e la risposta si delinea ancora di più. Poco cambia in ambito “alternativo” perché siamo da terzo mondo in materia di cultura musicale e non solo…

Tornando a questa questione, sembra sempre più raro vedere andare a braccetto la qualità e, conseguentemente, il riconoscimento della critica, con i numeri dati dalle vendite di Cd e merchandising, oltre che di ingressi ai live e chiamate per i concerti. Qual è allora il problema, se esiste un problema?

Pubblicità, interessi, soldi. Una proposta musicale sui mass media è incentrata esclusivamente su questi valori. Incapacità o svogliatezza di giudizio critico dal lato del ricevente.

Dall’ascolto di Allghoi Khorhoi, emerge un lavoro intenso, carico di rabbia eppure non troppo originale nello stile. Quanto conta oggi suonare diversi dagli altri e quanto è utile e importante, in termini di riconoscimento di pubblico e critica, essere diversi in superficie e quindi formalmente o piuttosto nella sostanza?

Credo sia un po’ arduo in questo preciso momento storico avere l’obiettivo, la capacità e la superbia per poter anche solo pensare di fare musica “diversa e originale”. Ci concentriamo più su un lavoro di sostanza.

Recentemente, in occasione del M.E.I., mi è capitato di leggere diverse discussioni circa il ruolo attuale delle etichette. Da una parte chi sosteneva che siano le band a dover fare gran parte del lavoro di “formazione” di una base di fan per rendersi appetibili alle label e dall’altra chi ritiene più opportuno che siano le stesse etichette a fare il lavoro che far crescere le band, in ogni senso. Voi da che parte state? Che rapporto avete con la vostra etichetta?

Noi non abbiamo alcuna etichetta. C’è un po’ di verità in entrambe le affermazioni ma credo che la situazione generale a livello di etichette e fondi sia abbastanza grigia e al limite della sopravvivenza. Per cui fanculo e DIY!

Torniamo al disco, Allghoi Khorhoi. Provate ad essere sinceri. Quali brani sono quelli che più sentite vostri, rappresentativi del vostro stile e del vostro carattere? C’è almeno un pezzo che proprio non vi piace?

Sono tutti lati dello stesso carattere, nessuno escluso. Va bene autodefinirsi “psico-sociopatici” ma non siamo ancora del tutto pazzi da inserire nel disco materiale che non ci piace. Oltretutto non abbiamo imposizioni, pressioni o obblighi contrattuali cui sottostare.

Che rapporto avete con la critica musicale? Su Rockambula avete avuto una sufficienza e parole buone ma tiepide. Ha ancora un valore che vada oltre la mera propaganda, il lavoro del critico/opinionista musicale?

Per il primo album abbiamo contattato direttamente webzine e riviste, ottenendo stranamente un buon riscontro sia in termini di numeri sia oserei dire di critica… per Allghoi Khorhoi siamo solo all’inizio.Tante volte ci può essere mera propaganda dietro al critico. C’è chi si improvvisa critico o chi si trova a recensire qualcosa che detesta o di cui non ha un background conoscitivo. In ogni caso dietro una recensione, positiva o negativa che sia, si capisce subito se chi sta analizzando un disco ha gli strumenti giusti per poterlo fare o meno.

Perché un ipotetico lettore di Rockambula, che si trova davanti a centinaia di consigli e suggerimenti ogni mese, dovrebbe dedicare a voi un’ora della sua vita?

Perché il disco dura 44 minuti e noi gli regaliamo i restanti 16 minuti per fare ciò che più gli piace.

Quando e dove potremo vedervi suonare dal vivo? E che tipo di spettacolo dobbiamo aspettarci?

“Il più grande spettacolo dopo il big bang”. A breve ritorneremo a calcare le scene partendo dalla Brianza e Milano.

Ciao e speriamo di vederci presto.

Grazie, a presto!

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Sugar for your Lips

Written by Interviste

Giovanissimi e carichi nella maniera giusta i quattro ragazzi di Cosenza hanno tutte le carte in regola per farci emozionare con il loro Alternative Rock (sporco alla maniera del Punk) influenzato dai mostri sacri Foo Fighters, Radiohead e tanti altri. Li ha intervistati per Rockambula Webzine il nostro capo redattore, Silvio “Don” Pizzica e quello che ne viene fuori è una chiacchierata onesta, interessante e che speriamo, tra qualche anno, si possa leggere come il preludio di una grande band. Tutto sta alla loro capacità di imparare dai propri stessi errori.

Ciao ragazzi. Sugar for your Lips; una formazione giovanissima e ancora tutta da scoprire. Iniziamo con le presentazioni. Chi sono gli Sugar for your Lips?

Ciao Silvio! Bene, come hai detto, siamo una formazione molto giovane che cerca di farsi strada in questo settore, anche se col passare del tempo stiamo anche noi collezionando le nostre piccole conquiste. Gli Sugar for your Lips sono Riccardo Monaco alla voce e alla chitarra ritmica, Antonio Belmonte alla chitarra solista e alle voci secondarie, Carlo Bilotta al basso e Niki Bellizzi alla batteria e alle percussioni.

Il vostro nome sembra già fornire diversi indizi. Una scelta da band Alt Rock anglofona e l’evocazione di atmosfere che, immaginiamo, artificialmente dolci ma forti. Tra qualche secondo pigerò il tasto play per verificare; nel frattempo, ditemi quanto ci sono andato vicino?

Hai azzeccato in pieno! La scelta del nostro nome è stata presa, appunto, per dare un tocco di dolce ad una band avente un sound relativamente aggressivo; beh, non resta che ascoltare!

Play appunto. Prima “Glass of Scotch” e poi “Resignation”. Nel primo brano è evidente l’aspetto Alt Rock, Nu metal quasi. Nel secondo si allentano le tensioni e viene fuori un inatteso Pop Rock, velato di romanticismo decadente. Due anime dello stesso corpo. Qual è quella che più vi rappresenta?

Beh, diciamo che il nostro sound si identifica più in Glass of Scotch (non per niente è stato il primo singolo estratto dal nostro EP). È appunto ciò che vogliamo trasmettere al pubblico, energia mista ad una vena di malinconia, con un finale esplosivo, quasi come se volessimo lasciare l’amaro in bocca ai nostri ascoltatori.

I due già citati sono i singoli del vostro Ep Be Sweet. Come è nato questo lavoro?

Il lavoro nasce innanzitutto dalla volontà comune, dopo tanto tempo passato in sala prove e tra piccoli e grandi palchi, di ufficializzare il nostro progetto. Grande merito per la (speriamo!) buona riuscita del lavoro dobbiamo darlo a Joe Santelli, voce e chitarra dei VioladiMarte, che ci ha seguiti e indirizzati verso la “diritta via” presso le Officine33giri.

Svestendo i panni dell’intervistatore curioso e indossando quelli del critico cinico, non posso negare di aver trovato diversi “problemi” nei vostri pezzi, dagli arrangiamenti non proprio perfetti, fino alla costruzione delle linee melodiche, spesso banali ma prive d’appeal. Senza scendere nei particolari, voi quanto siete soddisfatti di quanto fatto fino a questo punto? Ed in generale quanto siete critici nei vostri confronti?

Siamo abbastanza soddisfatti del lavoro svolto, anche grazie alle tante persone che hanno apprezzato la nostra musica. Ovviamente, per quante persone ti apprezzano, ce ne sono tante altre che ti criticano. Noi SFYL incitiamo sempre il nostro pubblico ad esprimere si, apprezzamenti, ma soprattutto critiche, in quanto sono le critiche a farti crescere musicalmente e personalmente (ovviamente se le critiche fatte sono sensate e non campate in aria).

Avete scelto di utilizzare la lingua inglese, guadagnando certo in musicalità ma, inevitabilmente, ponendovi dei paletti circa il pubblico raggiungibile dai vostri testi. Per non parlare delle difficoltà di pronuncia (avete mai pensato a come possa suonare il vostro cantato in inglese se ascoltato da un madrelingua?). La vostra è una decisione ponderata e valutata con cura o frutto di una naturale e personale inclinazione verso quella lingua?

La scelta dell’inglese è stata una scelta ovviamente pensata, anche se è avvenuta con molta naturalezza, in quanto le influenze musicali di tutti noi sono per lo più derivanti da artisti che cantano in lingua inglese. Sappiamo che è una sorta di catena, in quanto in Italia ovviamente la gran parte del pubblico ascolta musica in italiano, ma sappiamo anche che puntiamo al massimo, e puntando al massimo vogliamo che la nostra musica sia compresa dalla maggior parte della popolazione e per questo abbiamo adottato una lingua internazionale.

Quanta importanza date, per restare in tema, alla parte testuale, alle tematiche affrontate, ai contenuti e ai soggetti? Le vostre liriche sono per lo più autobiografiche, rivolte alla musicalità delle locuzioni o prevalentemente narrative?

Per lo più i nostri testi narrano storie di vita, autobiografiche o rivolte alla gente normale che combatte quotidianamente contro i problemi della vita, i quali possono essere l’amore come l’incomprensione. Certamente non mancano i testi socialmente impegnati come in “Too Much Bad News”, altro brano presente nel nostro lavoro (precisiamo che per questo brano abbiamo adottato una “licenzina poetichina” in quanto il titolo della canzone è grammaticalmente scorretto ma più musicale). 

Che differenza c’è nell’ascoltarvi dal vivo? Lavorate molto sul tipo di spettacolo da proporre o, per ora, vi limitate a suonare?

Noi tutti pensiamo che la vera musica, quella che trasmette veramente sentimenti, sia quella suonata dal vivo. Pensiamo che sentire un nostro live sia completamente diverso dall’ascoltare i nostri lavori in studio, in quanto dal vivo tiriamo fuori tutto ciò che le nostre canzoni vogliono esprimere. Dopo tre anni passati sui palchi abbiamo imparato che un live deve essere quasi uno spettacolo e cerchiamo di preparare l’esecuzione dal vivo al meglio in tutti i particolari.

Oggi più che mai sono sempre più le band interessate a farsi largo nel mondo indipendente. Gli strumenti sono importanti e quindi Social Network, live, passaparola, merchandising e quant’altro. Suonare non basta insomma. Come vi state muovendo in tal senso e cosa fate di diverso dagli altri?

Beh, a livello di social, come tutte le band abbiamo una pagina facebook, un canale youtube e siamo iscritti su svariati siti internet di promozione e pubblicità. Di diverso possiamo dire di essere inseriti in un circuito che ha come obbiettivi quelli di promuovere, organizzare serate e produrre le band e gli artisti presenti nel circuito, la Fallen Interlude Movement. Pensiamo che la collaborazione e il supporto tra le band sia alla base di una buona riuscita di un progetto. Uniti si può fare.

Sotto l’aspetto stilistico, come descrivereste la vostra musica? Quali sono i vostri punti di riferimento e cosa avete di diverso da chi vi ha influenzato e da chi vi circonda?

Quando ci pongono la domanda “che genere suonate?” siamo soliti rispondere “non abbiamo un genere, suoniamo la nostra musica”. Ovviamente ognuno di noi ha influenze musicali diverse, che possono variare da band come i Red Hot Chili Peppers a band come i Foo Fighters, i Radiohead fino ad arrivare ai System of a Down. Di diverso abbiamo tutto, ascoltare per credere.

Che approccio avete con la musica? Siete dalla parte del pubblico (che agisce spesso senza fermarsi troppo ad ascoltare, spesso osannando mediocrità assolute) o della critica (che a volte guarda troppo alla qualità allontanandosi dai gusti della gente)?

Ogni volta che suoniamo cerchiamo sempre di guardare il lato critico dell’esibizione, cercando di capire quali sono i punti da affinare per andare sempre migliorandoci. Il nostro obiettivo è quello di far apprezzare la nostra musica non solo ai patiti del genere, ma a tutto il pubblico, nessuno escluso. Vogliamo creare noi i gusti alla gente.

Ultima domanda. Diventare famosi in Italia è quasi impossibile e chi ci riesce, non è quasi mai il migliore e chi lo merita davvero. Vivere di musica, della propria musica è altrettanto improbabile; e allora perché lo fate?

Innanzitutto lo facciamo per passione e per amore verso la musica. I nostri obiettivi sono chiari, puntiamo ad arrivare il più su possibile, senza pensare ai rischi e alle complicazioni che questa strada ha. Crederci è il primo passo per raggiungere un obiettivo, e noi ci crediamo. Il resto del compito lo farà la nostra musica. Grazie per l’intervista, speriamo che le risposte siano state esaustive! Be Sweet; S.F.Y.L.

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Fedora Saura

Written by Interviste

I Fedora Saura si agitano nel loro cabaret folle in La Via della Salute, secondo disco della formazione svizzera capitanata da Marko Miladinovic. Scambiamo proprio con lui qualche parola sul disco, sulla band e sull’immaginario d’altri tempi e insieme estremamente attuale che s’infonde dalle parole e dai suoni delle loro canzoni.

Ciao Marko. Iniziamo questa storia come tutte le storie che contano: con una genesi, un prologo. Come nasce il progetto Fedora Saura? Com’è arrivato al secondo disco, e attraverso quali peripezie?

La nostra storia conta dici, grazie! Ma il problema è proprio nella storia: non insegna chi ne fu privato. Giacché noi si nasce con la storia e si muore con le biografie. E bé, si creda o no al destino, tutt’al contrario è! Quell’attestato fa da biografia. E dagli esordi universali, come il filo d’erba che m’è rimasto sotto la scarpa… bisogna certificarlo! Almeno in Svizzera… e appunto qui svizzerai… zz… zz… e inizia Fedora Saura, in amicizia… In vacanza a Siena… la vidi storna e grigia che non prendeva posto… Di una donna ci si innamora anche soltanto del nome. Figuratevi una cavalla! Zeno Gabaglio e Luca Viviani della Pulver und Asche Records sono stati di grande aiuto e tuttora lo sono. Anche Simone Bernardoni (The Pussywarmers & Réka), da cui abbiamo registrato è stata una preziosissima conoscenza e pure lui rimane. Poi Marco Guglielmetti (produttore di Ex Europa Samba I II III) e oggi e domani chitarrista. Prima Giovanni Cantani, produttore del primo disco “Muscoli in Musica / Scelta degli Uguali” e poi bassista. E prima ancora Zeno Maspoli, compagno di nove anni di scuola e batterista con il quale conobbi i sopraccitatati e molto più. Ciò che è buono trova sempre una fuga, una via d’uscita, come d’altronde ciò che è cattivo… ma il primo ci mette un po’ di più, perché ne cerca molte. E poi rimane il fatto che nessuno di noi può vivere senza superare se stesso, e se vive, non vive che per il suo scopo. E così arrivano i secondi dischi, i terzi, i concerti, le amicizie… l’arte tutta e le peripezie pure. Permettetemi una vanità che dico a nome di tutti quanti ho citato: per noi i salti mortali sono semplici capriole.

Che cos’è “La Via della Salute”? Dove porta, ma soprattutto, perché?

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Conduce al giorno in cui nessuno dirà al tempo che deve vergognarsi perché è brutto e cattivo, ma avrà scoperto, dopo che il tempo gli avrà dato dell’imbecille, che è proprio lui stesso, l’uomo, ad avere più umori del tempo e non doversene preoccupare affatto. Alla vita ci pensa già troppo la morte, non guastiamola con le preoccupazioni.

Anti-cristianesimo, anti-capitalismo. Ma con un afflato poetico che ricorda il futurismo, le avanguardie novecentesche. Che bandiera sventola sopra le vostre teste? Sempre che ne sventoli una…

Ci vuol tanto esercizio per solo un po’ di poesia! Per questo ci vogliono molti poeti! Di bandiere e bandierine ne facciamo stracci per ripulire la cucina… scusate l’arroganza… Al più possono servire per fare imparare le forme e i colori a un bambino, ma piuttosto egli preferirà impararle sulla vesti di una sconosciuta… o sui tatuaggi di una che s’è spogliata… Sulle nostre teste non sventolano bandiere, soltanto i nostri capelli… e valgono più di qualsiasi bandiera: belli, biondi, grigi, bruni e pece. A noi importa ogni sfumatura, ma non si possono scegliere né tantomeno ordinare. Qualche volta fa il vento…  scompiglia le mèches! A chi compra una bandiera, Fedora Saura consiglia anche l’asta di ferro al quale sarà issata, perché un fulmine non la manchi.

Parole che scorrono come battute d’una commedia dell’assurdo, scambi, botte e risposte, declamazioni, giochi di parole. Quanto teatro c’è in La Via della Salute? Quanto teatro c’è nei Fedora Saura?

Esclusi i giochi di parole… Esattamente quanto hai detto tu, e ancora troppo poco. C’è di quel teatro che quando fu, fu impossibile… tanto vale e valeva fare il possibile! Ciò può bastare per sentirsi degli infermi, ma ogni infermo vi grida “Fate l’impossibile!”. E questo è il teatro… non un pubblico di infermi… ma questa cosa che tocchiamo e cade, riprendiamo in mano e non ci riesce schiudere il pugno per vederla.

Che Europa ha in mente Fedora Saura?

Una Europa dove i preti sono tutti neri, sudamericani, australiani, americani o indiani e fanno loro le pubblicità in televisione, nelle piazze, sui giornali e i banner su internet. Dove la vergogna è bel che scappata per la goccia che ha fatto traboccare il vasino e chi rimane ne è imbarazzato. Non c’è colpa, ma sì qualche buon torto! Dove si preferisce essere traditi piuttosto che vivere col torcicollo e una coda che spunta dagli occhi (quale non rovina la vista, ma annebbia tutto il campo visivo). È finita la miseria del mondo preceduta dalla misericordia. Resta tuttavia la povertà… di dire ciò che si pensa e pensare ciò che si dice. Credere rimane una demenza e un lusso. Il dolore è caro e privato a ognuno, parla molto, fa tanto, e non riscuote con la sofferenza, perché ella per tanto soffrire non ha retto, così anche il coniuge si è lasciato morire: la compassione. Dove se mi taglio il dito, mi spezzo l’osso o mi lasciano la donna e il cane, non fa meno male perché un altro se l’è tagliato o l’ha spezzato, ha trovato la donna e investito il cane. Insomma, dove nessuno è consolato dal dolore altrui perché non c’è proprio consolazione. Poliglotta è la lingua, non la mano… neppure serve viaggiare molto, ci si allontana anche solo di qualche passo. Così mi sono allontanato dall’idealismo, per vedere questa Europa! Questo mio sogno… Mi sono reso conto che l’idealismo rimane un cerottino sul corpo dell’utopia. Ma tolto quello, non ho visto nessuna ferita.

Come definiresti la vostra musica, così scarna, viscerale, festiva, e allo stesso tempo caotica, inquietante? Se la vostra musica fosse una rivoluzione, che rivoluzione sarebbe?

Tu l’hai definita benissimo. Aggiungo solo l’etichetta: musica contemporanea europea. Non so se può essere una rivoluzione, almeno… quelle falliscono e lo sanno tutti. Ma non tutti sanno che le rivoluzioni devono fallire… perciò bisogna farle! Anzi, una rivoluzione sì! Quella che ha da venire… CONTINENTALE! Che possa fallire meglio di tutte!

semplcità

Quanto conta il fatto di essere svizzeri? Una semplice implicazione geografica, o c’è qualcosa di più?

Conta poco e costa molto. Siamo minori e da questo stato di minorità vogliamo conquistare l’Italia. Non è la nostra storia ma sì è la lingua in cui sogniamo, pensiamo, leggiamo, chiacchieriamo e scriviamo. Cosa può fare una sovranità contro la lingua? Ci mette la polizia, le tasse e poco più. Noi, con la nostra opera, vogliamo (ri)annettere culturalmente il Ticino all’Italia. Dopodiché l’Europa.

Nei crediti del disco segnate il 2014 d.C. anche come 126 d.N. Ci puoi spiegare cosa significa?

La prima lo sai… il calendario di papa Gregorio XIII,… nel quale si nasce male e si vive peggio per poi morire pessimamente, ma con ottimismo! La seconda rientra invece in ciò che ho riconosciuto come calendario laico: dopo Nietzsche. Lo segna in chiusura al suo Anticristo, il 30 settembre 1888, in cui cade il primo giorno del calendario. Per accedere a questo cronologia, basta soltanto rifarsi il vocabolario, ed è un bell’andare di corpo! Io ti chiedo invece: Cristo ha avuto il cristianesimo, perché mai a Sade e Masoch son toccati il sadismo e il masochismo? Poveretti!

In molte recensioni del vostro disco ho colto un riferimento al passato, a tempi diversi, per certi versi più complicati – o per lo meno, tempi in cui la complessità era più affascinante e più accettabile di oggi, nel bene e nel male. Quanto vi sentite “complessi”? Vi sentite fuori tempo, di un’altra epoca? E nel caso, di quale?

Tornassimo alle epoche passate, potremmo sembrare dei santarellini… vista la morale con cui siamo stati. Non vorremmo fare figuracce con ‘sti viaggi nel tempo! È dal nostro presente che cerchiamo il confronto con quanto di bello e grande fu, e neppure troppo tempo fa. Allora si può essere contemporanei alla scoperta del fuoco, a Epicuro, alla bomba nucleare e grazie al razzo alle invenzioni, gli accordi e a tutti gli altri che in vita dissero “io”. Lo diremo nel prossimo disco che cos’è l’io… ma giacché di già lo suoniamo in concerto con “Canta la bambina”, è bene dirlo subito: “io = nana microcefala anoressica con invisibile areola priva di capezzolo su mammella iperbolica”. Così… giusto per ricordarselo la prossima volta che si inizia una frase. Intanto auguro a chiunque di dire io soltanto se richiesto, dalla polizia, dai preti, dalle amanti, dalle madri, sorelle e in quest’ordine. Dopodiché… a che servirebbe il complicato se lo si semplificasse? E poi la semplicità non è meno complicata: vedi esempio 2. Questo invece il primo: “Nella vita altro dalle cose complicate non c’è, fuori dalla vita altro non c’è”. Questo è semplice no? La vita invece è complessa. Senza origine né risultato. Una volta e per infinite: l’esistenza rimane senza scopo. Ma molta passione!

Ho letto spesso accostati al vostro i nomi di Gaber, dei CCCP… altre influenze meno ovvie ma che potrebbero gettare luce sulla vostra opera? Se i Fedora Saura fossero uno scrittore o un poeta, chi sarebbero? E se fossero un pittore, uno scultore?

Il gioco delle mazzette! Questa domanda l’ho lasciata per ultima, perché mi è proprio difficile. Mi va di dire questo: c’è una pesante scultura a Mendrisio (Ticino), si chiama Alpha (1972), di André Ramseyer. Qualche anno fa, come dice l’Archivio e vedevano i miei occhi, stava nel “Bâtiment de la Poste”. Dopo il rinnovo della stazione l’hanno spostata e messa tra la ringhiera delle scale per accedere ai binari e i parcheggi dei motorini, costretta da entrambi i lati. Si sono impegnati molto quelli del comune e pensato niente. Per rispondere alla tua domanda: nel momento in cui Fedora Saura non saprà diventare altro da ciò che è, in quello stesso istante prenderebbe corpo in quella scultura di granito.

Prossimi passi? Progetti per un nuovo disco, magari qualche data italiana?

Oltre al mecenate, tre coriste nere, un’orchestra e un bombarolo, cerchiamo pure una booking italiana. Si facciano avanti pertanto… e daremo loro quanto di meglio hanno visto e sentito! Intanto, per il quanto di meglio, si cerca invano di chiudere una data tra Veneto e Friuli Venezia Giulia (per l’11 ottobre). Poi risaliremo la Costa Adriatica per toccare la Slovenia (al KUD di Ljubljana il 12 ottobre), Croazia con Rijeka (13 ottobre) e Split, dove suoneremo il 15 ottobre per la Adria Art Annal. Partiremo dopo le date in Ticino del 2 ottobre allo Studio Foce di Lugano per l’Associazione Oggimusica e il Conservatorio della Svizzera italiana, il 3 ottobre a La Fabbrica di Losone per il Performa Festival e il 9 ottobre a Chiasso per il Gwenstival – Festival di musica e radiofonia. Ci sarà certamente un disco ma “Prima va suonato questo!” ci dice l’etichetta…

Grazie Marko per la disponibilità. Alla prossima!

Vi auguro ozio e felicità! E qualche miliardo perché no! A ridarlo bastano gli interessi! A presto sentirci!

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I Giorni dell’Assenzio

Written by Interviste

Intervista a Mattia De Iure, voce e chitarra de I Giorni dell’Assenzio, Power trio abruzzese che si sta facendo spazio nel grande mondo della musica Indie italiana. Un ringraziamento speciale a Mattia e a tutto lo staff della Ridens Records per la disponibilità e la collaborazione.

Partiamo con una domanda inerente il titolo del vostro primo cd: ma la solitudine è davvero così immacolata?
La prima domanda è sempre la più difficile… Comunque risponderei sì, perché volevamo dare appunto l’idea di questa solitudine “immacolata”, nel senso che non è stata violata, che è pura da un certo punto di vista, la più profonda che ci sia; inoltre c’è anche l’assonanza con l’Immacolata Concezione che è un tema che ricorre, come quello della sacralità, della ricerca del divino, che è ricorrente anche nel disco; un po’ velato, ma c’è… Inoltre era anche il filo conduttore di tutti i pezzi per cui ci è venuto spontaneo intitolare così il nostro primo disco. Che poi è una cosa che mi è sempre suonata in testa, anche dalla canzone “Immacolata”, il singolo, in cui volevo raccontare questa storia di profonda solitudine tramite l’amore, che è la cosa più pura che ci sia.

A chi vi ispirate per scrivere i vostri brani?
Tendenzialmente la nostra ispirazione general un po’ come sound, un po’ anche come scrittura volendo, è un po’ una mediazione tra i gruppi cosiddetti Power trio della scena anni novanta tipo Nirvana ma anche più moderni tipo Placebo, Muse; essendo poi noi italiani ci piace menzionare anche tutti i gruppi della scena indipendente nostrana tipo Teatro degli Orrori, Ministri, Gazebo Penguins e soprattutto Verdena, di cui siamo tutti e tre super fans. E’ quindi una mediazione fra tutte le cose che ci piacciono, che alla fine sono anche un po’ diverse e cerchiamo di tirarne fuori il meglio.

Quindi nel gruppo i gusti sono gli stessi?
C’è il fondo, lo zoccolo comune che è quello che ti ho appena detto, ma poi in realtà tutti ascoltiamo tantissime altre cose, il batterista spazia dal Metal all’Elettronica, la bassista dal Reggae al Dub e io più o meno la stessa cosa.

Domanda provocatoria (riferito a un verso di “Immacolata Solitudine”): ma le borse finanziarie sono davvero morte o c’è speranza per la nostra economia?
Per la nostra economia non credo che ci sia speranza; ho voluto mettere proprio le borse finanziarie perchè secondo me sono l’emblema della decadenza della società; la finanziarizzazione dei mercati secondo me è stata la cosa più stupida che l’uomo abbia mai fatto (ma questo è un mio commento personale).

Le canzoni si dice che siano come figli… voi avete il vostro prediletto?
Non in particolare; diciamo che ci piace tutto il disco; io personalmente sono legato particolarmente a una canzone che è “Rivoluzione”, che la sento un po’ di più anche quando la suoniamo live.

Il Power trio è una formazione abbastanza insolita in Italia… Non vi sentite penalizzati nei live a non avere per esempio un altro chitarrista con voi sul palco (è chiaro che magari sul disco si possono fare anche sovraincisioni, ma live no…)?
Secondo me la cosa che ci è piaciuta di più da quando è iniziato il progetto è stata proprio questa, sperimentare mentre si suona in tre, poi su disco è ovvio che ci sono più chitarre ed arrangiamenti diversi; ci piace molto giocare sugli arrangiamenti nei live che sono tutt’altra cosa pur mantenendo la stessa base sonora.

La dimensione live vi appartiene… ma in studio il disco suona davvero bene… ha degli arrangiamenti davvero ben curati… Voi dove vi vedete meglio sul palco o in studio?
Innanzitutto grazie del complimento! Sinceramente ci vediamo meglio sul palco; fare dischi è bellissimo perché vedi la dimensione finale delle canzoni, forse è pure un po’ più complicato, ma devi solo entrare un attimo nell’ottica, perché è difficile da fare subito ma per fortuna ci hanno aiutato molto i ragazzi dell’etichetta (la Ridens Records), soprattutto il produttore Paolo Paolucci.

In “Radioattività” la voce principale è quella di Tania… Nel futuro potrebbe esserci anche più spazio per lei alla voce? Per quanto mi riguarda ha superato a pieni voti la prova…Tu che dici?
Sì decisamente… Tra l’altro quel testo l’ha scritto anche lei; quindi se lei deve cantare un pezzo è meglio che canti le sue cose perché sono più sentite.

Avete aperto per gruppi importanti quali Meganoidi e Lo Stato Sociale (per menzionarne alcuni)… cosa pensate della musica indie in Italia?
Abbiamo fatto tantissime aperture e con alcuni gruppi si è creato anche un rapporto umano (mi viene da aggiungere a quelli menzionati almeno Gazebo Penguins, Tre Allegri  Ragazzi Morti e Teatro degli Orrori); la cosa che più mi piace dell’Indie italiano è proprio che con la maggior parte di loro riesci anche a legare.

Nel disco ci sono anche ospiti quali Ivo Bucci dei Voina Hen, Luca Di Bucchianico del Management del Dolore Post Operatorio, Monica Ferrante dei Mom Blaster (altro gruppo prodotto da Ridens Records). Come sono nate queste collaborazioni?
Sono tutti amici nostri che conoscevamo anche al di fuori dell’ambito musicale; inoltre volevamo fare un disco che coinvolgesse un po’ tutta la scena locale anche perché suonando da un paio di anni nella scena frentana ci è sembrata una cosa naturale che collaborassero anche loro.

Dove vi vedete fra dieci anni?
Spero a suonare il più possibile.

Sempre con la stessa formazione, con tanti dischi e tanti live alle spalle?
Sicuramente! La stessa formazione? Beh, la base spero rimanga sempre quella ma non escludo l’aggiunta di qualche elemento in futuro… Dipenderà da quello che scriveremo…

Progetti in cantiere?
In primis il secondo singolo , che dovrà tra l’altro uscire fra poco, poi un secondo disco in studio (siamo già in fase di scrittura io e gli altri) ed infine stiamo cercando di continuare a preparare e, perché no, a migliorare i nostri live perché è una cosa a cui teniamo molto.

Qualche data importante?
Sì, abbiamo suonato di recente a Parma il 31 luglio, ma il calendario è sempre in continua evoluzione per cui seguiteci sul nostro sito ufficiale e sulla nostra pagina Facebook!

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Andrea Leonardi (Suoni in Chiostro)

Written by Interviste

Torna a San Gemini (TR) il 13 settembre 2014 Suoni in Chiostro, giornata dedicata alla musica indipendente italiana, ma anche alla fotografia, al teatro e alla body art, organizzata dall’omonima associazione, attiva ormai da diversi anni nella promozione culturale nel territorio. Per l’occasione, abbiamo incontrato il fondatore dell’associazione che fa capo a questa manifestazione per capire come nasce e come vive uno spettacolo poliedrico come Suoni in Chiostro; Andrea Leonardi.

Suoni in Chiostro sta cominciando a diventare un appuntamento fisso per gli amanti della musica indipendente e dell’arte in generale. Quando è nato questo evento e come è cresciuto negli anni?

Suoni in Chiostro nasce nell’aprile del 2013 da un’idea di alcuni ragazzi sangeminesi amanti della musica e dell’arte in generale. A quei tempi non era ancora nata una vera e propria associazione, nata solo in seguito grazie anche al successo di quel primo appuntamento. Una volta costituita l’associazione Suoni in Chiostro, si è deciso di dare continuità all’organizzazione di eventi, puntando l’attenzione sulla stagione estiva. Il 23 agosto sempre dello stesso anno ha avuto origine un festival  concentrato in un’unica giornata con nuove realtà del paese. I nostri progetti hanno infatti carattere itinerante, ogni appuntamento si svolge in un luogo diverso per poter dare così visibilità, di volta in volta, a scorci e paesaggi sempre nuovi e suggestivi.

Quest’anno in particolare il programma si presenta particolarmente interessante. Come si svolgerà l’evento e quali sono i momenti più attesi?

Sicuramente gli avvenimenti più importanti della giornata saranno i quattro concerti che a partire dalle 21 si svolgeranno a Piazza Palazzo Vecchio. La musica è stata, in tutti gli eventi Suoni in Chiostro, la pietra miliare intorno alla quale tutto il resto ruota.

Tra le varie iniziative, la presentazione del libro La Distanza dall’Albero di Giada Fuccelli e Maurizio Ruggeri. Di che tipo di opera si tratta? Ha un legame con la musica? Perché si svolgerà “in un luogo segreto”?

Non si tratta di una presentazione di un “libro” vero e proprio, ma di una lettura intima di poesie scritte da Giada, accompagnate dal suono sperimentale ed evocativo degli strumenti di Maurizio. Un’esperienza particolare che si svolgerà a ridosso della zona concerti e, appunto, sotto un albero. Lasciamo spazio all’immaginazione e alla curiosità di chi si troverà a godere dello spettacolo per svelare ulteriori particolari.

Tra i vari musicisti troviamo Cosmolab, Carlini Serra, Above the Tree e Sacri Cuori. Come siete arrivati a queste scelte?

Da sempre Suoni in Chiostro è alla ricerca di qualcosa che conferisca agli eventi musicali un tocco particolarmente suggestivo e intrigante. Non a caso le attenzioni sono sempre indirizzate verso progetti musicali sicuramente non scontati e non necessariamente “conosciuti” dal pubblico a cui si rivolgono. Sicuramente nomi come Sacri Cuori e Above the Tree sono quelli su cui il nostro interesse si è fissato sin dal principio; i primi vengono da numerosi successi a livello anche di critica essendo stati tra l’altro vincitori di un premio per la colonna sonora del film “Zoran il mio nipote scemo”; i secondi, definiti dalla critica come “protagonisti più singolari e misteriosi del nuovo millennio musicale italiano”, non potevano non far parte di questa programmazione. Sergio Carlini e Francesco Serra presenteranno in anteprima nazionale il loro nuovo lavoro in uscita nei prossimi mesi. Tutto questo verrà inaugurato dalla presenza di una delle band locali più interessanti a nostro avviso, i Cosmolab, che hanno recentemente partecipato al Berlin Psych Fest di Berlino.

Oltre a questo, mostre fotografiche, teatro e tanto altro. Come riuscite a legare la musica a tutto il resto senza far perdere interesse? Non sempre gli appassionati di musica lo sono anche delle altre arti.

Fin dalla prima edizione, gli amanti di questo appuntamento sono a conoscenza del fatto che all’interno della giornata l’attenzione verrà posta anche su altre forme d’arte. Coinvolgendo parti diverse del paese per ogni tipologia di proposta, diamo la possibilità e l’opportunità a ciascuno di scegliere l’attività che preferisce: farsi un giro per i mercatini e le mostre, piuttosto che  ammirare lo spettacolo teatrale o i reading di poesia, in altre parole di usufruire a proprio piacimento di ciò che più aggrada.

Dove li trovate i soldi per organizzare tutto questo?

Il finanziamento agli eventi è stato sempre e solo grazie alle realtà commerciali presenti sul territorio ed al tesseramento. Ad oggi, nonostante una delibera da parte del Comune di San Gemini per un piccolo finanziamento, nessun soldo pubblico è stato erogato nelle casse della nostra Associazione

Cosa vi aspettate da questo evento? Sarà un successo se…?

Speriamo che, come nelle precedenti edizioni, si potrà di nuovo parlare di una giornata riuscita. Ma, al di là dei numeri, possiamo dire senza ombra di dubbio che per noi sarà un vero successo solo se chi parteciperà alla giornata (musicisti, espositori ed artisti compresi) potrà dire il giorno dopo: “sono stato a San Gemini al Suoni in ChiostroFfest e sono stato bene”. Questo è quello a cui di più la nostra associazione tiene.

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Leo Pari

Written by Interviste

Cantautore e produttore, il romano Leo Pari diventa sempre più protagonista della scena indipendente capitolina con l’uscita della seconda compilation che prende il nome dalla sua etichetta. Gas Vintage Super Session Volume 2 mette insieme, in una serie di esibizioni live, alcuni importanti artisti del panorama emergente e mette tutto a disposizione in maniera gratuita, con un totale spirito di condivisione artistica. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare come nasce questa compilation e per parlare anche di tante altre cose.

Gas Vintage Super Session Vol.2. Di che si tratta?

Ciao Ragazzi. GVSS Vol.2 è il nome di un grande party che dura un anno e che si tiene presso i Gas Vintage Studios. Per il secondo anno di seguito abbiamo avuto il piacere di ospitare tanti amici musicisti che sono passati per Roma e che hanno voluto regalarci un pezzetto della loro musica. Una “compilation” quindi, per usare un termine un po’ anni 80, di registrazioni prettamente live avvenute tra ottobre 2013 e marzo 2014.

La Gas Vintage è una piccola etichetta, con un grande nome alle spalle, che sa fare grandi cose. Come ci riuscite, anche ma non solo, economicamente?

Facile, basta lavorare 36 ore al giorno e le cose vanno da sé. Battute a parte, lo studio di registrazione è un mezzo che permette di racimolare qualche soldino in più, e piano piano, una mollichina alla volta, si riesce ad avere piccole cifre da investire in progetti in cui crediamo. Ma questa è solo parte del lavoro, bisogna poi fare un buon lavoro di ufficio, cercare di organizzare gli eventi giusti nei luoghi adatti, e soprattutto cercare di dare la miglior visibilità possibile alle band che lavorano con noi.

Quali artisti avete nel vostro roster?

Gli artisti che abbiamo prodotto finora, oltre ovviamente al sottoscritto, sono: Discoverland, progetto di Roberto Angelini e Pier Cortese che nel 2015 uscirà con un nuovo album, San La Muerte e TheeElephant. Ma nella prossima stagione allargheremo la rosa dell’etichetta con due nuove entrate molto gustose, i B.M.C. che si sono appena esibiti sul palco di Arezzo Wave, e Davide Lipari aka One Man 100% Bluez e forse qualcos’altro.

Che differenze ci sono, oltre ai nomi, tra volume uno e volume due?

Diciamo che la filosofia delle 2 compilation è più o meno la stessa, mettere insieme artisti che ci piacciono e che hanno voglia di venire a farci un saluto. Sicuramente il primo volume ha un sapore più Folk, i brani di Dellera, di Francesco Forni e Ilaria Graziano, di The Niro, di Emma Tricca e di tutti gli altri che hanno partecipato al Vol.1 sono stati selezionati anche in base al sound morbido e acustico che esprimevano. In questo secondo volume invece abbiamo cercato di dare spazio a sonorità più Rock, in tutte le sue accezioni, passando anche per il Rap di Kento and the Voodoo Brothers, ma anche per il Pop raffinato di Alì, senza tralasciare la nostra passione per un certo tipo di Folk con Iacampo, Nordgarden e Bea Sanjust.

Tra i diversi artisti che fanno parte dell’album troviamo Eva MonAmour , Kutso, Selton, Boxerin Club e tanti altri ancora. Con quale criterio sono stati selezionati questi musicisti?

Come dicevo poco sopra, il criterio è un misto di accostamenti artistici e passione per la musica, ma anche di amicizia personale con molti di questi artisti. È un po’ come quando vuoi fare una festa e scegli chi invitare

Un saluto e un arrivederci a presto. C’è qualcosa che avrei dovuto chiedervi ancora?

È importante dire dove si possono trovare le due compilation. Sono in download gratuito da www.gasvintagerecords.com, buon ascolto!!

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Witches of Doom

Written by Interviste

I Witches of Doom non hanno perso tempo per mettersi in mostra. Nati in poco tempo e subito al lavoro sul loro disco d’esordio, Obey, Federico e soci, senza esitare, si sono messi all’opera, insieme all’ etichetta americana Sliptrick Records, per la promozione del loro album. Ai microfoni c’è Federico Venditti che ci spiega velocemente quale è stato il processo di formazione del gruppo.

Come e quando è nata la band?

I WOD sono nati a gennaio 2013, quando al nucleo iniziale formato da me alla chitarra, Jacopo al basso e Andrea si è aggiunto Danilo alla voce. Da quel momento in poi abbiamo bruciato le tappe. Dal momento che in un tempo relativamente breve siamo passati dalla sala prove ai live, per finire in sala d’incisione per registrare il nostro debutto. Ad inizio 2014 si è unito Graziano alle tastiere spostando la nostra musica ancora di più su lidi Goth Dark anni 80. L’idea di formare la band è partita da me, dopo che avevo concluso nel peggiore dei modi la mia precedente esperienza con il mio vecchio gruppo Ossimoro. Per fortuna in questa band ho trovato oltre che degli ottimi musicisti, anche delle belle persone con cui lavorare.

Quali sono le band che hanno influenzato i Witches of Doom?

Tutti noi veniamo da background musicali diversi,ma alla fine su tanti gruppi ci troviamo in sintonia. Danilo viene da un gruppo Crossover. Jacopo suonava in una band Black Metal. Andrea suona tuttora con una band Hip Hop, Rap ed infine Graziano ha suonato con una band psichedelica anni 70; io ho suonato la chitarra per anni in un gruppo Grunge Stoner. L’impronta che abbiamo voluto dare a questa band è quella di avere un suono scuro che richiami lo Stoner, il Doom e il Goth, ma in generale tutta la buona musica che abbiamo assimilato in anni di ascolti. Il prossimo disco sarà ancora di più multiforme nello stile, insomma ci saranno delle interessanti sorprese.

Obey è il vostro nuovo disco; a cosa vi siete inspirati per comporlo? Chi si occupa dei testi e generalmente su cosa sono centrati?

Obey è il nostro esordio, come detto prima; è da poco che suoniamo e da subito abbiamo deciso di saltare il discorso demo e di passare alla composizione di un disco vero e proprio. Per quanto riguarda i testi dovrebbe rispondere Danilo, siccome se ne occupa solo lui, ma posso dirti che i temi toccati vanno dall’amore tormentato all’abuso di sostanze varie, per finire con problemi esistenziali.

Come e dove si sono svolte le fasi di mixaggio e registrazione di Obey?

L’album è stato registrato e mixato agli Hombre Lobo studios di Fabio Recchia a Roma tra inizio novembre e marzo di quest’anno e il risultato è stato molto soddisfacente, anche per l’abilità di Fabio di darci utili consigli sugli arrangiamenti dei pezzi. Insomma siamo entrati in studio con un sound, e ne siamo usciti con un altro più moderno e fruibile se vogliamo. Il lavoro ha subito dei rallentamenti sotto le feste di Natale, ma nel complesso non ci sono stati grandi intoppi nella lavorazione.

Per quanto riguarda le  case discografiche cosa ci dici, siete con qualcuno attualmente o in cerca?

Noi abbiamo firmato con l’americana Sliptrick Records che si sta occupando anche della promozione del disco. In generale posso dirti che ormai il mercato discografico è morto, almeno come lo intendevamo fino a poco tempo fa. Basti pensare che bastano poche centinaia di copie per andare in classifica su Billboard in USA. probabilmente stiamo vivendo un periodo di trasformazione dove i risultati li potremo vedere solo tra anni.

Come vi state muovendo per la promozione di Obey?

Come dicevo pima se ne occupa la nostra etichetta,ma anche noi ci stiamo dando da fare in modo da far girare il nome del gruppo il più possibile attraverso radio,webzine e magazine. A breve uscirà il nostro primo video del pezzo “Rotten to the Core” che sarà un’arma in più anche per passare in tv, poi il nostro sito ufficiale, dove trovare il nostro merchandise e tutte le notizie riguardanti tour ecc. In autunno puntiamo a suonare a nord Italia e fare qualche data di supporto a qualcuno in Sardegna dove abbiamo preso contatti. Insomma ci sono molte cose che bollono in pentola in casa WOD.

Come è stato accolto il disco dalla critica e come dal pubblico?

Guarda; fino ad ora in maniera ottima; tutte le recensioni sono eccezionali e convengono sul fatto che il disco è ben suonato e con delle belle idee. Questo trattamento non lo riceviamo solo in Italia, ma anche all’estero. Speriamo continui così! Il pubblico poi si dimostra entusiasta ad ogni nostro live, qualcuno si fa avanti chiedendo informazioni sulla band e quando risuoneremo live.

Per quanto riguarda i live cosa ci dici, dove suoneranno prossimamente i Witches of Doom?

Al momento siamo fermi perché ad agosto non saremo tutti qui per via delle ferie. Comunque ci stiamo organizzando per tornare sui palchi a settembre con live assortiti soprattutto fuori Roma. Siccome al momento siamo in pausa live, ne stiamo approfittando per buttare giù nuove idee per il prossimo disco che comunque non vedrà la luce prima della fine del 2015 e la direzione intrapresa sarà una bella sorpresa; senza però stravolgere il nostro sound.

C’è un festival in cui più di tutti vi piacerebbe partecipare?

Questa è una domanda difficile, perché ce ne sono così tanti; ma per quanto mi riguarda mi piacerebbe essere parte del bill dell’Hell Fest in Francia oppure del Rock in Sweden, due festival organizzati benissimo con una grande partecipazione di pubblico e con nomi altisonanti in scaletta; per ora è solo un sogno ma mai dire mai!

Bene Federico, l’intervista si conclude qui, lascia pure un messaggio di chiusura…

Ringrazio tutti i lettori della vostra webzine e li invito a seguirci sulla nostra pagina facebook per live e news sui Witches of Doom….doom or be doomed!

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Gluts

Written by Interviste

Ciao ragazzi e benvenuti su Rockambula. Cominciamo a raccontare la storia dei Gluts. Come e quando sono nati?

I Gluts sono nati a fine 2010. Dopo vari cambi di formazione e soprattutto di sonorità la svolta vera c’è stata sicuramente a settembre 2012 con l’ingresso di Claudia al basso. Con lei abbiamo finalmente trovato la strada giusta per quello che poi è oggi il suono dei Gluts  e il suono di Warsaw.

Da quali band sono influenzati i Gluts?

Credo che principalmente siamo una band Punk. Anche e soprattutto per la forte attitudine DIY in cui crediamo davvero molto e che ad oggi ci ha dato sempre grandi soddisfazioni. Se parliamo di influenze sonore, sarà banale e scontato dirlo ma sicuramente il suono dei Joy Division e il “wall of sound” degli A Place to Bury Strangers ci hanno influenzato parecchio.

Warsaw è il vostro nuovo disco; a cosa vi siete inspirati per la sua composizione e di cosa trattano i testi?

Credo non ci sia stata una vera e propria ispirazione a livello compositivo. Non ci siamo mai seduti attorno ad un tavolo per decidere cosa volevamo da questo disco o cosa potesse piacere alla gente. Oltretutto non abbiamo MAI avuto un approccio cantautorale alla composizione delle tracce. È molto difficile che qualcuno di noi arrivi con una canzone “preconfezionata”. Tutto quello che sono i brani di Warsaw nasce da pura improvvisazione in sala prove; senza regole, senza schemi o preconcetti. Attacchiamo gli ampli, ci registriamo e vediamo cosa viene fuori. Le idee buone diventano poi canzoni..le altre..vengono scartate. Per quanto riguarda i testi, sarò breve: trattano di tutto quello che ci circonda; la vita, le ingiustizie della vita quello che ci piace o quello che ci fa incazzare. Alcuni testi hanno anche tematiche forti, vero, ma voglio a nome di tutta la band sfatare il mito che i Gluts “siano una band impegnata”. Non è una cosa che ci è mai interessata e non ne saremmo nemmeno in grado. Preferiamo lasciarlo fare ad altri.

Che tipo di lavoro avete svolto per le fasi di mixaggio e registrazione e dove è avvenuto il tutto?

Registrare il disco è stato davvero una figata. Principalmente perché abbiamo lavorato con persone che conoscevamo già da tempo e che sono prima di tutto amici. Le registrazioni sono state fatte vicino a Domodossola nello studio di Francesco Vanni e Davide Galli (ex Piatcions) insieme a James Aparacio, produttore inglese che ha lavorato con band enormi come Liars o Spiritualized (tra le altre). Diciamo che lavorare per la prima volta con qualcuno che conosceva davvero bene a livello di sonorità quello che stavamo cercando è stato molto bello e gratificante. Le fasi di mixaggio poi sono state fatte direttamente da James nel suo studio di Londra; poco da aggiungere, il tocco inglese si sente, noi siamo estremamente soddisfatti ed il disco suona da paura. Era proprio quello che volevamo, un suono internazionale.

A cosa aspirano i Gluts?

(Ride ndr); le aspirazioni! Diciamo che aspiriamo a fare musica che soddisfi ed esalti prima di tutto noi stessi. Quest’anno ci siamo già tolti delle belle soddisfazioni (il MiAmi, A Night Like This Festival ed altri due festival che faremo a breve) e ne siamo felici. Suonare il più possibile, nel limite degli impegni lavorativi di ognuno di noi, è sicuramente l’aspirazione più grande. Riuscire a portare Warsaw al di fuori del nord Italia e anche all’estero sarebbe figo e ci stiamo infatti muovendo per far si che succeda. Non abbiamo più, purtroppo, vent’anni e quindi ovviamente ci sono anche altre priorità. La musica però è la nostra passione, da sempre. Non siamo dei professionisti ma lo facciamo nel modo più professionale possibile e quindi pretendiamo professionalità e serietà.

Dei vostri live cosa ci dite, è difficile trovare un posto dove suonare ed organizzarsi? Nella vostra città come siete messi?

Credo che la dimensione LIVE sia proprio quella dove si possa apprezzare di più chi siamo veramente. Dico questo perché è capitato spesso che amici o anche persone che non conoscevamo dopo un nostro concerto venissero a farci i complimenti per la rabbia e la passione che ci mettiamo. Sul palco  diamo davvero TUTTO e questo chi viene a sentirci credo lo apprezzi molto. Per quanto riguarda l’organizzarsi, ad oggi non sapremmo darti una risposta certa perché stiamo appunto cercando di organizzare un mini tour promozionale di Warsaw in giro per l’Italia per il prossimo inverno e vedremo come andrà. A sensazione comunque penso che ci sia dell’interesse ancora vivo per la musica LIVE e soprattutto gente che abbia voglia di sbattersi e organizzare concerti come si deve. Su Milano, mi permetto di citare mio fratello Marco: “Milano è una bella città, ma un posto del cazzo se si parla di musica” (ride ndr).

Parlando di concerti: dove suonerete nei prossimi giorni?

Abbiamo ancora due date confermati per l’estate e una già confermata per fine settembre. Saremo sabato 9 agosto a Piateda (SO) al Rock And Rodes mentre martedì 12 agosto saremo a Fara Vicentina (VI) all’Anguriara Fest. Siamo molto esaltati di partecipare a questi due festival perché quando siamo stati contattati dagli organizzatori abbiamo subito avuto la sensazione di parlare con persone che ci mettono una passione enorme e credono tantissimo in quello che fanno. Questo è davvero molto importante per noi e quindi non vediamo davvero l’ora. Per fine settembre invece siamo molto contenti di aprire la stagione di un locale storico della nostra zona come il Circolone di Legnano in compagnia di Maria Antonietta. Precisamente venerdì 26 settembre.

Come è stato accolto Warsaw dalla critica?

Direi che tutto sommato fino ad oggi non ci possiamo lamentare. Un risultato fin qui positivo. Come spesso succede un mix di mega esaltazione e disfattismo totale dove la verità sta sempre nel mezzo. Permettimi di dire che secondo me chiunque ascolti Warsaw in maniera oggettiva e senza preconcetti o cazzate attorno di nessun genere non possa dire di trovarsi davanti ad un disco BRUTTO o prodotto MALE. Poi ovviamente, come tutto, può piacere o non piacere per le più svariate ragioni. Dal canto nostro ci abbiamo investito davvero tanto tempo, tanti soldi e tanti sacrifici quindi ci crediamo moltissimo.

Siete già a lavoro per qualche altro disco o in generale materiale inedito?

Abbiamo iniziato da poco a lavorare su qualche nuova traccia ma è tutto ancora in fase embrionale. L’idea è quella comunque di non stare mai fermi e quindi in tempi relativamente brevi riuscire a buttare fuori un Ep oppure perché no un secondo LP (ride ndr).

Bene ragazzi, l’ intervista si chiude qui, concludete come meglio credete…

Buon natale e… mi raccomando!

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Coffeeshower

Written by Interviste

Coffeeshower: ovvero un pezzo molto importante della scena Punk Rock italiana e probabilmente, dal 1999 ad oggi, la più importante e riconosciuta band del genere di tutto l’Abruzzo in ambito Punk e Hardcore insieme agli Straight Opposition e pochi altri. Una storia che mira a diventare leggenda ma anche piena di salite, a cominciare da una line-up sempre in mutamento e che ha ruotato soprattutto attorno ai due fratelli Fausto e Pierluigi. Chi erano i Coffeeshower nel 1999 e chi sono oggi? Come è cambiato il vostro stile col trascorrere del tempo?

FAU: ti ringrazio delle belle parole, forse troppo belle (ride ndr). Onestamente in Italia non siamo così importanti, c’è senz’altro qualche amante del Punk Rock che ci segue da sempre, ma restiamo, come diceva il nostro ex bassista Emanuele (Verrocchi ndr), un “gruppo per cultori”. (ride ndr) Certo in molti luoghi d’Abruzzo ci sentiamo molto amati e apprezzati e quando suoniamo lì è come essere a casa nostra e di questo siamo sempre molto felici. La band è nata semplicemente dalla passione che io e mio fratello Pier condividevamo con Edoardo (Puglielli ndr) per il Punk Rock, i concerti e tutta la cultura che vi ruotava attorno. Da anni personalmente cercavo una forma di espressione per quel “rock’n’roll estremo ma melodico” che avevo in mente e con loro la cosa funzionò da subito. Pescavamo a piene mani dal Punk e dall’Hardcore e ci divertivamo a scrivere brani che fossero anche un po’ differenti dai cliché dei generi di riferimento. Con gli anni certo siamo cresciuti, abbiamo sperimentato strade un po’ diverse rispetto al nostro modo di scrivere canzoni degli esordi. Soprattutto dopo la separazione con Edoardo inevitabilmente il nostro stile è cambiato, lui era quello più legato a una certa scrittura più squisitamente hardcore, mentre dopo nel nostro processo creativo ha pian piano prevalso il lato più vicino al Punk Rock e all’Alternative Rock in generale della nostra “educazione sentimentale”.

A coronamento del vostro splendido percorso artistico, lo scorso anno avete pubblicato The Glory Years, album raccolta con diversi inediti. Un punto di arrivo o l’inizio di una nuova vita?

FAU: era da tempo che avevamo questa idea, visto che spesso ci veniva chiesto se avevamo ancora copie del primo EP autoprodotto o addirittura del primo demo. Ci sembrava una bella cosa riproporre tutto il vecchio materiale, demo compreso, assieme a qualche inedito che non avevamo mai avuto la faccia tosta (ride ndr) di pubblicare prima, insieme a un paio di brani nuovi di zecca che abbiamo registrato all’ACME Recording Studio di Raiano. Indelirium ha sposato da subito il progetto e così abbiamo anche noi adesso il nostro “best of…the worst” (ride ndr).

A tal proposito, girano voci di un imminente nuovo album di brani originali. Potete darci qualche anticipazione, se le voci sono da confermarsi?

FAU: senz’altro. Abbiamo praticamente finito le registrazioni dell’album nuovo. Crediamo che presto vedrà la luce, probabilmente in autunno. Ci saranno canzoni che in parte stiamo già eseguendo qua e là nei concerti e che qualcuno inizia già a conoscere, assieme ad altre davvero nuove.

FAB: abbiamo cercato di comporre l’album in modo da fotografare al meglio il nostro suono attuale, come ti diceva Fausto prima forse meno legato a sonorità tipicamente Punk Hardcore in senso stretto, ma sempre in pieno stile Coffeeshower. Spero ti piacerà quando lo ascolterai.

In quindici anni fatti di album e tour in giro per il mondo con Anti-Flag, Underoath, Taking Back Sunday, Hot Water Music, Smoke Or Fire, Chuck Ragan, Astpai, Antillectual, Atlas Losing Grip, This Is A Standoff avrete messo in cantina un’infinità di esperienze. Quale la più bella e la più importante per la vostra musica? Quale l’episodio da dimenticare?

FAB: le esperienze fatte in giro a suonare, anche quelle che apparentemente sembrano disastrose, lasciano sempre qualcosa di positivo, come un insegnamento a crescere, dal punto di vista musicale e anche personale. Non ci lamentiamo insomma (ride ndr).

FAU: personalmente ho molto rivisto la mia opinione sulle “aperture” di concerti di band importanti e sulla loro presunta utilità. Certamente dividere il palco con band grosse è sempre una cosa stimolante, hai l’occasione di incontrare personalmente musicisti che adori e anche di suonare davanti a un pubblico che altrimenti non ti avrebbe ascoltato, ma è vero anche che se a quella situazione non segue una buona promozione del nome della band, della sua musica, etc., cosa che per una band DIY è sempre un problema, alla fin fine resta solo un ricordo piacevole e non molto altro. Sicuramente comunque l’amicizia con Chuck Ragan e con gli Hot Water Music nata a seguito dei concerti fatti assieme, prima con Chuck ad inizio 2009 e poi nel 2012 con gli HWM, sono fra le cose più belle che abbiamo vissuto come uomini ancor prima che come musicisti.

Proprio pochi mesi fa siete tornati da un tour in centro Europa. Che differenze notate tra pubblico e organizzatori italiani ed esteri?

FAU: fin dal nostro primo tour abbiamo sempre lavorato in modalità DIY, facendo ovviamente una fatica bestiale  a partire dalla lunga fase preparatoria fatta di contatti prevalentemente via mail con i promoter, i centri sociali, i club, le band, etc. fino al vero e proprio viaggio per andare a suonare, con tutti i disastri finanziari che ne conseguono. Nonostante tutto però non abbiamo mai voluto far mancare alla nostra band quell’occasione di confronto con il mondo esterno. Ogni anno insomma almeno un piccolo tour all’estero deve esserci per noi, pur con tutte le difficoltà del caso. Generalmente comunque, per rispondere alla tua domanda, non abbiamo riscontrato particolari differenze tra il pubblico italiano e quello all’estero, forse fuori confine statisticamente negli anni abbiamo registrato un po’ più di attenzione e di curiosità da parte della gente che ti viene ad ascoltare, anche se per loro sei l’ennesima band sconosciuta in tour, ma ci sono sempre state serate bellissime e serate mortifere sia in Italia che all’estero. Certo quando sei all’estero in giro su un van scomodissimo e vieni da quattro serate nelle quali hai solo perso un sacco di soldi, sei stanco e malaticcio e vorresti soltanto dormire in un letto decente e succede che proprio quella sera si crea quella alchimia particolare con il pubblico di quello squat o di quel piccolissimo club di un posto lontanissimo da casa tua che non avevi mai sentito prima, beh quella è una ricarica di batterie straordinaria, è la cosa che ti fa andare avanti e che ti fa pensare di aver davvero fatto bene il tuo lavoro.

Per la prossima esibizione dal vivo ci diamo appuntamento al From the East Coast Fest di Pescara il prossimo 5 agosto. Un festival Hardcore che punta su una line-up eccelsa e che vedrà i newyorkesi H2O come band di punta. Chi ci sarà con voi e cosa dobbiamo aspettarci da un festival di questo tipo?

FAU: per noi è un onore essere stati invitati a questo festival, oltre agli H2O ci saranno gruppi leggendari dell’hardcore italiano come Strenght Approach e Straight Opposition e poi gli organizzatori hanno fatto secondo me una cosa davvero bella, quella cioè di comporre il cartellone delle band senza pensare soltanto all’Hardcore ma inserendo anche una nutrita rappresentanza Punk Rock, quasi a tirar su una vera e propria “unity fest punk-hc”: bello vero?

Avendo vissuto voi da protagonisti la nascita e lo sviluppo del Punk e dell’Hardcore, che differenze pensate ci siano tra quelli delle origini e quelli odierni? Quanto è venuto meno l’aspetto sostanziale (fatto di tematiche sociali e violenza espressiva) a favore di fattori formali (legati ad estetica e stile puro)?

FAU: quando abbiamo cominciato a suonare insieme, nel Punk e nell’Hardcore era già stato tutto scritto. Fin dalla metà degli anni 70 il Punk era già nato, morto e risorto tante volte, così come le varie ondate Hardcore statunitensi si erano già susseguite fin dagli anni 80. Ma era anche un momento in cui l’estetica Punk, la cultura dello skate, della strada, dei concerti e tutta una serie di altri elementi erano tornati in auge tra i ragazzi. Erano gli anni del “nuovo Punk Hardcore melodico”. Ricordo come quell’ondata di gruppi e uscite discografiche fosse vista dai vari recensori e intellettualoidi che si divertono a fare i sociologi quando parlano di musica come un qualcosa di vuoto, di spento, come una copia di cose già dette prima, una merda in pratica. Già allora insomma si diceva che quel movimento fosse tutta estetica e poca sostanza. Oggi però leggi ovunque che i Green Day di allora erano un gruppone e che i Nofx e i Lagwagon sono le band migliori della storia e che le band di oggi fanno schifo al confronto. Noi eravamo dei semplici appassionati, ci trovavamo con mio fratello e con Edoardo ad ascoltare insieme quella musica per tanti lunghi pomeriggi e a condividere molte cose di quella specie di “rinascimento Punk”. Partivamo e facevamo centinaia di chilometri per andare a questo o quel concerto al nord, era bello incontrare continuamente sui treni o nelle aree di servizio delle autostrade tanta gente con le Vans ai piedi e la tua stessa t-shirt che andava allo stesso evento. Si respirava un’aria di novità e di ribellione quando andavi a un festival o a un concerto in un centro sociale. Poi arrivò Genova e quello fu un brusco risveglio per molti di noi, ma parlare di questo ora sarebbe lungo e complicato. Per noi comunque fu una conseguenza naturale quella di cominciare a scrivere canzoni insieme e fare le prime prove, in tre, senza basso, in una stalla di un paese a 20 chilometri da L’Aquila dove un nostro amico aveva approntato un impianto elettrico davvero precario che a ripensarci mi vengono i brividi (ride ndr). E’ nato tutto molto spontaneamente, senza avere insomma la pretesa di poter recitare un ruolo in “scene” o situazioni che nel frattempo avevano già scritto pagine importanti. Avevamo solo voglia di divertirci a suonare e di urlare al mondo quello che avevamo dentro.

Esiste ancora una scena Hardcore tricolore? Quali sono le aree geografiche che ritenete più in fermento in Italia? Cosa distingue le band nostrane dal resto del mondo?

FAU: forse non siamo le persone più adatte per darti questo tipo di lettura, siamo sempre stati un po’ fuori dai giri, dalle scene vere e proprie, probabilmente il fatto di venire da una piccola città d’Abruzzo non ci ha aiutato a essere pienamente parte di un fenomeno che altrove stava andando avanti. Parlo di città come Roma o Milano o di altre realtà europee dove le cose erano e sono tuttora più facili di un posto come L’Aquila, anche se poi quando parli con altre band di Roma o Milano anche loro ti elencano tutte le cose che non vanno della loro città, del loro giro dei gruppi, delle sette e delle varie faide, etc. etc., ma questo è un altro discorso. Pur non vivendo insomma al centro di “scene” o situazioni più vivaci abbiamo però sempre avuto la fortuna di girare l’Italia e l’Europa per andare a suonare, abbiamo visto tanti posti e conosciuto tante persone stupende, così come tanti stronzoni. Certo non avrò mai, penso, l’opportunità di suonare tipo al The Fest a Gainesville in Florida o al Groezrock, quindi non so risponderti su come sia vivere oggi, da band, quel tipo di situazioni che viste da fuori sembrano il paese dei balocchi per chi come noi ama ancora il Punk e l’Hardcore. Posso dirti però che la sensazione che almeno nel nostro piccolo si avverte andando a suonare in giro adesso, rispetto ai nostri primi tour, è quella di un po’ di disinteresse verso questa musica e questa cultura, di grande difficoltà per gli organizzatori di concerti nel coinvolgere le persone, di grande freddezza generale purtroppo.

FAB: anche se come dice Fausto andando a suonare in giro ora si percepisce un po’ di disinteresse e di stanchezza, ci sono ancora tante persone che si sbattono per creare delle realtà nella loro città organizzando concerti e movimentando la quotidianità dei posti dove vivono. Credo che questo sia lo spirito positivo, immortale, di questo genere musicale. Quello che permette alle varie realtà di rimanere vive in questo momento di “torpore culturale”.

Quale è il ruolo sociale del Punk o dell’Hardcore oggi e quale il loro ruolo all’interno della musica Underground (o comunque non mainstream)? Credete che ci possano essere, negli anni a venire, prospettive di crescita e sviluppo del genere o lo stesso è destinato a ripetersi negli anni con lo sguardo sempre rivolto al passato?

FAU: Il Punk e l’Hardcore, pur con tutte le differenze e anche i conflitti che storicamente ci sono stati tra queste due grandi tendenze della cultura underground, sono entrambi nati dalla strada e sono linguaggi che dovrebbero parlare dritto al cuore della gente, ma è difficile farlo se questa gente non vuole ascoltarti più. Siamo onesti, un ragazzo che va a scuola oggi generalmente trova molto più interessante e stimolante un concerto Hip Hop o un dj set di un dj famoso piuttosto che un festival Punk, a volte sembra non importare più a nessuno del Punk e dell’Hardcore, almeno dalle nostre parti. E’ triste, ma bisogna fare i conti con questa realtà. Altrettanto vero è però che finché esisteranno questa attitudine, questa cultura e questi filoni musicali ad essa legati, quantomeno esisterà una “strada alternativa”, che forse un giorno i ragazzi torneranno a percorrere. Come dice Frank Turner:  “punk is for the kids that don’t fit in with the rest”. Probabilmente questo passaggio culturale un po’ buio per la cultura Punk è più evidente nella nostra Europa decadente, mentre nella tanto vituperata America le cose non stanno proprio così. Mi sorprendo ogni giorno a scoprire tantissimi nuovi gruppi che si fanno strada negli States e che pur suonando ancora con la vecchia formula chitarra, basso, batteria e 4 accordi scrivono canzoni magistrali e aggiungono sempre qualcosa di nuovo a un giocattolo che ai più sembra ormai obsoleto. Penso a band come Balance And Composure, Hostage Calm, Make Do And Mend, Pianos Become The Teeth, Captain We’re Sinking, Red City Radio, Iron Chic, Banner Pilot, solo per citarne alcuni a caso. E comunque, quello che voglio dire è che fin quando succederà che quattro ragazzi vorranno rinchiudersi in un garage per condensare tutta la rabbia possibile in una manciata di canzoni e condividerla con il mondo là fuori allora tutto questo avrà ancora motivo di esistere.

La nostra intervista si chiude qui. Vi facciamo un in bocca al lupo per la vostra esibizione in compagnia dei mitici H2O. Un’ultima cosa. Quale messaggio pensate che debba lasciare la vostra musica nella testa di chi vi ascolta?

FAU: crepi il lupo grazie! Quanto al messaggio, noi raccontiamo storie di vita, non siamo poeti o filosofi o predicatori, scriviamo solo canzoni e le condiamo col nostro suono, ci piace suonare con gli ampli a palla e con la batteria che non si ferma mai e se tutto questo fa anche divertire chi ci sta ascoltando allora è una cosa bellissima.

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Aemaet

Written by Interviste

Aemaet. Quattro ragazzi che hanno deciso di dire la loro nel fitto mondo del Rock Alternativo. Cosa avete da dire che non sia stato già detto?
CC: Si parla già molto, forse troppo. Quel che dobbiamo dire lo diciamo con la nostra musica.

La vostra è una formazione evidentemente giovane. Il primo Ep, Muse of Lust, risale a soli tre anni orsono mentre poco più di un anno è passato dall’esordio full length Human Quasar. Cosa è cambiato nel vostro stile e nel vostro approccio alla musica?
CS: Molte cose, a partire dalla formazione. Ora c’è la sola chitarra di Giovanni, e il sound si è aperto alla tastiera:è più complesso e stratificato.
GI: La nostra musica è in continua evoluzione, nei contenuti e nella forma.Il vero cambiamento sta nell’approccio alla scrittura. Io parto da un sentimento, un’emozione, per poi lasciare libero sfogo alle sensazioni che le frequenze smuovono dentro.

Da dove vengono gli Aemaet e dove vorrebbero arrivare se potessero sognare senza freni? Tornando con i piedi per terra, dove potrete realmente giungere, considerando il periodo non certo florido per la musica emergente e indipendente?
GI: veniamo da diverse esperienze musicali ed ognuno di noi ha i suoi gusti. Noi cerchiamo una “potenza musicale”, e mi piacerebbe che l’ascoltatore provasse le stesse sensazioni che avvertiamo durante la composizione. Tornando con i piedi per terra, lo scopriremo solo vivendo dove potremo arrivare: noi ci mettiamo l’anima in quello che facciamo.

La vostra musica miscela con eleganza Alt Rock, Grunge e Wave e pare quasi naturale che abbiate scelto di usare l’inglese per le vostre liriche. In tal senso, quanta importanza date ai testi e quanta alla musicalità dei termini?
CC: Entrambi gli aspetti sono importanti. Quel che conta è però la musica: i suoni offrono quindi un vincolo. Le parole, dal canto loro, sono molte, e troveremo loro sempre uno spazio di senso nella forma sonora.
CS: Concordo. Poi molto dipende dall’atmosfera del pezzo. La scelta della lingua inglese è ovvia, hai ragione: l’italiano c’entra poco con il nostro genere, a mio parere. La musicalità nel testo è di per sé imprescindibile, lo diceva Poe, ma anche i Bluvertigo: “il suono ha vinto sul significato”.

Siete consapevoli che cantando in inglese si riducono le possibilità di essere apprezzati dal pigro pubblico italiano? Siete sicuri che all’estero potrebbero apprezzare le vostre parole?
SDR: Sicuramente cantare in inglese rende più difficile l’essere apprezzati dal pubblico italiano, anche a causa della diffusa abitudine di andare alla ricerca dei testi; allo stesso tempo però permette di raggiungere un pubblico più vasto, che poi è quello che ci auguriamo.

So che recentemente avete suonato al Contest del Rock in Roma. Raccontateci di che si tratta e come è andata.
CC: è andata come solo agli Aemaet può andare. Problemi tecnici al limite dell’inverosimile, non dipendenti da noi, che hanno in parte compromesso la performance. Ma nel breve tempo a nostra disposizione siamo riusciti a smuovere qualcosa. Vedi, a noi interessa poco il contest. Ci interessava solo suonare davanti ad un pubblico numeroso che crediamo affine al nostro. E la nostra intuizione è stata giusta: abbiamo ricevuto molti feedback positivi.

Avete mai realmente idolatrato qualcuno? Ha senso ancora fidarsi dei musicisti piuttosto che delle canzoni?
CS: L’idolatria è un refuso adolescenziale, quando si scoprivano icone come Morrison, Curtis o Smith. Col tempo l’idolatria cede il posto all’ammirazione. I musicisti, come tutti, possono deludere, con atteggiamenti o svolte musicali che non apprezziamo: per questo li sentiamo “inaffidabili”. Eppure un’ottima canzone resta sempre tale, anche col passare del tempo: se non ti puoi fidare dell’artista, puoi sempre fidarti della sua arte.
SDR: Personalmente sì, ho avuto degli idoli che in parte resistono ancora oggi. Si tratta per lo più di personaggi molto noti nell’ambito musicale. Resta comunque difficile rimanere legati ai propri “idoli”, soprattutto perché con il tempo cambiano i propri gusti e le produzioni musicali.

Ascoltando le canzoni contenute in Human Quasar si può notare una certa altalena di emozioni. Sareste più felici di smuovere le coscienze o commuovere profondamente?
CS: Ognuno di noi ha una sua personale visione della realtà. Ciò significa che quel che commuove una persona può lasciare indifferente un’altra, e viceversa. Io voglio suscitare un’emozione, indurre chi ascolta ad un’opinione; meglio se diverse tra loro. Questa è forse la prova che si è riusciti a creare un’opera valida.
GI: Io preferisco muovere le coscienze nel profondo.

Parlateci di Human Quasar. Come descrivereste il vostro esordio senza usare parole da critici e definizioni da ufficio stampa?
CC: La parola esordio spiega già molto: Human Quasar è una commistione di inesperienza e sprovvedutezza, non necessariamente qualità negative. Ma non è tutto. È un disco intriso di giochi letterari e rimandi interni, con una solida impalcatura di senso e un uso molto raffinato della retorica. Per me è un figliolo che muove i primi passi nel mondo, rendendomi orgoglioso.
CS: Un sentiero di luce e oscurità, calore e freddezza. Sì, Il nostro bipolare primogenito.

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L’album è uscito per la label Red Cat Records. Ha veramente importanza oggi avere una etichetta alle spalle? Per una band emergente non è più utile avere Booking & Management?
CC: Sono entrambe componenti essenziali, sebbene oggi l’uso di internet crei l’illusione che tutto ciò sia surrogabile. Se una band merita la giusta attenzione non faticherà a trovare degli ottimi collaboratori. Esistono dei professionisti, e il loro lavoro va capito e rispettato. È quando lavori con loro che comprendi quanto tutto ciò sia di capitale importanza.

Oggi come quarant’anni fa è molto difficile emergere. Forse è solo più facile trovare spazio ma tenerselo è un’impresa. Come avete intenzione di muovervi per districarvi nell’ impervio mondo dell’underground e magari non affondare?
CC: Sono alieno da questi pensieri. Noi lavoriamo e cerchiamo di offrire al pubblico uno spettacolo degno della loro attenzione. Non credo ci siano altre strade: lavoro, lavoro, lavoro.
CS: Servono ambizione e determinazione. Senza di esse si può avere tutto il talento di questo mondo, ma a nessuno importerebbe, soprattutto in questa società virtuale. Io auspico un rituale di corteggiamento che faccia la differenza. Come nel regno animale. Garantirebbe una “prole” di seguaci.

Cosa ci dobbiamo aspettare ancora dagli Aemaet?
CC: Molte cose, spero: un secondo disco, ad esempio. Un live senza compromessi. E tanto affetto per chi ci segue: non finirò mai di stupirmi del potere aggregativo della musica.
SDR: sicuramente la ricerca di un’evoluzione musicale che credo si sia già manifestata nella nostra seppur breve esperienza.

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La Nevrosi

Written by Interviste

Ciao ragazzi, volete spiegarci bene che tipo di band è La Nevrosi? Fateci un quadro completo della vostra musica.

Siamo un gruppo Pop Rock napoletano composto da quattro  elementi:  Antonio Cicco (voce), Enzo Russo (chitarra), Marcella Brigida (basso), Giulia Ritornello (batteria). La nostra musica ha un sound British, né troppo Rock, né troppo Pop, magari “poco italiano” ma in lingua italiana.

Avete fiducia nella scena musicale italiana oppure è meglio togliere le tende e provare all’estero?

Come in qualsiasi campo devi credere in quel che fai altrimenti è inutile iniziare. Certo,  il panorama musicale italiano non regala molte speranze. Basta accendere la radio per accorgersi la poca apertura verso il mondo emergente e, quello che c’è di nuovo proviene dai talent show, un prodotto sicuro, già testato dagli ascolti in tv. Utilizziamo l’italiano per esprimerci e quindi non abbiamo mai pensato di provare all’estero. Il problema di fondo della musica italiana è lo stesso che ad esempio attanaglia il calcio nostrano. Non è la “materia prima” che manca ma la voglia di scoprire, di cercare, di rischiare, di investire. Risulta poi estremamente selettivo, lo sforzo economico a cui deve sottoporsi un artista affinché possa sentire un proprio brano passare in radio,  una propria recensione pubblicata sui magazine del settore che si va a sommare a quello per la realizzazione dell’album, dei videoclip. Molte band muoiono proprio perché non riescono a sostenere tali spese.

Il vostro disco d’esordio Altro che Baghdad, come sta andando? Ci fate una piccola recensione in tre righe?

Da quando è uscito Altro Che Baghdad, siamo orgogliosi di affermare che non abbiamo mai avuto una recensione o un commento negativo. Certo, il bacino di utenza che siamo riusciti a raggiungere è limitato ma non possiamo lamentarci. In verità ci sono state anche alcune critiche ma del tutto costruttive e condivisibili. Anche le vendite sembrano non andar male. Oltre a quelle effettuate tramite il circuito Believe Digital di cui non abbiamo ancora i dati, quotidianamente ci contattano su Facebook per ordinare una copia del nostro lavoro. L’album è caratterizzato da atmosfere ansiogene vestite degli abiti dell’Alternative Rock contaminato con l’Elettronica ed il Progressive che danno al sound un sapore britannico. Le immagini veloci e spesso cinematografiche che emergono dai testi rabbiosi ma anche dolci e romantici, raccontano di disagi, amori, passioni e ribellioni.

Pensate che qualcuno non abbia colto tutto quello che c’era da cogliere nella vostra musica oppure tutto è stato recepito?

Sia nei testi che nella musica abbiamo cercato di non essere “complessi”, tutto l’album è molto istintivo. Ci piace però richiamare l’attenzione dell’ascoltatore sulla ricerca e l’utilizzo di alcune sonorità non proprio “italiane”.

Quali sono gli ascolti de La Nevrosi? Di cosa vi nutrite musicalmente parlando? Ma anche in verità, siete vegetariani, vegani, carnivori, cannibali?

Ci siamo spesso posti la domanda su chi abbia influenzato in maniera preponderante la nostra musica. Non c’è una vera risposta. Riteniamo che chi faccia musica debba saper ascoltare tutto ed innamorarsi di pochi. Nei pochi ci sono i più grandi, i Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd se guardiamo al passato. I Muse, Radiohead,  U2, RATM, RHCP se pensiamo al presente. Ci piacerebbe essere vegetariani ma siamo dei cannibali. (ride ndr)

Avete particolari esigenze durante le live performance? Siete soddisfatti dei vostri concerti sia a livello di pubblico che remunerativo?

Questo è il nostro primo album e La Nevrosi non ha fatto molti live. Quei pochi sono stati molto intensi. Anche le performance in TV al Roxy Bar di Red Ronnie sono state molto intense e di successo. Per quanto riguarda il lato “remunerativo”, c’è una domanda di riserva?

Avete problemi con i gestori dei locali? Ci sarebbe qualcosa da migliorare in tal senso?

Sono i gestori di locali che hanno molti problemi nella gestione della loro attività. Problemi che si ripercuotono sulle band che fanno musica live, problemi che vanno dai permessi, alle insonorizzazioni assenti fino ad arrivare a quelli di natura economica, organizzativa, pubblicitaria. Un bel passo avanti si avrebbe se il mestiere di musicista iniziasse ad esser considerato da tutti come un lavoro vero e proprio, alla stregua di altri. Bisognerebbe inoltre fermare la moda che sta vedendo la nascita di locali che non hanno una propria identità. Locali che sono allo stesso tempo bar, pub, live club, sala giochi, ristorante, vineria, ecc. e nella pratica non sono nulla di tutto ciò.

Cosa bolle nella pentola de La Nevrosi? Avete qualche anticipazione da farci?

Stiamo lavorando al secondo album. Sono pronti già cinque pezzi nuovi e contiamo per fine anno di chiuderci  in sala per registrare il tutto. Il nuovo album sarà ancora più diretto e forte del precedente. In questo periodo siamo molto ispirati.

Soldi a parte (che vogliamo tutti), vorreste un grande futuro nell’indie o nel mainstream?

Pensiamo che il posto giusto de La Nevrosi sia il mainstream. Il nostro sogno è semplice. Riuscire a raggiungere più persone possibili con la nostra musica. I soldi? Non puoi pensare ai soldi  in questa fase e certamente non sono i soldi che ti portano a scrivere canzoni.

In questo spazio fate pubblicità alla vostra band, perché qualcuno dovrebbe ascoltare la vostra musica, dite quello che non vi è stato chiesto ma che tenete a dire…

Dovete ascoltare il nostro album perché troverete parte di voi nelle nostre canzoni. Dovete ascoltare il nostro album perché crediamo che sia davvero un ottimo lavoro. Dovete ascoltare il nostro album perché la sezione ritmica è tutta al femminile e Marcella e Giulia sono davvero due fighe. Ecco delle tre motivazioni l’ultima sarà quella che funzionerà di più! Che sia chiaro,  la presenza di donne nella band non è stata una scelta commerciale. Ci conosciamo praticamente da una vita. Ci teniamo a dire che La Tua Canzone, uno dei brani presenti in Altro Che Baghdad,è finito su Il Mattino di Napoli per la storia raccontata!! Non vi diciamo nulla così andate ad ascoltarla. Nell’album c’è anche una cover di Vedrai,Vedrai ( di Tenco) riarrangiata in versione rock. Questo è quanto. Ciao a tutti e grazie per l’intervista.

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