Interviste

Borghese

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Il centro Italia come fucina di validi artisti è uno dei paradigmi musicali, che negli ultimi anni si sta configurando e imponendo, non solo come opinione personale, ma anche come sostanziale realtà di successo. Fa parte di questa ondata di freschezza un artista che, tra le pagina di Rockambula e non solo, ha riscosso un notevole interesse, che sta girando l’Italia con una serie di live show, è prossimo alla ristampa del disco e molto altro ancora. Conosciamo meglio Borghese e il suo album L’Educazione delle Rockstar.

Partiamo dalle domande semplici: una pistola, un passamontagna e una 24 ore, sono questi gli oggetti che hai scelto per raccontare l’immaginario di Borghese. Da cosa nasce questa scelta e cosa rappresentano per te questi oggetti?
La 24 ore è il simbolo di quello che sono nella parte della giornata in cui non mi occupo di musica, diciamo una metafora della quotidianità che ognuno a modo proprio cerca di sublimare o di sfuggire. Il passamontagna è una scommessa aperta con un sedicente produttore con cui ho avuto a che fare prima di entrare in TouchClay Records, il quale diceva, riferendosi alla mia musica, che c’era bisogno di una certa faccia per avere dei risultati in musica; evidentemente non alludeva alla mia. Ho pensato di uscire col mio progetto allora senza alcuna faccia: una provocazione e al tempo stesso una sfida.  La pistola giocattolo è il trait d’union di tutto: mi sentivo un infiltrato in clandestinità nel mondo della musica che come arma poteva disporre solo della voglia di giocare e un certo sense of humour.

Prima abbiamo citato il passamontagna; per Borghese l’anonimato e il mascheramento sono il simbolo della spersonalizzazione dell’individuo e della dissimulazione della realtà o un semplice espediente visivo per catturare e colpire l’attenzione di un pubblico distratto?
Come ho già detto la mia era solo una provocazione ad personam, principalmente una rivalsa nei confronti di una concezione estetizzante della musica, che oramai reputo superata (e persino stupida se proposta da un soggetto organico allo show business come può essere un produttore). Solo in seconda battuta il significato è stato dall’esterno globalizzato e politicizzato: mi sentirei di dire che la valenza sociale del disco è stata “eterodiretta”. All’oggi, dopo sei mesi di concerti, di interviste e recensioni, e dopo che nessuno, tranne quelli che sono venuti in concerto a vederci, mi ha visto in faccia, mi piace il fatto di poter essere in un certo senso un Dottor Jekyll and Mister Hyde, uno Spiderman che ad un certo punto della giornata dismette i suoi abiti e diventa qualcosa di più affascinante. In pratica così facendo sono diventato un clandestino nella mia stessa vita.

In questi giorni è uscito “Bella Ciao”, il secondo singolo dell’album. Oltre a farti i complimenti per il passaggio su XL, mi piacerebbe sapere come è nata l’idea di riscrivere uno dei capisaldi, di quelli intoccabili, della tradizione musicale della lotta partigiana, tramutandolo in una dichiarazione di guerra contro la società moderna? Hai avuto più detrattori o sostenitori?
Più che un passaggio su Repubblica è stata un’autostrada percorsa con un TIR carico di tritolo: il nostro articolo ha fatto quasi 900 mi piace e diverse migliaia di visualizzazioni, molto di più di quanto abitualmente riesce a fare un emergente al primo disco: evidentemente il pezzo (lo ricordo per non passare per presuntuoso, non riscrive la “Bella Ciao” partigiana ma ne usa il titolo e le prime cinque note della melodia per parlare della fuga delle nuove generazioni dall’Italia) ha colpito forte un problema che ogni ventenne sente proprio. In quel pezzo, forse il più distorto di tutto il disco, rifletto sul concetto di fuga e di liberazione e come in Italia per una ragazzo oggi siano quasi coincidenti: per molti scappare da questo paese è una liberazione, non è un’alternativa, ma una necessità. Qualche polemica in effetti c’è stata, anzi qualcuno mi ha pure mandato a quel paese (per rimanere in tema), ma non mi stupisce, lo avevo messo in conto e in fondo anche cercato. Quelle due parole in Italia sono un dogma assoluto, che viene usato per manifestare oramai solo antagonismo di facciata; quei due o tre contrari saranno gli stessi a cui, dopo 20 anni di anti-Berlusconismo all’acqua di rosa, (di quell’antagonismo radical che si tura il naso quando sente l’odore forte del popolo), sta bene che due extraparlamentari (Renzi e mister B) di cui uno pregiudicato (Mister B.) scrivano la nuova legge elettorale nella sede del Pd.

Un altro brano che mi ha colpito subito al primo ascolto è L’Odore. Una contraddizione in termini in forma canzone: tematica forte e di denuncia contro la sensibilità delle parole e la delicatezza della musica. Un contrasto voluto, una scelta stilista o solo fortuna?
Contrasto voluto, of course, “L’Odore” parla di una vita sotterranea e scura, parla di segreti inconfessabili, di passioni che si dipanano nel buio. Parla di una relazione immorale, di un amore impraticabile che nonostante non possa essere esplicitato diventa insuperabile e poetico, proprio nei suoi lati più fisici, come appunto l’odore. Comprendo che è un pezzo che possa piacere molto ad una donna; le donne hanno un interiorità molto intricata, un’altra faccia della luna molto marcata, albergo di fantasie che tengono ben strette e che coltivano in segreto, rendendole sempre più magiche, quasi esoteriche. L’uomo no, l’uomo è un animale e basta, lo è da quando aveva una clava tra le mani e forse lo è ancora di più da quando impugna un iphone. Sono un femminista convinto, lo sapevi?

Abbiamo parlato molto dei testi e meno degli aspetti musicali. Sei uno di quei cantautori che compongono da sé anche la musica o ti sei affidato a dei collaboratori. Come nasce una canzone di Borghese?
Le modalità sono tre e mi permetto di elencarle dandomi la terza persona in senso di altera supponenza e rigido contegno. Borghese esce di casa di sera, beve e tornando a casa appunta i pensieri sghembi. Modalità due: Borghese esce di casa, prende un aereo o un treno per un viaggio e appunta tutto quello che succede in testa, mentre il terreno si muove sotto il suo culo (sono appena rientrato dalla Cambogia, quindi annuncio che il secondo disco è già praticamente scritto). Modalità tre: Borghese guarda una sit com in tv, appunta una battuta e riflette sul tema. Per quanto riguarda l’arrangiamento, in sala o in studio mettiamo a confronto le idee tra me, Giacomo Pasquali (chitarrista e deus ex machina della TouchClay Records) e Daniele “Verz” Domenicucci, drummer nonché ingegnere robotico nei ritagli di tempo.

Rockit ti ha definito un cantautore fuori moda e prossimamente aprirai un concerto de Le Luci della Centrale Elettrica; come ti poni all’interno del panorama Indie italiano e nei confronti dei tuoi colleghi cantautori. Ti definiresti più una mosca bianca o una pecora nera?
Cercherei di non farmi accostare ad alcuna pecora, non è un animale molto popolare dalle parti nostre (Abruzzo ndr). Le pecore le infilziamo con dei bastoncini e ce le mangiamo. E nemmeno alle mosche che come è noto hanno molta affinità con le deiezioni organiche. Preferisco, se proprio devo essere associato ad un animale, preferisco essere me stesso, l’unico uomo che amo, nonché l’unico animale che viva con me dentro casa mia.

L’arte della provocazione e dell’ironia sono il tuo biglietto da visita, ma quanta rockstar e quanta ideologia ci sono, se ci sono, dietro Borghese?
Forse in realtà non c’è né la rockstar né l’ideologia in me e questo mi solleva un po’, considerato che sono due categorie vecchie su cui ormai si può e si deve scherzare su. L’ironia mi appartiene davvero, il distacco ironico è fondamentale nel mio approccio alla creatività ed alla giornata stessa. Senza la buona dose di ironia pensi che ci sia qualcuno che oggi potrebbe mettersi una cravatta senza sentirsi un cappio al collo, un camice senza sentirsi un macellaio o una tuta da lavoro senza sentirsi uno schiavo? Ci vuole molta ironia per vivere il presente di questi anni.

Ringraziandoti per questa intervista non posso non farti il classico domandone finale, quali sono i progetti futuri di Borghese e dove possiamo trovarti o vederti?
Al momento siamo impegnati in studio, ci siamo messi in mente di ristampare il disco aggiungendo tre bonus tracks con collaborazioni (per gli amanti dei termini anglosassoni, featuring) con artisti che ci stimano e che stimiamo. Poi da metà di marzo ripartirà il tour che, come abbiamo fatto nei mesi scorsi, toccherà il Nord, il Sud di questa pazza Italia. Su internet siamo dappertutto: sul bellissimo sito (ad opera di Giuseppe Zaccardi) www.borgheserock.it , su fb: www.facebook.com/borgheserock.it. Inoltre se volete sapere di più su google potrete trovare tutta la corposa rassegna stampa de “L’Educazione delle Rockstar” visto che dal Manifesto al Fatto, da Rumore a Rockit hanno parlato tutti quanti, e bene, del nostro esordio.

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Medulla, tra teatro e poesia

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I Medulla sono tornati con un nuovissimo disco autoprodotto (ascolta il disco!), un lavoro che oscilla tra realtà e finzione. Dark Rock e poesia, pensieri intimi e riflessioni personali questi i principali ingredienti che compongono il loro ultimo disco Camera Oscura, lavoro  dalle tetre tinte. Per Rockambula abbiamo l’intera band e con grande piacere siamo riusciti a strappargli qualche curiosità.


Salve ragazzi e benvenuti su Rockambula. Perché non cominciamo a presentare la band ai nostri lettori?

Salve a te! Innanzitutto grazie per lo spazio che ci concedete e che già ci avete concesso. Siamo una band milanese nata nel 2008, abbiamo pubblicato un disco nel 2010, Introspettri, ed eccoci qua col secondo in uscita in questi giorni, Camera Oscura.

Camera Oscura è il vostro nuovo disco ma cosa vi ha ispirato per la composizione, di cosa trattate fondamentalmente nei testi?

Ci ispira da sempre ciò che si muove dentro, quel mondo privato e celato in cui le ombre vivono e influenzano i nostri umori, comportamenti, insomma tutto ciò che poi si manifesta al di fuori di noi.

Nella recensione ho letto che vi definite Dark Cabaret/Cantautoriale Disturbato. Cosa volete intendere con queste due definizioni?

Dire che “ci definiamo” è una parola grossa! Cantautoriale Disturbato ci è stato affibbiato da Daniele Grasso, produttore siciliano. Ascoltando i nostri lavori ci ha detto queste due parole, io (Michele) ho subito ribattuto: “Non sono un cantautore”, ma lui mi ha risposto: “Scrivi quel che canti? Sei un cantautore.”. Come ribattere di fronte alla semplicità dei fatti? Per quanto riguarda il Dark Cabaret, invece, è tutto un mondo che viene fuori dal vivo. E’ stata più una definizione presa per cercare di spiegare cosa accade durante un nostro live, perché la domanda: “che genere fate?” è quasi più un incubo che altro. Ultimamente con un amico è saltato fuori anche il “dissociato”, essendo fuori anche dai target dell’Indie (che ormai è un genere più che uno status di indipendenza dalle major)…(ride)!!!!

Da chi o cosa sono influenzati i Medulla?

Le nostre influenze sono disparate, veniamo da 4 mondi diversi e con ascolti totalmente diversi, credo sia abbastanza improbabile riuscire a dire: facciamo questo perché abbiamo ascoltato musica simile nel corso della nostra vita.

A parer vostro quali sono le principali differenze tra Introspettri e Camera Oscura?

Crediamo che la prima cosa che salta all’occhio sia lo spostamento nelle retrovie della chitarra per metter in primo piano la parte di tastiere/synth/piano e il basso. Anche la forma canzone è stata semplificata (rispetto ad Introspettri) per permettere all’ascoltatore di focalizzare sui testi.


Il vostro look mi fa pensare molto al teatro parigino Grand Guignol; non so perché ma vedendovi mi date l’ impressione di quei personaggi tanto rappresentativi del teatro. Cosa dite, mi sono avvicinato a qualcosa che è di vostro interesse?

Michele ha un amore spropositato per il teatro e insieme abbiamo ragionato sulla nostra voglia di cominciare a creare un immaginario che non fosse solo suono ma anche, appunto, immagine. Quest’ultima serve forse ha spostare dal piano del reale tutta la nostra musica.

La Filastrocca è il vostro primo singolo, come mai avete scelto proprio questo brano?

Perché era quello che marcava uno scostamento dai compromessi. La canzone non è certo la più facilmente fruibile all’interno del disco, la filastrocca è tetra e parla della difficoltà del vivere una vita normale mentre dentro qualcosa non funziona come dovrebbe. E’ stata più una sfida con il pensiero. Tanto se cerchiamo di fare i “normali” non ci giochiamo nulla, puntiamo su un pezzo “degenerato”. E puntare su un ritornello che dice “Un ragno sospeso al filo di tela è un uomo che al collo un cappio si lega” è in questa direzione!

Sempre per questo singolo avete girato un video, perché non ci spiegate un po’ come sono andate le cose? Dove è stato girato e chi ha collaborato con voi per la realizzazione?

Dobbiamo ringraziare MelaZStudio e 2s2b Shutterbugs: Diego Alberghini, Giovanni Bottalico, Antonio Alberto Valdameri e “miss Wolf” Serena Borsieri. Hanno curato ogni dettaglio, ci hanno aiutato a realizzare quel che era un susseguirsi di sensazioni date dall’ascolto. Il girato è stato eseguito soprattutto presso l’ex manicomio di Mombello. Siamo legati a quel luogo, si respira molto di quel che raccontiamo nelle nostre canzoni. Anche questo disco mi sembra sia stato un autoprodotto, deduco perciò che siete in cerca di una casa discografica.

Avete avuto qualche proposta da qualche etichetta?

Certo, abbiamo autoprodotto anche questo disco. Al momento siamo colmi di debiti (ride)!!! Sinceramente non abbiamo neanche cercato l’etichetta. Sappiamo d’esser fuori target, e quindi perché andarsi a prendere le porte in faccia gratis quando possiamo pian piano raccogliere consensi dal basso? 

E del tour cosa ci dite, che date avete in programma, dove potremmo sentirvi nei prossimi giorni?

Tasto dolentissimo. Qui, le porte in faccia, ne stiamo prendendo e tante (ride)!! Al momento abbiamo tre date tutte qui a Milano e provincia. Speriamo che col passare del tempo e col passaparola si muova qualcosa.

Ultima domanda: a cosa puntano i Medulla? Quale è il primo traguardo che vorrebbero raggiungere?

Traguardi? Al momento è quello di aver la possibilità di farsi ascoltare, testare, masticare. Non siamo dentro un filone: e allora? Ricordiamo con piacere uno degli ultimi concerti della scorsa estate: il proprietario non ci ha certo accolto nel migliore dei modi ma poi a metà concerto è andato a comprarsi una delle ultime copie del disco e ha insistito per pagarlo. Abbiamo detto tutto.

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Lili Refrain

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Una  promessa, ecco cosa è Lili Refrain; una ragazza dalle mille doti  che è riuscita, attraverso la sua musica, a estirpare ed emanare il  lato più oscuro e creativo della sua persona. L’artista è  riuscita  in poco tempo a pizzicare l’attenzione dei critici e degli appassionati. Tra una chiacchiera e l’altra siamo riusciti a scoprire particolari  davvero interessanti oltre ai dietro le quinte delle canzoni  di Kawax.

Ciao Lili e benvenuta su Rockambula. Direi di iniziare questa intervista raccontandoci un po’ di te: chi è Lili, quando e come è nata artisticamente, da chi è influenzata e quali sono le sue aspirazioni?
Ciao a te e grazie per questo spazio! Ho sempre ascoltato moltissima musica fin dalla primissima infanzia ed ho sempre associato a questo linguaggio la più potente forma di comunicazione, libertà ed evasione. Ho trovato recentemente delle foto di quando ero piccola e imbracciavo molto spesso una chitarra immaginaria facendo finta di suonarla, credo tutto sia iniziato da lì. Ho sostituito l’immaginazione con una chitarra in legno, corde e anima all’età di tredici anni e pur non avendo mai studiato questo strumento non me ne sono mai più separata. Lili è diventata una parte di me nel 2007 dopo diversi anni passati a suonare la chitarra in diverse band,  ha iniziato a prendere il sopravvento in tutti quei momenti in cui emozioni, pensieri e visioni hanno avuto la forte urgenza di uscire fuori, da quel momento è nato il mio progetto solista e ho iniziato a mescolare differenti generi tra loro creando il mio personalissimo diario di bordo musicale. A livello di influenze sonore c’è sicuramente il blues, la psichedelia, il metal, la musica classica e anche un po’ di quel teatro sperimentale dove la voce assume un ruolo prettamente gestuale. Le miei aspirazioni sono quelle di continuare ad ascoltare e fare musica a 360°

Kawax è il tuo nuovo album; per qualcuno le tematiche sono parse come un continuo di quelle del disco 9. Ma a parer tuo quali sono le principali differenze tra i due dischi in generale?
9 è un album molto più barocco e complesso dal punto di vista compositivo rispetto a Kawax, è decisamente più virtuoso a livello tecnico e anche un po’ dimostrativo in un certo senso. Dopo due anni dall’uscita del primissimo disco autoprodotto,  avevo  l’esigenza di spingere al massimo livello le potenzialità compositive della stratificazione sonora senza mai sfociare nel Noise, lasciando molto spazio alla melodia e ripercorrendo volutamente quella che è stata la mia iniziazione musicale. Non a caso è un album pregno di citazioni che omaggiano alcuni dei miei punti di riferimento soprattutto in campo chitarristico. Kawax vede la luce tre anni dopo, nel mentre si sono susseguiti centinaia di live sia in Italia che in Europa e sono accadute anche moltissime cose nella mia vita privata.
È un disco che nasce da esigenze totalmente diverse e durante un periodo abbastanza buio in cui ho vissuto dolorose separazioni. La necessità che mi ha portato a questo album è stata estremamente viscerale e meno cervellotica, visto il bisogno estremo di esorcizzare in modo più immediato e diretto ciò che mi è capitato in questi ultimi anni. Anche a livello sonoro sono due album molto differenti, Kawax si porta sicuramente dietro tutto il bagaglio dei numerosi concerti fatti prima della sua uscita e i brani eseguiti evocano molto di più le atmosfere del live rispetto a 9.

Come nasce un pezzo di Lili Refrain, hai qualcosa che ti da inspirazione?
Solitamente quando sento l’esigenza di scrivere un brano significa che c’è qualcosa che non va. Quando  si è felici non si è molto ispirati perché tutte le energie sono convogliate a gustarsi quel determinato momento di gioia, io per lo meno cerco di gustarmeli un bel po’ quando capitano. Un mio brano nasce quindi da momenti meno luminosi, più riflessivi e scomodi emotivamente al punto da sentire la necessità di tirarli fuori in qualche modo, è un atto necessario, è come un esorcismo. Mi chiudo in una stanza e non esco finché non sono esausta, è una grande fortuna per me che in quella stanza ci sia un amplificatore e una chitarra, sarebbe potuto andarmi molto peggio!

In Kawax troviamo anche la partecipazione di alcuni ospiti d’ eccezione: gli Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll; come è nato l’ incontro e perché hai scelto proprio loro?
Gli Inferno li conosco da moltissimi anni, soprattutto Valerio Fisik che oltre ad essere un chitarrista è anche l’eccellente fonico con il quale ho registrato tutti e tre gli album che ho prodotto fino ad ora. Due anni fa abbiamo deciso di partire insieme per un lungo tour in Europa e ci siamo tutti profondamente legati, la loro presenza era d’obbligo in quest’album, soprattutto in “Tragos” che molto spesso abbiamo eseguito insieme dal vivo proprio durante il tour. Oltre a loro ci sono anche altri due ospiti d’eccezione che sono Valerio Diamanti, il batterista dei Dispo che suona la batteria in “Baptism of Fire” e Nicola Manzan aka Bologna Violenta che ha impreziosito il brano finale con degli splendidi archi.

Anche la copertina di Kawax  è interessante, chi l’ha realizzata e perché hai scelto proprio quell’immagine?
Il disegno è opera di un’artista argentina che vive da anni a Roma e di cui ho sempre apprezzato moltissimo il lavoro, si tratta di Fernanda Veron che ho avuto modo di conoscere molto più a fondo grazie alla collaborazione con questo album. L’immagine rappresenta un sogno che ho avuto in un momento piuttosto difficile, avevo da poco perso mio padre e sono sprofondata in uno stato abbastanza buio d’esistenza, è una sorta di minotauro che è venuto a trovarmi nel tentativo di indicarmi l’uscita dal labirinto. E’ un’immagine per me molto evocativa, potente e anche estremamente positiva perché mi ha permesso di attivarmi e smuovere ciò che sembrava irrimediabilmente pietrificato in quel determinato frangente.

Invece della Subsound Records e Sangue Dischi cosa ci dici, come è nata la collaborazione?
Davide e Luca sono due persone che apprezzo e stimo moltissimo ed è per me motivo di estremo giubilo averli insieme in questo viaggio. Con Davide desideravo collaborare da tempo perché ritengo che con la Subsound faccia davvero un eccellente lavoro e avere una label che ti sostiene così tanto lavorando costantemente insieme è qualcosa di meraviglioso per un musicista, soprattutto per me che non avendo un gruppo ho sempre provveduto a tutto per conto mio. Luca lo conosco da anni e abbiamo condiviso palchi e collaborazioni, era diverso tempo che mi proponeva di fare uscire un disco con la sua etichetta e alla fine ce l’abbiamo fatta, questo è il mio primo vinile ed è una soddisfazione pazzesca!

Una domanda a bruciapelo: nella recensione ho detto che molto probabilmente i film sulle streghe di Dario Argento con una colonna sonora alla Lili Refrain avrebbero fatto ugualmente una bella figura, ritrovandosi un interessante tocco sinistro diversamente inquietante rispetto a quello dei Goblin. Tu cosa ne pensi?
Non saprei, non riesco proprio ad immaginarmelo un Argento senza Goblin! Ricordo che da piccola quando mi capitava di ascoltare la colonna sonora di Suspiria e senza mai aver visto il film, mi cacavo sotto in una maniera incredibile! Mi faceva una paura pazzesca quel disco!
Non credo che la mia musica abbia lo stesso effetto terrificante… ma grazie per l’associazione!

Parlando della tua teatralità cosa ci dici? A chi ti rifai per questa?
Quando suono dal vivo sento la necessità di tener separata la mia vita ordinaria da quella stra-ordinaria vissuta durante un concerto. Ho bisogno di rievocare e rivivere determinate sensazioni per eseguire un brano in tutta la sua essenza. È questo il motivo per il quale Lili Refrain ha il suo trucco guerrigliero, i suoi simboli e il suo abito di scena. Se non lo facessi e non assumessi un “ponte” tra me e la mia musica, rischierei di perdermi a lungo andare, di compiere dei gesti meccanici privi di “anima”. Più che teatralità si tratta quasi di un vero atto sciamanico, ma in fondo i concerti dal vivo non sono forse uno dei più potenti rituali collettivi che ci capita di celebrare?

Ho notato alcuni show sul tuo canale Facebook, hai seguito un criterio per scegliere le date in cui suonare? Riuscirai a venire anche a Napoli?
Magari! Napoli è una città che adoro! La prima volta che ci sono stata sapevo esattamente dove andare ed era incredibile dato il mio pessimo senso d’orientamento, era come se la città stessa mi guidasse, spero di tornarci molto presto! Riguardo al criterio della scelta della date è del tutto punk, non ho alcuna agenzia alle spalle, le date le trovo quasi sempre da sola e dopo sette anni di e-mail mandate nell’ovunque e una quantità industriale di concerti sparsi in tutta Italia, ho la soddisfazione di ricevere spesso richieste da parte di chi organizza i live, l’abilità sta poi nell’unire i pezzi mancanti per creare un viaggio sensato, soprattutto quando si viaggia in treno! Insomma, dipende un po’ da cosa capita ma a Napoli conto di tornarci presto, anche perché ho un album nuovo da presentare!

Ho notato nei tuoi lavori che strizzi un po’ l’occhio all’esoterismo. Se è un tuo interesse come è nato, cosa ti ha fatto scattare la molla?
Esoterismo è un termine forse un po’ troppo abusato e delle volte viene chiamato in causa rischiando di confondere un po’ le idee.
Per quel che mi riguarda ho un’attività onirica decisamente molto intensa che mi ha portato a fare diverse ricerche nel tentativo di interpretare i simboli che mi apparivano di volta in volta. Ci sono una miriade di cose che conosciamo senza sapere di conoscere e non c’è nulla di esoterico o magico in tutto ciò,  si tratta di qualcosa di atavico, impresso nel nostro DNA dai tempi dei tempi, solo che abbiamo bisogno di input per destare la nostra memoria o almeno questo è quello che capita a me… i miei lavori sono profondamente connessi alla mia vita personale, ai miei sogni e credo di strizzare l’occhiolino molto più a loro che non ad altro.

Bene Lili, l’intervista si chiude qui, concludi come meglio ti pare…
Grazie ancora per quest’intervista Vincenzo, concludo lasciando un po’ di link dove è possibile ascoltare ciò che faccio e trovare tutte le date aggiornate dei miei prossimi concerti:

http://lilirefrain.blogspot.it/
http://lilirefrain.bandcamp.com/album/lili-refrain
https://www.facebook.com/lilirefrain
http://www.youtube.com/shippinghead
http://subsoundrecords.it/
http://sanguedischi.com/

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Le Fate Sono Morte

Written by Interviste

Ciao ragazzi, cominciamo dal principio: chi sono le Fate? E come sono morte?

ANDREA: ciao, Le Fate Sono Morte sono cinque ragazzi che vivono tra Milano e Varese e hanno deciso di fare musica e di creare un progetto personale che potesse esprimere al meglio i propri sentimenti e pensieri. Andrea (voce e chitarra), Giuseppe (batteria), Daniele (violino), Riccardo (basso), Federico (chitarra). Le fate, in fondo, non sono mai morte per noi; il nome sta a rappresentare la fine delle illusioni giovanili, ma allo stesso tempo l’inizio di una crescita interiore. La band si è formata nel 2008 con svariati cambi di formazione che ha portato sino a quella attuale. In realtà per noi la parola morte nel nome non deve esser presa come negativa ma un pensiero positivo che ti possa far pensare che la fine non sia una vera fine ma un nuovo inizio.

Il vostro ultimo album s’intitola La Nostra Piccola Rivoluzione. Di quale piccola rivoluzione stiamo parlando? Che cosa è realmente cambiato dopo l’uscita di questo disco?

PEP: il titolo del nostro album ha un duplice significato. Il primo inteso come rivoluzione nel senso di riuscire a registrare un disco in modo indipendente, senza l’appoggio di nessuno se non delle persone che da anni ci seguono, ci supportano e ci vogliono bene. Il secondo ha un significato più profondo. Quest’album tratta di rivoluzioni personali che, seppur piccole, possono cambiare le nostre vite. Ognuno di noi ha dei sogni e il fare di tutto per realizzarli può portare a una svolta epocale nelle nostre piccole esistenze. Dopo l’uscita del disco è cambiato l’interesse della gente nei nostri confronti, che di giorno in giorno capisce il nostro messaggio e ci supporta e di questo siamo loro sempre più grati. Speriamo di vederli sempre più numerosi ai live.

Leggo sul vostro sito che attingete il vostro suono dal Cantautorato, dal Rock nostrano, dal Post Grunge e dal Pop. Ci fate qualche nome in particolare? Chi sono i vostri riferimenti?

ANDREA: noi veniamo da svariate influenze essendo persone molto diverse una dall’altra e avendo anche età molto varie (18,23,24,32,35). I riferimenti a cui m’ispiro o da cui vengo influenzato posso dire siano band come: Le Luci della Centrale Elettrica, Giuliodorme, Marlene Kuntz, Afterhours, Giorgio Canali, Nadar Solo tra le band della scena underground ma non disdegno neanche i vecchi cantautori che hanno fatto la storia del nostro Paese o quelli contemporanei.

PEP: io amo tutti i gruppi sopra citati da Andrea ma al contempo sono un grande appassionato di elettronica/strumentale (Aucan o Tyng Tiffany per citare qualche band italiana, Crystal Castles, 65days of Static, ecc). Diciamo che dall’incontro di tanti generi differenti è nato questo disco.

Leggo inoltre che traete ispirazione anche dai libri letti. La cosa è molto interessante. Anche in questo caso, di che libri stiamo parlando? In che modo entrano a far parte della vostra musica?

ANDREA: esatto. Penso sia normale che ogni cosa ci possa influenzare, noi diamo molta importanza ai testi e alle parole; questo ci porta anche a leggere spesso libri e a vedere film, mostre ecc, Un po’ tutto aiuta, il cervello è una gran bella macchina che assorbe tutto, lo rielabora e crea uno stile personale. Penso sia così per tutti. Nello specifico, ho inserito il nome di Alda Merini a cui ho dedicato la prima canzone “A Parte il Freddo” in quanto per un periodo le sue composizioni sono state una specie di colonna sonora della mia vita. In un altro brano “In Ogni Mio Sorriso” mi riferivo alla poesia di Giovanni Pascoli “10 Agosto”.

Nel corso del tempo avete cambiato più volte la vostra formazione. Questo ha portato anche a un cambiamento del vostro sound? Se sì, in che modo?

ANDREA: durante gli anni le priorità delle persone e le vite chiaramente cambiano e così, a volte a malincuore, a volte per scelte differenti, abbiamo cambiato elementi della band. Il sound è cambiato perché siamo cresciuti, gli elementi che sono arrivati dopo hanno solo arricchito e reso possibile quello che era il sound a cui volevamo arrivare quando siamo partiti. In futuro cambieremo ancora ed è giusto sia così perché l’esperienza e la vita aiutano anche a migliorarsi o a seguire diverse idee.

La bonus track del vostro ultimo disco s’intitola: “La Storia Non Siamo Noi”. Si tratta per caso di una dichiarazione di guerra a De Gregori?

ANDREA: Ahahah, no direi di no. De Gregori è uno di quei cantautori a cui mi riferivo nella terza risposta. Più che altro è una presa di coscienza del fatto che in questo periodo siamo troppo presi da noi per riuscire a fare qualcosa, ognuno ha la sua storia che va troppo veloce e si fa fatica a pensare ad altro, siamo diventati tutti molto più egoisti negli ultimi anni, delusi, disillusi, si salvi chi può insomma. Il titolo dell’album poi riprende anche questo messaggio. Se ognuno di noi facesse qualcosa di buono nel proprio piccolo per questa società, sarebbe un altro mondo. Spero non sia solo utopia.

PEP: come dice Andrea il messaggio di questo disco è racchiuso soprattutto nei due pezzi finali “La Storia Non Siamo Noi” e “Niente”, al quale sono particolarmente legato. Dire “La Storia Non Siamo Noi”, non significa “non possiamo fare nulla per migliorare il futuro”, ma anzi “la storia non sta nell’individualità e nell’egoismo dei NOI intesi come singoli, ma nella collaborazione, bellissima parola ormai in disuso”.

Dalla vostra musica, dai vostri testi, dai vostri video, emerge un pessimismo denso, una nebbia fitta nella quale è avvolta tutta una generazione, quella che voi e qualcuno prima di voi ha collocato negli “anni zero”. Oltre a constatare questa dura realtà, c’è un modo in cui pensate di combatterla?

ANDREA: più che pessimismo cerco di esser realista. Con gli anni e crescendo sono diventato molto più positivo e credo in un possibile miglioramento di questa situazione, ma su larga scala non saprei in che modo poter migliorare questo mondo, quindi mi limito a cercar di fare il mio ed esser sempre il meglio di quello che posso essere. Cerchiamo di trasmettere, per noi è fondamentale arrivare alle persone e riuscire a far provare qualcosa.

PEP: diciamo che ci limitiamo a descrivere una situazione, quella nella quale noi e tanti altri giovani vivono oggi. Non è un pessimismo fine a se stesso, come detto prima. C’è sempre un soffio di speranza in ogni canzone, una luce alla fine di questa fitta nebbia.

Il vostro logo rappresenta una fata trafitta da una penna che, immagino, le tolga la vita. Il messaggio che ne traggo è che date molta importanza alle parole; per voi possono avere anche un significato mortale. Qual è il messaggio che invece volete trasmettere?

PEP: come dici tu, per noi le parole hanno una potenza incredibile. Sono più forti di un pugno, più violente di qualsiasi gesto, quindi possono fare male. Ma questa potenza può essere usata anche per aprire gli occhi alle persone. Trafiggere la fata vuol dire uccidere le illusioni giovanili. Ma penso che anche dalla disillusione non debba automaticamente nascere un pensiero pessimista (anche se può sembrare quello più scontato). Questo però è un discorso ampissimo, se volete andiamo a prenderci una birra e ne parliamo per ore!

Siamo giunti alla fine. Per concludere, quale domanda importante non vi ho fatto, alla quale avreste voluto rispondere?

PEP: “Siete davvero convinti che non diventerete niente?” Forse, ma noi ce la stiamo mettendo tutta per diventare grandi e forti insieme, alla faccia di chi continua a lanciarci fango addosso.

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Funkin’ Donuts

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Come promesso i Funkin’ Donuts vengono intervistati da Rockambula, un sound tra Red Hot Chili Peppers e James Brown. Essere emergenti al tempo di internet non è poi così facile. Ecco a voi i vincitori del nostro contest AltroCheSanremo Vol. 6.


Cosa sono i Funkin’ Donuts? Parlateci di voi… In poche parole?
I Funkin’ Donuts sono il Funk Rock visto e reinterpretato da quattro ragazzi di Roma. Sono il ricordo del basso di Flea dei Red Hot Chili Peppers unito ai riff alla Tom Morello dei Rage Against The Machine, passando attraverso un cantato che cerca di avere lo smalto e l’efficacia di James Brown, tutto questo condito con una batteria dotata contemporaneamente della leggerezza del Funk e della pesantezza del Rock.

Dalla recensione sulle nostre pagine emerge un sound Funky acerbo e con arrangiamenti raffazzonati ma di grande impatto. Fate una brevissima recensione dei vostri suoni?
Nella nostra musica convergono, come detto sopra, caratteristiche abbastanza precise. Ondeggiamo tra il Funk Rock dei primi Red Hot e la musica dei Rage Against The Machine, senza disdegnare un po’ di Funk tradizionale che ricorda vagamente James Brown. Ci piace suonare queste diverse sfumature e unirle magari all’interno di un’unica canzone, dove ad esempio può capitare una chitarra Funky che si trasforma in una chitarra pesantemente distorta, oppure un basso che passa da giri più elaborati a giri di accompagnamento più propri dell’Hard Rock.

Parliamo indiscutibilmente di un autoproduzione, pensate sarà facile (o difficile) trovare un adeguata produzione ai vostri futuri lavori? Perché?
Non è una questione che ci siamo ancora posti. Funk Tasty KO rappresenta la nostra voglia di mettere nero su bianco i nostri primi lavori ed è stato fatto nel box di Simone, il chitarrista, in modo del tutto autonomo, senza l’appoggio di nessun altro all’infuori di noi quattro. Gli evidenti limiti tecnici e di strumentazione dovuti ad uno studio di registrazione che il nostro Simone ha tirato su da solo e dal nulla, ci hanno permesso di osservare i nostri limiti come musicisti, per cui ci sembra molto più formativo continuare a registrare in questo modo, più che altro per migliorarci nell’eseguire e nel creare musica, e cercare di tirare fuori da noi quattro il massimo in quest’unico contesto, almeno finché non ci sarà la cosiddetta “grande occasione”. Comunque, per rispondere alla domanda, non sappiamo se sarà facile o difficile semplicemente perché ancora non ci siamo ancora posti il problema.

Cosa significa essere emergenti nel duemilaquattordici?
Essere un gruppo emergente oggi vuol dire sbattersi tra serate live, pagine Facebook, purtroppo contest ed un mondo fatto di uffici stampa ed etichette indipendenti. Le serate sono l’elemento più gratificante, ma ci sarebbero diversi “localari”, gestori di locali, che andrebbero presi e attaccati al muro. La cosa accomuna anche chi organizza e pensa alcuni contest, concorsi musicali, dove non è importante come suoni, quanti calli ti sei fatto nel provare e riprovare i pezzi o se hai una presenza scenica che farebbe impallidire James Brown se fosse ancora vivo (Dio l’abbia in gloria), ma solo quante persone riesci a portare al loro fottuto evento. In breve, ai nostri giorni, come un gruppo riesce a “vendersi” tramite canali alternativi alla musica che propone, conta molto di più.


Internet gioca un ruolo fondamentale per le band emergenti oppure è solo merda? Vi sentite danneggiati oppure aiutati dalla musica virtuale?
Il potere divulgativo di internet è innegabile e saremmo degli ipocriti a sostenere il contrario. Ci piace interagire sui social network con tutte quelle persone che hanno piacere a partecipare alla nostra musica, ci piace che sia possibile raggiungere noi e le nostre canzoni direttamente online. Detto questo, siamo comunque i primi, ogni volta che ce n’è occasione, che hanno piacere a comprare gli Ep o gli album dei gruppi che andiamo a sentire, piuttosto che ridurci a sentirli online, semplicemente perché troviamo sia un giusto e doveroso riconoscimento per tutti quei ragazzi che fanno musica. Anche qui, per riassumere, internet è un mezzo divulgativo, ma la musica va ascoltata su disco o, meglio ancora, live.

Trovate problematiche nel procurarvi serate live nei locali? Pensate anche voi che in Italia suonano sempre le stesse band?
Nel colloquio con i gestori dei locali romani, l’80% delle volte ti ritrovi a rispondere all’unica domanda che desta loro preoccupazione: “Quante persone mi porti?”. In quel preciso istante sta a te decidere se instaurare un tavolo di trattative, cercando, da bravo PR improvvisato, di fare una mera previsione sull’esito di quante entrate ci saranno, o semplicemente ricordare, a chi ti sta di fronte, che dovrebbe essere lui a preoccuparsi di sponsorizzare l’evento per far sì che il locale che gestisce sia pieno. Non ci sono, quasi più, direzioni artistiche che valutino veramente la musica che viene proposta loro, ma ci si accontenta di far suonare chiunque abbia un seguito e così è probabile che al tuo posto venga scelto il gruppetto di quindicenni che si porta dietro l’intera scuola. Bene così. Per ciò che riguarda la musica live fuori da Roma, pensiamo, che il panorama sia abbastanza vario di band e generi musicali.


Siete di Roma, parlando con altre band della capitale sono venute fuori molte difficoltà per la band del posto a farsi notare, come se una sorta di cerchia ristretta comandasse il “mercato” dei live. Insomma se non conosci non suoni nei posti che contano. Tutto vero?
Abbiamo già espresso una nostra idea su quali possano essere le difficoltà effettive di suonare a Roma. I locali sono tanti e quelli un po’ più “importanti”, dove c’è una selezione sicuramente più esclusiva degli altri, si contano sulle dita di una mano. Suonarci non è poi così difficile, basta non pretendere un cachèt, accontentarsi di una pizza surgelata per cena e portarsi dietro i propri amici “costretti” a pagare l’entrata senza neanche una consumazione inclusa nel prezzo. Non crediamo sia questione di conoscenze o raccomandazioni, ma di… se vuoi/puoi.


Cosa vi inorridisce del sistema musica in Italia?
I prezzi degli uffici stampa.


Pensate che l’estero musicale sia più all’avanguardia?
Pensiamo solamente che all’estero sia più facile vivere di musica, da che cosa derivi questa nostra convinzione non lo sappiamo neanche noi, forse speranza in orizzonti diversi o magari solo invidia per i più alti livelli qualitativi che si riescono a raggiungere.


I Funkin’ Donuts al comando supremo della musica italiana. Decidete voi incondizionatamente cosa fare. Cosa fareste?
Mah… Probabilmente nessuno di noi ci ha veramente pensato. Quello che ci piace fare è semplicemente suonare: suonare live, suonare tra di noi in saletta, creare canzoni nuove. A livello pratico, il diventare “famosi” sarebbe solo un modo per poter far diventare questa passione un lavoro, e quindi ci permetterebbe di farlo ogni giorno, piuttosto che un paio di volte a settimana o nei ritagli di tempo. Quindi invece che fare tot concerti in un mese, o provare tot volte la settimana, potremmo fare tot concerti alla settimana e provare tra di noi ogni giorno. Beh, in effetti sarebbe bello…


Esisteranno delle situazioni imbarazzanti legate all’ambiente musicale in cui almeno una vota vi siete trovati a fare i conti, volete raccontarci qualcosa?
Una situazione particolarmente imbarazzante riguarda un concerto. Per quanto ridicolo possa sembrare, Tommaso e Simone, bassista e chitarrista, si erano messi nel camerino del backstage con Flavio, il cantante, con l’intento di spiegargli quando saltare (sì, saltare) durante una canzone, in modo da riuscire a farlo contemporaneamente. Insomma mentre stavano lì a saltare come degli idioti, un altro gruppo che avrebbe suonato in quella serata ha aperto la porta del camerino e li ha trovati che saltavano tutti e tre in uno stanzino chiuso. Grandi risate.


Domanda obbligata visto il periodo, cosa pensate del festival di Sanremo? E’ quella la musica italiana? Si potrebbe cambiare? Avendo la possibilità ci andreste mai?
Diciamo che noi quattro complessivamente avremo visto sì e no cinque minuti delle ultime sei o sette edizioni di Sanremo. Probabilmente il problema non è Sanremo ma la musica italiana. Sanremo è solo un palcoscenico dove viene mostrato quello che l’Italia offre, quindi se l’offerta è bassa non è necessariamente colpa del Festival. La verità è soprattutto che come musicisti e membri di un gruppo Rock non ci sentiamo rappresentati da un festival che privilegia la musica cantautorale (o che dovrebbe farlo), quindi, al di là d giudizi positivi o negativi sul festival in se, non lo consideriamo proprio. Certo se un giorno arrivasse Pippo Baudo a dirci che siamo richiesti sul palco dell’Ariston, non so se saremmo in grado di dire di no, se non altro per la storia che Sanremo rappresenta.


Cosa avete in progetto nell’immediato futuro? Disco? Concerti? Cosa?
La nostra priorità sono sicuramente i concerti. Suonare più possibile e in più posti possibile è la cosa più importante, perché la musica va portata fuori. La cosa più importante è far conoscere noi e la nostra musica. Dischi, videoclip e altre forme di comunicazione verranno sicuramente, ma saranno sempre subordinate ai nostri impegni live.


Ancora complimenti per la vittoria del nostro insolito e gratuito contest, in questo spazio potete scrivere tutto quello che vi passa per la testa, fare pubblicità e dire quello che non vi è stato chiesto ma che volete dire…
Concludiamo con poche parole e piuttosto che fare pubblicità a noi, facciamo pubblicità al nostro genere musicale. Ascoltateci per ascoltare un genere, assolutamente non originale o innovativo, ma comunque leggermente diverso da quello che ormai si sente in giro. Ciao!

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Boxerin Club

Written by Interviste

Intervista con una delle band italiane che più e meglio si stanno aprendo la strada per la fama a livello mondiale. I Boxerin Club.
Partiamo dalle presentazioni: chi sono le persone che formano i Boxerin Club, cosa fanno nei Boxerin Club, e, soprattutto, perché “Boxerin Club”?
I Boxerin Club sono in cinque: Matteo Iacobis (voce, chitarra acustica, elettrica e ukulele), Gabriele Jacobini (chitarra elttrica e ukulele), Francesco Aprili (voce e batteria), Matteo Domenichelli (voce e basso) e Edoardo Impedovo (tromba, tastiere e percussioni). Il nome Boxerin Club viene trovato per caso durante una partita di Taboo, circa 4 anni fa e si riferisce ad un pub in Scozia gestito da un cane addestrato di nome Tarzan, frequentato da soli cani, è inevitabile rimanere affascinati.

È da poco fuori il vostro Aloha Krakatoa. Presentatelo a chi non lo ha ancora ascoltato.
È il nostro primo disco ed è la raccolta di quasi tutti i pezzi che abbiamo scritto nell’anno appena passato, nel quale ci siamo divertiti a sperimentare sonorità World Music, provenienti dalla cultura brasiliana, afro-cubana ed orientale, mantenendo comunque un impianto Pop, fatto di armonizzazioni vocali, qualche distorsione nelle chitarre e cantando sempre in inglese, quindi mantenendo un filo conduttore con i nostri ascolti americani, inglesi e italiani.

Recensendo Aloha Krakatoa l’ho definito disco d’evasione, nel senso che mi è parso di capire che lo scopo primario della vostra musica, ammesso che ne abbia uno, chiaramente, sia divertire, stupire, e allo stesso tempo “coccolare” l’ascoltatore, ovviamente attraverso il vostro divertimento. Che ne pensate?
Sicuramente è un disco d’evasione. Durante la stesura dei pezzi avevamo sempre come obbiettivo quello di far evadere l’ascoltatore dal proprio contesto giornaliero e trasportarlo emotivamente in un posto che magari non aveva mai visto, rendendolo felice e allo stesso tempo stupito, speriamo di esserci riusciti.

Raccontateci come sono andate le registrazioni. Quanto ha influito sul disco la figura del produttore? Come avete organizzato i lavori, data la varietà di stili, strumenti, e mood che il disco incorpora?
È stato un processo molto faticoso ma allo stesso tempo estremamente stimolante. Tutto è iniziato a giugno scorso quando il nostro produttore Marco Fasolo, leader dei Jennifer Gentle, è venuto a stare da noi a Roma per fare un po’ di pre-produzione e registrare dei provini, quindi circa due settimane dopo siamo entrati in studio, a Vicenza. Il disco è stato registrato tutto in presa diretta e completamente in analogico, con alcuni strumenti e microfoni molto rari e datati; abbiamo deciso di agire in questo modo perché volevamo mantenere la complicità del live e al tempo stesso avere un sound molto nitido grazie alla registrazione su nastro.

Le vostre canzoni come nascono? C’è un’idea centrale (o una figura centrale, tra voi) da cui poi si sviluppa il resto? O, all’estremo opposto: lunghe jam e labor limae?
Lo scheletro dei brani viene creato da Matteo Iacobis e Matteo Domenichelli, successivamente realizziamo dei provini che ci passiamo per sviluppare le nostre idee tranquillamente a casa, poi con un po’ di tempo e pazienza in sala prove escono le canzoni.

La cosa che mi ha maggiormente colpito del vostro lavoro è la libertà d’espressione, l’abbattimento dei confini di genere, all’apparente inseguimento di una vostra personale visione musicale. Come nasce questo atteggiamento? È innato, naturale, o frutto di una ricerca o di una decisione presa a priori?
Abbiamo sempre avuto voglia di sperimentare grazie ai nostri ascolti, che sono la cosa di cui andiamo più fieri al mondo. La musica come qualsiasi altra forma d’arte è un modo per esprimere se stessi, ridursi a voler assomigliare il più possibile ad un artista che ti piace sarebbe riduttivo e sicuramente poco divertente.

So che avete avuto esperienze varie e molto soddisfacenti dal punto di vista del live. Avete girato da questa e da quella parte dell’oceano portando a casa ottimi risultati. Cosa combinate sul palco? Idee particolari, tradizioni strane…? Quanto conta l’aspetto live nel mondo dei Boxerin Club? 
Il live è la cosa a cui teniamo di più, sin dall’inizio, ci troviamo a nostro agio e ci divertiamo dall’inizio alla fine sempre. Negli ultimi due anni abbiamo girato molto e stiamo continuando a farlo, questo è il miglior modo per crescere come musicisti, come amici, ma credo sopratutto come persone, perché grazie ai ragazzi di Bomba Dischi e DNA Concerti con cui lavoriamo, abbiamo la grande fortuna di confrontarci con migliaia di persone e cercando di stabilire un contatto diretto palco-pubblico. L’America è uno dei paesi dove tutto questo succede in maniera totalmente naturale: l’ascoltatore è molto attento e curioso, sa divertirsi ma sa anche riflettere… non si trova lì solo per passare una serata, vuole essere parete integrante del concerto, per noi è stato così.

Raccontateci le tre cose più strane che vi sono capitate nelle vostre peregrinazioni.
Essere assaliti a Milano da due cretini entrati da dietro nel furgone in movimento alle 5 di mattina senza un motivo, aprire il concerto di Marina Rei senza saperlo, incontrare P. Diddy all’una di notte a Brooklyn che ti chiede di suonare per lui.

In chiusura, domande secche. Gli artisti più strani e meno “azzeccati” con cui vi hanno paragonato?
Devo dire che ci hanno sempre preso con i paragoni.

Il disco (o i dischi) fondamentali che dovremmo sentire per capire da dove arrivano i Boxerin Club.
Graceland di Paul Simon, Nacked dei Talking Heads e Swing Lo Magellan dei Dirty Projectors.

L’italiano “no, mai”?
No, mai.

Vi considerate, in qualche misura, un gruppo “psichedelico”?
A volte sì, sopratutto in studio, alcuni pezzi si prestano, altri no.

Per avere successo, secondo voi, serve di più essere capaci tecnicamente, avere idee originali, farsi il culo o essere rompicoglioni?
Tutto quello che hai detto, facendolo con il sorriso.

Voi pensate di avere tutte queste cose o ve ne manca qualcuna?
Pensiamo di dover fare ancora tanta strada, sicuramente ci facciamo un bel culo ogni giorno, sempre con il sorriso però (ride ndr)

Farete successo?
Non lo so e non so neanche se mi interessa.

Prossime cose che farete che volete si sappiano: concerti, dischi, ecc. Vai.
Presto usciranno dei nuovi video sia live che ufficiali. Il tour di Aloha Krakatoa è appena iniziato e sta andando molto bene, da qui ad Aprile ci sono 30 date e a breve avremmo anche il piacere di aprire il concerto de I Cani a Cesena, serata fra amici. Per il resto vi invito a consultare la nostra pagina Facebook che ci piace tanto aggiornare quotidianamente, cosi da poter rimanere sempre aggiornati su tutto!

Grazie per la disponibilità, alla prossima!
Grazie a voi per l’invito!

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Biagio Accardi

Written by Interviste

Abbiamo l’onore e il piacere di essere in compagnia di un grande artista, uno di quelli che sembrano sbucati da un passato remoto. Biagio Accardi, cantautore calabro, reduce dalla sua esibizione a Pratola Peligna (AQ) con il suo spettacolo Kairos, ultima tappa di gennaio del tour e abbiamo voluto con lui cercare di capire meglio la sua visione della musica e della vita.

Ciao Biagio, come stai?
Ti rispondo con una battuta di un grande cantastorie (Otello Profazio): “Tutti i grandi cantastorie sono morti; Rosa Balistrieri, Ignazio Buttitta, Orazio Strano, Cicco Busacca …ed io non mi sento tanto bene” …sono anni che fa questa battuta sul palco e pur avendo una certa età lo vedo in buona salute (dire questo gli serve come atto scaramantico ?!) … comunque anch’io non me la passo male … Anzi!

So che oltre ad esibirti a Pratola Peligna, sei stato anche nei bellissimi borghi abruzzesi di Anversa e Bugnara. Che ci faceva un calabrese ad Anversa?
Respiro aria buona (ride ndr)

Cerchiamo subito di capire meglio che tipo di musicista sei. Cantastorie, menestrello, folk singer, cantautore. Chi è, insomma, Biagio Accardi e che cos’è Kairos, il tuo spettacolo che, ricordiamolo, solo a gennaio ha toccato anche Cuneo, Reggio Emilia e Imperia?
Artista, suonatore, viaggiatore e autore di canzoni. Ricerco ed elaboro sonorità ispirate al panorama etnico-mediterraneo. Le composizioni sono un affresco poetico a tratti psichedelico e ipnotizzante e a tratti ammaliante per il suo forte e intenso potere nostalgico. Studio la società tradizionale e moderna dei luoghi in cui vivo, ho sempre cercato di promuovere eventi artistico-culturali votati a valorizzare il Sud. Anche se spesso faccio date al nord per l’appunto !!! KAIROS smaschera i nefasti sotterfugi legati al mondo del lavoro, gli ideali del falso benessere che hanno fatto perdere alla gente la semplice comprensione del bello e delle cose vere, togliendogli la possibilità di essere felici. Le politiche delle multinazionali, che ci controllano, ci annientano e letteralmente avvelenano la nostra vita, vengono spacciate come indispensabili per la crescita economica e per il nostro benessere. Invertire questo sistema è possibile, adottando uno stile di vita rispettoso dell’ambiente e iniziando ad allontanarsi dai vecchi e logori schemi politici, economici e sociali. Gli antichi greci utilizzavano due parole per definire il tempo: Kronos e Kairos. La prima parola si riferisce al tempo logico e sequenziale, mentre la seconda rappresenta un tempo di mezzo, un momento in cui qualcosa di speciale sta per accadere. “Kairos” rappresenta quindi il tempo propizio per agire, quel momento è ora!

Mi sono giunte all’orecchio alcune voci che raccontano di un Biagio Accardi che se ne va in tour per la Calabria girovagando per le piazze dei paesi sul dorso del suo asino. Mi dicono anche che viaggi solo ed esclusivamente in treno o comunque con i normali mezzi di trasporto pubblico. Il tuo è un rifiuto del progresso come lotta contro uno sviluppo incontrollato e devastante o piuttosto una scelta di vita personale, legata a fattori più intimi?
L’idea mi è nata leggendo un libro di Mauro Geraci dal titolo Le Ragioni dei Cantastorie e che parlava di Orazio Strano, uno dei più grandi cantastorie siciliani; partiva dalla sua terra con l’asino e il carretto per portare i suoi spettacoli perfino in Calabria e nelle Puglie. Questa immagine del cantastorie che girava di piazza in piazza mi ha spinto a volerla “restituire” nell’immaginario nella memoria collettiva. Subito mi è venuto in mente che avrei potuto farlo anch’io, così avrei potuto evitare di percorrere grandi tragitti che implicano l’uso di mezzi di locomozione. ..ma se proprio devo, preferisco il treno; ecologico, economico e comodo per leggere, scrivere e ascoltare musica.  “Per fare quello che a me piace non per forza mi devo spostare in poche ore da Palermo a Milano ..e neanche è detto che devo possedere un’auto per sentirmi realizzato …passo dopo passo, con la mia amica L’asina Cometina, calpestando terra e respirando polvere realizzo sogni, faccio ciò che mi piace e mi sento vivo…    già sono in viaggio!”

Spostiamo l’attenzione su cose meno impegnative. Parliamo della musica italiana attuale. Credi che un musicista come te possa trovare un suo spazio dentro la scena emergente e indipendente italiana (parlo di Tv, webzine, spazi web, web radio, locali di musica dal vivo) o sei, volente o nolente, relegato a un ruolo marginale come visibilità anche se non certo come espressione artistica? Qual è attualmente il tuo ruolo in questo senso?
La maggior parte del lavoro è svolto, in autonomia, dalla nostra associazione culturale Cattivoteatro. Poi ci sono delle realtà che ci supportano: Marasco Comunicazione, Video8 Calabria, Immaginerie, Suoneria Mediterranea, Rock Bottom Records e altri …ma la domanda “se c’è spazio per la mia arte nella scena emergente” dovremmo farla al pubblico e agli addetti al lavoro.

Come Biagio Accardi è diventato il cantastorie che stiamo imparando a conoscere? Ci sono stati momenti o eventi precisi che ti hanno spinto a prendere questa strada?
Sin da bimbo ho avuto un’attrazione per l’arte. Crescendo quello che mi ha attratto di più è stata la musica. Avendo avuto anche una formazione da operatore turistico ho cercato di mettere insieme le due cose, realizzandole in alcune strutture ricettive della mia zona. Mi occupandomi del lato ricreativo. Dopo c’è stato in me un conflitto interiore; non riuscivo a capire perché la gente andando in vacanza ricercava le stesse cose che aveva già quotidianamente … ho fatto una lunga pausa di riflessione, finché ho incontrato il Maestro Nino Racco con cui ho fatto vari laboratori e seminari. Racco ha messo insieme le tecniche cantastoriali con quelle teatrali della commedia dell’arte. Cosa che mi affascinò molto al punto di prendere spunto dal suo lavoro. Inoltre ho conosciuto di persona Otello Profazio che è il cantastorie che ha fatto più lavori discografici a riguardo.

A proposito, facci capire bene. Nella vita ti occupi di altro o sei musicista a tempo pieno? E comunque, pensi che nel 2014 si possa scegliere di essere musicisti professionisti (turnisti esclusi)?
Ho dedicato tutta la mia vita a questo mestiere e credo che continuerò a farlo fino alla fine dei miei giorni.

La tua musica è molto legata al teatro e alla teatralità. Non a caso Kairos è strettamente in contatto con l’associazione Cattivo Teatro. Di che si tratta?
L’ASSOCIAZIONE CULTURALE CATTIVOTEATRO è nata nel 2002 dalla commistione di svariate esperienze e competenze, il cui scopo sociale è la promozione e la realizzazione di spettacoli teatrali, convegni, manifestazioni artistiche, musicali, folkloristiche e letterarie, che abbiano carattere educativo. “Si propone in particolare la promozione di iniziative atte a sviluppare una maggiore coscienza socioculturale”. CATTIVOTEATRO è un’esperienza unica, che nasce dalla voglia di fare cultura fuori dagli schemi aberranti della cultura massificata e mercificata che nei tempi che corrono, ci opprime e ci aliena, essendo una non-cultura, una forma di ignoranza massificata. Laddove per ignoranza si intende appunto la mancata conoscenza. Mancata conoscenza di se stessi, mancata conoscenza del mondo che ci circonda. La cultura di massa che ci travolge è, infatti, mercato e basta.

Tra le tue tantissime avventure a spasso per l’Italia, ti sarà capitata una serie infinita di situazioni strane. Raccontaci l’episodio più divertente e grottesco che ricordi ma anche il più antipatico e brutto, quello che vorresti cancellare per sempre?
L’evento più grottesco è stato quando si avvicinò un signore dall’accento (ma anche di più dell’accento) partenopeo che mi contestava che non riuscì a capire bene lo spettacolo, colpevolizzando l’uso del dialetto in alcune parti. La cosa che mi stupiva è che il 70 % dello spettacolo è in Italiano; ho concluso, tra me e me, che forse non conoscesse che il suo dialetto …solo quello! Quelle più antipatiche e da cancellare per sempre sono state già rimosse!

La tua musica ha un forte valore culturale e sociale, soprattutto come strumento di preservazione e conservazione della memoria. La musica (e comunque l’arte in generale) deve sempre avere un ruolo sociale per essere scritta con la maiuscola?
Ne sono fermamente convinto ! …tutto il resto non è arte ma mero intrattenimento che si basa sul concetto di estetica e basta …ma non credo che sia questo il ruolo dell’arte e degli artisti.

La tua musica, oltre che influenzata dalla tradizione folkloristica italiana, sembra attingere anche al Folk più attuale e pare ispirarsi vagamente a band come gli Yo Yo Mundi o la Bandabardò. C’è questo nella tua formazione musicale? E cosa ti piace ascoltare abitualmente?
Abitualmente ascolto di tutto, ovvero tutto quello che ha un certo spessore poetico e culturale. Frank Zappa gira spesso in playlist!

Facci il nome di qualche band, magari emergente, che non dovremmo lasciarci scappare?
Magari, Adriano Bono e la Minima Orchestra oppure le fantastiche Honeybird o i giovanissimi Musicanti del Vento.

Che cosa distingue il Biagio Accardi uomo dal Biagio Accardi musicista e dove vedi entrambi tra vent’anni?
Li vedrei sicuramente, entrambi, negli stessi luoghi: tra la musica, sulle strade del mondo e fra la gente!

Ti faccio ancora i complimenti per l’esibizione che ho avuto il piacere di gustarmi. A proposito, si può portare anche musica come la tua fuori dai teatri e piuttosto nei luoghi di aggregazione giovanile come può esserlo il locale che ti ha ospitato?
Questa potrebbe essere una sfida stimolante!

Ciao Biagio con l’augurio di rivederci presto.

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Beppe Malizia e I Ritagli Acustici

Written by Interviste

Il Rap italiano non è quello che vedete su Mtv; su strade più o meno battute camminano artisti capaci, dopo tanti anni dalla genesi del genere, di riscoprirne alcuni dei valori fondamentali, musicisti in grado di ridare al Rap la dignità che merita, scavando nella sua essenza. Signore e signori, Beppe Malizia e I Ritagli Acustici.

Ciao ragazzi, come state?
Ics!

Mi permetto di iniziare con una domanda banalissima ma non posso non farvela. Beppe Malizia posso capirlo, ma I Ritagli Acustici che diavolo di nome è?
I ritagli acustici sono la prerogativa di questo progetto, perché in tutti i brani ci sono collaborazioni con musicisti differenti che hanno partecipato alla stesura musicale cantando o suonando strumenti diversi sui campioni assemblati da Beppe e prestando il loro operato, a loro volta come veri e propri “campioni”, al libero arrangiamento della produzione; ognuno di loro é stato uno dei ritagli acustici del progetto. In poche parole “ritagli acustici” é stata un’ esigenza di produzione e vuole diventare l’attitudine del gruppo. Poi suonava bene!

Da dove viene questo progetto (possiamo chiamarlo cosi?), quale è la sua storia, la sua genesi e dove pensa di poter arrivare?
Questo progetto (fai bene a chiamarlo così) è figlio di una collaborazione nata nel 2010 fra Beppe Malizia e il produttore Andrea Narratore, nello studio di quest’ultimo, il Bunker Café, studio dove fino a poco tempo prima Beppe ha registrato tutta la sua produzione musicale, antecedente quella dei Ritagli Acustici, fin dal 2002, sotto lo pseudonimo di Matiz Mc e, per il momento, la meta è sempre il disco a divenire.

Musicalmente siete molto vicini agli artisti che avete affiancato sui palchi italiani, da Frankie Hi Nrg a 99 Posse, da Mondo Marcio a Brusco. Eppure suonate comunque tanto diversi. Quanto Rap c’è nella vostra musica e cosa vi distingue dagli altri?
Il Rap é il comun denominatore di tutti i brani, per quanto riguarda questo progetto, e si distingue dagli “altri” per le caratteristiche capacità di adattamento ai diversi arrangiamenti musicali, un po’ come hanno fatto i Movits! in Danimarca.

Nello specifico, come descrivereste la vostra musica, quale ne è il suo processo creativo?
Ricollegandoci alla domanda precedente il rap nella nostra musica è proprio un processo creativo e, nonostante l’uso di musicisti, il workflow produttivo si discosta molto da quello di una band.

Oltre a I Ritagli Acustici, Beppe Malizia si fonde con The Acousticutz. Chi sono costoro?
The Acousticutz è stata una band nata circa tre anni fa, dall’esigenza di poter suonare live questo disco, anche all’infuori dei soliti spazi dedicati al Rap, di cui sopra. Questa formazione, cambiata ed evolutasi nel tempo, è ora la base dei Ritagli Acustici.

Quale ruolo avete occupato nel panorama indipendente italiano? Riuscite a vivere solo di musica?
Non viviamo di ruoli e non moriamo di musica. Lavoriamo per mantenerci e manteniamo la nostra musica. Stiamo investendo su noi stessi e non è detto che smetteremo mai di farlo.

Oggi sembra che le band emergenti possano imporsi solo attraverso le esibizioni dal vivo eppure, in alcune realtà, suonare live è diventato quasi impossibile. Locali minuscoli e non strutturati per la musica, impongono spesso situazioni fuori dalla consuetudine della band (come unplugged) a cachet ridottissimi, magari pretendendo anche che sia la band a fare promozione. Come uscire da questo tunnel?
Se parliamo di soldi, parliamo di commercio e quindi non più di musica fine a se stessa. Dunque a domanda segue risposta e di conseguenza molti gruppi dovrebbero suonare in spazi creati più per fare musica che per vendere aperitivi. Se non si porta un servizio non è giusto essere pagati. Quindi, per quanto riguarda gli spazi culturali, dovrebbero essere di più e meglio sostenuti, e chi vi suona essere ripagato anche dalla possibilità d’esprimersi in determinati contesti mentre, per quanto riguarda gli spazi commerciali, questi seguono la domanda ragion per cui il musicista che vuole camparci deve fare in modo di essere l’offerta, promozione compresa.

Tuttavia credo che sia anche giusto che la band si renda capace di crearsi un seguito; perché un locale dovrebbe spendere mille euro per un artista se poi non viene nessuno a vederlo? Come riuscite voi a crearvi un pubblico?
Da questo tunnel non se ne esce se non evitando d’entrarci. La band che non porta trecento persone non deve prendere mille euro, indipendentemente dalle capacità tecniche. Noi solitamente ne portiamo molte meno e infatti veniamo pagati molto meno. Quando non ne portiamo suoniamo anche gratis e, per suonare in un bel posto pieno di gente che non abbiamo portato noi, siamo disposti anche a pagare. Basta mettersi d’accordo prima del tunnel.

Molti collegano questo problema alla crescente presenza sulla scena di pseudo Dj e Tribute Band, capaci di riempire i locali senza troppi sforzi. Quanta colpa hanno loro? Veramente alla gente non frega nulla della Musica (con la M)?
Dj e cover band han solo la colpa di vendere il prodotto giusto e, credo, non con pochi sforzi e pochi investimenti. Chi invece dedica studio e creatività alla composizione della Musica (con la M maiuscola), non dovrebbe farlo per soldi.

Altra questione da affrontare è quella dei Talent Show. Non voglio mettere in dubbio il loro valore nella creazione di spettacolo e monetizzazione (le case discografiche hanno trovato la loro gallina dalle uova d’oro) ma piuttosto mi chiedo. Come fare per evitare che lo show venga confuso con la Musica? Come far capire ad un diciottenne pieno di talento che per arrivare in alto, la strada migliore non è quella di X Factor, che anzi può rovinarti per sempre?
Sia nel caso dei Talent Show che in quello della musica tradizionale o indipendente, la ricerca del successo comporta gli stessi rischi o le stesse scorciatoie; ciò che cambia è solo la rapidità con cui il processo si svolge. Un diciottenne PIENO di Talento non ha di questi problemi. Più talenti ai Talents.

Tornando a voi e parlando di talento. Cosa significa questa parola? Pensate che abbiate più talento o più cose da dire o i due concetti sono legati tra loro?
Il talento é una particolare predisposizione a fare una determinata cosa quindi, finché avremo qualcosa da dire ci toccherà farlo.

Perché in Italia sappiamo fare cosi bene Musica Leggera ma siamo quasi incapaci a fare Pop?
Ormai non crediamo più che sia così.

Che strada avete scelto per promuovere la vostra musica, trovare date, vendere cd, ecc…?
Dal digitale al territorio passando per Facebook, Twitter, Myspace, Souncloud, iTunes, Youtube, website, web radio, radio, riviste, webzine, associazioni, circoli, comuni, festival e rassegne. Ci manca solo l’agenzia ma stiamo valutando.

Di cosa parlano le vostre canzoni? E pensate che nel Rap come nella musica cantautorale i testi abbiano o debbano avere un ruolo più pesante che in altri generi, ovviamente non strumentali? La musica non dovrebbe parlare prima attraverso le note che le parole?
Le nostre canzoni parlano di bianco e di nero, di vita e di morte, di schiavi e di padroni, di odio e di amore. L’equilibrio della bilancia fra parole e musica per noi non ha regole. Balla di qua è di la.

Cosa vi distingue dalla nuova ondata di rapper per ragazzine, Emis Killa e tutti gli altri?
Ci distingue da questa ondata il fatto di non farne parte, per età innanzitutto e poi per tutto ciò che per età ne consegue.

Chi vive per la musica deve veramente inseguire il successo?
La nostra esigenza è quella di costruire la cosa migliore per le nostre capacità e rispetto ai nostri canoni e gusti, se sarà di successo tanto meglio, forse.

Nella scena Rap Underground di nomi ce ne sono tanti, alcuni validissimi come gli Uochi Toki, altri meno. Fate qualche nome, escluso quello di Beppe Malizia.
Non facciamo parte della scena Rap underground, ci escludiamo a priori, escluderei tanto più i Uochi Toki da qualsiasi etichettatura. Potremmo suggerire Kaos e Colle der Fomento, se si possono ancora considerare underground.

Fatevi un po’ di promozione. Un nuovo album dopo Bianco e Dal Cilindro, tanti  video e che altro in programma?
Un altro nuovo album, altri nuovi video e un nuovo sound, il tutto anticipato da un singolo rimasto nel cassetto con tanto di video ad illustrazioni.

A proposito, so che i tanti video non sono frutto del caso. C’è un filo conduttore che li lega. Spiegateci di che si tratta. E poi, come siete riusciti a far patrocinare i video di un rapper dal comune di Acqui Terme?
Abbiamo la fortuna di poter girare i video noi stessi avendo a disposizione il team bunker@work in casa. Il filo che li lega poi non è così spesso. In realtà sono legati gli uni agli altri da tante piccole scelte prese a priori: colore bianco e nero, location, personaggi del territorio, oggetti di scena e comparse dovevano ricorrere in più video. In più, invece che girare e montare ogni singolo video come al solito, prima li abbiamo girati tutti (ci son voluti 6 mesi) dopo di che siamo passati al montaggio.
Riguardo al patrocinio, beh, è bastato mostrare il nostro progetto e chiedere…

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto. Poi, se volete rispondetemi.
Vi ritenete più musicisti, cantautori, rapper o altro?
Risposta: ALTRO!

Ringraziamo Silvio Pizzica e tutta la redazione di Rockambula.

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No Love Lost

Written by Interviste

Come ci piace fare spesso, Rockambula è stato media partner dell’evento organizzato questo dicembre a Sulmona (AQ) denominato Soundwave Christmas Nights, festival dedicato alla musica originale indipendente. Pur non trattandosi espressamente di un contest, Rockambula ha voluto comunque istituire un piccolo premio che consiste in un mini pacchetto promozionale comprensivo di recensione e/o intervista più banner pubblicitario sul nostro sito per circa un mese. La band che abbiamo scelto in quanto protagonista con il progetto più interessante e originale anche solo in ottica potenziale è stata quella denominata No Love Lost. In questa intervista cerchiamo di capire meglio di che progetto si tratta, quale possa esserne il futuro e cercheremo anche di ragionare su alcune tematiche care sopprattutto alle scene di provincia.

Iniziamo da una domanda ovvia. Il vostro nome richiama alla mente la grande band capitanata da Ian Curtis e voi avete iniziato la vostra avventura proprio come cover band dei Joy Division. Aver fatto cover è più utile a scrivere e proporre pezzi propri o più un ostacolo dovuto al rischio “imitazione”?
Aver iniziato come cover band dei Joy Division ha sicuramente contribuito a creare amalgama e affiatamento nel gruppo. Il rischio imitazione volontaria non c’è mai stato perché in fase compositiva seguiamo le nostre idee e l’istinto del momento senza doverci preoccupare di imitare qualcuno o assomigliargli. Se ci sono delle affinità con altre band non sono volute e cercate ma sono solo frutto dei nostri ascolti e gusti giovanili. Quando abbiamo deciso di cominciare a proporre un nostro repertorio abbiamo iniziato come nuovi No Love Lost e non come costola della cover band che eravamo prima.

Perché avete scelto di iniziare con le cover e perché avete scelto di passare a proporre pezzi vostri? Suonate ancora brani dei Joy Division dal vivo?
Il gruppo inizialmente è nato come una sfida a proporre una band poco conosciuta ai più e comunque poco coverizzata. L’idea era di fare alcune esibizioni in pubblico e divertirci a suonare una musica che aveva sempre esercitato un certo fascino su di noi. Abbiamo deciso di cominciare a proporre brani nostri perché da sempre noi tutti abbiamo avuto un approccio compositivo alla musica, ci viene naturale. Ognuno di noi tre normalmente compone in proprio e a maggior ragione trovandoci tutte e tre insieme, idee vecchie e nuove si sono accumulate con una certa rapidità dandoci la possibilità di scegliere tra un materiale numericamente consistente ancora in fase di definizione e composizione. In eventuali serate dal vivo in cui avremo la possibilità di suonare per più di un’ora sicuramente riproporremo dei brani dei Joy Division.

La vostra formazione attuale non prevede batteria, o meglio batterista. Il suo ruolo è affidato all’elettronica. Quanto la batteria elettronica può essere un vantaggio (Albini ci ha costruito una carriera, passatemi il termine, con una certa Roland) e quanto un limite per la vostra proposta? E perché avete fatto questa scelta?
La batteria elettronica (ma le basi in generale) per noi e per il nostro sound è un vantaggio in quanto la nostra musica necessita di ritmi definiti e ben schematizzati; ci da la possibilità di far lavorare il basso in modalità non usuali (uso di ottave alte quando lavora in contemporanea con un basso synth) mantenendo una certa corposità del suono e avendo virtualmente una sorta di seconda chitarra. Inoltre la batteria elettronica permette al basso di esprimersi liberamente con riff definiti e di effetto e permette al cantante/tastierista di dedicarsi totalmente al canto. Attualmente non vediamo svantaggi nell’utilizzarla e non escludiamo neanche il ritorno di una batteria acustica in futuro quando e se necessario.

Vi ho ascoltato dal vivo durante l’esibizione a Sulmona (AQ) al Soundwave, un piccolo Festival di cui Rockambula è stato media partner (ndr I No Love Lost hanno vinto qui il premio Rockambula). Perché avete scelto di parteciparvi? È questa la strada migliore per la musica emergente? Cosa non vi è piaciuto?
Abbiamo scelto di partecipare al Soundwave Christmas Night per avere una vetrina e far sentire i nostri brani inediti a un vasto pubblico. Per i gruppi della scena Indie la via migliore per farsi conoscere è comunque soprattutto quella di partecipare a manifestazioni ad hoc come questa e ovviamente utilizzare la rete nei suoi numerosi canali e avere tanta voglia di mettersi in gioco credendo a quello che si fa. Più di quello che non ci è piaciuto, preferiremmo invece mettere in rilievo il fatto che questa manifestazione non era un concorso ma appunto una rassegna. È stata un’ottima idea in quanto nei concorsi è molto facile che a vincere sia la band raccomandata o che porta più pubblico; diverso è stato invece creare un premio per il progetto e l’idea espressa da una band come ha previsto il Soundwave con Rockambula.

Una cosa che, ad esempio, mi pare di aver notato è che, specie nelle piccole realtà cittadine, mancano vere e proprie scene e ognuno tenda a fare musica inseguendo, spesso scimmiottando, i propri idoli, senza alcuna voglia di sperimentare, osare, innovare. Uscire da questo tunnel credete sia possibile? Come?
Uscire dal tunnel delle imitazioni è possibile ma richiede apertura mentale, un discreto background culturale, creatività e voglia di mettersi in gioco. Il problema principale è che si tende, soprattutto nelle nostre realtà, a giudicare l’operato di un musicista solo ed esclusivamente dal punto di vista tecnico senza mettere in rilievo che la creatività costituisce un elemento fondamentale per chi fa musica.

Una delle soluzioni potrebbe essere una certa apertura (date, concerti, festival, contest) alle band, anche poco note, che vengano da fuori (vedi il Progetto Streetambula di cui siamo co/organizzatori). Ma il pubblico dei piccoli centri è pronto a questa sorta di “rivoluzione”? Sembra piuttosto disposto ad ascoltare solo i propri amici, di là dell’interesse ridotto verso la musica.
Finché i piccoli centri ragioneranno con la logica bigotta e culturalmente ristretta, non ci sarà alcuna rivoluzione. La rivoluzione va stimolata e secondo noi, molti in questa valle (Valle Peligna, provincia de L’Aquila ndr), a partire da chi organizza eventi musicali e si occupa di band emergenti come voi di Rockambula, stanno lavorando bene per creare un circolo virtuoso in tal senso.

nolove

Cambiamo discorso ma non troppo. Perché i musicisti vanno con tanta fatica ad ascoltare i colleghi?
Molti musicisti (non tutti), disertano le serate dei loro colleghi, semplicemente per mancanza di umiltà, attenzione, informazione e forse anche invidia. È una costante fra colleghi, Morrisey ci ha scritto anche una canzone.

Passiamo a voi. La vostra musica è fortemente influenzata dal Post Punk dei Joy Division. Quali altre influenze vi si possono ascoltare?
La nostra musica è influenzata da diversi artisti del passato e del presente. Sicuramente i Joy Division hanno avuto un’influenza importante ma non principale. Prima di loro vorremmo citare Gary Numan, Depeche Mode, New Order, Asylum Party, Pj Harvey e Massive Attack senza dimenticare le forti influenze Punk che arrivano dalla nostra chitarrista Francesca Orsini e in particolare in brani come “Closer”, “Torture” e “The Party’s Over” che speriamo avrete presto la possibilità di ascoltare su disco.

Che progetti avete per scoprire il vostro peculiare sound e renderlo più moderno?
Premesso che oggi parlare di suono vecchio e nuovo risulta un po’ difficile in ambito Indie, vista la varietà e le molteplici combinazioni sonore tra i vari decenni e tra i vari generi, stiamo valutando di “svecchiare” il suono cercando, in fase di registrazione, di applicare con astuzia quelle caratteristiche sonore che possono far risultare il prodotto più moderno e muovendoci all’interno di questo impianto sonoro per mantenere il nostro suono volutamente vintage.

Oltre al limite dovuto dall’ovvia somiglianza con i padri del genere, ho notato che, dal vivo, c’è ancora qualche imprecisione soprattutto in chiave vocale e andrebbe attuata anche una più attenta ricerca melodica. Come pensate di muovervi in tal senso? Credete di dover lavorare ancora anche sulle canzoni ormai già ascoltate live?
Per ciò che riguarda la voce stiamo lavorando continuamente per perfezionare quanto già ascoltato dal vivo. Sicuramente un paio di brani richiedono una maggiore attenzione melodica e rivisitazione da parte nostra, per molti pensiamo che la soluzione attuale sia soddisfacente ma sappiamo che un gruppo deve essere sempre alla ricerca di novità’ e aperto a rivedere le soluzioni già date per stabili se necessario e se rispondono a una reale esigenza dei compositori. Pertanto anche le versioni live che avete ascoltato sono suscettibili di qualche cambiamento in fase di registrazione.

Uno dei modi migliori per superare i propri limiti è distruggere quelli mentali che ci portano ad ascoltare sempre le stesse cose. Per questo credo che per tutti, e ancor più per i musicisti, sia importante ascoltare tanta musica, vecchia e nuova, e sempre molto diversa. Qual è il vostro modo di approcciare alle nuove sonorità, alle nuove band? Chi vi piace tra le nuove proposte italiane e straniere e consigliateci un paio di dischi di questo ormai andato 2013?
È essenziale uscire dagli schemi mentali acquisiti, pertanto ci poniamo sempre con grande interesse all’ascolto di quanto di nuovo viene proposto dal mercato discografico soprattutto indipendente. Del 2013 ci sono piaciuti il nuovo dei Soviet Soviet e degli Arcade Fire senza dimenticare The National ma anche in ambito Pop ci sono molte produzioni di valore.

Sul palco si nota una certa spensieratezza alle chitarre (basso incluso) mentre Fabrizio D’Azzena (voce) mantiene un’aria seriosa, tesa, quasi preoccupata e ansiosa. Studiate attentamente le vostre performance, anche per quanto riguarda l’immagine oppure suonate cosi, come viene?
Sinceramente abbiamo ancora forse poca attenzione per l’immagine globale del gruppo ma ciò’ deriva principalmente dal fatto che per ora non è la priorità e pensiamo che sia la nostra musica a dover trasmettere sensazioni emotive a chi ci ascolta. Indubbiamente il nostro cantante è tipo ansioso ma la sua espressione seriosa è risultato di forte concentrazione e passione.

Per ora non avete nessun album pronto. Tra le varie motivazioni che ci hanno spinto a dare a voi il premio Rockambula c’è: “una delle band di cui ascolteremmo molto volentieri il prossimo disco”.  Ce n’è uno in cantiere?
Attualmente stiamo per entrare in studio per registrare il nostro primo cd; vi diamo qualche anticipazione, si chiamerà Lust e sarà composto di otto o nove brani, sette li avete già ascoltati live e due che stiamo selezionando tra il corposo materiale a nostra a disposizione.

Vi faccio il nostro “in bocca al lupo”.

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La Linea del Pane

Written by Interviste

Partiamo subito con una domanda legata al vostro nome, La Linea del Pane. A cosa si riferisce? E qual è il vostro rapporto col cibo, in un periodo in cui proliferano associazioni, organizzazioni ed eventi legati al cibo sano, biologico, alla filiera corta e così via?
“La linea del pane” è una falsa traduzione dall’inglese breadline, termine che starebbe ad indicare (nei grafici demografici) la “soglia di povertà”, la linea ideale al di sotto della quale la popolazione è indigente. Figurativamente, venivano chiamate breadline le file di persone che attendevano il rancio o il sussidio, durante la grande depressione del ’29. La scelta del nome è stata del tutto casuale, è preso a prestito dal titolo di una poesia, non è legata in alcun modo all’etica del biologico, per intenderci.

I vostri testi sono impegnati e colti, in un modo che sembra più guardare ai primi Marlene Kuntz e a un certo cantautorato anarchico, che non ai più recenti Ministri, Teatro degli Orrori e compagnia. Non è usuale trovare al giorno d’oggi una band che non sia incazzata per la situazione sociopolitica e non manchi di farne la questione centrale dei propri brani. Discostarsi da questo filone è una scelta naturale o anche un modo per distinguersi da una corrente Alternative che ha già i suoi portavoce?
Essere incazzati per la “situazione socio-politica” impegnando la medesima evanescente isteria di quando si è imbottigliati nel traffico è assai facile. E assai futile, anche. Quando il traffico si dipana si torna sempre tranquilli e mediocri. E sono i mediocri appunto che percorrono sempre la stessa strada e finiscono, inesorabilmente, imbottigliati nel traffico. Non so se ho reso l’idea… Ad ogni modo gli encomiabili gruppi che citavi non sono naturalmente nostri capostipiti, quindi in realtà non ci sforziamo troppo di distinguerci da loro dal momento che non ne sentiamo la vicinanza. A dire il vero, nella nostra pur breve vita di band abbiamo ricevuto riscontri molto disparati, e riferimenti a mondi anche totalmente divergenti tra loro. La cosa non è limpida, probabilmente cercare analogie con altri gruppi non è il modo migliore di ascoltare il nostro disco, dal momento che la cosa pare sia molto arbitraria.

Nel recensirvi, ho sottolineato quanto spesso la componente letteraria sia fin troppo aulica, tanto da rischiare di diventare ostica e oscura. Qual è il messaggio principale che un ascoltatore medio dovrebbe cogliere da una vostra canzone?
Beh, diciamo che chi scrive canzoni per dare un “messaggio” fraintende un tantino il mezzo. Forse è per questo che pullulano gli intrattenitori e scarseggiano gli artisti. A parte questo discorso, che richiederebbe più tempo, i nostri testi non si può dire siano immediati. Ma non si può dire nemmeno che siano “aulici”, che letteralmente significa “di corte”, ovvero il linguaggio che si converrebbe in presenza del mecenate. È evidente che non sia il nostro caso. Sono il contrario di aulici, forse peccano di “enigmismo”, ma la maggior parte degli interrogativi possono dissiparsi al secondo o al terzo ascolto. Nulla è lasciato al caso, su questo possiamo garantire; certo è che non ha senso ascoltare “Utopia di un’Autopsia” una sola volta. Comunque, qualora un autore o un poeta volessero scrivere un testo o una lirica lasciando tutto al caso lo potrebbero fare, senza essere perseguibili. Lo fanno in molti senza essere scrittori, né poeti… L’importante è essere chiari, non essere espliciti. Forse la poesia in genere non si capisce subito, ma non per questo è equivocabile.

Musicalmente si sentono radici intellettuali anche nei vostri arrangiamenti. Qual è l’iter con cui nasce un vostro brano?
L’iter per questo disco è stato molto semplice, partivamo dal brano chitarra e voce e lo arrangiavamo insieme. Ognuno di noi tre ha un trascorso musicale diverso dagli altri due, ma bene o male un punto di equilibrio l’abbiamo raggiunto.

Qb Music ha preso a cuore l’edizione del vostro primo disco, Utopia di un’Autopsia. Com’è nato il rapporto con l’etichetta? Come avete lavorato per la realizzazione dell’album?
Il nostro rapporto con QB Music è nato dall’amicizia con Roberto Rizzi, che abbiamo conosciuto ad una serata in cui condividevamo il palco con i suoi Guarentigia, ormai un paio di anni fa. Ai ragazzi di QB dobbiamo anzitutto l’apprezzamento incondizionato che hanno avuto sin dal principio per le nostre canzoni. Di questo gli siamo grati e a questo dobbiamo la nostra decisione di lanciarci nella registrazione di un disco, che in quel momento non era nei nostri piani immediati.

Il panorama musicale nostrano è particolarmente puntellato di piccoli gruppi promettenti che spesso non vengono presi sufficientemente in considerazione né dalle produzioni, né dai media. Come ovviate a questa situazione? C’è qualche collega che è stato immeritatamente meno fortunato di voi?
Ce ne sono parecchi, abbastanza da mettere in discussione l’attendibilità degli addetti ai lavori. Per quanto ci riguarda, nel nostro piccolo, non ci interessiamo della cosa. Per vivere facciamo altro, io ad esempio faccio il magazziniere.

Tra i vari espedienti per la promozione, oltre ai soliti social network, voi avete utilizzato dei brevi video che riprendevano i lavori in corso, il backstage della preparazione del disco. Fidelizzare il pubblico è sicuramente fondamentale, è stato utile anche per rintracciare nuovi fan? La componente visiva è ancora così importante nel lancio di un prodotto fondamentalmente sonoro?
La componente visiva è importante mediamente per le persone, non per la musica. È così a prescindere da ciò che ne pensiamo noi, dunque è anche inutile parlarne. Su di noi possiamo dire che non è stata una nostra scelta precisa; abbiamo attorno a noi amici molto bravi in quel campo, sono stati loro a proporci la cosa e noi abbiamo acconsentito volentieri.

L’altra grande risorsa che una band ha per farsi conoscere è il live. Qual è la vostra esperienza in merito alla possibilità di esibirsi in locali e festival nostrani? Si sente spesso parlare di quanto sia difficile trovare date in situazioni che siano realmente efficaci per il lancio di un prodotto artistico o della possibilità di esibirsi senza essere meritatamente rimborsati…
Prima di registrare il disco abbiamo suonato per un anno nei luoghi più vari, noti e meno noti. I soldi non ci sono, è evidente, ma non ci sono da nessuna parte. In linea generale, suonando in acustico nei posti piccoli si guadagna di più e si “fidelizza” di più, anche se con poche persone alla volta.

La domanda è standard ma doverosa: quali saranno le vostre prossime mosse?
Da febbraio torneremo a suonare in giro. Inoltre stiamo girando un videoclip non tradizionale, in realtà è più un cortometraggio cinematografico, realizzato da alcuni ex-studenti della Scuola Civica di Milano. Crediamo sarà un bellissimo lavoro e speriamo che lo vedano in tanti, naturalmente.

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Deathless Legacy

Written by Interviste

Horror ed Heavy Metal, questo il connubio che portano avanti i Deathless Legacy un gruppo con alle spalle un vagone di date  live ma da poco alle prese con un disco d’esordio intitolato Rise from the Grave. A parlarci del gruppo c’è la carismatica frontwoman della band Eleonora “Steva” Vaiana, nota non solo per le sue qualità canore ma anche per la teatralità. Non resta che gustarsi quest’intervista.

Ciao Steva e benvenuta su Rockambula. Tanto per cominciare perché non presenti i Deathless Legacy al nostro pubblico?
Ciao Vincenzo, grazie mille per questa opportunità che ci hai dato. I Deathless Legacy sono una band Horror Metal, attiva dal 2006 come tribute band dei Death SS prima, che man mano è andata a crearsi il proprio mondo e ha lavorato per dar vita al primo disco di inediti: Rise from the Grave.
Fin dagli esordi abbiamo sempre puntato molto oltre che sulla componente musicale, su quella scenica, entrambe improntate su tematiche horror, gore e splatter: la teatralità, nei nostri spettacoli, va così a fondersi con le cupe atmosfere evocate dalla nostra musica, e il tutto è arricchito dalle splendide performance di un membro fondamentale della nostra band, la Red Witch.

A breve uscirà il vostro primo full lenght, Rise from the Grave, a cosa vi siete inspirati per comporlo e quali tematiche toccate nel disco?
Ci siamo ispirati ai nostri demoni interiori, a quegli elementi nati dalla repressione del proprio sé quotidiana, ai mostri che amiamo tanto dei film horror. Le tematiche affrontate dal disco sono una sorta di traduzione della comunicazione tra le nostre menti e le nostre coscienze e ci auguriamo che abbiano lo stesso valore per tutti coloro che lo ascolteranno: le paure vanno affrontate, la disposizione dei brani nel disco è una sorta di cammino iniziatico, che porterà a un salto nel vuoto della conoscenza di sé e del proprio universo interiore. Il nostro album dovrebbe essere una specie di esorcismo di tutto ciò che temiamo perché ignoto, compresa la propria interiorità, solo che anziché usare formule in latino e croci, abbiamo scelto di optare per un Heavy Metal denso e circondato di lapidi.

Il disco è stato registrato e mixato negli Inner Enclave Studios; che tipo  di lavoro avete svolto, come sono andate avanti le diverse fasi di lavorazione del platter?
Le registrazioni sono state precedute da una serie di pre-produzioni che ci sono state molto utili per capire e formare il nostro sound: alcuni dei pezzi presenti in tracklist risalgono a qualche anno fa, ma per tutti i cambi di line-up che ci sono stati all’interno del nostro piccolo mondo, siamo stati costretti a rimandare le registrazioni dell’album fino al 2012. Con l’entrata nella band del nostro Cal’aver, ci siamo messi a lavoro per creare il nostro piccolo mostro musicale e agli inizi del 2013 abbiamo concluso i lavori di registrazione.

Ho notato che vi siete dati da fare anche per la promozione attraverso video promo e foto. Anche qui come vi siete mossi?
Anche la promozione attraverso video promo e foto è un’estensione della nostra teatralità: cerchiamo di fare tutto il possibile, con le nostre disponibilità e forze, rendendo omaggio in qualche modo al mondo dell’horror non solo musicalmente, ma anche visibilmente e con tutti i media possibili! Per promuovere i nostri live abbiamo proposto più di una volta veri e propri cortometraggi, principalmente perché ci divertiamo a girarli!

Chiaramente i Deathless Legacy non campano di musica, cosa fate oltre che i musicisti, come sopravvivete?
Siamo non morti, quindi mangiamo poco e ci muoviamo il giusto, altrimenti perderemmo pezzi per strada! Quando le giornate sono buone e non sentiamo il peso di tutti questi anni da non-vivi, io, la Red Witch ed El Cal’aver siamo studenti universitari, gli altri si sono infiltrati alla perfezione nel mondo del lavoro e svolgono mansioni da vivi per i vivi!

Mi ha incuriosito l’entrata nel gruppo di The Red Witch, la vostra dancer e performer. Come è nata l’idea e la collaborazione?
I nostri spettacoli sono fatti al 50 % di musica e al 50% di scena: lo show che offriamo presenta una componente teatrale di spessore, nel senso che da sempre ci muoviamo per far sì che i nostri spettatori possano trovarsi immersi a 360° in quello che stiamo facendo e in quello che vorremmo trasmettere. La nostra Red Witch non è solo la nostra performer, ma è un membro pilastro nella band: partecipa regolarmente alle prove settimanali, durante le quali prendiamo decisioni che interessano le nostre sorti e quelle degli show imminenti. È la nostra  sorella non-morta, senza la quale i Deathless Legacy non potrebbero essere quello che sono oggi e non potrebbero lavorare a quello che vorrebbero essere domani.

I Deathless Legacy hanno  alle spalle una sfilza d’interessanti concerti, uno di questi  mi ha incuriosito molto ovvero quello con Steve Sylvester, Halloween 2011. Che effetto vi ha fatto esibirvi con lui?
In occasione di Halloween 2011 ci siamo esibiti al Jump Rock Club di Montelupo (FI), dove in seguito al nostro live, Steve Sylvester avrebbe tenuto un dj set. Posso solamente dire che vedere il vampiro salire sul palco dopo “Vampire” e il battesimo di sangue che proponevamo e proponiamo tutt’ora su “Bow to the Porcelain Altar”, come performance, è una cosa che non dimenticherò mai.

Come è stato accolto Rise from the Grave dal pubblico e come dalla critica?
Ancora è abbastanza presto per poterlo dire, dato che l’uscita ufficiale è prevista per il prossimo 3 gennaio 2014. Possiamo per ora sperare per il meglio, dato che abbiamo avuto pareri molto positivi da parte di personaggi di un certo spessore nel panorama musicale del metal, e riscontri eccellenti anche oltreoceano!

Adesso una piccola curiosità: a quale festival ti piacerebbe suonare con il tuo gruppo e affianco a quale band di prestigio?
Parlando a nome di tutti, senza dubbio sarebbe un vero piacere poter aprire ai Death SS, i nostri padri spirituali e musicali che ci hanno sempre ispirato durante il nostro cammino. Anzi, se non fosse stato per loro, probabilmente i Deathless Legacy non sarebbero esistiti!
Magari una bella data con Death SS, King Diamond e Ghost sarebbe un bel traguardo, ecco!
Come festival, l’Interiora Horror Festival si è rivelata una splendida esperienza che ci ha dato modo di conoscere il calore e il pit che solo a Roma ci hanno saputo regalare: ci piacerebbe sicuramente poter replicare una delle esperienze più belle che abbiamo potuto vivere!

Bene Steva l’intervista si chiude qui concludi come meglio ti pare…
Ti ringrazio di nuovo per la bella intervista, è stato un vero piacere per me! Che dire, che l’orrore sia con tutti voi e preparatevi: i non-morti stanno uscendo dalle loro tombe e vi porteranno incubi, vermi e putrefazione!

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Virginiana Miller

Written by Interviste

Lo scorso 17 settembre è uscito per Ala Bianca/Warner il sesto album in studio dei livornesi Virginiana Miller, Venga il Regno. La band ha un curriculum di tutto rispetto: dal 1990 ad oggi hanno ricevuto premi e riconoscimenti, lavorato con personaggi illustri del panorama musicale nostrano come Vittorio Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso, Giorgio Canali, Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi dei Baustelle, sperimentato nuove collaborazioni come nel caso della sonorizzazione dei reading letterari dello scrittore Giampaolo Simi e, in ultimo, hanno curato la realizzazione del brano “Tutti i Santi Giorni” per l’omonimo film di Paolo Virzì, che è valso alla band il David di Donatello per la Migliore Canzone Originale. I Virginiana Miller sono al momento impegnati, per la presentazione del disco, nel tour che questa sera farà tappa a Milano, al Biko, con i bresciani Claudia is on the Sofa. Ho avuto piacere di parlare con Daniele Catalucci, bassista dei Virginiana Miller, per scoprire un po’ meglio cosa sia Venga il Regno e in quale direzione stiano andando.

Partiamo subito con una domanda un po’ stronza. In più di vent’anni di carriera avrete avuto modo di conoscere e incontrare parecchi gruppi nostrani. Qual è la band che avrebbe meritato più attenzione da parte del pubblico e della critica, ma non è riuscita ad emergere e quale quella che ha invece avuto un successo secondo voi immeritato?
Abbiamo sicuramente parlato un milione di volte tra noi di band che avrebbero potuto raggiungere risultati più alti ma per un motivo o per l’altro non ci sono riuscite.. Fammi pensare.. Credo che fra tutti i Northpole siano quelli che avrebbero meritato un po’ di più e credo che gli altri della band sarebbero d’accordo con me. Per quanto riguarda una formazione sopravvalutata, do un parere personale: mi sono sempre domandato come mai gli Afterhours sono diventati un caso così eclatante. C’è sicuramente qualcosa di interessante in loro, ma, lo dico con tutta la bontà possibile, mi chiedo se avrebbero avuto lo stesso successo se fossero arrivati da un’altra realtà, anche geografica, o se invece non sarebbe stato molto diverso.

Veniamo al disco. Venga il Regno è una profetica annunciazione o una rassegnazione a uno stato di cose? E questo regno com’è?
Questo è un terreno in cui Simone (Lenzi, frontman e autore dei testi della band, ndr) saprebbe rispondere meglio. Posso dirti a cosa corrisponde secondo me questo regno sul piano musicale, perché abbiamo avuto molto tempo dall’album precedente per occuparci di questo, anche perché Simone era impegnato in altro. Quando ci siamo rincontrati siamo andati dritti al punto, facendo emergere tutta la conoscenza che abbiamo tra noi da anni ed evitando tutte le fasi centrali che di solito ci caratterizzavano. Sai: quelle in cui tendono ad emergere le personalità individuali e che portano anche a scontri e scambi di opinioni. Per Venga il Regno, invece, in venti giorni i brani erano pronti, passati da embrione a canzoni fatte e finite, con una struttura musicale, gli arrangiamenti e il testo. Simone parla di regno intendendo una Apocalisse che è già in atto, un cambiamento, una rinascita. Contestualizzato in ciò che stiamo vivendo tra noi, mi è sembrato calzante: da una fase di stallo a questa nuova creazione.

Com’è stato lavorare con Ale Bavo e Ivan Rossi per la realizzazione di Venga il Regno?
Il loro apporto è il 60% del disco. Ci tengo davvero a sottolineare l’importanza dei loro ruoli, perché sono stati eccezionali. Sono due che hanno capito esattamente dove volevamo andare noi e ci hanno aiutato a tirarlo fuori e, pur essendo oltretutto anche molto diversi tra loro, perché per certe cose sono uno l’opposto dell’altro, hanno messo nel disco cose che continuano a piacermi nonostante lo ascolti praticamente sempre da sei mesi.

Repubblica ha definito Venga il Regno il disco più militante della vostra carriera. La definizione vi piace? E se sì, quali sono i principi della vostra militanza?
È vero. Perché senza rendercene conto e senza aver stabilito delle guide, tra i testi e la musica l’ambientazione politica è più netta rispetto ad altri album e altri brani. Anche l’arrangiamento è più efficace, più giovanile forse, e questo aspetto gli ha dato una certa ruvidità, che ha aiutato ad affrontare tematiche anni 70 in una chiave musicale che anni 70 non è.

La collaborazione con Paolo Virzì ha portato grandi risultati. Qual è il vostro rapporto con il cinema? Cioè: quanta narrazione cinematografica c’è nella costruzione dei pezzi?
La figura di Paolo è stata uno stimolo perché è una celebrità con cui alla fine siamo stati sempre in contatto ed esserci ritrovati a collaborare e soprattutto a soddisfare una sua richiesta è stata una bella soddisfazione. Ha avuto una grande importanza non tanto sul piano musicale puro, quanto perché è stata l’occasione per concentrarci su un aspetto compositivo che abbiamo innato ma che non sempre sfruttiamo consapevolmente. Noi lavoriamo tanto sui timbri e sulle sonorità e ci capita spesso, senza ancora avere un testo, di sentire un nostro brano e dire “Questo è molto cinematografico”. Ci è sembrato quindi di essere calzanti per il compito. E credo anche che l’esperienza abbia cambiato qualcosa anche nel modo di scrivere di Simone, che è sempre stato una bella penna, tanto che lo chiamiamo “Il pavone”, ma che si è semplificato senza rendersi banale: questo l’ha resto più arrivabile anche da parte di un pubblico più ampio. Va subito dritto al punto, non come in brani dei dischi vecchi che a volte mi ricapita di ascoltare e penso “Ammazza quanto è ostico”, tanto nel testo quanto nella musica. Ormai, senza falsa modestia, credo abbiamo raggiunto una certa maturazione.

Spotify, Musicraiser, i Social Network.. Qual è il vostro rapporto con i nuovi media per la promozione?
Non sono un esperto, ma ho capito come funziona Musicraiser e ho visto esempi pratici di persone che lo sfruttano per avere una visibilità che non hanno e di persone che lo impiegano per avere una visibilità che avevano un tempo ma che non hanno più. Questi ultimi mi fanno abbastanza tenerezza, perché se, per esempio, sei stato famoso ma devi organizzare una raccolta fondi per partire con un tour, forse avresti prima dovuto chiederti se quel tour interessa davvero. Altrimenti è come scrivere una letterina a Babbo Natale con la lista dei regali. Per gli artisti emergenti, invece, credo sia una buona cosa, una possibilità in più. I Social Network sono un passatempo e un bel mezzo di pubblicità. Se penso a com’era la situazione quindici anni fa, quando la band aveva a disposizione il suo solo sito internet e raggiungeva solo un pubblico limitato, oggi c’è molto più contatto diretto con le persone. Chi è in grado di utilizzare questi mezzi ne ha senza dubbio un bel rientro in termini di visibilità. Alla fine è un’abilità anche questa.

Stasera suonerete a Milano. Dopo tanti anni di carriera com’è il rapporto coi vostri fan? Cosa si aspettano da voi e voi da loro? Qualcosa è cambiato?
Nel live siamo cambiati sicuramente più noi che il pubblico. Nel 2000, quando sono entrato nella band, avevamo un atteggiamento che definirei più spirituale, silenzioso e concentrato e, forse, sul piano sonoro sentivo un po’ meno energia. Ma con il tour promozionale di Fuochi Fatui d’Artificio le cose sono cambiate. Nel disco usavamo una drum machine, quindi ci siamo sforzati nel live di creare quell’energia che nel disco c’era ed era contenuta nell’artificio. Negli ultimi dieci anni direi che siamo diventati più energici. Forse il pubblico si aspettava questa cosa da sempre al di là del fatto che venga a vedere un nostro concerto perché è già un fan e già ci conosce.

Per la presentazione del disco sono previsti anche set acustici. Si tratta di una necessità dettata dalla mancanza di location adatte all’elettrico o anche di una scelta stilistica?
Un po’ entrambe le cose. Vai in posti dove non è possibile suonare tutti insieme o in elettrico. Non sarebbe neanche bello. La dimensione della band tutta insieme è il palco. Nelle presentazioni in libreria, per esempio, ti adatti, e diventa un modo per sperimentare anche altro, presentare i brani nudi e lasciare anche la curiosità di venire a sentire un nostro concerto per scoprire come sono realmente.

Rockambula sta preparando la tradizionale classifica di fine anno. Ci saluteresti con la tua personale classifica?
Sarò sincero, durante quest’anno ho passato sei mesi in studio e mi sono davvero concentrato poco sulle nuove uscite, anche internazionali. Randon Access Memory dei Daft Punk, però mi ha colpito e sicuramente e ampiamente “Get Lucky” è miglior singolo dell’anno. Mi ha anche molto colpito Black City di Matthew Dear, un disco tutto fatto di sola voce elettronica e basso. L’ho scoperto quest’anno ma è più vecchio. Molto particolare, comunque, una bella novità per me.

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