Interviste

Borderline

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Ecco finalmente l’intervista con i vincitori dell’ultima edizione del nostro concorso, AltrocheSanRemo, realizzata da Silvio “Don” Pizzica. Buona lettura:

Ciao a tutti voi. Come state?
Ciao Rockambula, piacere. Noi stiamo bene, un po’ assonnati, ma con tanto lavoro da fare,  tra le riprese del video e le rifiniture dell’album. Insomma, siamo sul pezzo.

Iniziamo con le presentazioni. Chi sono i Borderline? Cosa significa Borderline oltre la traduzione letterale?
Siamo 4 ragazzi alla continua ricerca di noi stessi, Borderline è per noi un viaggio,una guerra e una contraddizione. Un viaggio all’interno di tutte le possibili sensazioni umane, le mille diverse sfaccettature dell’io, e la contraddizione che emerge tra esse. I nostri testi sono pieni di contrasti e a volte controsensi. Noi stiamo sulla “linea di confine”, queste emozioni le viviamo, le osserviamo, e le raccontiamo in musica.

Parlateci del bellissimo singolo Multicolor, il brano che ha vinto AltrocheSanRemo Volume3. Come è nato e cosa ha di speciale? Perché proprio quel brano ha battuto gli altri nove pezzi in concorso?
Perché è quello che è piaciuto di più, semplice! (ride, ndr) è stato un singolo azzeccato che comincia a dare i suoi frutti, ma la promozione vera e propria inizierà con l’uscita del video.

La vostra è musica di chiara ispirazione Brit Pop (ovviamente fino all’uscita dell’album i punti di riferimento sono questi, anche se pochi) anni novanta. È veramente questo che amate, volevate sempre suonare, avete ascoltato e ascoltate ancora?
Noi esprimiamo ciò che siamo. Io sono cresciuto, mi sono avvicinato alla musica grazie al sound d’Oltremanica, e ovviamente questo si riflette nell’idea di musica che abbiamo. Ma ripeto, ora i nostri suoni sono questi perché noi siamo questi. Se poi un giorno dovessimo fare Reggae, sarete i primi a saperlo, ma ne dubito fortemente (ride,ndr)

Perché avete scelto di guardare al passato e prendere una strada sicura ma affollata invece che provare ad aprire nuovi varchi, nel mondo del Rock, anche a rischio di perdervi?
Non esistono strade passate e strade nuove. Esiste la buona musica, e quella meno buona. Noi siamo convinti di ciò che scriviamo e se ci sono evidenti influenze di alcune band, queste vengono rielaborate e riprodotte secondo quello che è il nostro gusto. Siamo riconducibili a un movimento, al Brit Pop, ma non somigliamo a nessuno in particolare. Poi è ovvio, ascoltiamo un certo tipo di musica e questo ci influenza. Se trovi una band che ti dice che non si ispira a nessuno, sappi che ti sta dicendo il falso.

Raccontateci qualcosa del vostro primo disco di prossima uscita. Partiamo dal titolo; e poi, che novità dobbiamo aspettarci?
Il titolo è una carta che ci giocheremo solo alla fine, poco prima dell’uscita. I brani saranno vari, sono diversi tra loro e diversi da Multicolor. La matrice è la stessa, ma ci sarà spazio per molteplici sensazioni: dalla malinconia alla rabbia, dalla gioia alla voglia di urlare e ballare come se non ci fosse un domani.

Se mettete tanto di voi, una parte intima e preziosa, nella musica e cercate di fare soldi cosa distingue una puttana, un poeta e una band come la vostra?
La puttana di intimo e prezioso non ci mette proprio nulla, se non quello che tutti sappiamo. Il poeta ci mette l’anima ma poi va a puttane, solitamente. Una band come la nostra ci mette corpo, parole e anima: e sul palco, a contatto con la gente, è il momento in cui avviene l’estasi, il punto più alto, l’orgasmo definitivo. E gli orgasmi che ti regala una rock band sono più duraturi e soddisfacenti di quelli che ti può regalare una puttana.

La scena indipendente è un oceano di band non sempre di valore considerevole. Difficile emergere e complicato, per il pubblico, scegliere tra i Borderline, gli Albedo, I Milf o una qualunque delle tante formazioni che “ci provano”. Perché un ascoltatore, un nostro lettore, dovrebbe dare fiducia e il suo tempo a voi, prima che agli altri, non potendo darli a tutti?
E’ difficile e complicato anche scegliere chi ascoltare, oltre che emergere. Un ascoltatore medio oggi è bombardato da mille input e quelli predominanti soprattutto in Italia sono ancora quelli di una certa musica, trita e ritrita (questa si veramente vecchia) dei soliti quattro anzianotti che a malapena si reggono in piedi. Chi ha voglia di andare a gironzolare per i mille volti della musica indipendente può trovare alcune sfiziose scoperte. A noi piacerebbe essere una di queste, per iniziare.

Vi capita mai di dare uno sguardo alle classifiche estere, soprattutto anglofone? Oltre a inglesi di lingua, potete trovarci francesi, islandesi quando non insospettabili extraeuropei. Mai italiani. Se (sottolineo se) la qualità del nostro Rock, come dicono alcuni, è oggi alta, perché all’estero continuano a snobbarci? Il problema è in fase compositiva, promozionale o cosa?
Non credo sia in fase compositiva,ma di sistema: il problema è più che altro che all’estero propongono solo  gente come Nek o Ramazzotti tra gli italiani. Che per l’amore di Dio, funzionano bene, ma ci sono tante band che se le riesci a promuovere in Inghilterra o nel Resto d’Europa spaccherebbero non poco.

In quest’ottica, voi cantate in inglese ma mirate al pubblico italiano suppongo. Gli stessi Zen Circus hanno dovuto fare un passo indietro, per avvicinare il pubblico di casa nostra ed evitare di restare senza fan sia dentro sia fuori confine. Perché tante formazioni come voi continuano a cantare in inglese? Quale gruppo italiano che ha sfondato in Italia cantando in inglese è il vostro punto di riferimento, se lo avete?
Noi cantiamo in inglese perché non potrebbe essere diversamente. La nostra musica è fatta per essere cantata in inglese, i testi li pensiamo già cosi, la lingua italiana non avrebbe la stessa efficacia. Non è giusto continuare a chiedersi perché non si canta in italiano, siamo nel 2013 ormai. E’ un concetto da superare, non si deve per forza cantare in italiano. Essendo friulani, potevamo anche cantare in dialetto friulano. Ma non si addiceva molto al sound (ride, ndr)

Tornando alla difficoltà di emergere di una piccola band, ho notato che, quelli che ce la fanno, spesso (oggi più che ieri) ci riescono grazie a gesti che poco hanno a che fare con la musica (vedi 1° maggio) o grazie a pezzi di medio-bassa qualità ma immediati (qui torna in gioco la lingua madre) e di grande impatto (vedi Stato Sociale, I Cani, ecc…) sulla massa (che con la musica intesa come arte ha poco a che vedere). Voi cosa sareste disposti a fare, a cosa rinuncereste e a cosa non rinuncereste mai per una fetta di quel famoso “successo”? Siate sinceri…
Sulla prima parte della tua analisi, non posso che darti pienamente ragione. E’ cosi e basta, e qui ci si ricollega al discorso di prima. Noi ovviamente il successo lo desideriamo, come ogni artista (non credere a quelli che ti dicono che non gliene frega niente) e siamo disposti a tutto per averlo, ma con la nostra musica, le nostre faccione, e la nostra immensa fame. Nient’altro, quello che sarà, sarà.

Per un attimo non parliamo di voi. Come sempre, provo a farmi dare un nome. Quale è la band o l’artista Indie italiano più sopravvalutato in circolazione?
Ho letto che fate spesso questa domanda, e fate fatica ad avere una risposta, ma non ascoltiamo molto indie italiano, sinceramente. Comunque non esistono band sopravvalutate. Sono le band stesse che tendono a sopravvalutarsi a volte. E risultano fastidiose. Come ad esempio noi, che a volte ci diamo fastidio da soli.

Siamo in chiusura. Cosa hanno in programma i Borderline per l’immediato futuro? Album, live, diteci tutto!
Adesso stiamo seguendo i mixaggi per l’album, e ci staremo dietro un po’, perché tendiamo ad essere abbastanza esigenti. Poi sarà da decidere la data migliore per l’uscita. E’ il nostro primo album, vogliamo giocarcelo bene. Per quanto riguarda i live, ci aspetta un’estate abbastanza ricca di concerti, un po’ sparsi nel Nord Italia, anche se partiremo dal Friuli, la nostra terra madre. In autunno poi comincerà la promozione dell’album e li si girerà ancora un pochino di più. E noi, che amiamo visceralmente la dimensione live, non vediamo l’ora di fare ballare il numero più alto di “giovanotti da club” (e non solo) possibile.

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Se ci viene mai da starnutire mentre suoniamo. Ci pensavamo ieri e credo non sia mai capitato, non che io ricordi almeno. Ma gli altri della band la pensano diversamente. Abbiamo litigato di brutto su questo, ma ora è passata.

Abbiamo provato a conoscere meglio i Borderline, la band che ha trionfato ad AltrocheSanRemo Volume4. Aspettiamo con ansia l’uscita imminente del loro primo full lenght ma intanto gustiamoci ancora una volta il primo irresistibile singolo, Multicolor. Se tutti i brani saranno a questo livello si conquisteranno una bella fetta di pubblico. Voi che ne dite?

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I Am The Distance

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Giunti sesti al nostro concorso AltrocheSanRemo Volume3, il trio di polistrumentisti lombardo ha comunque mostrato tante qualità e grande carattere. Abbiamo quindi deciso di intervistare gli I Am The Distance (facebook ufficiale) e, come potrete leggere voi stessi, la scelta è stata indovinata. Risposte mai banali e soprattutto parole che andrebbero fatte leggere a ogni giovane che si appresti a iniziare a suonare in una band.

Ciao. Per prima cosa, come state?
Ciao a voi di Rockambula! Al momento non ci possiamo lamentare…

Chi siete musicalmente, come band e come singoli? Perché questo nome?
Ci piace pensare di essere, presi singolarmente, musicisti completi; ognuno di noi ha alle spalle una formazione specifica su un determinato strumento, e successivamente ne ha imbracciati altri, coltivando in parallelo l’attività del canto. Inoltre, prima di incrociare le nostre strade, abbiamo sempre scritto e prodotto “artigianalmente” vario materiale come solisti, ciascuno con un diverso moniker (per Fabio, Split the void, in seguito titolo di uno dei nostri primi brani condivisi; per Jacopo, Someone; per Alessio, An Orchard Next to the Highway). Gli I Am The Distance, visti globalmente, non sono però un mero collage di tre individualità; sono anzi un’entità unica, collaborativa e multiforme, che cerca l’armonia e la coesione prima di tutto. Quanto al nome, è di base una suggestione, tanto fulminea quanto (crediamo) profonda, in cui ci siamo identificati; cercavamo qualcosa che riassumesse la nostra musica, e questo ci ha soddisfatti subito: “Io sono la Distanza”, e cioè la distanza dalle cose, dalle persone, dagli eventi che hanno finito per prosciugarmi; “Io” come essere umano non sono più l’altro capo di una relazione o di un legame, ma divento il vuoto stesso tra le due estremità.

Siete una band particolarmente giovane, con un solo full lenght alle spalle eppure avete già firmato per un’etichetta, seppur piccola. È veramente cosi utile avere un’etichetta alle spalle per una band come voi invece che puntare sull’autoproduzione? Non sarebbe più utile un ufficio stampa con “le palle”?
Il primo EP omonimo, in effetti, era completamente autoprodotto, mentre con Solace abbiamo deciso di guardare a ciò che facciamo sotto una lente più professionale. Il lavoro che la nostra etichetta, After Life Music Dimension, compie per noi e con noi ci è sembrato utile e proficuo: da una parte, la co-produzione ci aiuta a dare la giusta resa alle canzoni in fase di studio, senza però prese di posizione invadenti; dall’altra, ci ha aperto gli occhi sulle possibilità della vendita digitale. Finora, questa partnership si è rivelata essere in pieno spirito “indie” e anche economicamente vantaggiosa per noi; inoltre, cosa non meno importante, ci ha consentito di entrare a far parte di un ambiente giovanile, caloroso, pieno di ottimi musicisti, e di trovare qualche data in più. Uffici stampa e agenzie sono indubbiamente una buona soluzione, ma per adesso non ne sentiamo la necessità.

Domanda banale. Sono convinto però di ricevere una risposta originale. Perché cantate in inglese? Se ci pensate, il pubblico tricolore sembra appassionarsi più alle formazioni che parlano in lingua madre, al di là della qualità musicale della loro proposta.
La motivazione è comunque banale: non siamo mai o quasi mai riusciti a scrivere in italiano, neanche volendo; di contro, abbiamo sempre e solo scritto in inglese, e raramente traducendo una traccia pensata in anticipo in italiano. La nostra lingua non ci sembra in verità adatta alla (nostra) musica, prolissa e abbondante com’è per sua natura: è senza dubbio ottima per la prosa o la poesia letteraria, ma troppo instabile e barocca per la canzone – specie se di oggi; l’inglese è invece funzionale, sintetico, sufficientemente “tagliente” da trasmettere un messaggio nella maniera più diretta possibile, soprattutto nei pochi versi a disposizione in una forma-canzone come la nostra. Dal punto di vista dell’agilità, è la lingua più bella del mondo, assolutamente. Da parte nostra, come autori di testi, cantare in una lingua straniera non vuole affatto essere un’ostentazione di originalità o esterofilia pura, e neanche un tentativo di darci un tono da rockstar britanniche o americane (visto che qualcuno l’ha anche insinuato ascoltandoci); quel che vediamo nell’inglese è, piuttosto, un grande patrimonio lessicale, espressivo e di conseguenza artistico.

Nel descrivere la vostra musica parlate di tradizione acustica, cantautorato, Alt rock britannico e addirittura scandinavo, Folk, Country e Grunge. Ci si aspetterebbe un miscuglio e un complicato intreccio ma in realtà la proposta è estremamente lineare e facilmente godibile. È esagerata la descrizione o quelle influenze riguardano i singoli membri che poi, in fase di composizione, riescono a lavorare come un’entità unica?
La seconda che hai detto. Le nostre singole influenze sono molto differenti fra loro,  e solo dopo aver iniziato a scrivere insieme abbiamo finito per “contagiarci” a vicenda. Fabio proviene dal metal, nelle sue tante sfaccettature, e si è poi gradualmente accostato a generi più soft; Jacopo ha una preparazione pianistica di stampo classico, e durante l’adolescenza ha ascoltato dapprima moltissimo brit-pop, per poi estendere l’interesse a tutto il resto; Alessio ha imparato a suonare sulla scia dei grandi maestri del fingerpicking e di alcuni cantautori importanti, dipartendosi poi a sua volta verso altri lidi. La nostra apertura mentale ci porta a combinare tutto questo senza programmare nulla, con il solo scopo di fare qualcosa che ci convinca e ci faccia innamorare tutti.

A proposito di influenze, se doveste citare tre gruppi del passato dalla quale avete tratto ispirazione e che, effettivamente vi somigliano chi citereste? Se invece parlassimo di gruppi attuali?
Per Fabio, dalla vecchia guardia vanno citati senz’altro i Metallica, i Dream Theater, gli Alice in Chains; per Jacopo, i Fleetwood Mac del periodo Rumors, gli Eagles degli anni d’oro e i defunti Oasis; per Alessio, alcuni virtuosi come Marcel Dadi, Nick Drake, Jeff Buckley. Per i gruppi attuali, rimandiamo alla risposta successiva, che crediamo sia esauriente.

Parlando di band o artisti attuali, chi vi piace in Italia e all’estero?
Sulla musica italiana siamo parecchio selettivi; se dovessimo scegliere qualche nome, menzioneremmo altri chitarristi “sperimentali” attuali come Pietro Nobile e Sergio Altamura; oppure cantautori come Gazzè o Britti. Per quanto riguarda invece la musica straniera, non abbiamo veramente limiti: tra gli artisti che più di tutti ci mettono d’accordo, ci sono però innegabilmente gli Opeth, i Sevendust, gli Alter Bridge, i Pearl Jam; e ancora William Fitzsimmons, i Lifehouse, gli A Perfect Circle. Non mancano, naturalmente, i riferimenti personali di ognuno che possono incidere in misura maggiore o minore sui nostri pezzi: per Fabio i Mumford & Sons, Andy McKee, gli Incubus; per Jacopo gli Hanson, Noel Gallagher, Steven Wilson;  per Alessio i Radiohead, Tommy Emmanuel, i My Morning Jacket;.

Torniamo alla vostra musica? Chi di voi scrive musica e testi? Di cosa vi piace parlare nelle vostre canzoni?
Come detto, siamo un gruppo che ragiona con un’unica testa, quindi contribuiamo tutti attivamente alla composizione. Non c’è mai un meccanismo fisso o uno schema, né per la musica né per i testi, e neanche per gli arrangiamenti; un riff o un’idea possono essere portati in sala prove da uno o due elementi del gruppo, per poi essere arrangiati da tutti, oppure nascere subito da un’improvvisazione collettiva – e lo stesso vale per i testi. Ci viene spesso in mente “Spiral”, l’opener di Solace: l’abbiamo scritta di getto insieme, durante una notte insonne, trovando immediatamente ogni connessione – accordi, arpeggi, parole (divise e cantate fra tutti), struttura… Per questo ha un valore speciale. In realtà, comunque, ogni canzone ha davvero alle spalle un parto e una storia a sé.
La domanda sull’argomento delle canzoni stesse ha una risposta intricata. La bontà di un testo sta nella sua capacità di spingere ogni ascoltatore a immedesimarsi in modo differente: soltanto l’autore del testo stesso, infatti, conosce veramente l’essenza dei propri pensieri, e spiegarla apertamente equivarrebbe a violarla. E’ una complessa questione di privacy, che però non impedisce la condivisione, grazie alla libera interpretazione altrui. La stessa cosa vale per noi: a volte ognuno di noi non sa per certo di che cosa parlino i testi degli altri due, e il più delle volte si lascia semplicemente trasportare dalle immagini che le parole evocano. Se dovessimo proprio inquadrare grossolanamente i nostri contenuti, potremmo dire che le tematiche proposte da Alessio (il migliore di noi, sotto questo aspetto) sono le più sfuggenti, le più difficili da afferrare; Fabio e Jacopo, invece, si rifanno soprattutto a esperienze ben specifiche, da cui hanno ricavato la loro visione delle cose. Quello che lega tutti i nostri testi, in fin dei conti, è perlopiù un concentrato di malinconia, rabbia e frustrazione, espresse in una gradazione diversa a seconda del pezzo.

Oggi, a causa del web, dei maggiori mezzi a disposizione, sia per suonare che per proporsi, c’è un numero di band veramente esagerato. Credo che di tutte quelle che ci sono in giro, almeno il 90% potrebbero suonare per esprimersi senza cercare di proporsi all’Italia intera. (Domanda banale n°2) Voi dove vi trovate? Nel 10% o nel 90%?
Speriamo nel 10%! Girando, ci siamo accorti che la “concorrenza” è molta e la qualità è spesso medio-alta, ma ci auguriamo che la nostra musica – quali che siano i canali attraverso cui la proponiamo – venga vista come un prodotto di qualità.

In quest’ottica cosa cercate dalla musica? Pensate di poterci vivere oggi che i dischi non li compra quasi più nessuno e un concerto gratuito di Cesare Basile a Pescara fa un pubblico di circa 20 persone?
Per noi la musica è un linguaggio, un modo di essere, di descrivere il mondo; la diffusione web è ormai l’unica che conti davvero, e nel mondo underground la condivisione gratuita ha prevalso a scapito del business. A onor del vero, non ci interessa fare di quest’arte – e sottolineiamo il termine arte – un lavoro e nemmeno un hobby particolarmente redditizio: per noi è passione, esigenza biologica, e saremo sempre grati ai pochi che vorranno seguirci, vuoi per fedeltà o vuoi perché avranno ritrovato ogni volta una traccia di sé in ciò che facciamo.

Quale pensate possa essere il vostro ascoltatore ideale?
Di sicuro una persona intellettualmente aperta, ma non spocchiosa; critica, ma non distruttiva; emotiva, ma non smielata. Per entrare nella nostra dimensione, la sola regola veramente valida è lasciarsi trasportare.

Cosa differenzia l’Ep Solace dal vostro album d’esordio I Am The Distance? E cosa distingue i lavori in studio dalle vostre esibizioni live?
Molte delle canzoni del primo album erano fortemente guidate dal pianoforte, un ingrediente che in Solace ha svolto invece un ruolo di accompagnamento; le sonorità erano più acerbe, le soluzioni più ingenue, le dinamiche costruite meno sapientemente. Dovevamo ancora crescere, è chiaro. A volte, al confronto ci sembra che Solace abbia un sound lievemente più grunge in alcuni passaggi, senz’altro “americano” in brani come The Fall Never Comes e Shelter, e più marcatamente folk in Spiral e Butterflies and the black dog. Abbiamo voluto far risaltare maggiormente le differenze tra le nostre tre voci, con Alessio unico interprete nella sua Butterflies, Jacopo e Fabio spesso in duetto e soprattutto l’approccio corale di Spiral; in sostanza, si è voluto giocare più sui cori, sulle armonizzazioni e sui controcanti.
Dal vivo, cerchiamo di ricreare le atmosfere delle canzoni al meglio, con una cura via via più minuziosa per le modulazioni, i cambi d’intensità e gli intrecci vocali; durante le nostre prime esibizioni, fatte da seduti, tutto era più statico, ma da quando abbiamo iniziato a suonare in piedi la qualità dei live – e del nostro divertimento – è decisamente migliorata: il pubblico è più coinvolto, l’esecuzione più precisa e noi ce la godiamo di più.

Cosa viene dopo? Ci sarà un nuovo disco? Ci sarà un tour?
Abbiamo appena terminato un tour che ha coperto varie zone della Lombardia, e al momento quello che ci preme di più è lavorare sul nostro nuovo materiale; di carne al fuoco ce n’è molta, di buoni propositi anche. Tra i nostri progetti c’è sicuramente l’incisione, verso Ottobre, di un nuovo doppio singolo (probabilmente composto da una forma-canzone “canonica” e da una sorta di brano-concept, su cui ancora dobbiamo spremerci), sempre sotto After Life Music Dimension. Questo dovrebbe spianare la strada in vista del nostro primo disco vero e proprio, che si aggirerà intorno alle dodici/quattordici tracce e su cui abbiamo intenzione di concentrarci per buona parte del 2014. L’attività live proseguirà, naturalmente, ma non dovrà ostacolare il lavoro in studio.

Non pensate che la musica italiana sia troppo legata o al solito cantautorato
tradizionale o al Rock alternativo anni’90? Perché nessuno osa?
Il nocciolo è uno: gli italiani non hanno gusto, non hanno apertura, non hanno il senso della sperimentazione e della novità, in niente; tantomeno ce l’hanno nell’arte e nella “comunicazione” (qualunque cosa diamine significhi ormai). Questo non cambierà, perché ogni nostro stimolo culturale è ormai marcito o compromesso. Riconosciamolo e mettiamoci l’anima in pace, cercando nel nostro piccolo di fare qualcosa innanzitutto per noi stessi, e poi per gli altri.

Chi è la grande truffa dell’Indie italiano?
E’ l’indie italiano a essere una truffa.

Romagnoli (Management Del Dolore Post Operatorio) ha provocato tanto al concerto del 1° Maggio fino a tirarsi fuori l’uccello. Pollice su o pollice giù? Voi cosa sareste disposti a fare per decuplicare il vostro pubblico?
Ci pare si commenti da sé… A noi interessa la musica, le troiate da bambini le lasciamo a chi le ritiene opportune per ottenere qualcosa.

Perché da artisti sconosciuti parlano quasi tutti di coerenza, odio verso il mainstream, necessità di esprimersi senza la ricerca del successo? Tutti o quasi giurano che non venderanno mai la loro musica per qualche euro in più ma come la fama si avvicina, l’atteggiamento sembra mutare? Ipocrisia giovanile, ingenuità o è il successo che ti divora e cambia l’anima?
Mantenersi “innocenti” completamente in questo mondo è impossibile, ed è spesso è inevitabile dover scendere a patti con situazioni e sistemi sgradevoli (in ovvia proporzione a ciò che si intende raggiungere); da parte nostra, possiamo solo assicurare che faremo di tutto per mantenerci fedeli ai nostri principi morali, ai nostri sogni (quelli non intaccati dalla merda imperante) e alla musica, che è la sola cosa di cui alla fin fine ci importi.

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Niente di particolare… Ci auguriamo solo di essere stati esaustivi. Alla prossima e grazie mille!

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Alley

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Sono i vincitori di AltrocheSanRemo Volume2. Sono gli Alley e avrete ascoltato i pezzi del loro ultimo lavoro sulla notra home. Sono cinque amici che hanno deciso di dare l’anima alla musica e vi chiedono solo di starli a sentire. Ecco l’intervista realizzata con gli Alley da Riccardo Merolli.

Bene, per iniziare fateci capire chi sono gli Alley…
Alley è un progetto che ho fondato io (Davide Chiari), assieme ai musicisti che ora suonano con me: Samuele Pedrazzani, Moreno Barbieri, Damiano Negrisoli e Giacomo Parisio. Il progetto è nato effettivamente quando in una notte ho composto il primo lavoro, “Nag Champa”. In quel momento ha cominciato ad esistere Alley, successivamente il tutto si è realizzato nei live e nella loro preparazione, quando gli amici che ho indicato precedentemente, hanno cominciato ad apprezzare e voler partecipare attivamente nel progetto. A seguito la formula si è ripetuta, anche stavolta funzionante nel secondo album “Tales from the Pizzeria”.

Come nasce la vostra musica?
La nostra musica e le parole sono composte principalmente da me (Davide Chiari) in entrambi gli album finora pubblicati e sarà così anche per i progetti futuri. Il miglior risultato è stato ottenuto lasciando per e durante le situazioni live, carta bianca a tutti gli amici/artisti con cui mi esibisco. Ognuno conosce i propri e gli altri limiti e sa come muoversi di conseguenza, seguendo la traccia principale della canzone, ma ogni volta cambiando rifiniture e addirittura carattere o genere dell’intera canzone. Insomma, ci si intende con gli occhi e si suona, divertendosi un sacco. Speriamo anche di divertire il pubblico.

Avete traguardi da raggiungere?
Tantissimi, anche se il principale traguardo resta quello di far che Alley divenga un mestiere di passione pura sia per me che per tutti nella band.

Quali difficoltà trovate nell’inserirvi nella musica italiana?
Molte, ad esempio il muro mediatico delle tv e dei giornali, che dà un’importanza “imbarazzante” alla musica-spazzatura. Esso costituisce un ostacolo che non solo ci toglie spazio (noi compresi) negli spazi di possibile divulgazione, ma ci toglie anche importanza artistica. Ciò che ci viene tolto finisce per portare più risalto a loro, ovvero gli “anti-artisti”. Noi lo vediamo direttamente dal numero di serate che vengono artisticamente preferite con dj o con coverband. Da menzionare anche le preferenze nei concorsi musicali in cui si suona, all’interno dei quali molto spesso, gli esiti sono già decisi.

Pensate che il sistema indipendente in Italia sia malato? Perché?
No, non penso sia troppo malato, anzi “capillare” ed “intrigante”. Piuttosto, data la crisi, si potrebbe definire in “pausa vegetativa”. C’è comunque un sacco di aria di ripresa.

Quale pubblico potrebbe cogliere in pieno il senso delle vostre creazioni?
Tutti coloro che possono cogliere e godere dei nostri rimandi stilistici. Solitamente le persone al di sopra dei 18 anni, quelle che ascoltano buona musica (hehehehe).

Cosa fareste pur di diventare “famosi”?
La fama non è una condizione che arriva istantaneamente, credo. Sputeremo sangue come tutti e ci si divertirà un sacco.

Avete degli idoli nei vostri ascolti personali che influenzano la vostra musica?
David Bowie, Led Zeppelin, Lou Reed, Pentangle, Electric Light Orchestra, Roxy Music, ecc. , comunque tanto Rock e Glam dei primi settanta.

Cosa odiate della musica italiana (artisti compresi, fuori i nomi!) e cosa invece amate?
Non ci sono degli artisti che odiamo del tutto, a parte Gigi D’Alessio e affinissimi. C’è chi apprezziamo più di altri, tra cui spicca Clem Sacco.

È importante e giusta la diffusione di musica su internet?
Importantissima e se si vuole, quasi completa di tutte le funzionalità di cui un artista dovrebbe disporre.

Cosa c’è nel futuro immediato degli Alley?
Un po’ di date sparse nel nord Italia, soprattutto nella zona di Brescia. E non è da escludere qualche uscita per l’estate.

Qualcosa che tenete a dire e che non vi è stato chiesto. Ditelo qui, sinceramente…
Samuele Pedrazzani, quello alto e biondo, ha davvero una barba così folta (…visto che non ce l’avete chiesto). Secondo noi è importante che la gente lo sappia. (hehehehe)

 

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Witche’s Brew

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I Witche’s Brew sono giunti al loro nuovo disco, “Supersonicspeedfeaks, a presentarcelo c’è Mirko Bosco formidabile chitarrista del gruppo. Tra curiosità e retroscena dell’album siamo venuti alla scoperta d’interessanti chicche come i nomi degli ospiti presenti sul loro lavoro. A voi lettori questa deliziosa intervista con Mirko Bosco dei Witche’s Brew.

Bentornati su Rockambula ragazzi. Cominciamo a parlare della line up, pare ci siano delle novità giusto?
Grazie a voi per volerci riavere su Rockambula. In realtà un cambio della line up c’e’ stato con l’avvento di Frankie Brando alla batteria, ma ormai sono già quasi un paio d’anni che fa parte della famiglia per cui per noi e’ come se ci fosse sempre stato. Per quanto riguarda la voce ci siamo avvalsi di diversi ospiti, anzi colgo questa occasione per ringraziarli ulteriormente per avere partecipato a questo nostro progetto.

“Supersonicspeedfreaks” è il vostro secondo disco. Che tipo di lavoro avete svolto nelle fasi di registrazione e mixaggio?
Per quanto riguarda le registrazioni e stato un lavoro un po’ particolare in quanto abbiamo prima registrato i pezzi con la voce di Mirko Zonca, perche e’ cosi che sono stati composti e poi, i vari ospiti li hanno reinterpretati, aggiungendo e togliendo ciò che sembrava loro più adatto alla propria vocalità. Per quanto riguarda il mixaggio, purtroppo, non abbiamo potuto essere presenti a tutte le varie sessioni.

E in quale studio e con quale produttore avete collaboratore per la realizzazione dell’album?
Abbiamo registrato in diversi studi anche perché, con tutti quegli ospiti da accontentare… ognuno preferisce lavorare dove si sente più confortevole: Nik Turner ha il suo studio a Londra, Steve Sylvester a Pesaro, Ricky Dal Pane a Faenza ecc…

Quali sono le tematiche che toccate principalmente in “Supersonicspeedfreaks”?
Sono storie realmente accadute e poi rivisitate in chiave poetico-artistica, storie di vita comune di gente che soffre e commette atti alquanto peculiari, non vedo lo scopo nello scrivere stupide canzoncine di amore adolescenziale quando la vita reale offre storie molto più interessanti.

Nel disco ci sono le collaborazioni di alcune importanti special guest, perché non ci dite di più?
Sono tutti personaggi di grande calibro ed importanza, oltre i già citati Nik Turner ( Hawkwind ), Steve Sylvester ( Death SS ) e Ricky Dal Pane ( Buttered Bacon Bisquits ), abbiamo ospitato anche JC Cinel ( ex Wicked Minds ), Martin Grice ( Delirium ) e Paolo Apollo Negri ( Wicked Minds ) . E’ stato un piacere ed un onore.

Mettendo a confronto il vostro disco d’esordio e “Supersonicspeedfreaks” a parer vostro quali sono le principali differenze?
Innanzitutto Frankie ha apportato uno stile un po’ più tecnico e un po’ meno aggressivo. Per quanto riguarda la parte strutturale, io, personalmente non mi sono accorto di questo grande cambiamento, solo che quando suoni con un gruppo per abbastanza tempo, un evoluzione e’ naturale, vuoi spingerti sempre un po’ più in la.

La collaborazione con la Black Widow Records sembra che stia durando, come nacque l’ incontro con l’etichetta?
Non vedo perché non dovrebbe durare, noi abbiamo proposto un altro prodotto ed a loro evidentemente e’ piaciuto.

Per quanto riguarda il tour cosa ci dite, dove e come promuoverete “Supersonicspeedfreaks”? Dove potremmo venire a sentirvi?
Per quanto riguarda il tour dopo le ultime date a Busto Arsizio e Prato, siamo ancora in fase di organizzazione, non e’ cosi facile fare coincidere tutto. Comunque le cose si muovono e al più presto comunicheremo le nuove date.

Ora una mia curiosità, cosa volete intendere per”Supersonicspeedfreaks”? Cosa vuol dire questo titolo?
Il nostro primissimo lavoro era intitolato “Pentatonicspeedfreaks”, un live registrato durante un tour in Austria. Questo nuovo album e’ il volere tornare alle origini pur essendo proiettato in avanti.

Ora un messaggio diciamo cosi, promozionale: a parole vostre perché acquistare “Supersonicspeedfreaks”?
Innanzitutto perche e’ un album estremamente onesto, senza fronzoli e accorgimenti vari che ahimè, purtroppo oggi riempiono la musica rendendola banale e artisticamente sterile.
E’ un album Rock, ne più e ne meno, se siete amanti di quello che vi propinano le radio e le tv ogni giorno con frasi fatte, luoghi comuni parlati su delle basi computerizzate, allora avete sbagliato indirizzo. Se invece siete alla ricerca di qualche cosa di più e siete affamati di buon vecchio Hard Rock, allora provate a darci un ascolto, credo che rimarrete piacevolmente stupiti.

Bene ragazzi l’ intervista si chiude qui,  concludete come meglio credete…
Abbiamo ancora molte sorprese in serbo, non voglio svelare nulla per il momento, ma i Witche’s Brew vanno avanti e non ci ferma niente e nessuno.
Appena saranno conclusi i preparativi per il tour venite pure a vederci, non rimarrete delusi.

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Albedo Una Sonora Lezione di Anatomia

Written by Interviste

Gli Albedo sono certamente una delle band più seguite e ben recensite di questo ultimo periodo, il loro disco Lezioni di Anatomia sembra essere davvero una figata. A questo punto abbiamo deciso di interpellare il frontman della band Raniero per vedere quanta verità ci fosse dietro questo fenomeno, il risultato è una bella chiacchierata tra Dente che incarna Battisti, ri(e)verberi esageratamente abusati, promoter sbagliati e osterie romane… buona lettura.

Gli Albedo pubblicano Lezioni di Anatomia, il terzo lavoro ufficiale, è quello giusto?

E’ solo un disco. Quando scrivi i dischi pensi che sia sempre quello giusto. La cosa migliore che tu abbia mai fatto. Poi magari te lo risenti ad un anno di distanza e non ti piace più. Sicuramente qua abbiamo dato un taglio piuttosto preciso e cercato di dare un colore uniforme.

Un disco molto intimo, le parti del corpo che cercano di farsi sentire dall’uomo, geniale l’effetto della voce per dare una sensazione di interiorità a chi ascolta, come nascono queste diavolerie?

Il fatto di scegliere a priori un argomento su cui lavorare ci stimola nello svolgere il tema, e non facendo i musicisti di professione e avendo sempre meno tempo da dedicare, credo che ci aiuti a restare concentrati e a trovare ancora delle cose belle in quello che facciamo al di fuori della routine. Anche la scelta dei suoni in fase di mixaggio soprattutto sulla voce l’avevamo già ampiamente discussa tra di noi proprio con quella idea di volerla in un qualche modo renderla innaturale, impersonale, lontana con l’aiuto del reverbero, effetto di cui molto probabilmente abbiamo abusato. Per fortuna abbiamo trovato Adel (il fonico) che si è prestato a quello che per molti potrebbe suonare come un errore.

Testi bellissimi e importanti, colonna vertebrale del disco, la loro creazione segue delle linee precise?

Grazie, non per questo disco. Abbiamo negli anni trovato le nostre formule per scrivere ma oggi come oggi per fortuna trovo delle linee vocali su quasi tutto quello che scrivo, forse perché ascolto tante cose e rubo un po da tutte le parti senza farmi troppi problemi.
Il testo è comunque condizione fondamentale nello sviluppo del brano. Suoniamo gli arrangiamenti in funzione di quello, oppure esattamente al contrario ma non cerchiamo mai di adattare forzatamente l’uno all’altra.

Io vi ho trovato molto post rock con attitudine pop, un genere direi innovativo, molti avrebbero scelto la lingua inglese, voi perché avete scelto l’italiano rischiando e non poco sul risultato finale?

Direi che ci hai preso in pieno. Il pop, inteso come forma canzone e comprensibilità dell’insieme fa parte di noi tutti da sempre. Non abbiamo velleità di sperimentazione alcuna e poi non ne abbiamo le capacità tecniche. Non ci interessa stupire con parti complesse. Ci piace cercare di suonare bene e rendere le parti strumentali interessanti ma non necessariamente prolisse o fini a se stesse. Nella fase di scrittura ho ascoltato molto quello che viene definito post rock ma adattarlo ad una tradizionale forma canzone sarebbe una bestemmia per il genere in sé ed il risultato è quello che c’è in questo disco. Se ci pensi bene i nostri brani potrebbero reggere tranquillamente con una chitarra e voce e così vogliamo che sia. Però non fateci fare più date in acustico perché siamo già abbastanza depressi di natura.

C’è anche un evidente omaggio ai Beatles (A Day in The Life) nel pezzo Stomaco, un legame speciale con le loro canzoni o soltanto una questione di gusto del sound?

Chiunque suoni ha un legame con loro. Al di la di tutto quello che si può dire e che è stato già sicuramente detto, credo che l’attualità del testamento che hanno lasciato alle generazioni future sia soprattutto l’idea di cui parlavamo prima, cioè dell’accessibilità. Quell’incredibile dono per cui quello che scrivi è universalmente riconosciuto straordinariamente bello da tutti. Donne, uomini di qualsiasi età. Non ci piace l’idea che ci si debba chiudere in un genere e cercare di essere riconosciuti in “questo” o “quello”. Per questo aspetto mi sento molto più legato a loro che a tanti gruppi a cui musicalmente siamo più simili. Naturalmente parlo di attitudine e non di risultati artistici. Sapevamo di farla fuori con questa citazione pesante ma noi abbiamo sempre scritto senza il dover pensare al dopo.

Cosa è cambiato dalle precedenti produzioni? Vi sentite artisticamente diversi?

Ci piace pensare di essere maturati,almeno un pochino. Ci piace anche cercare di fare qualcosa di diverso probabilmente perché le cose che facciamo ci stufano presto. A dire la verità, e lo penso sul serio, non crediamo di essere un gruppo fico. Non risento quasi mai i nostri dischi. Non mi piacciono. Semplicemente penso che non siamo tanto peggio di tanti altri. Quando leggi ovunque che Dente è il nuovo Battisti, everything is possible. Albedo i nuovi Bee Hive? Ci sta tutta.

Tutte le recensioni parlano bene di Lezioni di Anatomia, siete consapevoli di aver fatto un ottimo lavoro? Considerando il post di Miro Sassolini che definisce il vostro disco il migliore in circolazione in questo periodo?

Ai gruppi come noi rimangono solo tre cose: le pacche sulle spalle alla fine dei concerti accompagnate da un fragrante “Bravi, cazzo”, i messaggi e i post su facebook dove per fortuna ci insultano ancora pocome le parole di persone che ascoltano tantissimi dischi e che rimangono entusiasti dal nostro e ci danno le 5 stelle Michelin. Certo quando poi ne arrivano di belle da chi ha scritto una parte di musica alternativa italiana allora è tanta roba, perché è interessante scoprire che interessi anche a generazioni musicali differenti in tutto e per tutto,persino e soprattutto in termini fruizione. Questo ovviamente fa onore a lui e non a noi, che come generazione facciamo poco parlando tanto.

Adesso è il tempo di montarsi la testa?

Adesso è il tempo delle mele.

Sono a conoscenza della prossima uscita del video “ufficiale” di Cuore (l’opener di Lezioni di Anatomia), volete parlarci del video?

Un giorno mi ha chiamato Fabio Valesini, mi ha detto che non aveva mai fatto un videoclip musicale, che aveva uno storyboard dove succedevano cose che non si capivano, che era girato tutto al contrario ma montato dritto ma che poi alla fine il risultato sarebbe stato metà e metà, che c’era una scena con delle radiografie che si animavano, e che avremmo dovuto procurarci un carrello della spesa perché con il budget che gli era stato dato non ci prendevamo nemmeno una sedia di legno.
Come potevamo dirgli di no?
Ed in effetti il risultato è sopra ogni nostra aspettativa,come ogni idea malsana che si rispetti.

Gli Albedo quale ruolo potrebbero ricoprire all’interno della musica italiana?

Ci siamo abituati all’idea di essere marginali. Uno di quei gruppi che fa 34 dischi ma li scopri al 33. Quello che facciamo ha bisogno di maturare nel tempo. Il fatto è che non siamo abbastanza originali per spiccare e non siamo abbastanza stronzi per farci odiare… Non ci tingiamo i capelli, non siamo omosessuali, non siamo intellettuali, non ci vestiamo con gli stracci e non viviamo nei furgoni. Non fingiamo di essere quello che non siamo. Menchemeno ci dichiariamo artisti quando tra 4 o 5 anni nessuno si ricorderà più di noi. E nemmeno di tutti gli altri. I tempi sono cambiati. Ci sono troppi dischi e troppi gruppi per cui alla fine non emerge nessuno davvero. E se lo fa, lo fa per un tempo assai breve. Non possiamo essere tutti i Joy Division, dai,siamo seri. Noi  abbiamo una casa, una famiglia un lavoro. Le nostre scelte le abbiamo già fatte. Per questo forse nei nostri dischi c’è una buona dose di realismo. Certo un’ampia cassa di risonanza ci aprirebbe ad un pubblico più grande, ma poi perderemmo il fascino degli eterni incompresi e non sarebbe più divertente per noi lamentarci e parlare male di tutti gli altri.

Avete un disco da promuovere quindi presumo un tour da onorare, c’è qualcos’altro che bolle in pentola?

La verità è che a suonare in giro ti diverti molto solo quando la situazione è perlomeno decente. Quando trovi realtà assurde a 700 km da casa la prima volta ci ridi, la seconda spacchi un disco de I CANI, la terza ti chiedi se ne vale la pena di fare tutta quella strada. Proprio perché abbiamo scelto di suonare solo per divertirci se andiamo a suonare ed è tutto una merda non ci andiamo più. Quindi faremo meno date ma meglio organizzate. Non perché pensiamo di meritare chissà cosa ma è perfettamente inutile per noi andare fino a Bari in un locale che di solito fa suonare cover band al cui pubblico non interessa nulla di noi, perché il promoter non sa fare il suo lavoro. O suonare con la chitarra acustica mentre la gente mangia manco fossimo nelle osterie romane.
Onoro e rispetto chi fa quello ma non è quello che vogliamo fare noi.

La scelta di affidare il disco ad una nuova e freschissima etichetta (V4V Records) è stata una buona idea?

Potrei trollare quei deficienti qui ed ora per diciassette minuti di applausi ma ti dico in verità che trovare persone che investono cosi tanto in un progetto come il nostro facendolo bene, è ad oggi in pratica impossibile.
Ci perdono soldi ma soprattutto tempo. Lo sanno e lo fanno consapevolmente. Se ci pensi è assurdo. Allora quello che ci lega davvero sono le stronzate che ci scriviamo in chat e l’idea di condividere insieme qualcosa di tanto nostro quanto loro. Va oltre le aspettative di vendita o di successo mediatico. Posso solo dire che se avessero i mezzi e fossero persone come loro a capo di importanti case discografiche non staremmo adesso nella situazione in cui siamo. La competenza in questo settore sembra essere una chimera.

Adesso che siete ricchi e famosi e scopate da Dio potete dire tutto quello che vi passa per la testa, questo è il vostro spazio…

Se questo fosse il mio spazio direi a tutti i lettori di non drogarsi e di avere rispetto per gli alberi e di non farli pisciare dai cani. Comunque come tu sappia certe cose rimane per noi un mistero.

 

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KID Karma In Distorsione

Written by Interviste

Se non li conoscete ancora, dovreste farlo. Se non volete, fatelo comunque, ne vale assolutamente la pena. Loro sono in tre, hanno nomi di battaglia troppo fichi e suonano quello che vogliono. Il loro disco esce il 4 marzo, e si chiamerà come chi l’ha partorito. Arrivano i Karma In Distorsione, e questo è quello che hanno da dire.

Chi sono e come nascono i KID?
– Tarkievitz: I KID sono tre karma in continua distorsione e nascono a Roma dall’incontro fra me che sono di Milano, Snerv che è di Bisceglie e con Biastj che invece è di Roma. Lui è il centro di questo incontro, la nostra spina dorsale lungo lo stivale. Nasciamo nell’estate 2011 e abbiamo esordito subito suonando con Caparezza all’Auditorium di Roma, esordio direi avvincente. Nasciamo da percorsi completamente diversi, il nome KID ha un senso per noi dal punto di vista proprio delle origini.
Biastj: L’idea del nome è partito dalla locandina del film di Chaplin, “The Kid”, quindi KID è venuto prima di Karma in Distorsione, e poi da quelle 3 lettere ho tirato fuori questo nome, che poi effettivamente ci rappresenta di fatto. Io vengo da un gruppo hardcore, ho suonato in Messico e in Europa, ma ho avuto anche esperienze acustiche. Tarkievitz suonava con le marchin’ band per strada, ma faceva anche punk. Snerv ha prodotto un sacco di dischi pop, ha lavorato come fonico in uno studio, faceva il cantautore. Tutte queste fonti si sono mixate insieme nel nostro suono. In tanti ci chiedono quale sia il nostro genere  – “Ma che fate? Ma quindi è punk? Eh no, perché c’è il pianoforte ad un certo punto!” -. In realtà a noi non piace darci una definizione anche perché non l’abbiamo mai sentita come una problematica da dover affrontare con chissà quali discorsi. Ci lasciamo molto guidare dal mood di ogni brano, da come nasce, da come cresce, perché in realtà vogliamo esprimere un concetto di libertà, ci piace sentirci abbastanza liberi in quello che facciamo.

Cosa vogliono e dove vogliono arrivare i KID?
– Snerv: I KID vogliono arrivare a quello che è il significato di fare musica, che un po’ si è perso in quelle che sono le produzioni musicali odierne, che il più delle volte diventano il sostitutivo di un percorso artistico, visto che a fare dei dischi non ci vuole nulla perché a livello tecnico lo si può fare in casa, sono più di una decina d’anni che l’home studio ha preso il sopravvento, il che è una cosa positivissima. Noi però vogliamo arrivare a lasciare un messaggio musicale molto personale. Quello che c’è in questo periodo è legato a produzioni dove l’aspetto commerciale diventa poi il suono, riesce ad identificarsi con quello che è chiamato “indie” nel mondo, che invece nasce come esplorazione di gruppi che si autoproducono. Alla fine uno etichetta tutto quanto oramai, noi invece cerchiamo di non identificarci in questo modo.

Infatti mi viene spontaneo chiedervi, che cazzo vuol dire “indie” adesso? Non ha più nessun significato?
– Biastj: Esatto, proprio quello è il discorso. Ha perso di significato, è una moda, un modo anche addirittura di vestirsi. Non ha senso questa definizione, anche volendo, almeno per noi!
Snerv: Il nostro non è proprio un atteggiamento di lotta contro l’indie, ci mancherebbe! Anche perché come è esistito il punk, altri generi ed altri movimenti, va bene anche l’indie. Il fatto è che a noi piace etichettarci proprio come indipendenti, non subordinati al mondo indie!

Il vostro sound è un misto tra punk e rock che a volte vira bruscamente verso gli estremi melodici o più rudi di questi generi. Quali sono le vostre influenze e da dove nascono queste contaminazioni?
– Snerv: Il fatto che i nostri brani abbiano avuto una vita va appunto a testimoniare che facciamo una musica che non ha come obiettivo il raggiungimento dell’uscita discografica. Alcuni brani del disco già esistevano mentre altri sono stati modificati e arricchiti. Noi siamo stati i produttori artistici di noi stessi, quindi anche a livello musicale l’elemento eclettico è quello che vogliamo dire e testimoniare nel tempo, con la consapevolezza che quello che suoniamo è nostro e che lo facciamo anche come dimostrazione di coraggio nel proporre uno spettacolo crossover dopo anni di silenzio.
Tarkievitz: Che possa piacere o meno quello che facciamo, per noi è fondamentale che sia nostro, anche se proveniente da percorsi molto differenti: punk, metalcore, pop, crossover, funky, reggae. Personalmente ho fatto anche parte di una marchin’ band per dieci anni, il che vuol dire andare in giro per strada a suonare con il tamburello appeso alla vita e sperimentare anche l’aspetto bandistico della musica.
– Snerv: Io sono arrivato stremato a quello che significa fare produzione in Italia perché lavorando in uno studio riesci a riconoscere quelle che sono le dinamiche discografiche e quindi ti distacchi e, per quanto mi riguarda, ho cercato di depurarmi da quel tipo di lavoro. Nel momento in cui la musica diventa un lavoro e non vivi in un ambiente propositivo, lo fai essenzialmente per denaro. Ad un certo punto mi sono attrezzato e sono andato nei parcheggi dei grandi concerti come Caparezza e Afterhours suonando e distribuendo preservativi. (Ride)
Tarkievitz: Per farla breve, assieme agli altri, abbiamo notato che le nostre esperienze si fondevano bene a livello di suono, interpretazione e arrangiamento sia durante le prove che durante il mixaggio del disco, che poi è stato un lavoro, a livello produttivo e artistico, molto importante. Molti pezzi si sono sviluppati durante il mix, quando abbiamo incominciato a capire che certe cose funzionavano bene. In realtà il disco doveva essere un demo, perché dopo aver suonato con Caparezza non avevamo materiale da poter portare in giro e ci è stato chiesto di fare un demo. E allora ci siamo chiusi giù da Snerv a Bisceglie, dove ha una casa in campagna fatta in tufo per cui con un’ottima acustica, e abbiamo fatto lì batterie, bassi e alcune voci. Mentre lavoravamo poi ci siamo resi conto che da un demo stava diventando un ep e da un ep poi è diventato un disco. Per cui è stato molto vero come approccio, un fotografare semplicemente quello che siamo e quello che facciamo.

Infatti la spontaneità e denuncia sociale sono i fili conduttori di questo lavoro. Quanto vi influenza l’ambiente che vi circonda?
– Snerv: Tanto, tantissimo! Non vediamo l’ora di suonare in giro per l’Italia per farci contaminare ancora di più perché avere base a Roma da alcuni punti di vista ti fa imbestialire, nel senso che è difficile trovare una singola tematica sociale qui perché adesso ce ne sarebbero tantissime e ovviamente facendo arte devi cercare anche di catalizzare quelli che sono i messaggi che devono arrivare per primi.
Biastj: Il discorso è che secondo me affrontiamo la denuncia sociale ma a dei livelli più o meno ironici. Ad esempio nei live suoniamo un pezzo inedito, City, che è un pezzo che prende spunto dalla lettura del free press “The City”, che trovi in metro. Il brano è una lettura di quelle notizie che fa ridere dall’inizio alla fine perché si tratta di notizie imbarazzanti, attraverso le quali cerchiamo di far riflettere su quello che succede intorno. Fai quello che ti pare con la musica che ascolti, però è ovvio che quello che fai nella vita di tutti i giorni, il posto in cui vivi, la luce che vedi, ti influenza. Da casa mia io vedo i palazzi, li vedo da 26 anni ogni mattina. C’è un pezzo sul disco che poi si chiama L’palazz, cantato in biscegliese, il dialetto di Snerv, che lui ha scritto mentre pensava ai palazzi di Bisceglie ma che bene o male si adatta molto a quello che vedo io ogni mattina. C’è molta libertà forse pure nella scelta di quello che diciamo. Ad esempio per Formicaio aka Formiriot, che è uno dei brani del disco, stavamo finendo il missaggio proprio nella settimana in cui è uscita fuori la notizia delle Pussy Riot e del loro processo. Quello era un pezzo strumentale ma ad un certo punto ci siamo detti: “Vabbè, perché non ci si può buttar dentro un coro sulle Pussy Riot?!” che di base è nato molto liberamente come pensiero, l’abbiamo sviluppato, registrato e via!
Tarkievitz: Diciamo che, anche in questo caso karmicamente (e quindi non è un caso secondo me), ci siamo conosciuti proprio suonando più che per amicizia. Però, non a caso, abbiamo trovato un’intesa. La denuncia sociale di cui parliamo noi ce l’avevamo  dentro, ognuno per percorsi molto diversi. E ci siamo trovati su tutto senza pensare a nulla, ci veniva spontaneo, in maniera karmica. Questa è secondo me anche un po’ la nostra forza, anche a livello umano, non solo artistico: la sintonia tra di noi.

Si vede che vi divertite molto anche nella dimensione live: questo mi piace tantissimo. Però, in contraddizione alle tematiche che voi affrontate, non avete paura di non essere presi troppo sul serio proprio perché vi divertite troppo?
– Snerv: C’è da dire che quando si affrontano delle tematiche sociali il rischio è anche quello di appesantirne il valore artistico. Quindi comunque siamo sempre sul filo del rasoio fra quello che è lo sfondo sociale che stiamo disegnando e quello che è l’aspetto più primordiale che ci fa sudare mentre suoniamo. Il sorriso e la consapevolezza che ci stiamo divertendo tra un brano e l’altro è davvero il respiro più grande che abbiamo. Quindi non abbiamo paura né di sorridere né di piangere anche quando trattiamo dei problemi di una società che sicuramente non va come dovrebbe.
Biastj: Mi ricordo quando stavamo missando il disco, ad esempio. Un’amica ci disse: “Eh però il disco è un po’ cupo, ruvido!”. Abbiamo passato un po’ di tempo a farci i pipponi su quest’idea, ma poi in realtà ci siamo resi conto che ci piace molto battere sul discorso della libertà che è il motore principale di qualsiasi cosa che abbiamo fatto fino ad ora. Per noi è importante ridere quando suoniamo, la dinamica live per noi è la più importante, è inevitabile partire dall’idea di dare e far vedere qualcosa a qualcuno. Non mi va di parlare di egocentrismo, ma in qualche modo lo è pur essendo positivo se sei sul palco a dire quello che hai in mente. Nel momento in cui hai l’opportunità di farlo, nel momento in cui sali sul palco a suonare, devi ridere. Anche per tutto il discorso che facciamo sulla libertà, perché anche da questo nasce il sorriso.
Tarkievitz: Per noi è una cosa importante, poi se qualcuno non ci vuole prendere sul serio è un problema suo… Sotto un sorriso ci può essere anche un pensiero forte.

Adesso parliamo del disco. Non possiamo fare tante anticipazioni per non spoilerare, però che cosa ci potete preannunciare?
– Biastj: Il disco esce ufficialmente lunedì 4 marzo e lo presentiamo ufficialmente giovedì 7 marzo a Roma, a San Lorenzo, presso la locanda Altlantide dove suoneremo insieme ad un altro gruppo, i Tre che Vedono il Re.

Il singolo che preannuncia l’album è La mia Fabbrica, giusto?
Biastj: Esatto! La mia Fabbrica è il primo singolo che è uscito, di cui abbiamo fatto anche un video, anch’esso autoprodotto. Detto così sembra che uno si vuole autocompiacere, invece è soltanto un discorso di necessità. L’autoproduzione è una nostra esigenza, che fino ad ora ci sta dando molte soddisfazioni. Il disco contiene 8 brani al suo interno e non bisogna aspettarsi che La mia Fabbrica sia rappresentativo, è un disco molto vario.
Tarkievitz: Possiamo anticipare che ci sono dei contributi cinematografici, perché è un linguaggio che ci colpisce e ci condiziona molto. C’è una ghost track, che tu hai scoperto subito perché sei un amante delle ghost track, come hai dichiarato. È un estratto da una poesia di Pasolini che lui stesso recita, è la sua voce quella.

Sul finale del brano c’è questa frase che mi ha colpito molto: “Io muoio ed anche questo mi nuoce”. Devo leggerci un senso di sconfitta oppure è proprio il contrario, una rivalsa totale?
– Snerv: Per quanto mi riguarda penso che i KID possano dare un significato diverso alle affermazioni forti, appunto perché sono tali  anche perché hanno più di un significato. Questo rappresenta il disagio di essere schiavi del pensiero della morte, quando si arriva vicino al punto di morte e sei ancora vincolato dalla paura.
Tarkievitz:  Non so cosa Pasolini volesse dire ma per noi questo linguaggio è una dichiarazione di rivalsa, non è una sconfitta!

Adesso parliamo di quello che è il panorama musicale italiano. Quali sono le band che vi piacciono di più in questo momento?
– Biastj: Bud Spencer Blues Explosion. Nel panorama italiano degli ultimi anni sono una delle cose che mi ha colpito davvero. Vedere questi due che salgono sul palco e lo smontano è bellissimo. Mi è capitato di vedere dei live e hanno una gran capacità di stare on stage.
Tarkievitz: Io sono cresciuto col punk rock alla Clash diciamo, quindi ho una vena un po’ melodico-drammatica, per cui mi piacciono molto i Tre Allegri Ragazzi Morti. Mi piace molto come propongono i loro testi, con una certa ironia ma anche pieni di denuncia sociale. Magari l’ultimo disco mi ha colpito meno, devo dire la verità, ma li ascolto sempre volentieri. Poi il Teatro degli Orrori, credo che sia un progetto molto forte. Poi un gruppo underground, i Fuzz Orchestra, che fanno delle cose molto belle, molto particolari e semplici dal punto di vista tecnico che usano molto il tema cinematografico. Non cantano, ci sono solo delle tracce live che uno mette coi dischi quando suonano. Ci sono un sacco di esperimenti interessanti.
Snerv: Bugo che aveva iniziato alla grande, lui invece ultimamente mi ha dato poco perché secondo me ha commercializzato una sua qualità però è stato un personaggio musicale che ho anche seguito. Poi me ne vengono altri, random… Qualunque produzione che abbia qualcosa di genuino, c’è sempre qualcosa di buono da ascoltare. Gli Afterhours tengono forte, i Marlene Kuntz sì, ma a tratti..

Qual è il vero problema della musica rock in Italia oggi? Perchè non c’è un riferimento di spicco a parte i soliti noti?
– Snerv: Il problema secondo me è che è stato identificato il genere in maniera commerciale, nel senso che si è iniziato ad etichettare determinate produzioni come rock perché avevano due chitarre, batteria e basso che si muovevano su delle armonie e delle melodie che somigliavano al rock. Non ci sono tante informazioni alla fine, anche se in apparenza sono tantissime. Quello che rende caotico anche l’identificare quello che sia un gruppo rock è il suo percorso musicale, le scelte sia artistiche che di lavoro, che non si riescono più a seguire.
– Biastj: Secondo me c’è anche quello che è iniziato a succedere verso la fine degli anni ’80 e che poi negli anni ’90 si è concretizzato: l’avvento della produzione commerciale e quindi del marketing a tutto spiano, dell’importazione di diversi format che vengono dall’America quali X Factor o Amici, che hanno una forma prestabilita e che ora non si vergognano nemmeno più di dire che cercano un artista che funzioni nel mondo discografico: tu funzioni, tu no. Quel tipo di approccio è imbarazzante. Mi è capitato ultimamente di andare in fissa con Lindo Ferretti e vedevi i live dei CSI, live di una portata assurda. Adesso invece si da un valore economico a qualunque cosa che esca dalla televisione, e ciò vale anche per quelle cosiddette indipendenti. Tutto ciò ha spazzato via completamente quella serie di cose che prima facevano fatica ad emergere ma che in qualche modo errano presenti e creavano anche una base da cui si poteva iniziare a parlare, discutere di rock.
Tarkievitz: Il rock è nato in strada, come si può individuare un atteggiamento nella musica che quindi si propaga nel suono, se ad esempio a Roma nemmeno si può suonare in strada? Siamo circondati da paesi in cui invece è possibile e che permettono di sensibilizzare nel quotidiano anche chi non ha un interesse prettamente musicale.
Se posso aggiungere un carico per me il problema in Italia è durare. In Italia c’è questa prosopopea culturale per cui si pensa che tutto ciò che è passato ha una importanza e una dignità intoccabile e siccome è la patria di un certo tipo di musica intellettuale, molto fine e comunque un po’ classica, tutto ciò che è nuovo spaventa. Penso che sia un problema che hanno vissuto anche i nostri predecessori . Bisognerebbe smontare questo concetto dell’élite, delle caste. Chi ha il potere di veicolare qualcosa rifiuta assolutamente la novità.

Se io avessi un figlio che vuole fare il musicista rock io gli direi di farlo, ma di vendersi prima un rene così se ne sta sicuro. Secondo voi ci si campa con la musica?
– Biastj: Ci si campa, ma è strano. Io, ora come ora, non ci campo: faccio l’insegnante di musica, faccio le serate con più di un gruppo e lavoro anche in un catering ma comunque non guadagno tanti soldi. Ho amici che hanno avuto la fortuna di insegnare in una scuola di musica ma anche in questo caso non vuol dire campare di musica perché arrivi a fine mese con pochi spicci in tasca. Anche in questo caso qua vige la famosa legge italiana della botta di culo o la cosiddetta spintarella. A me è capitato di portare un curriculum in delle scuole di musica e la faccia con cui ti guardano dice più o meno “Che stai a fa?” perché in questi ambienti ci entri solo tramite l’amico che ti ci porta o il gestore della scuola che decide di fartici entrare. Allo stesso modo se vuoi fare una serata, il gestore del locale ti dice “Si, ma quanta gente porti?”.
Tarkievitz: Adesso no, ma speriamo di camparci il più presto possibile. Il problema è che siamo in un paese in cui i locali non si prodigano all’ascolto per cui non ti permettono di suonare e far sì che la gente partecipi senza sapere chi è la band ma con la curiosità di scoprire musica nuova. Invece sei tu che oltre a mettere in campo la tua espressività devi avere già i tuoi fans e te li devi portare dietro se vuoi suonare. Questo è un meccanismo perverso che poi ti porta a vivere male, a sopravvivere.
Poi chi campa di musica oggi, al nostro livello, sono quelli che fanno le cover band. Loro campano perché fanno una roba già conosciuta che portano in giro. Abbiamo suonato a Milano all’Alcatraz per un contest sponsorizzato da un preservativo e dopo di noi suonava una cover band degli 883 e c’erano un sacco di ragazzi molto giovani, che forse nemmeno erano nati quando suonavano gli 883 ma erano lì sotto a ballare e parlando con il gruppo abbiamo scoperto che loro grazie questo progetto e ad un altro di Tiziano Ferro, ci campavano! E fanno cover di gente già nota e ancora in vita!

Per concludere quali sono i vostri progetti futuri?
Tarkievitz: A parte partire con un tour di presentazione del disco e far uscire questo disco chiaramente, sicuramente fare un secondo videoclip a breve e sarà di Senza Petrolio che vuole essere il nostro pezzo diciamo nazional popolare, in cui c’è ironia, denuncia sociale, una melodia facile da ricordare…
Poi stiamo partendo con un progetto su Musicraiser, un portale di crowdfounding a cui abbiamo presentato un nostro progetto per riuscire in qualche maniera a rientrare in tutti i costi che abbiamo avuto finora tra incisione del disco e tutto. I soldi che riusciremo a racimolare serviranno per finanziare il nostro secondo videoclip. Questo è il progetto immediato, a parte fare i live, che partirà a breve. Abbiamo girato il video per presentare il progetto, adesso bisogna montarlo e partiamo!
– Biastj: Una cosa molto carina di Musicraiser è che ti permette in qualche modo di mantenere il discorso che abbiamo portato avanti fino ad ora dell’auto produzione, facendo sì che poi chi ha veramente piacere nell’ascoltare il disco o nel vedere il live può aiutarci anche in maniera effettiva e concreta. Ma penso che per il tour partiremo da aprile.
Tarkievitz: Di Musicraiser ci piace molto parlarne perché sembra che in questo modo non esista più il meccanismo della case discografiche, dei produttori, dei mecenati e puoi coinvolgere in questo modo le persone che vogliono condividere con te il tuo progetto. Dai una mano ad un tipo di musica che fa fatica ad essere avviata. Poi di dischi non se ne fanno più, fino all’anno prossimo vogliamo solo suonare in giro e basta!

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Martino Adriani

Written by Interviste

Finalmente è pronta l’intervista con il vincitore della prima edizione del nostro concorso per band emergenti AltrocheSanRemo. Non dimenticate che è in corso la seconda edizione ma intanto godetevi le risposte di Martino Adriani.

Il primo vincitore del contest AltrocheSanremo; che opinione hai dei vari “concorsi” per artisti emergenti?
Credo che ce ne siano di validi e meno validi. Fino ad ora non avevo mai partecipato ad un concorso, contest o roba del genere. Dico la verità, son sempre stato un po’ scettico, pensando che la musica dovesse “emergere’’ in modi differenti. Inoltre,credo che molti siano pilotati…ma non è certo il caso di AltrocheSanRemo, che, per come è stato impostato su internet, ha garantito il massimo della trasparenza. Poi, l’ho vinto io, quindi..non può che essere valido!…Scherzi a parte, credo che i concorsi, quelli “fatti per bene’’, al giorno d’oggi siano per un emergente un ottimo mezzo per farsi conoscere da gente del settore e cercare di diffondere la propria musica ad un pubblico più ampio.

Parlaci del tuo ultimo disco…
‘’Non date retta a me’’ è un mini album, autoprodotto, composto da 6 canzoni.
Ho iniziato a lavorarci su nella primavera del 2012, dopo aver conosciuto Daniele Brenca, arrangiatore e musicista di gran parte degli strumenti presenti nel disco, per poi dargli vita il 13 agosto dell’anno stesso.
Per quel che riguarda i contenuti, i brani presenti, fondamentalmente, son figli di paranoie e di un “disagio sociale’’ di fondo. E ciò che ho cercato di fare, è stato trattare temi “delicati’’ con ironia e comicità, con spirito ribelle, a volte di denuncia, mantenendo costante quella leggerezza che sfocia spesso in paradossi e surrealità. Il tutto barcollando su un filo sottile, dove non si capisce bene dove sta la follia e dove sta la realtà. Spero di suscitare sorrisi negli ascoltatori, ma soprattutto la famosa domanda:
“Gli diamo retta???’’

Il cantautorato devi averlo nelle vene oppure ti puoi svegliare una mattina e avere l’ispirazione?
Credo che ci sia un percorso da affrontare, avere negli anni i giusti “maestri’’, che siano i grandi cantautori della storia, i grandi letterati o i grandi poeti.
E secondo me bisogna essere particolarmente sensibili, un po’ tormentati, decisamente narcisisti. Quindi si, penso che devi averlo nelle vene.

L’Italia intesa come sistema musica aiuta gli artisti nella tua situazione ad emergere?
Bah. Credo poco. Siamo nel tempo dei “Talent Show’’, in cui vengono creati e studiati ad arte “prodotti commerciali’’ differenti dal mio stile. Non mi è mai balzata l’idea di provare a partecipare a programmi televisivi come “Amici’’ o ‘X Factor’’, non perchè li condanni, anzi, credo sia troppo facile oramai dargli contro, ma semplicemente per il fatto che la mia musica e il mio modo di fare musica non credo siano adatti a tali show.

Cosa faresti se avessi la possibilità di cambiare le cose?
Cercherei di aprire al cantautorato nuovi veicoli di accesso, diversi rispetto alle più facili opportunità di emergere oggi offerte dal sistema musica italiano.
Tuttavia concretizzare tale idea mi vien difficile forse perché non vi è attualmente un’apertura orientata al ritorno e all’affermazione del puro cantautorato di una volta.

La tua musica è diretta a chiunque oppure vuole un pubblico preciso e selezionato?
Credo sia diretta a chiunque. E’ proprio quello il mio intento, far canzoni che possano risultare piacevoli a tutti. Almeno ci provo.

Come nascono le tue canzoni?
Non so dare una vera a propria spiegazione. Le mie canzoni nascono per caso. L’ispirazione viene e va, va e viene. A volte mi abbandona per mesi, ma quando ciò inizia a preoccuparmi, torna con decisione e mi catapulta addosso decine di lampadine accese, tanto da farmi consumare le molteplici Bic rimaste inutilizzate nel periodo “spento’’. Naturalmente, tutto ciò è figlio degli avvenimenti che giorno dopo giorno si presentano nella mia vita.

Raccontaci qualche episodio che vale la pena raccontare della tua carriera artistica ad oggi?
Nel 2007, esordii live nella piazza del mio paese con una canzone-filastrocca scritta a 13 anni, dal titolo “La mia vicina è pazza’’, che affrontava in modo assai comico il tema del “vicino di casa rompiscatole’’, un luogo comune, insomma. Essendo la piazza sottostante alla mia abitazione, la mia vicina di casa ascoltò dal suo balcone il brano, e la prese decisamente sul personale. Giammai avrei potuto pensare qualcosa di simile!
Fatto sta che la carissima signora, imbestialita più che mai, il giorno dopo si recò da un avvocato con l’intenzione di farmi causa, cosa che poi non fu portata a termine, ovviamente, per assoluta infondatezza delle accuse!!! Insomma, a 19 anni, al mio esordio, per “colpa’’ di una filastrocca scritta da bambino, son stato a rischio denuncia! Ne valeva la pena raccontarla, no?

Quali sono i tuoi ascolti giornalieri e quali influenzano la tua arte?
Sono influenzato da sempre dai grandi del cantautorato italiano, Giorgio Gaber e Rino Gaetano su tutti. Per quanto riguarda i miei ascolti, variano a seconda del mio stato d’animo. Ma tutto ruota sempre intorno al rock: da quello italiano, ove ad accompagnare le mie giornate da oramai un decennio ci sono i Marlene Kuntz, e il tempo mi ha portato ad avere un folle amore per Elio e le Storie Tese, a quello straniero, riscoprendo, ultimamente, Nick Cave e Patti Smith.

Meglio vendere dischi o fare tantissimi concerti? O entrambi? Perché??
Ovviamente, entrambe le cose. Ma dovessi scegliere, preferirei suonare come un matto qua e là: il contatto diretto con le persone è qualcosa di sensazionale.

La diffusione della musica su internet un bene o un male?
Anche se sono un po’ all’antica, ovvero tra quei pochi che ancora comprano i cd originali, credo che la diffusione della musica su internet sia un bene. Soprattutto per gli emergenti. Io stesso ho usufruito di tale vantaggio.

Perché qualcuno dovrebbe avvicinarsi alla tua musica? 
Un’amica mi disse tempo fa che quando era giù di morale, metteva le mie canzoni e gli ritornava il buonumore. Da lì scrissi una frase in “Non date retta a me’’(Brano che dà il titolo all’EP) ‘’Mi presento: sono un inventore ma solo di strofette che portano buonumore!” …Ecco perché dovrebbero avvicinarsi alla mia musica: le mie strofette cercheranno a tutti i costi di far sorridere. Chissà se ci riusciranno….ma non vale la pena provare???

In questo spazio puoi promuovere tutta la tua attività…
Vengo da un periodo in cui, fortunatamente, ho avuto modo di suonare abbastanza. Recentissime le esibizioni a Battipaglia in due fantastici locali a cui aspiravo da tempo , il Capri Jazz Bar e La Cruna dell’Ago, per ‘’Prove di Rock’’. Sono in trattativa per le prossime settimane per altrettante serate, tra cui l’esordio in quel di Napoli in cui spero molto. Ad aprile intanto, l’11 sarò al Tex Saloon di Cava dè Tirreni  per ‘’Democraticontest’’,  il 17 al Koy Tavern di Fisciano. E sarò in compagnia del mio attuale compagno di “duo’’, Daniele Brenca, con basso e contrabbasso.
Per quel che riguarda lavori prossimi in studio, a sei mesi dall’uscita dell’EP, sto iniziando a pensare ad un secondo disco contenente una decina di canzoni. Ad anticiparlo, un brano registrato in acustico, chitarra e armonica, intitolato ‘’Marlene’’ (Che tral’altro potrete ascoltare su Youtube). Mi ero prefissato l’uscita di quest’ultimo ad un anno esatto da quella dell’EP, ma, essendo andato incontro agli elevati costi dell’autoproduzione, credo che i tempi saranno un po’ lunghi. Spero di trovare un’etichetta, insomma. Ma se così non fosse, nessun problema, qualche mese in più e il lavoro sarà comunque fatto…ho una voglia matta di dare un proseguio a ‘’Non date retta a me’’!
Abbiamo parlato poi di contest, oltre al vostro appena terminato e vinto(Yuppiii!!), sono in corsa per il ‘’Democraticontest’’ di cui accennavo prima, e per l’ “Ecomusic Festival’’, progetto interessante creato dall’associazione di Agropoli Panico Art. Possibilità di finanziamenti e di aperture di concerti importanti le poste in palio.
Altro progetto iniziato di recente con l’amico cantautore Martin Devil, è quello di omaggiare con svariate cover i grandi cantautori della musica italiana che più amiamo in una “rassegna’’ a cui abbiamo dato il nome di Lunedì d’autore La prima canzone, “Genova per noi’’ di Paolo Conte
Ora lascio un po’ di miei contatti…
La mia OfficialPage su Facebook, eccola qui.
Il mio canale Youtube…voilà.
Il mio MySpace (Che però non uso mai).
La mia mail: Martinokk@libero.it
Ah, se avete voglia di guardare i miei due primi videoclip ufficiali:
Marika Discarica (Video completamente improvvisato durante la manifestazione contro una discarica follemente progettata nel Parco Nazionale del Cilento)
…. Le physique du role (Video della canzone vincitrice del concorso, che con varie scenette racconterà il mio fantastico rapporto con lo sport)

Ciao Rockambula! Oh…Yeah!

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Sailor Free

Written by Interviste

Intervista ai Sailor Free, band capace di creare uno dei migliori concept album ascoltato negli ultimi mesi.

Ciao. Per prima cosa, come state?
Bene, grazie.  E tu?… intendevi come band? Siamo attenti, determinati.

Cerchiamo di conoscere meglio i Sailor Free? Perché questo nome? Qual è la storia musicale della vostra band e dei suoi membri?
La storia musicale dei membri dei Sailor Free sarebbe un po’ troppo lunghina, perché siamo grandicelli. Alcuni di noi suonano insieme dalla fine degli anni ‘70. Abbiamo sempre fatto musica insieme e separatamente, di molti generi diversi, dalla world music al metal. Nel ‘91 abbiamo deciso di mettere su questa band e il nome Sailor Free nasce proprio dall’idea principale, quella di navigare in libertà tra i generi musicali, le culture, le idee.

Una carriera ventennale ma otto anni di silenzio. Coma mai una pausa tanto lunga?
Come dicevamo, il nostro rapporto, musicale e personale è molto stretto e antico. Nel periodo di pausa dei Sailor Free io ho continuato la mia attività con il gruppo di world music e un album solista nel 2009; gli altri Sailors coinvolti in band metal o in produzioni…  Ma le prime composizioni, le idee sulla storia e tutto il materiale di questo nuovo album inizia ad apparire molti anni fa.

Passiamo subito a parlare del disco. Spiritual Revolution. Siamo nel 2013 e alcuni mesi fa decidete di realizzare un lungo concept album di forte impronta progressive, ispirata ad un’opera di Tolkien. Non avete avuto paura di suonare anacronistici?
Spiritual Revolution nasce grazie alla collaborazione di un team allargato. Un percorso di collaborazione che è iniziato più di 10 anni fa. La scommessa era quella di riuscire a fare un’opera ben fatta in tutti i suoi aspetti, creativa, sincera e professionalmente ineccepibile, senza poter accedere a grandi investimenti. Grazie a questo team creativ – Nik Redian che inventa e scrive storie ed interi mondi, Terrence Briscoe che trasforma in immagini le nostre allucinazioni, i nostri fonici  Raimondo Mosci e Gianmario Lussana e tutti gli altri, che hanno aiutato e aiutano questo progetto – siamo riusciti a realizzare tutto questo. Il futuro della musica e dell’arte in generale, secondo me, è quello di recuperare sincerità, determinazione, collaborazione e condivisione. Deve tornare ad essere l’arte a muovere il mercato, non viceversa.
Se tutto ciò suona anacronistico, di questi tempi? Può darsi, ma in realtà speriamo di essere soprattutto di esempio.

Uno dei punti focali dell’opera è il concetto di energia inteso come esistenza, come intuizione della ragione e dell’anima. Allontanarsi dalle strade comuni e conservatrici per sperimentare nuove vie che possano permettere un arricchimento sociale condiviso. Concetti legati all’ideologia della Spiritual Revolution People. Di cosa si tratta?
Crediamo che il mondo sia arrivato ad un passaggio cruciale, un profondo cambiamento. Secondo noi è chiaramente percepibile. Volevamo inserire questa sensazione, questa idea nella nostra storia, che si veniva formando. Siamo incappati (circa 4 anni fa) in un sito web, Spiritual Revolution People (SRP), che non propone un’ideologia, né tanto meno una religione, ma un metodo, un percorso artistico, simbolico, per prepararsi a questo cambiamento. Ci è sembrato interessante l’aspetto creativo e artistico proposto da SRP, così abbiamo accolto il loro approccio e l’abbiamo inserito nel nostro lavoro. Siamo anche noi dei Messaggeri SRP, oramai.

Altro elemento portante è il legame con il Silmarillion di J.J.R. Tolkien. Cosa lega le due cose?
Sì, mettiamo un po’ le cose in ordine, hai ragione. Diversi anni fa abbiamo cominciato, con il team creativo, partendo dall’idea di realizzare un musical, una rock opera su uno straordinario racconto, “Beren and Lùthien”, dal Silmarillion di Tolkien. Il racconto ci conquistava per la sua straordinaria sintesi narrativa, che riusciva a toccare ed evidenziare emotivamente una quantità incredibile degli aspetti importanti della vita. Ma da questo impianto emotivo-narrativo iniziava a prendere forma un’altra storia; una storia diciamo di fantascienza, ambientata nel futuro. Uno di quei futuri che, se guardi bene, puoi già sbirciare.

Quest’opera (il Silmarillion) è stata ispirazione di tante band come Blind Guardian o Marillion. Cosa vi rende diversi, nella lettura di Tolkien?
Non so se questo ci rende diversi, ma noi siamo partiti dal racconto di Tolkien per arrivare a scrivere una storia originale, ambientata in un futuro prossimo, con i nostri personaggi e le nostre dinamiche. Non ci siamo riferiti all’iconografia fantasy dell’universo tolkieniano, ma più ai suoi contenuti spirituali, diciamo.

Da un punto di vista musicale come siete riusciti a far suonare il vostro lavoro come qualcosa di moderno e attuale partendo da premesse progressive e Psych Rock tipiche di decenni fa?
Credo sia perché non abbiamo mai smesso di fare e ascoltare musica, in questi anni. Abbiamo realizzato diversi album separatamente e, ad essere sinceri, credo che il fatto di non aver raggiunto il grande successo ci ha protetto dalla tentazione di smettere di fare ricerca per inseguire la replica di quel successo.

Un concept che parte da un’ideologia semisconosciuta, passa per l’opera di Tolkien, abbraccia diversi generi musicali molto complessi (ambient, drone music, progressive, alternative, ecc…), spazia tra le melodie, le ritmiche, i cambi di tempo spesso dentro lo stesso brano. Esiste veramente un pubblico che sappia apprezzarvi oggi in Italia? Non rischiate di essere “troppo”?
Rischio assolutamente non calcolato: noi siamo fatti così, siamo soliti riversare nella nostra musica tutti i nostri input emozionali e culturali, tentando di operare una sintesi, a volte riuscendoci, altre meno, ma sempre, speriamo, con risultati affascinanti per chi ha ancora voglia di sognare.

La vostra musica è piena di voi, della vostra personalità, della vostra anima ma ci sono molti punti di riferimento che vi possono legare a The Cult, ai Muse, ai Tool, ai Pink Floyd. Io ho notato ad esempio in “Daeron” una discreta assonanza con Robert Wyatt. Quali sono gli artisti che vi hanno maggiormente influenzato?
Ti ringrazio della premessa. Certo, immagino che ci siano influenze di tante bands importanti, magari anche alcune di quelle che hai citato o di altri; anzi, la lista delle bands e dei generi musicali è così incredibilmente lunga che l’abbiamo raccolta e riportata sui nostri siti. Innanzi tutto dobbiamo ricordarci che facciamo musica da molto tempo, ed essendo sempre stati in attività, alcuni linguaggi li abbiamo vissuti direttamente; ma la cosa credo più importante che avviene tra noi è un meccanismo da band, e le nostre diverse competenze, i nostri diversi gusti musicali, quando facciamo musica insieme, si sommano, si moltiplicano.
E’ una specie di magia…

Hard Rock, Psych Rock, World Music, Post Rock/Metal, Alt Rock, Ambient, Drone Music, Pop. Tutto dentro Spiritual Revolution. Immagino che da buoni artisti non amiate le categorie. Come far capire a un lettore allora, che musica può ascoltare con il vostro album?
E’ un disco Rock. E’ un disco che va ascoltato soprattutto con il cuore. Un disco che sa dare qualcosa in cambio. Capisco che per parlare di musica si debbano scegliere delle parole per spiegare al lettore cosa può ascoltare. Ma, secondo me, lo sforzo nel dare etichette diventa una limitazione eccessiva, per tutti. Così va a finire che le opere si assomigliano tutte un po’ troppo, no? Noi abbiamo sempre inteso la parola progressive, che spesso ci viene associata, come la si intendeva alle origini: la forza di sperimentare, non la sterile riproposizione di standard musicali esauritisi negli anni ’70. Da quei tempi ad oggi sono accadute tante belle cose nella musica, che i SF hanno vissuto e assorbito, e che si fondono con il resto nel nostro modo libero di fare musica… In questo senso sì, allora si può dire che i Sailor Free suonano progressive.

Nella mia recensione scrivo che questo “non è certo un disco che si può ascoltare con facilità e non è un disco per tutti. Ha bisogno di attenzione, tempo, buona preparazione. È l’esatto opposto di quello che la musica sta diventando”. Cosa ne pensate? L’arte può essere per tutti? E perché la musica, l’arte suprema, diventa sempre più intrattenimento per un pubblico incapace di distinguere, scegliere, capire?
Bene, nella domanda c’è già parecchio della risposta. L’arte è per tutti. Il sistema sta imbrigliando l’arte e gli sforzi artistici. Il pubblico sa quello che gli è permesso di conoscere. Se la maggior parte della gente in Italia sente le radio e guarda la televisione si abitua a sentire musica leggera, in tutte le sue forme, ed accettarla come un dato indiscutibile di realtà possibile. Purtroppo e’ una triste storia di droga. Una storia di dipendenza. Io sono ormai disintossicato. Prima ho provato a diminuire le dosi, ma non c’era niente da fare… ora, da più di due anni, ho smesso. Non ho più la televisione. E sto molto meglio, amici miei…

Cosa viene dopo Spiritual Revolution? Ci sarà un nuovo disco, magari legato a questo? Ci sarà un tour?
Ci sarà un tour, sicuramente, a partire da questa estate, e poi la preparazione di Spiritual Revoluton part 2; infatti questo appena uscito è il part 1… la storia è già scritta e stiamo completando la scrittura dei brani. Magari un giorno avremo l’occasione di raccontare questa storia musicale per intero, in uno spettacolo live.

Cambiamo argomento. C’è qualche nome nuovo che vi piace molto? Sia italiano che straniero, ovviamente.
DP: Giro la domanda a Stefano Tony, il batterista, che è sicuramente il più aggiornato di noi.
ST: Domanda da 10.000 punti! Steven Wilson è un nome nuovo? E’ già in giro da più di una decina di anni con i Porcupine Tree. Ma da quando si è convertito al progressive tira fuori dal cilindro idee molto interessanti, specialmente quando si
confronta con generi così diversi dal suo (vedi Opeth). I Tool e gli A Perfect Circle sono nomi nuovi? Ma sono creativi e onesti. E poi c’è quella dolce fanciulla (…!?) inglese che risponde al nome di Kate Bush che, con la  collaborazione di un nome nuovo alla batteria (un certo Steve Gadd, you know), disegna paesaggi innevati con la sensibilità di un Tim Burton o di… una Kate Bush di trent’anni fà!
DP: Va be’… come non detto!

Come è cambiata la musica nel corso degli ultimi vent’anni? Perché l’Italia sembra sempre un passo indietro. Colpa del pubblico avverso a chi osa o colpa dei musicisti che preferiscono non osare?
E’ un po’ chi viene prima tra l’uovo e la gallina… Diciamo che una catena peccaminosa, che porta sempre più giù, ormai è partita, e da tempo: meno i musicisti rischiano, meno la gente compra musica o la vive live, e meno prove si fanno, e meno ti pagano i club e i giovani con i contest e giù fino all’inferno di x-factor… Ahhhh!!!
Qualcuno deve puntare i piedi e cominciare, con fiducia e fatica, la risalita. E dato che non immagino manifestazioni di pazza del pubblico che chiede più impegno ai musicisti, mi sa che tocca ai musicisti riprendere il coraggio di osare.

Che ne pensate del crowdfunding?
Fantastico! Condivisione. Può diventare una vera rivoluzione, con il tempo. E’ un modo intelligente per saltare i passaggi del grande profitto, che non va a vantaggio né di chi fruisce la musica, né di chi la fa. Dal produttore al consumatore, chilometro 0, insomma. Noi sicuramente useremo anche il crowdfunding per produrre il nuovo album.

L’arte è prostituzione, diceva Baudelaire. Si può (soprav) vivere oggi, solo della propria arte?
Credo che Baudelaire intendesse prostituzione  in quanto essere estremamente donativi e intimi in cambio di un compenso, non credo si riferisse allo sputtanamento della banalità o della patetica rincorsa di un possibile successo.
Lo chiedi a me, io vivo di questo… certo che si può, oggi, vivere della propria arte; è una strada durissima e piena di tentazioni, ma si può fare. Io, nel mio piccolo, ne sono una prova vivente, no? Ma perché, le altre strade, in questo momento, sono facili? Direi di no, è un delirio ovunque, per l’arte; perciò, adesso più che mai vale la pena rischiare, fino in fondo, dando tutto… tanto è comunque difficile.

Quale è il vostro sogno di musicisti e la vostra paura più grande?
Dopo che hai fatto la tua musica, la tua ricerca, con sincerità e totalità, la cosa più importante è comunicarla, condividerla, quindi, certamente, il grande successo è il desiderio più grande. La paura più grande, come musicista, è non riuscirci.

Chi è la grande truffa dell’Indie italiano? Non risponde mai nessuno ma io ci provo comunque.
Fai bene a provarci, e fanno bene tutti a non rispondere. Eh eh… Intendo dire che stiamo già tanto nei guai che facci pure mettere l’uno contro l’altro! No, scherzo… a me non piace niente dell’indie italiano. Ma no, scherzo… A me piacciono quelli veri, che non la raccontano ma la vivono. Abbiamo da tanti anni un rapporto di stima con Dome La Muerte (ex Not Moving) adesso in giro con i suoi Diggers, ma lui non è la truffa, è quello vero.

Domanda freschissima. Visto il risultato elettorale, cosa succederà all’Italia, alla cultura e alla musica nel nostro paese?
L’Italia, secondo me, potrebbe essere il parco divertimenti dell’Europa: clima buono, natura varia e ricca, cibo e vino senza rivali, raffinati e dotati nelle eccellenze, anche industriali, siamo anche simpatici, socievoli, si può dire, eravamo di molto talento… abbiamo una straordinaria quantità di arte, antica, che va preservata… bene, ma gli italiani stanno ancora qua, non è un popolo estinto, per cui finché qualcuno non si metterà in testa che l’arte è una cosa Viva, che va nutrita e stimolata ORA, che gli artisti devono poter esistere, vivere, ora… ma nessuno parla di questo, al massimo qualcuno parla delle rovine romane. Ho incontrato un gruppo belga di rock ultra sperimentale in tournèe a spese dello stato, e non credo fossero cugini dello zio del ministro della cultura… Il risultato elettorale? Vediamo… la strada è lunghina. Se qualcosa del sistema si sfascia, io sono contento.

Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto? Poi, se volete, rispondetemi.
Non saprei… forse potevi chiedermi qualcosa sulla situazione della musica Live in Italia… ma per fortuna non l’hai fatto!

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Gambardellas

Written by Interviste

È troppo facile pensare che per fare un buon disco ci vogliano solo buoni strumenti e buona tecnica. Se non spendi il tuo tempo sulle idee e non prendi ispirazioni a destra e a manca, anche al di fuori degli ambiti prettamente suonerecci, quello che matematicamente otterrai sarà un disco di merda. Mauro Gambardella è uno che di tempo alla musica ne ha dedicato, ed i risultati si vedono, anzi si sentono, nel disco d’esordio dei suoi Gambardellas, Sloppy Sounds. Se non avete ancora idea di cosa stiamo parlando, questa breve chiacchierata esplicativa può schiarirvi le idee…

Chi è Mauro Gambardella e chi sono i Gambardellas? Quali sono le differenze fra queste due entità?
Mauro Gambardella è un batterista che ha lavorato a lungo nella e sulla musica e i Gambardellas sono la manifestazione di quello che la musica ha rappresentato per lui nel corso della sua vita. Il disco di questo progetto è il disco che ho sempre voluto realizzare, ci è voluto del tempo e molta costanza ma sono davvero soddisfatto. È un sogno che prende vita.

Come hai vissuto il fatto di essere un batterista atipico portatore sano di idee e proposte di scrittura? Ti sei mai sentito come un giocatore di hockey su ghiaccio in un campo di calcio?
È sempre stato difficile imporre le proprie idee all’interno delle band, soprattutto quando queste idee andavano a coprire gli ambiti della melodia ed armonia di un brano. La difficoltà stava anche nel riuscire a fare capire quello che nella mia mente era perfettamente chiaro ma nella pratica ero incapace di realizzare per mancanze tecniche su strumenti che non fossero la batteria. Mi sono messo dunque di impegno, ho sviluppato le mie doti su altri strumenti e ho lavorato con un produttore che fosse in sintonia con il mio pensiero.

Quali sono le principali fonti di ispirazione (anche al di fuori della musica in generale) per i Gambardellas?
Musicalmente parlando ce ne sono tantissime: da questo lavoro in particolare si possono percepre band rock americane ed inglesi in generale: dai Rolling Stones ai Foo Fighters, dai Queens of the Stone Age ai Devo. Sloppy Sounds rappresenta quello che sono staato fino ad ora. Il cinema è un’altra grande fonte di ispirazione: ogni canzone soprattutto dal punto di vista di arrangiamento e testo deve essere come un film perfetto: i giusti sali e scendi, i giusti colpi di scena ed i grandi finali. In tal senso amo profondamente Tarantino, Tim Burton e la maestosità di Nolan.

Nel vostro album d’esordio Sloppy Sounds tecnica e idee si fondono egregiamente per dar vita ad un prodotto di respiro internazionale. Questo vi colloca in po’ fuori dalla scena italiana dove si predilige il più rassicurante idioma nazionale. Scelta istintiva o ragionata?
Non mi sono mai posto il problema, istintivamente sono andato sull’inglese e ho portato avanti la cosa. Credo che il nostro genere si confaccia di più a questa lingua e l’obbiettivo estero è un nostro pallino, ci stiamo lavorando.

Per Flash, opening track di Sloppy Sounds, è stato realizzato un video per la regia di Davide Menchetti. Come è nata l’idea del concept (nel video ti si vede suonare contemporaneamente basso, batteria e chitarra)? La sfrutterete di nuovo in futuro per dare ancora più risalto al fatto che in realtà questo sia un progetto personale?
Il video vuole essere un’introduzione a questo progetto: mi sono fatto davvero in quattro per ottenere quello che ho ora. Tutto è iniziato da me con in mano una chitarra ed una manciata di canzoni. Poi pian piano si sono aggiunti prima Fabio Dalè che ha coprodotto e registrato con me l’album, poi Fabio Trentini che lo ha mixato ed infine la band che mi segue dal vivo: Glenda Frassi, Grethel Frassi, Alessio Lonati ed Andrea Gobbi. Mi piace considerarla una grande famiglia allargata anche se per ora il perno e l’immagine del gruppo “pesano” solo su di me. In tal senso ho sempre amato band come Queens of the Stone Age, Eagles of Death Metal o Nine Inch Nails per la loro capaciità di mantenere un piccolo nucleo fisso ed interscambiare gli altri membri della band pur mantenendo coerente il sound.

Avete in programma di realizzare altri video per Sloppy Sounds? A me piacerebbe molto vedere il video di Tito, ma se vuoi puoi rispondermi “e sti cazzi?!”
Tito è sicuramente uno dei pezzi più di impatto, ci stiamo ragionando ma credo che un secondo singolo sia d’obbligo, soprattutto di questi tempi in cui i video sono così richiesti dalla rete.

La scena contemporanea della musica italiana, così come della musica in genere, pare vivere un momento di stasi dove non è inquadrabile una vera e propria “scena musicale”. Quanto è importante per i Gambardellas poter entrare a far parte di una scena e condividere idee oltre che concerti o pubblico? Secondo te c’è bisogno di questo tipo di interazioni fra artisti per crescere e dare più respiro e visibilità alle proprie produzioni?
È da anni che porto avanti questa idea di condivisione. Solo creando una vera scena  musicale si possono creare circoli virtuosi che portino dei miglioramenti nel povero mondo musicale italiano. Un esempio pratico è la città di Brescia. tutti si chiedono come mai da lì vengano così tante band valide. Il motivo è da ricercarsi nella cooperazione tra band tanto in fase di suonato quanto nel vicendevole supporto sottopalco durante i concerti. Questo ha favorito gli stessi locali che sono trovati una clientela interessata a musica di qualità e che riempiva i loro locali, questi a loro volta si sono rivolti a veri promoter che ricercassero e fissassero date a band valide e così via. Se si facesse a livello nazionale sarebbe la svolta ma spesso ci si mettono di mezzo delle politiche strane degli addetti ai lavori e spesso la non voglia da parte della band di volersi adattare a nuove situazioni. qualcosa si sta muovendo ma c’è ancora da lavorare.

Parlaci del concorso che coinvolge i tuoi fans. Di che si tratta?
Siamo una band nuova ed il nostro obbiettivo è come prima cosa far sentire la nostra musica senza troppi vincoli. Abbiamo voluto regalare in occasione dell’uscita dell”album 5 cd a 5 fortunati ragazzi estratti tra coloro che avevano condiviso il nostro video sul proprio profilo. Penso che sia davvero la gente che decide cosa funziona o meno nella musica e volevamo dimostrare la nostra gratitudine a coloro che ci seguono e ci ascoltano.

Prossimi live?
Siamo in tour in questo momento. Abbiamo diverse date programmate in tutta italia, da Milano a Napoli. Il nostro live è molto paricolare, io dal vivo continuo a suonare la batteria e sono la voce principale, già questo è piuttosto inusuale ma penso che il colpo d’occhio ripaghi bene gli sforzi per montare il live. Potete trovare tutte le date sul nostro facebook.

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Roberta Carrieri

Written by Interviste

Roberta Carrieri è tante cose. Simpatica, disponibile, alla mano, ma soprattutto una bravissima cantante e un’autrice divertita e divertente. La raggiungo via mail per un’intervista sul suo ultimo disco, Relazione complicata, ma anche sulle donne in musica, sul valore delle collaborazioni, sulle sue esperienze all’estero e sull’importanza delle proprie radici.

Partiamo dal nuovo disco, Relazione Complicata, uscito da pochissimo. So che è un concept, ce ne vuoi parlare?
Sì, è un concept che si muove intorno al tema delle “relazioni complicate”, idea che mi è venuta a seguito della lettura del libro della psicoterapeuta americana Robin Norwood che affronta la questione delle dipendenze affettive. Ho pensato: perché non provare a scrivere canzoni raccontando in modo ironico varie tipologie di relazione complicata? E sono venute fuori le canzoni di questo disco.
Per relazione complicata non intendo solo quella sentimentale tra uomo e donna, naturalmente. Bari Vecchia, per fare un esempio, parla della relazione complicata nei confronti della propria città… nel mio caso, Bari.

Com’è nato, e come si è sviluppato, Relazione Complicata? Ho letto che partecipano al disco i Rock’n’Roll Kamikazes e i Selton. Come sono nate queste collaborazioni e quanto hanno influito sul prodotto finale?
I Selton sono i “Pirati” de Il Valzer dei 3 giorni. Nutro una grande stima per loro sia come musicisti sia come persone, perché sono sempre solari e ben disposti, dote rara. Mi è piaciuto in questo disco sottolineare l’incontro tra maschile e femminile utilizzando interventi di voci maschili disseminati qua e là… oltre ai Selton, infatti, ci sono anche altre voci maschili, tra cui Aldebran dei Bloody Mary e Andy Macfarlane dei Rock’n’Roll Kamikazes. Con loro ho voluto sperimentare un incontro musicale atipico, visto che io vengo dal folk e e queste canzoni erano, per scrittura, abbastanza pop (nel senso dei ritornelli facili). Volevo vedere cosa sarebbe successo suonandole con un gruppo rock’n’roll/rockabilly e quello che ne è venuto fuori è questo suono un po’ western, surfeggiante a tratti, “Paris, Texas”. Quindi devo dire che sono più che soddisfatta dell’esperimento.

Quanto conta l’elemento femminile nelle tue canzoni? Più in generale: credi che “la donna in musica” sia in qualche modo “condannata” a cantare della propria (o altrui) femminilità, a farci sempre, e comunque, i conti? Secondo te questo è un valore o un limite, o entrambi?
Questa domanda la trovo molto interessante… la donna a mio parere non canta la propria femminilità, né è condannata a farlo… è semplicemente, naturalmente e inevitabilmente quello che è, cioè donna. Quindi non deve farci i conti, non è un valore e non è un limite. È quello che è.
Hai mai fatto la stessa domanda a un uomo? Anche gli uomini cantano inevitabilmente quello che sono come persone, portandosi dietro inevitabilmente la loro mascolinità. (Lo stesso vale per tutte le altre sfumature di identità sessuale naturalmente). Nessuno però se ne pone mai la questione… prova a chiedere agli Zen Circus se si sentono condannati a cantare la loro mascolinità! O agli Afterhours… o a Capossela… Il limite vero, nella realtà dei fatti, è che in Italia le autrici, rispetto agli autori, sono ben più rare, ed è per questo che ci viene da fare questo tipo di domande… bisognerebbe che ce ne fossero di più! Ma vedrai che pian pianino succederà.

Ti seguo abbastanza, e vedo che suoni spesso all’estero (da sola, ma anche “ben accompagnata”, con Voltarelli, ad esempio). In passato hai anche fatto tournée negli States e altrove. Com’è suonare musica italiana per il mondo? Come vengono recepite le tue canzoni nei Paesi in cui sei stata? C’è qualche episodio particolare che ti ha colpito?
Accompagnata benissimo direi! Peppe è un mio grande amico e dividere il palco con lui è veramente uno spasso. Qualche giorno fa siamo stati insieme a suonare a Bruxelles e quest’estate abbiamo condiviso l’intensissima esperienza del Festival di Avignone con anche Gabriella Grasso. L’esperienza all’estero è cominciata per me con i Fiamma Fumana con i quali ho avuto la possibilità di girare in lungo e in largo per Stati Uniti, Canada e Nord Europa. Devo ammettere che la cosa è molto gratificante, soprattutto perché all’estero ho sempre cantato in italiano (le mie canzoni) o addirittura in dialetto, con i Fiamma Fumana. Il pubblico apprezza proprio questo, la nostra identità culturale, e comunque rispetto all’Italia è un pubblico un po’ più curioso rispetto alle novità e alla musica, probabilmente perché meno succube della televisione… un episodio particolare che mi ha colpito è stato quando in America, e precisamente quando ho aperto per Rita Coolidge all’auditorium della Riserva Navajo a Shiprock, N.M., mi volevano pagare i cd più del loro prezzo, insistendo e dicendo che valevano di più!

Ho visto che su Youtube, nella descrizione del teaser inglese del tuo ultimo disco, viene specificata la tua provenienza pugliese. Che rapporto hai con le tue radici, dalla Puglia, al Sud, all’Italia intera? Come accennavi prima, hai anche cantato nei Fiamma Fiumana, uno dei più importanti gruppi di “italian world music”. Quanto conta, nella tua esperienza, la musica popolare?
Sono stata appassionata di musica popolare per anni, poi la mia attenzione musicale si è spostata verso altri lidi, conservando naturalmente quell’imprinting. Sono del Sud e orgogliosa di esserlo, anche se mi è piaciuto assorbire le cose belle dei posti che ho incontrato. Una certa attitudine mediterranea, soprattutto nei rapporti con gli altri, la porto e la porterò sempre con me, cercando di non dimenticarla mai. Un po’ come il mare. La canzone Bari Vecchia contenuta in Relazione Complicata parla proprio di questo, e della relazione conflittuale che si può avere con la città nella quale si è nati e cresciuti, e dalla quale poi, per un motivo o per l’altro, si è dovuti andar via, portando però sempre dentro di sé quel mare a cui si è stati abituati da quando si è nati.

So che vieni dal teatro, e in generale da esperienze attoriali, e che occasionalmente questa tua passione riaffiora (ti ricordo nel ruolo di ballerina indemoniata nel video – molto bello – di Farà Cadere Lei de Il Pan Del Diavolo). Quanto ti porti dentro di queste esperienze, sul palco e nel tuo modo di scrivere?
Quando lavoravo al Teatro Kismet a Bari avevo imparato (grazie agli insegnamenti della mia maestra Teresa Ludovico) a pensare per immagini o azioni più che per parole: se con i Quarta Parete questo si traduceva concretamente in azioni o immagini in uno spettacolo a metà strada fra la musica e il teatro in cui i due frontmen cantanti si muovevano come in un “videoclip dal vivo”, ora che vado in giro a suonare accompagnandomi con la chitarra e ho le mani occupate (!), ho spostato questa attitudine nei testi e nell’interazione col pubblico… in quest’ultimo disco un po’ di teatralità la si può ritrovare anche nel lavoro fotografico del booklet, opera del fotografo (nonché amico) Stefano Ruzzante. Del video de Il Pan del Diavolo conservo un ricordo molto forte… sono tornata a casa con le gambe completamente scorticate ma contenta perché era stata una danza liberatoria (un po’ come la pizzica tarantata).

Per finire, mi accorgo, facendoti tutte queste domande, che collabori tantissimo con altri artisti (se dovessi fare un elenco ci metterei due giorni). Quanto credi sia importante fare “rete”, nel mondo musicale italiano? Credi sia fondamentale per la crescita di un artista, o pensi sia spesso solo un modo per farsi più pubblicità possibile (senza esserci, in questo, necessariamente qualcosa di male)? Nella tua storia personale, quanto ti ha aiutato come artista e come persona? Sono state occasioni casuali o progettate?
Fare rete è importantissimo, soprattutto se si tratta di persone con le quali si condividono intenti e immaginari. Facendo rete si cresce insieme nello scambio di vedute, esperienze e abilità peculiari messe in condivisione. Non penso sia un fatto di pubblicità, io personalmente credo che non potrei condividere il mio tempo e la mia energia vitale con qualcuno che non stimo e che non mi stimoli, solo per farmi pubblicità. Sarei infelice se lo facessi. Certo la collaborazione con Van de Sfroos mi ha dato molta visibilità, ma se alla base non ci fosse stata la simpatia musicale (e personale) e la curiosità reciproca, la cosa non sarebbe avvenuta sicuramente, o comunque non sarebbe durata quanto è durata. Le collaborazioni in generale mi hanno aiutata nel senso che mi hanno dato la possibilità di imparare da chi ne sapeva più di me (o anche semplicemente in maniera diversa da me) e di arricchirmi della sua esperienza, sia dal punto di vista artistico che personale, come, giustamente, dici tu. Questo è successo anche quando nella collaborazione ricoprivo io il ruolo di quella più “brava” o più “conosciuta”, perché è nell’incontro che ci si arricchisce ed è reciproco. Poi secondo me è necessario sempre essere aperti e umili, altrimenti l’incontro non avviene. Quindi, insomma, concludendo, le collaborazioni che mi è capitato di avere non sono mai state progettate, ma per usare una parola importante… sono forse stati “incontri karmici”.

Relazione Complicata è disponibile su iTunes qui.

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Two Guys One Cup

Written by Interviste

Quando credi che la serata sia già finita e ti appresti ad affrontare il bicchiere della staffa, di norma non ti aspetti più di tanto dal resto della giornata. Invece, a volte, succede qualcosa che può sorprenderti piacevolmente e che può portarti a prolungare ancora la serata (ed anche a continuare a bere, ma questa è un’altra storia). Disilluso e stanco mi trovo per caso ad ascoltare, nel buio del Qube di Pescara, un duo di power rock veramente valido ed a me fino ad allora sconosciuto, i Two Guys One Cup. Stefano Galassi, il batterista, picchia sodo e pare non perdere mai la concentrazione mentre Federico Falconi suona come un invasato la sua chitarra e coinvolge con le sue liriche anglofone. Ma dove sono finito? Non volevo farmi un solo bicchiere ed andare a casa? Invece, dopo una ventina di bicchieri della staffa, ecco che parte inevitabilmente la chiacchierata.

Two Guys One Cup. Dove nascono, cosa fanno e dove vogliono arrivare?
Noi veniamo da Teramo, ed il nostro genere può essere associato al rock indipendente, anche se di preciso non sappiamo classificarci. Riguardo a dove voler arrivare beh, vorremmo diventare famosi solo per avere una giustificazione nel portare gli occhiali da sole di notte. È da artisti. Con le lenti specchiate, magari.

Parliamo un po’ della vostra musica. Quali sono le vostre influenze? Vi ispirate a band come Japandroids o Death From Above 1979 che vi somigliano molto sia per formazione che per musicalità o le vostre scelte sono diverse?
Noi non abbiamo propriamente delle ispirazioni, a parte magari Hives, Mojomatics e roba simile. Facciamo semplicemente quello che ci piace e cerchiamo di farlo nei nostri limiti. Puntiamo molto suoi suoni, essendo un duo dobbiamo spingere su quest’aspetto per creare un sound compatto.

Il panorama italiano musicale al momento: vi appassiona o vi fa schifo? Come vi ponete al suo interno o meglio, c’è un posto per voi al suo interno?
La scena italiana è morta anni fa. Non c’è spazio per i giovani, per le band underground o per chi cerca semplicemente di fare musica che non sia mainstream. Però siamo ottimisti: forse, un giorno, qualcosa si ricostruirà e noi saremo lì, pronti ad occupare il nostro posto.

Quanto pensate che la formula del duo sia vincente? Come nasce l’idea di suonare con una line-up così scarna?
È sicuramente un’idea vincente al 100%, poiché ci aiuta ad essere più liberi ed indipendenti. Essere in due ci aiuta molto in questo, non ci sono fronzoli e cerchiamo di essere più diretti possibile. La difficoltà arriva soprattutto durante i live: in due devi spingere per cinque, cercando di trovare il suono e la potenza giusti per non far rimpiangere una formazione classica di più elementi. È difficile anche perché il pubblico nota molto più i tuoi errori: se sbagli in una band “canonica”, non risulta così evidente come quando si è in due.
La scelta poi nasce fondamentalmente dall’amicizia e dalla voglia di cercare qualcosa di veramente impegnativo che ci soddisfacesse a pieno: in due è più facile far collimare le idee, ma un altro conto è farle suonare bene quando si hanno a disposizione solo chitarra e batteria.

A proposito di cose difficili: la scena musicale della vostra regione è già di per sé scarna ma anche inficiata da un mare di cover/tribute band. È difficile suonare per voi nella vostra regione?
La musica ormai è solo una questione di soldi. A chi gestisce questo mercato non importa la qualità o la novità, ma la quantità di gente che porti. Ed il problema non è solo in Abruzzo, ma in tutta Italia ed anche all’estero: a Londra abbiamo visto che suonano una marea di cover band, anche se chi ha proposte originali ha molto più spazio rispetto che da noi.

I vostri testi sono in inglese. È una scelta portata esclusivamente dalla musicalità del prodotto finale o legata alla voglia di uscire fuori dall’Italia?
Non abbiamo mai pensato di fare testi in italiano perché fermarsi qui vuol dire morire. Se vuoi campare e farti conoscere qui con la musica è meglio fare del pop, e non è di sicuro il nostro caso. Cerchiamo di andare avanti con i nostri pezzi per espatriare, restare unicamente qui è deleterio. Prima c’era più spazio per gruppi emergenti o originali, sia nei centri sociali che nei locali si suonava parecchio, forse perché c’era anche più cultura musicale. Oggi Dj Set e cover band spadroneggiano e fanno molti più numeri che una band sconosciuta; questo ti porta a desistere, ma allo stesso tempo ti sprona ad andare avanti per dimostrare che la tua è comunque una proposta valida.

A questo proposito: cosa manca alla cultura musicale italiana rispetto a quelle anglosassoni o mitteleuropee?
Il valore della musica è differente. Si è perso il gusto di ascoltare rock o punk qui in Italia, non si trasmette più il fatto di ascoltare musica come cultura ma solo come forma di disimpegno. Poi ricerca e cultura in ambito musicale sono scomparse. Tutto questo si riflette anche sul pubblico, che cerca sempre di più una forma di intrattenimento “leggero” piuttosto che fermarsi ed ascoltare. La gente forse non sa che esistono band che spingono allo stesso modo davanti a quattro o quattrocento persone. Noi siamo così, abbiamo limiti di carattere tecnico ma sul palco diamo tutto e lo facciamo per passione, di certo non per darci delle arie. Poi c’è chi va a suonare, prende i suoi soldi ed il giorno li usa per mangiarsi una pizza. Noi non siamo così.

Parlateci un po’ del vostro disco Life Beyond the Door e dei vostri progetti futuri.
Life Beyond the Door è uscito da un mese ed è completamente autoprodotto, ascoltatelo, ne vale la pena. Inoltre siamo già in studio con altre idee, anche se è prematuro parlarne. La prossima data sarà a Roma, seguiteci su facebook per scoprire tutti i nostri live.

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REVERENDI

Written by Interviste

Grandi novità in questo 2013. E Rockambula cerca con santa pazienza di curiosare dove qualcosa si muove nel sottosuolo. Appiccica un orecchio al terreno per cercare di captare le vibrazioni più interessanti e viscerali. Quello che il buon vecchio Pino Scotto chiama “Il grido disperato di 1000 band”.
La vibrazione interessante di oggi è rappresentata da una band nata poco più di un anno fa a Torino da tre ragazzi che di palchi e di studi di registrazione in realtà ne hanno già calpestati. I Reverendi oggi si presentano senza mezzi termini e profetizzano: “il rock non lo fanno mica solo gli americani”. Escono ora con “Meno è sempre di più”, EP-concept di sette pezzi. E allora noi di Rockambula pigliamo la palla al balzo e ci facciamo due chiacchiere con il cantante/bassista Daniele.

Ciao Daniele, siete nati da pochissimo e vi presentate con un progetto molto ambizioso e determinato. Un concept di sette pezzi, tutti attaccati tra loro senza pause. Forse un’attitudine che tiene a valorizzare più l’intero pacchetto che i singoli brani. E’ poco pop o sbaglio?
Ciao!
Questo EP esce come nasce. Avremmo potuto scrivere una canzone unica, anche perché unico è il messaggio di questo esperimento: “meno è sempre più”, tutti i pugni che quotidianamente incassiamo sono stimoli per lottare, crescere e puntare al cambiamento.
Ciò che è sempre differente è il punto di vista e lo scenario del nostro messaggio. Ecco che prendono forma 7 canzoni, ognuna rappresentazione delle nostre debolezze.

Nelle vostre canzoni raccontate il vostro vivere in una band al giorno d’oggi. Il brano di apertura del vostro disco si chiama “Metafora sociale”, davvero fare parte di un gruppo musicale è una presa di posizione “sociale”? Ci fornisci una piccola guida per l’ascolto?
Metafora sociale è una canzone che è finita al primo posto nel disco non si sa per che motivo perché iniziare un disco così è una bella mazzata di allegria..
Abbiamo scritto questa canzone cercando di rendere con il testo e con la musica la violenza psicadelica che stiamo vivendo. La canzone parte dalla conclusione, quindi svelando già il significato metaforico della canzone accostando il momento storico/sociale che viviamo ad un ubriacone che vuole smettere di bere, ma che finchè non schiatta nel suo vomito alcolico non si nega l’ultimo bicchierino.
Nell’estasi border-line dell’”ultimo bicchiere”, in questo oblio postsbornia, persino il movimento, minimo, della terra è insopportabile, soffocante, omicida.
Parte nel bridge una presa di consapevolezza che termina con lo special “Questa è l’ultima tempesta prima della fine spaccami la testa, basta”.
Lo special cerca di rendere il concetto di confusione assoluta all’interno del nostro tempo, una tempesta alla quale preferiamo porre fine con una martellata, breve e indolore.

“Meno è sempre di più”. Riflesso di band eternamente insoddisfatte oppure presa di coscienza della fortuna di poter suonare (comunque vada) buona musica in una città viva come Torino. Insomma bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?
Il bicchiere è sempre mezzo pieno, se no l’avremmo chiamato Più è sempre meno 😉
Meno è sempre più nasce da una chiacchierata con un amico, Paul Greenwell dei 2 Fat Men. Una sera a casa dopo cena si parlava di musica, di quanto “togliere” nella musica sia arricchire, una nota data nel punto giusto, un colpo al momento giusto vale più di mille larsen o rullate.. Ad un certo punto Paul disse: “Sai Dani, nella musica meno è sempre più” SBAM.. In quell’istante mille lampadine cominciarono a illuminarsi e dissi a Paul che questo sarebbe stato il titolo dell’EP. Lui mi rispose: “EEh!”

L’EP è prodotto in modo magistrale da Marco Liba (Liba Recordings). Tutti insieme siete riusciti a mantenere il prodotto grezzo e vivo (nel senso che ha il sapore “live”) ma allo stesso tempo dilatato, in certi momenti quasi onirico. Come sono nati i pezzi e come si è svolta la produzione con Liba?
Si Liba è stato un elemento fondante per noi e per il nostro disco.. A tutti gli effetti si può dire che lui sia uno di noi, parte integrante della band, tanto che gli ultimi due live ha pure suonato con noi. Le canzoni sono nate da svariate idee melodiche, riff, qualche brandello di testo e un lungo week end insieme a Sauze D’Oulx. 48 ore di creazione all’Osteria dei Vagabondi e poi qualche giorno in studio con Liba a ragionare sugli arrangiamenti, sulle melodie, sulle ritmiche. Insieme siamo riusciti a trovare la quadra di questo EP che è cambiato in continuazione durante la sua realizzazione e che sarebbe cambiato ancora..
Abbiamo fatto delle ottime prese di rec. Non ci sono replace, non ci sono trigger, né parti elettroniche, tutto ciò che c’è è suonato con batteria, basso e chitarra. Abbiamo poi lavorato sui reverb, delay e reverse per dare spazio. Si, nell’onirico mi riconosco, fa parte di noi. Violenza e alienazione a fasi alterne.

Portate un nome dissacrante, irriverente e per questo di grande impatto, a mio avviso pure originale e divertente. Da dove arriva la “vocazione”?
Ahah bene!!! Pensa che la critica più costruttiva arrivata ad oggi è stata “sembra i ministri”….
Anyway…  Siamo e sono personalmente molto legato a questo nome. Proprio per un dicorso di vocazione e di contraddizione. L’ispirazione nasce da una novella di Verga che si chiama appunto “Il Reverendo” nella quale si delinea questo personaggio spirituale, corrotto e materialista che non ha la minima coerenza con le vesti che porta.
Pensiamo che questa sia la situazione nella quale ci troviamo oggi. Un mondo fatto di santi e di diavoli, in cui i santi e diavoli banchettano insieme e si giocano a poker fino all’ultima indulgenza.
Il nome, quella giacca, l’immaginario è come se le avessimo piratescamente strappati di dosso alla carcassa di qualche blasonato santone.

Stupida osservazione da pignolo: sostenete di suonare “grunge italiano” (e in effetti torna) ma tra le vostre influenze leggo tutti i grandi nomi dell’alternative rock internazionale: Pearl Jam, Rem, Radiohead, Coldplay. Non pensate di dover pregare anche qualche santino italiano, tipo Marlene Kuntz, Afterhours e Verdena o addirittura qualche vecchio oracolo come The Beatles (io dentro i vostri pezzi li sento sempre ondeggiare in sottofondo)?
UUh assolutamente… Noi ci definiamo grunge rock per l’attitudine live e per il mood dei testi e delle atmosfere.. Poi in realtà musicalmente siamo un focolaio di ispirazioni, tutti quelli che hai citato… Beatles tutta la vita.. ma ti dirò.. anche Pink Floyd, Cure, Foo Fighters, Smashing Pumpkins, Blur, Who…
Non si può definire la matrice del nostro stile, Fabio (il batterista) per esempio ascolta tutt’altro.. Rock e crossover americano. La cosa curiosa è che non siamo dei grandi ascoltatori di musica alternative italiana.. Marlene, Afterhours, Verdena, li stimo moltissimo e ci sono delle canzoni che mi piacciono, ma ne conoscerò 6 o 7 tra tutti e tre.. Faccio un mea culpa, ma la verità è che non mi hanno mai attratto magneticamente.

In “Sempre di notte” dite una frase molto realista: “questa pioggia non è l’Inghilterra”. L’unità di misura per fare musica rock rimane sempre la Gran Bretagna, ma credete davvero che stiamo proprio un gradino sotto? A Torino poi mi pare che non ci sia carenza di band che (senza mezzi termini) spaccano il culo. Tu cosa dici?
Assolutamente! L’Italia ha dei grandissimi talenti e Torino è prima fila, anche se i Milanesi a volte sono più furbi.
Sempre di notte è una suggestione, un Flash back di emozioni provate durante le mie esperienze Londinesi, con riferimenti molto concreti a fatti accaduti.
“Questa pioggia non è l’Inghilterra” è un modo per dire l’acqua è sempre acqua ma non puzza di zolfo come a Londra.. Odori, emozioni, sprazzi di colore, nubi fumose, vestiti umidi, contrasti di grigio, l’inghilterra ha delle caratteristiche rispetto all’Italia nelle quali mi riconosco, in ogni caso sono ancora qui.. Nonostante le ultime evoluzioni politiche credo in questa nazione e soprattutto credo nella musica di questa nazione.

Come vi ponete nei confronti dei social network? Oggi pare siano di una importanza fondamentale per emergere, ma non bisogna perdere di vista il vero cuore della musica underground, ovvero il palco. Che obiettivi avete sul fronte live?
Ah beh.. Certo! Con i social networks ci poniamo come qualcuno che cerca di usare gli strumenti che ha per fare quello che può..
Sicuramente il web è una grande risorsa, ma è dispersivo, in continua evoluzione e tutt’altro che immediato nel suo utilizzo corretto.
Cerchiamo di valorizzare i contenuti che proponiamo creandoci una fan base vera e interessata che speriamo cresca in funzione della nostra crescita.. Siamo al primo EP e la nostra musica è proprio neonata, quello che abbiamo fatto in questo EP è stato vomitare argomenti e musica così come ci sono venuti. Ci sono già idee per il primo album che sono curioso di vedere che forma prenderà..
Live siamo in attesa di alcune conferme, soprattutto fuori Torino, nella nostra città invece faremo una piccola cosa a fine marzo e poi un concerto con gli amici del collettivo OPPOSITE il 26 aprile  al Lapsus.
Nel frattempo CONTINUEREMO A SUONARE ANCHE COVER, in giro per l’universo mondo perché ci diverte, ci fa fare palco e vita di gruppo ispirandoci sempre qualcosa di nuovo.

Daniele, un bel saluto ai lettori di Rockambula e dicci un po’ cosa vorresti di “meno” e cosa di “più” nel vostro futuro.
Cari lettori di Rockambula un giorno faremo una rivoluzione insieme, vi saluto e vi stimo perché vi incuriosite di musica e di persone. Vi ricordo di andare ad ascoltare i Waste Pipes, se non l’avete mai fatto perché spaccano e anche i Nadàr Solo.
Per il nostro futuro vorrei “meno” Maria De Filippie “più” Rockambula. La messa è finita, andate in pace.

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