Live Report

Tortoise @ Cap 10100, Torino, 27/05/2016

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Tortoise sbarcano a Torino in un caldissimo venerdì sera di Maggio.  Sede dell’evento è il Cap 10100 (il concerto è però organizzato dal meno capiente  sPAZIO211 e da TOdays Festival), altro locale sul fiume della città ma sulla sponda  opposta rispetto al Magazzino sul Po ed ai famosi Murazzi.
Quando entro in sala, intorno alle 21,40, saranno presenti una cinquantina di persone abbondanti e sotto il  palco trovo il gruppo dei soliti noti, quelli che ci si vede sempre in prima fila durante i live nei posti più piccoli del comunque non immenso Cap, dove  in passato nonostante la scontata presenza simultanea è spesso capitato di non riuscire  a trovarsi.
Così, mentre la sala va riempiendosi (non sarà sold out ma credo ci mancherà molto  poco) di pari passo con l’aumento della temperatura al suo interno, si riescono a  scambiare due piacevoli chiacchiere (l’argomento principale ve lo lascio indovinare)  che ci portano all’ora x: le 22,30.

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Eccolo, il combo chicagoano per la prima volta davanti ai miei occhi, con quella marea di strumentazione che i 5 polistrumentisti portano con loro sul palco: al centro due batterie che si guarderanno negli occhi per tutta la durata del concerto ma che flirteranno realmente solo durante “High Class Slim Came Floatin’ In” e “Gigantes” e per non più di un paio di minuti a brano, dietro di loro una postazione di synth ed una tastiera, lateralmente vibrafoni, marimbe, ancora synth, senza ovviamente dimenticare basso e chitarre.
Durante l’esibizione gli avvicendamenti alle varie postazioni saranno numerosissimi ed ovviamente saranno i brani tratti da The Catstophist a fare la parte del leone nel corso di una scaletta che andrà comunque a pescare anche da lavori meno recenti pur non proponendo nulla dai primi 2 dischi, con dispiacere che accomuna un po’ tutti per quel che riguarda il loro zenit Millions Now Living Will Never Die e che invece risulta sicuramente più individuale per quanto concerne l’omonimo esordio che personalmente preferisco al più celebre (e comunque prezioso) TNT, d’altronde il quintetto sul palco ha cominciato a lavorare insieme proprio nel 1998 anno della loro terza e più famosa fatica.

P1060243 (635x640)Il live parte con la title-track dell’ultimo album che dal vivo guadagna in calore ed è seguita dal cubismo sintetico di “High Class Slim…” (che come tutti i brani del live tratti da Beacons of Ancestorship andrà a guadagnare punti rispetto al disco) primo dei due brani con doppia batteria, in questo caso con John McEntrie e John Herndon seduti uno di fronte all’altro (dei 3 batteristi, includendo dunque anche Dan Bitney, risulterà essere McEntrie il più presente allo strumento, nonché il più sorridente e caloroso dei 5 sul palco, ma questo è un altro discorso), il brano è indescrivibile, come si può descrivere la perfezione? La band suona che è una meraviglia, il pubblico già bello caldo per ragioni climatiche oltre che per l’assenza di almeno un minimo d’aria condizionata o di un paio  di ventilatori da soffitto, si scalda ancor di più.
Poi arrivano il gustoso (dal vivo ancor di più) Funk di “Hot Coffee” e soprattutto quella “Shake Hands With Danger” che per chi scrive è il loro più bel brano post 1998 e che rappresenta perfettamente la loro grande coralità ed anche dal vivo si conferma, facendoci godere dei magistrali arrangiamenti della band e del perfetto dialogo tra le  parti in questo seducente brano dalla grande percussività e dal forte sapore  d’Indonesia; di seguito la seconda perla di The Catastophist quella “Yonder Blue” che  orfana della voce di Georgia Hubley perde però gran parte del suo fascino risultando  niente più che una ballata strumentale, neanche delle migliori considerando che  strumentisti abbiamo sul palco questa sera.

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Intanto, per evitare di morire dal caldo e per darvi dunque anche la possibilità di leggere questo report, mi sposto a fondo sala dove la porta d’ingresso, aperta sull’atrio con le finestre spalancate, regala un leggero soffio d’aria ritonificante.
Da qui mi godo la seconda parte della scaletta che trova i suoi momenti migliori nei perfetti incastri di “Gigantes” e nella ballata minimale e jazzata “The Suspension Bridge  at Iguazu Falls” con la solita splendida sezione ritmica qui con vibrafono in primo piano, oltre che con un gran lavoro di Jeff Parker alla sei corde.
Ritornato in qualche modo nel mondo mi rituffo davanti approfittando della breve sosta pre-bis.
Al rientro sul palco i Tortoise ci sbattono in faccia un altro momento di una grandezza  e di una bellezza sovrumana, l’esplosione di “Prepare Your Coffin”, il suo pathos, i suoi magistrali saliscendi, dal vivo questo brano ti entra dentro come non pensavo potesse accadere, vorresti non finisse mai, fanculo al caldo! Continuate a suonarmelo, per sempre…
Altra pausa, brevissima, e secondo encore, questa volta più rilassato con una “The Clearing Fills” perfetta per introdurre “I Set My Face to the Hillside” brano che parte facendo venire in mente un qualche western morriconiano per poi evolversi in una  giostra percussiva (anche qui con vibrafoni in primo piano) marchio di fabbrica di una  band che lascia il palco, questa volta definitivamente, tra le urla e gli applausi sinceri del  pubblico.

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Il suono dei Tortoise live risulta perfetto, come su disco, ma in qualche modo più asciutto, e questo è un bene, perché soprattutto i momenti più statici risultano meno manieristici ed in qualche modo più ricchi di una vitalità latente nell’ascolto su disco. Signori, il pubblico questa sera ha avvertito nell’aria sentori di Stereolab, di Neu!, di Weather Report, di Portishead, di Battles, di Cul de Sac, di Soft Machine…ha ascoltato Jazz, Free Jazz, Dub, Kraut, Experimental, Fusion, Trip Hop, Minimal…come suonano i Tortoise? Che genere fanno? Rassegnatevi, continueremo a non saperlo,  anche perché tutti gli stili sopra citati sono eseguiti in un modo assolutamente peculiare  ma con grandi contaminazioni.
Finché questa band sarà capace di offrire serate del genere fatevi bastare il fatto che facciano Musica, con la M maiuscola, e che la suonino (dal vivo ancor di più)  veramente come pochissimi altri e senza mai risultare scontati nemmeno nei momenti  più “semplici”.

Per i più curiosi ecco la tracklist della serata (spero indovinata, il caldo non ha aiutato): “The Catastrophist” \ “High Class Slim Came Floatin’ In” \ “Hot Coffee” \ “Ox Duke” \ “Dot/Eyes” \ “Shake Hands With Danger” \ “Yonder Blue” \ “Eros” \ “Gigantes” \ “Ten-Day  Interval” \ “The Suspension Bridge at Iguazu Falls” \ “At Odds with Logic”

Encore 1: “Prepare Your Coffin” \ “Crest”
Encore 2: “The Clearing Fills” \ “I Set My Face to the Hillside”

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Teho Teardo & Blixa Bargeld @ Lavanderia a Vapore, Collegno (TO) 06/05/2016 [PHOTO REPORT]

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 Il piccolo ed accogliente centro regionale per la danza Lavanderia a Vapore di Collegno ha ospitato il 6 Maggio Teho Teardo e Blixa Bargeld in tour per promuovere Nerissimo, loro ultimo disco uscito lo scorso 8 Aprile per Specula Records a tre anni da Still Smiling. Il duo ha portato con sé, come nel precedente tour, la violoncellista Martina Bertoni, ma questa volta sul palco si sono visti anche un altro violoncello, tre violini ed un clarinetto basso.

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Il live, seppur con qualche inconveniente tecnico (che ha dato vita ad alcuni siparietti tra i protagonisti sul palco seppur non senza un minimo d’irritazione, soprattutto da parte dell’artista tedesco), è risultato piacevolissimo.
Teardo si è mosso appassionatamente tra chitarra ed elettronica mentre Bargeld ha offerto la solita grande performance ricca d’intensità (poetica, romantica, ironica, teatrale) esaltata dall’ottima prestazione della bravissima Bertoni e delle sue colleghe.
Live intenso (ma personalmente meno emozionante del precedente), che ha visto il duo italo-tedesco pescare a piene mani dai due full length fin qui pubblicati come dall’Ep Spring, riuscendo spesso a far salire la temperatura della graziosa sala di Collegno come a portarla a vivere attimi di attentissimo e religioso silenzio.

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King of Stoned vol.2 @ Cellar Theory, Napoli 30/04/2016

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Sabato 30 Aprile è stata una serata all’insegna dello Stoner al Cellar Theory di Napoli. Possiamo dire che è stato quasi tutto perfetto, dalle band all’atmosfera. Prima di parlare dell’evento, delle fantastiche band e della magnifica atmosfera, è doveroso spendere due parole per l’organizzazione che ha avuto il coraggio di mettere su uno show del genere, i Cattivi Guagliuni,  che già da un po’ di tempo punta su diversi locali partenopei, proponendo ciò che molti non si azzarderebbero a fare.

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Anche questa volta ci propongono un delizioso show degno di nota: il King Of Stoned Fest Vol.2. I gruppi protagonisti sono cinque: Lee Van Cleff, Tuna De Tierra, Teverts, Diana Spencer Grave Explosion e i possenti Kayleth. Mio malgrado, a causa di diversi intoppi non sono riuscito ad ascoltare i Lee Van Cleff e i Tuna De Tierra, sono arrivato al locale intorno la mezzanotte, giusto due minuti prima che cominciassero a suonare i Teverts. Premetto che mi ritrovo in un ambiente carico, con un pubblico colmo di adrenalina e voglioso di divertirsi. La band di Phil e soci si presta a suonare, in questo show, tutto il loro ultimo disco, intitolato Towards The Red Skies.  I Teverts sono un gruppo  con  la testa sulle spalle, sanno ciò che fanno, dunque sanno come divertire, e con “Control” e “The Sanctuary” mettono in ginocchio un locale. “Charles Dexter Ward” ti teletrasporta in un mondo che probabilmente solo uno fatto di allucinogeni può comprendere, mentre con “Shine” ci si scuote e si tira avanti a ritmo di riff. Finisce lo show, passano circa dieci minuti, il tempo di una sigaretta e si sentono le sinistre atmosfere create dai Diana Spencer Grave Explosion. La band proveniente da Bari propone uno Stoner che si mescola ad atmosfere elettroniche e sinistre. Anche loro, come la band che li ha preceduti, suonano per intero il loro EP d’ esordio, 0. La band dimostra di saper tenere il palco, sulle note di “Space Cake” si percepisce la bravura tecnica dei ragazzi, sia per l’ uso delle chitarre che degli effetti. Con “Long Death To The Horizon” ci sono momenti calmi ed altri più aggressivi, anche qui c’è uno strepitoso uso delle chitarre che in sede live fa un grande effetto. “Avalanche” invece, rispetto alle altre due tracce, ha delle atmosfere più marcate. Ascoltata ad occhi chiusi in compagnia di una birra ed una sigaretta riesce ad essere magica. Ci dirigiamo verso la fine del mini festival, si prepara il palco per l’ultimo gruppo: gli attesissimi Kayleth. La band è carica, pregna di grinta e desiderosa di scatenare il Cellar Theory. Tutti i pezzi suonati dal gruppo hanno suscitato forti emozioni, per ragioni di tempo si è scelto di suonare pezzi di Space Muffin e The Survivor ed onestamente ci sono un po rimasto nel non essermi trovato qualche traccia di Rusty Gold. Ad ogni modo i Kayleth non si smentiscono affatto, presentano uno show degno di nota che avrebbe fatto gola perfino agli Orange Goblin. “Mountains” definisce un po lo stile attuale del gruppo, questa canzone dal vivo fa venire la pelle d’ oca con i suoi possenti giri di chitarra. “The Survivor” è un’ altra traccia che ti fa scuotere, il gioco di luci ha aggiunto un tocco di classe non indifferente. Su “Swamp Lovers” il pubblico comincia a spintonarsi e a proporre la sua danza rabbiosa a base di spintoni e spallate. L’apice si è raggiunto con la fantastica “Secret Place”, una traccia possente dall’atmosfera baritonale. Insomma, questo secondo King Of Stoned Fest è stato un grande successo, un evento coi fiocchi che ha accontentato molti fan del genere.

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Sainkho Namtchylak live @ Folk Club, Torino, 18/04/2016 [PHOTO REPORT]

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Lo storico Folk Club di Torino ha ospitato pochi giorni fa l’inimitabile voce tuvana di Sainkho Namtchylak accompagnata dagli strumentisti maliani Liya Ag Ablil “Diara” e   Sanou Ag Ahmed, membri di Tinariwen e Terakaft, e dal nostro Danilo Gallo dei   Guano Padano.
L’artista europeo ha fatto da ponte tra le circolarità chitarristiche dei musicisti nordafricani   e l’incredibile espressività vocale di una Sainkho Namtchylak che ha deliziato il pubblico   con il suo canto che riprende i tratti caratteristici della sua terra d’origine adattandoli alle  più svariate sonorità in questo riuscito incontro tra culture.
Il live ha vissuto molto d’improvvisazione ed i brani dell’ultimo  Like a Bird or Spirit,  Not a Face si sono sviluppati spesso in modo molto diverso che su disco.
Sainkho, che col suo viso e le sue movenze potrebbe sembrare un personaggio   del mondo di una spiritualissima Paperopoli, non ha fatto mancare brani di lavori meno   recenti ed ha terminato il concerto felice e commossa regalando una conclusiva   “Dance of Eagle” fatta di sola voce.
Un’anima bella, affabile e delicata, questo ha visto e sentito il pubblico presente in sala, oltre ad un concerto che sicuramente avrà saputo conquistare i più.

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William Basinski @ Superbudda, Torino, 12/04/2016 [PHOTO REPORT]

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Il compositore sperimentale statunitense William Basinski sta in questi giorni presentando in Italia la sua nuova composizione A Shadow In Time, requiem in memoria di David Bowie. Il Superbudda di Torino ha avuto l’onore di ospitare la prima data di questo breve tour il 12 Aprile.
La serata Ambient Drone è stata aperta dal set del bravissimo Paul Beauchamp che ha preparato il pubblico presente in sala al live dell’artista texano. L’autore delle celebri Disntegration Loops ha poi avvolto la gremita sala con la sua ultima composizione, un’elegia che si evolve lentamente e col passare del tempo si fa sempre più magnetica fino al doloroso, ma estremamente dolce, finale.
Una contemplativa composizione di cinquanta minuti per descrivere l’ombra lasciata nel tempo da una stella già di per sé nera. Basinski sarà nel nostro paese ancora per qualche giorno, chi può non se lo perda.

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Guignol @ Magazzino sul Po, Torino 08/04/2016

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Arrivo al Magazzino sul Po poco dopo le 22 sotto una leggera pioggia, entrando nel locale si direbbe che quello che ho appena lasciato alle mie spalle possa in realtà essere il temporale più terrificante caduto sulla città negli ultimi cinquant’anni. Io, i musicisti, lo staff del locale ed un altro ragazzo (a questo punto immagino entrato per ripararsi dalla tempesta) è questo quel che trovo. Sì, lo so, sono qui per i Guignol mica per gli U2, ma credo immaginare la presenza di un pubblico formato da almeno una trentina di persone fosse per lo meno lecito anche per il semplice fatto che il recentissimo Abile Labile sia sicuramente un gran bel lavoro. Bevo una birra, fumo un paio di sigarette e scatto qualche foto al Monte dei Cappuccini ed alla Gran Madre da questa bella posizione sul fiume (non piove più e sono arrivate altre 5-6 persone) prima che la campanella annunci l’inizio del live con un ritardo, acquisito immagino nella speranza dell’arrivo di qualche anima persa, che purtroppo andrà ad accorciare i tempi per la band di Adduce. Tocca all’artista di casa Anthony Sasso (metà del duo Anthony Laszlo) aprire la serata con un’improvvisazione di chitarra, synth e piccoli elementi vocali. L’esibizione può essere suddivisibile in 4 parti, buone la seconda, tribale ed evocativa e con chitarra in odor di Santana e l’ultima che sprigiona sentori Kraut (forse un po’ troppo monocromatici) prima del rumoristico finale. Durante la sua performance sono raggiunto da un’altra penna di questa webzine,  cosicché durante l’esibizione dei Guignol si potrà affermare che il 25% del pubblico presente in sala sia parte della redazione di Rockambula. Dopo una breve pausa salgono sul palco i 4 milanesi che partono subito decisi con “L’Uomo Senza Qualità” capace di liberare una buona energia (per quanto sia possibile fare suonando di fronte a così poche persone e per quanto queste poche persone siano pronte a sentirla in una situazione simile). Tocca poi a “Salvatore Tuttofare” e “La Coscienza di Ivano”, brano in cui Adduce abbandona la chitarra trovandosi più libero di interpretare e cambia spesso gli accenti delle parole come usano fare molti cantautori (De Gregori in primis), il brano diventa musicalmente più tirato e grezzo facendosi Punk Rock, il suono fin troppo sporco non gli rende giustizia e sicuramente l’assenza del sax di Giubbonski si fa sentire parecchio. Anche in “Sora Gemma e il Crocifisso” qualcosa non andrà per il meglio ed il brano risulterà come scollato, frammentato. Arriva poi la ballata “Polvere Rossa, Labbra Nere”, è in questo territorio che la band si muove meglio, per quanto il suono possa essere sporcato da un’attitudine Punk Rock molto più viva che su disco qui la chitarra più ruvida riesce in qualche modo a trovare una sua ragion d’essere ed il pezzo rimane quello che è: bello. Trovano spazio in scaletta anche un paio di vecchi brani tra i quali spicca “Il Sole si fa Rosso” (da Rosa dalla Faccia Scura) bella ballata che va a guadagnare ulteriormente in tensione e profondità. Adduce invita i pochi presenti (tutti seduti) ad alzarsi perché la musica, ancor più se suonata dal vivo, è anche una questione fisica ma lo fa troppo tardi. La mezzanotte è passata da poco, ultimamente molti posti in città hanno avuto problemi a causa degli orari (o meglio del vicinato, per quanto vista la posizione vorrei sperare non sia il problema del Magazzino) e dalla regia comunicano che quel che resta è il tempo per un ultimo brano che sarà la bella “Il Cielo su Milano”. Concerto dalle due facce dunque che si chiude forzatamente quando la band iniziava a girare meglio e che non da il tempo di ascoltare il rifacimento de “Il Merlo” di Piero Ciampi o qualcuna di quelle belle ballate notturne scritte da Pier Adduce che immagino fossero in scaletta, peccato. Peccato anche che la band dal vivo tenda ad essere più ruvida di quanto sia su disco perché se certi brani nell’irrobustimento guadagnano qualcosa o perdono relativamente poco, per altri la perdita risulta molto più consistente. Sicuramente la serata un po’ surreale, per quanto il concerto i suoi bei momenti li abbia comunque vissuti, non ha aiutato né il pubblico né la band. Alla prossima dunque, sperando che il cielo su Torino regali una notte un po’ più fortunata.

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C’mon Tigre @ Monk Club, Roma 10/03/2016

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Quella del misterioso collettivo C’mon Tigre è una storia fatta di molti sensi e poche parole. I suoi componenti sembrano non sentire alcuna necessità di associare i propri nomi alle esperienze sonore che ci regalano, figuriamoci poi le proprie sembianze. Eppure sono ben attenti a non trascurare le altre sfere sensoriali, e le immagini con cui veicolano il loro giovane progetto sono molte e vivide, gran parte delle quali legata al maestro Gianluigi Toccafondo.

La lezione che un album come C’mon Tigre ci insegna è probabilmente quanto di più urgente l’arte contemporanea tutta ha l’obbligo morale di esternare: il bacino del Mediterraneo non è mai stato un percorso a senso unico verso nord. I C’mon Tigre lo dicono nella maniera meno retorica che esista, confezionando in note un colloquio tra civiltà, con una firma artistica che già in sé è un riuscito mélange. Il concept del progetto è compiuto e coerente sin dal videoclip di “Federation Tunisienne de Football”, primo singolo estratto. Da quella prima realizzazione ad opera del maestro Toccafondo è nata una proposta live diversa da quelle con cui i C’mon Tigre hanno girato l’Europa dal 2014 ad oggi, che lega a doppio filo musica e pittura.

Lo stato di grazia in cui resterò per tutta la serata inizia entrando in sala e scoprendo che la performance ce la godremo da seduti. Per un live come questo – e da un giovedì sera che arriva dopo una settimana di lavoro che è sembrata interminabile – non potrei chiedere di meglio. Davanti al palco della sala del Monk Club questa sera c’è una piccola platea fatta di tappeti e confortevoli divanetti (e di sedie di plastica per i più sfigati in fondo, spiacente). Bisogna mettersi comodi perché c’è un elemento in più da metabolizzare: le pennellate di Toccafondo davanti alle sagome dei C’Mon Tigre, proiettate su di un telo trasparente dietro al quale i musicisti si disporranno da qui a poco.

Lo sforzo di Frase nel pronunciare la “r” mediterranea di tigre è notevole quanto apprezzabile. Il songwriter canadese annuncia l’arrivo della band dopo un quarto d’ora di gradevole opening act a base di Soul funkeggiante, interagendo col pubblico in sala che si gode i brani del suo EP Daggers & Shields e qualche cover, tra cui una “No Diggity” che occhieggia furba alla versione di Chet Faker e conquista l’attenzione senza sforzi.

L’atmosfera si ribalta e si fa solenne con l’ingresso dei C’mon Tigre, che calcano la scena in silenzio, lasciando alla musica l’onere di introdurli. Si levano le note di “Rabat” a luci ancora spente, qualche tocco di colore prende forma sul telone per danzare sui contorni dei performer, finchè si levano erotici i fiati di “Fan for a twenty years old human being” che costringono alla resa e danno inizio all’incantesimo. Sprofondo nel mio posto in seconda fila e lascio che i fiati incantatori si portino via la stanchezza di una settimana intera come fosse un serpente a sonagli, ed io una cesta che si svuota per far spazio all’energia sensuale dei riff esotici e ossessivi.

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All’anonimo duo originario si uniscono stasera altri quattro elementi, a completare con ottoni, percussioni e xilofono le peripezie di chitarra e synth. D’altronde la congrega non ha mai avuto bisogno di affidarsi a parole di presentazione, bypassando la questione con l’approccio diretto dai due anonimi deus-ex-machina, unito a molti benefici apporti dalle provenienze sonore e geografiche più disparate, dal Jazz internazionale all’estro italico del compianto Enrico Fontanelli  degli Offlaga Disco Pax.

World music tra le più melliflue si disperde in sala con “Commute” e il frusciare delle sue percussioni sul morbido giro di chitarra. Il colore che volteggia sul telone narra la fiaba di Pinocchio con pochi tratti essenziali, rosso MangiaFuoco, il nero di lunghe orecchie d’asino, blu come un’avventura di cui pentirsi. Il lamento ovattato di “December” in risonanza con il tintinnare dello xilofono sembra quello di un Patrick Watson che vaga abbacinato in un deserto mediorientale, poi irrompe il jazz notturno di “A World of Wonder” ed è un’ipnosi collettiva. 
Nessun flusso dal palco se non la musica e qualche inchino ma la platea sembra non avvertire alcun bisogno di forme di comunicazione che non siano questa malìa catartica. L’atmosfera muta col Funk di “Federation Tunisienne de Football” e le tinte sature delle creature di Toccafondo che si impossessano della scena, “Life as a Preneed Tuxedo Jacket” è una session trascinante degna dei Goat più disinvolti ed eleganti.

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Solo un paio di fischi interrompono l’ipnosi collettiva, ma tutto sommato stasera l’acustica è ben al di sopra delle aspettative.
Ci si scrolla via il torpore godereccio solo per affrettarsi a richiamarli tutti on stage. L’encore è morbido e spontaneo. Gazze nere si stagliano su “Malta” e si alternano a versi trafugati da Pasolini, riconducendo gli umori all’equilibro del principio.

Magro premio di consolazione per gli assenti: su Youtube c’è il video integrale della performance ma la qualità audio non rende affatto giustizia ai Nostri. Non guastatevi la sorpresa, ignoratelo e tenetevi pronti per il prossimo giro.
Un live dei C’mon Tigre e un paio di birre grandi sono il miglior anestetico contro i pensieri sgradevoli. Qualcuno più bravo di me ha detto che la felicità è fatta di attimi di dimenticanza.

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Negrita @ Casa della Musica (NA) 17/3/2016

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Carica, grinta ed emozione. I Negrita tornano a Napoli dopo quattro anni e questa volta salgono sul palco della Casa della Musica. Le sensazioni sono tante sia da parte della band che da parte del pubblico che l’ ha accolta. Il 17  Marzo è stato un giorno memorabile per i fan napoletani di Pau e soci. Il concerto dei Negrita comincia in tempo, la scaletta è vasta, si va dai grandi pezzi che hanno visto nascere il gruppo, alle loro hit del momento. Alle 21:30 Pau e soci sono pronti per scatenare l’ inferno, “Ehi Negrita” apre le danze, e il pubblico è già caldo e desideroso di scatenarsi  con la musica della band. Le danze continuano con “War” e “Negativo”, anche queste cariche e movimentate. La terza canzone dello show è la suprema “In Ogni Atomo”, amata da tutti e dunque cantata da tutti. “Poser” è la canzone che divide chi appare da chi invece è; anche questa cantata con la gioia nel cuore. E’ il momento di “Fuori Controllo”, una delle canzoni più riuscite del concerto, la traccia che ha riempito di carica e adrenalina i fan della band.  Subito dopo parte, “Il Gioco”, uno degli ultimi singoli dei Negrita, che, a modo suo, è riuscito a divertire. Arriviamo a “Bambole”, altro grande pezzo, che, detto onestamente, nella versione live suscita davvero emozioni indescrivibili. Con “Hollywood” si chiude la prima parte del concerto, Pau e soci si recano dietro le quinte per ricaricarsi un po’, dopodiché si riparte nuovamente alla grande con un’ altra bellissima canzone: “Radio Conga”, anche questa cantata da tutti.  E’ il momento di danzare e pensare a città calde, pensare al sole, al mare, alla spiaggia con “Rotolando Verso Sud” e lasciarsi trasportare dalle note dei ragazzi. Con “Alzati Teresa” i Negrita dedicano la canzone ad una loro amica che fortunatamente si è ripresa; le possenti chitarre di questa canzone, ad ogni modo, hanno fatto vibrare la Casa Della Musica. Altra grande canzone che fa scuotere il pubblico di Pau e soci è “A Modo Mio”, con questa si vedono ragazzi saltare, ballare e scatenarsi, un vero inno alla baldoria. Lo show si chiude con tre pezzi che hanno fatto la storia: “Cambio”, “Transalcolico”  e la grintosa “Mama Maè”, quest’ ultima quella che saluta Napoli. Questo concerto dei Negrita è stato impeccabile, c’è stato di tutto: divertimento, emozioni e riflessioni. Chi non era presente si è perso un fantastico show.

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Battles @ Quirinetta, Roma 30/03/2016 [LIVE e PHOTO REPORT]

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We’re the Battles and we’re from NYC. David Konopka sale sul palco per primo ed è l’unico a scambiare due parole con il pubblico, ricordando il Brancaleone dell’ultima volta in cui i Battles si erano esibiti in città. Poche chiacchiere e tonnellate di energia tonificante: questo è stata la performance di mercoledì scorso al Teatro Quirinetta, gradevole location a due passi da Via del Corso.

Lo Spring Attitude Festival 2016 è iniziato così, con l’Elettronica della miglior specie, quella a servizio dell’estro Math Rock di una formazione nata come supergruppo ma che viaggia ormai spedita per la sua strada, con ben tre dischi all’attivo nel roster Warp Records, l’ultimo dei quali (La Di Da Di) uscito appena lo scorso anno.

Quella dei Battles è stata una performance a dir poco sorprendente. Che i tre newyorkesi avessero le carte in regola per stupirci c’era da immaginarselo, ma la resa in versione live è stata al di sopra di ogni aspettativa.
Al centro dello stage la batteria di John Stanier sovrasta il pubblico dall’alto di un piatto a mo’ di stendardo, che lui gode nel picchiare senza tregua, grondante di sudore eppure senza perdere in eleganza. A sinistra, le Stan Smith bianche di Ian Williams si producono in un contagiosi tip tap elettrici, impossibile resistere alla silhouette del polistrumentista che si contorce spasmodica mentre si destreggia con una disinvoltura sconcertante tra chitarra, tastiere e campionatori. Dal lato opposto Konopka scandisce i tempi col suo basso che si moltiplica e lavora per accumulo, in un climax ascendente senza soluzione di continuità tra un brano e l’altro, per quasi un’ora e mezza di performance totalizzante.

Per le prossime puntate dello Spring Attitude ci si rivede a maggio. Intanto gustatevi qualche scatto di questa preview pazzesca.

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Any Other @ Astoria, Torino 26/03/2016 [LIVE & PHOTO REPORT]

Written by Live Report

Gli Any Other di Adele Nigro ritornano a Torino a 5 mesi dalla bella serata nella quale aprirono per il concerto degli Hop Along al Samo, circolo ARCI che organizza buone cose ma che purtroppo a causa della sua struttura non ha una grande resa acustica per quel che concerne i live.
La band si presenta nel basement dell’Astoria davanti ad una cinquantina di persone, non molte ma neanche poche considerando che si tratta del sabato sera di un lungo weekend pasquale che avrà sicuramente portato tanti fuori città.

La resa live dei brani di Silently. Quietly. Going Away in questo spazio più piccolo ma più adatto a questo genere di eventi migliora ulteriormente e la band si dimostra ormai affiatatissima dopo un lungo tour che li ha portati a suonare anche fuori dall’Italia.
L’esecuzione dei brani, come su disco, è perfetta, ed in alcuni casi (“Roger Roger, Commander” su tutti) perfino migliore.
Adele è di poche parole (giusto un “ciao noi siamo Any Other” ad inizio e fine concerto ed i ringraziamenti tra un brano e l’altro) ma quando suona e canta ha talento, sensibilità e grinta da vendere e noi siamo qui per questo; Marco col basso è puntualissimo, Erica alla batteria è come sempre molto viscerale e pur saltellando sul suo sgabello meno che qualche mese fa vederla è sempre uno spettacolo nello spettacolo e questa oretta scarsa di concerto vola via con assoluto piacere e conferma questo giovane trio ed il loro disco come una delle cose più interessanti uscite in Italia nell’ultimo anno in ambito Indie.

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Shandon

Written by Live Report

L’atmosfera a Hiroshima è indubbiamente congelata, nonostante fuori ci sia un clima tutt’altro che rigido e i primi venticelli di primavera scaldino le ossa. Dentro tutto è frizzato, a quindici anni fa, quando a Hiroshima c’erano esattamente le stesse facce. Ora con meno capelli e più barba. Meno rasta e più rughe, segni di quegli anni in cui le sigarette (e non solo quelle) il pomeriggio erano sempre troppe. Non sono mai stato un amante del genere ma la curiosità di vedere gli Shandon, dodici anni dopo e con un nuovo disco, era grande. Per vedere quanto il loro suono fosse bloccato e imbrigliato ancora nei vecchi schemi fatti di power chord distortissimi, di ritmiche in levare e di fiati infilati qua e la. Le aspettative erano relativamente alte, visto che il recente passato di Olly l’ha portato a spaziare tra moderno e vintage, tra l’Alternative Rock dei The Fire e il Rythm n’Blues dei Soul Rockets. Tra generi così distanti tra loro ma sempre uniti dall’inconfondibile voce del frontman milanese, a mio avviso ancora una delle migliori ugole in circolazione in Italia.

L’apertura con i Rimozionekoatta è quello che ci aspettiamo, Ska dritto e puro, senza scendere a nessun compromesso. Scalda la platea a dovere prima dell’arrivo delle grandi star. Gli Shandon si fanno aspettare con un cambio palco da grandi occasioni, per poi salire sul palco alle 23:30 cercando l’ovazione di un Hiroshima bello pieno. L’inizio con “Placebo Effect” non fa sperare a un gran cambiamento, anche se i suoni risultano più al passo coi tempi. La batteria di Alecs (già con Olly nei The Fire) è tanto precisa nei pezzi più punkettoni, quanto poco efficace nei ritmi Ska. Perde groove nella scatenata “A Knightly Forest” o nella nuovissima “Skate Ska”, dove  pare che Olly con questa reunion abbia solo voglia di tornare un po’ ragazzino. Anche se, a fare i pisitini, di vera e propria reunion non si può parlare dato che della vecchia formazione vediamo solo Olly e il trombonista Max Finazzi. Il concerto è minato dai vari germi che pare abbiamo intaccato la gola di Olly, che comunque si tiene solo un briciolo in partenza per poi cavarsela sempre egregiamente con la sua ugola d’acciaio. Già in “Egostasi” il cantante milanese libera i demoni che gli avvinghiano le corde vocali, per sparare fuori i suoi ruggiti ben incastrati ai sempre ben graditi fiati. I nuovi brani toccano sicuramente più il sound di “Fetish” che delle altre produzioni. Così “Vuoto” e “Tony Alva” scatenano la platea di adolescenti cresciuti un po’ troppo, mentre il discorso-dedica di “Heart Attack” al padre, dimostra come Olly sia un personaggio ancora molto genuino. Il mix di Punk, Ska e Hardcore è sempre stato e rimane il pane degli Shandon, che sparano un concerto lungo, sudato, a tratti intenso e divertente ma che pare non decollare a dovere. Anche i pezzi più popolari come “Viola”, la velocissima “My Friends” e la finale “Janet”, teatro del classico pogo “wall of death”, non schiacciano via le incertezze su una band che suona troppo radicata agli anni 90. L’ecletticità di Olly spesso salva una band che suona molto bene ma perde di carattere e cerca sempre di tenere un piede nel presente e uno nel passato, snaturando la vera anima di quelli che erano gli Shandon e senza aggiungere nulla di veramente graffiante. Sicuramente la voglia del pubblico di ragazzi cresciutelli è soddisfatta, ricordare i primi concerti e le prime trasgressioni, ma da chi si propone in un palco così dopo tanti anni, ci si aspetta una marcia in più.

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Arrington De Dionyso’s – Malaikat Dan Singa [FOTO REPORT]

Written by Live Report

A due anni dal precedente passaggio in città, sempre al Blah Blah, Arrington De Dionyso ritorna con il suo progetto Punk-Rock Trance d’ispirazione indonesiana Malaikat Dan Singa.

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Il Nostro sfoggia una mise (prima di rimanere in canottiera al terzo brano) meno eccentrica di quella con la quale i torinesi lo ricordano al suo ultimo passaggio in città ma certamente la sobrietà continua a vivere altrove.

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Arrington strega con la sua forte presenza scenica e con la sua folle voce multidirezionale che porta spesso a pensare a strumenti di terre lontane.

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A supportare Arrington (probabilmente ai più conosciuto per i suoi lavori a nome Old Time Relijun) una band di buonissima qualità con il bassista che sfoggia tra l’altro un tatuaggio degli Einsturzende Neubauten ed una maglietta dei Piano Magic, come si potrebbe non volergli bene?

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Quasi nemmeno il tempo che l’ultima nota del live sfumi via che dal pubblico qualcuno domanda “quando tornerai?”, “spero presto” risponde un radioso De Dionyso e vedendo com’è andata la serata credo insieme a lui lo sperino tutti i presenti.

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Non c’è un banchetto, a fine live il merchandising, essenzialissimo, viene venduto direttamente da sopra il palco tra sorrisi, strette di mano, abbracci e facce felici tra il pubblico come tra i componenti della band.

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