Live Report

Discipline, South Bridge, Shaking Hands, Naga, Storm O, Germanotta Youth, Arduo, La Via Degli Astronauti

Written by Live Report

Centro Sociale Lido Pola, Napoli 24 Maggio 2014

Spesso mi capita d’immaginare uno di quei primi concerti ad inizio anni 90 di band come Master, Napalm Death, Carcass, Possesed e Death. Viaggio con la mente pensando al tipo d’atmosfera che si creava nei club o in quei piccoli localini frequentati dal cosiddetto “pubblico di nicchia”. Chissà come avvenivano gli scambi di musicassette tra le band che cercavano di farsi conoscere? Come si relazionava il pubblico tra loro e con i gruppi? E infine, che parere avevano di quegli show? Tutte domande che mi pongo riguardo ad uno dei primi concerti di una delle band citate prima. Sabato 24 Maggio al centro sociale Lido Pola di Napoli ho provato per la prima volta una strana ma stupenda sensazione, il contesto in cui mi trovavo molto probabilmente era simile a quello che immaginavo. Purtroppo arrivo all’evento con un’ora di ritardo perdendomi cosi l’esibizione dei Discipline, dei South Bridge e degli Shaking Hands. Nella sfortuna, mi conforta l’arrivare giusto in tempo per assistere ai Naga, band Doom Metal che in passato altro non erano che gli eccezionali Kill The Easter Rabbit. L’esibizione di Emanuele e soci si è svolta a luci spente e la loro musica, composta da un sound distorto e baritonale creava le condizioni giuste per viaggiare con la mente in compagnia di una sigaretta ed una birra. Un’ottima prova dunque per i Naga che a quanto pare non deludono affatto le aspettative. Dopo una piccola pausa si preparano a salire sul palco gli Storm O, con loro è arrivato anche il momento di scuotersi, di fare crowd surf e stage diving. La band di Belluno è carica ed energica, il loro Hardcore che spesso ha picchi Grindcore coinvolge tutti gli spettatori: c’è chi poga, chi sale a cantare con Luca e chi, come il sottoscritto, ammira il carisma e la grinta dei ragazzi. Gli Storm O hanno senza ombra di dubbio lasciato il pubblico del centro sociale a bocca aperta, con loro il divertimento è assicurato.

E’ il turno di un altra band dalle mille risorse, particolare sotto svariati punti di vista oltre che ingegnosa: i Germanotta Youth. Il duo capitolino propone una sorta di Electro Grind, sul palco troviamo: Giulio Galati alla batteria e Fabio Recchia con la sua piccola console con sopra attaccato un basso. I due sono a dir poco formidabili considerando che Fabio suona in contemporanea il basso e la console aumentando gradualmente la velocità dei pezzi. Giulio si esibisce a ritmo di micidiali sfuriate, insomma, sono entrambi incantevoli. Finiti i venti minuti dei Germanotta Youth si preparano a salire gli Arduo. Anche questo gruppo è composto da due membri: Marcello Giannini e Andrea De Fazio, entrambi valorosi musicisti. Con il loro show hanno divertito il pubblico dando un tocco Hardcore che si sposta su canoni più classici, possiamo dire che è stato un botta e risposta tra la batteria di Andrea e la chitarra di Marcello. Il tempo passa in fretta e giungiamo cosi all’ultimo gruppo: La Via Degli Astronauti capitanati da Mario Orsini nonché uno degli organizzatori dell’evento e dei responsabili della Fallo Dischi, etichetta che ha sotto contratto alcune band protagoniste della serata. La Via Degli Astronauti ha proposto uno show veramente “intimo”, Mario per la maggior parte del tempo ha cantato giù dal palco, circondato da pubblico composto da amici e sostenitori; con loro ha fatto a spallate e stage diving, non si è risparmiato di lasciare il microfono a qualcuno e farlo cantare al posto suo. Insomma anche se non si sono considerati tali, hanno tenuto uno spettacolo da veri e propri headliner divertendo chi li seguiva ed offrendo un’esibizione con i fiocchi. Ad inizio serata quando ho messo piede nel centro sociale sono stato accolto da una struttura grigia e quasi decrepita con slogan e simboli che richiamavano la protesta, inoltre c’erano tanti ragazzi colti e vogliosi di ascoltare buona musica, ero nel cuore dell’ Underground Partenopeo e con molta sincerità ne ero fiero ed onorato.

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THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Written by Live Report

RUGHE SPORCHE
THE PRETTY THING (50 DI TOUR) A TORINO

Una domenica come molte altre, forse addirittura più anonima di tante altre. Con un cielo diviso a metà tra il blu della spensieratezza pre-estiva e orrende nuvole nere incombenti. Per sconfiggere l’apatia di questa modesta giornata cerco come molte altre volte rifugio nel Rock’N’Roll, antica medicina che per fortuna su di me continua a fare un certo effetto benefico. A questo giro di antico non c’è solo l’antidoto. Scorgo infatti con piacere che a Spazio 211 – Torino celebrano i loro 50 anni The Pretty Things, storico gruppo inglese capitanato da Dick Taylor, membro fondatore dei The Rolling Stones. Si parla del 1963, l’anagrafe non può mentire. C’è da dire che ultimamente sono parecchio avverso ai gruppi di ultra sessantenni. Penso che la pensione serva anche nel Rock, a volte la passione non basta ad attenuare gli acciacchi del tempo. E molte band di dinosauri si sono palesate ai miei occhi come lente macchine arrugginite, ancora appese agli esagerati fasti del passato. Esagerati per essere comodamente gestiti col tempo.
Alle ore 22 arrivo al locale e, nonostante delle vere e proprie leggende (negli anni ‘70 Mister David Bowie suonava le loro cover!) siano in città, il locale è semi deserto. Un po’ me lo aspettavo, un po’ forse Torino, che tanti pregi ha musicalmente parlando ma non ha mai avuto lo strato ruvido del Blues marcio sull’asfalto dei suoi viali. Ci si potrebbe aspettare per questo uno show un po’ anemico, apatico come questa domenica. Immagino che arrivare con 50 anni di band alle spalle e trovarsi un locale con sessanta persone dentro, per giunta a 2000 km di distanza da casa tua, potrebbe portarti all’apatia, alla freddezza, all’odio verso la passione che ti ha spaccato la schiena in decenni di furgone. E questo credo capiterebbe qualsiasi sia il tuo passato, figuriamoci cosa capita a chi ha militato in gruppo con Mick Jagger e Keith Richards.
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Alle 22.30 però The Pretty Things attaccano e tutte le cazzate che mi ronzavano per la testa vengono spazzate via dal muro del suono. Chitarre marce suonate da Dick, occhialuto e ricurvo su se stesso, e da Frank Holland, un altro attempato volpone, ricciolone e dallo stile Proto Punk. Basso e batteria da manuale del rock anni ’60, sebbene siano gestite da due pischelli. E poi la voce di Phil May, direttamente presa in prestito dagli inferi. Il diavolo invecchia ma mantiene charm inglese. Stile incredibile, viscerale. La macchina del tempo funziona alla grande, si sente lo sporco, le budella che si agitano, si sentono i tempi in cui la musica era una ragione di vita.
La magia scatta con il viaggio di “S.F. Sorrow is Born” (il disco S.F. Sorrow pare sia la prima opera rock che ispirò The Who a scrivere “Tommy”), psichedelia e aridi deserti, con quella sezione ritmica giovane che rende tutto così attuale e tangibile. L’incantesimo non si interrompe neanche quando sul palco rimangono solo Phil e Dick, come due vecchi amici (lo sono e si vede) jammano su vari standard Blues in duo acustico. Dick Taylor pare muovere goffamente le dita ingiallite e scheletriche ma in realtà con il suo slide riempie la sala di pathos e ci riporta davanti Robert Johson e tutte le sue diavolerie. Questa band è incredibilmente viva nonostante suoni musica vetusta. Ha la passione, la forza e la voglia ancora di stupire. Niente da dire, mi sono convinto. Questo gruppo è molto più gruppo di quanto siano The Rolling Stones degli ultimi 30 anni. Ma la chiudo qua perché il paragone è banale e forse pure fuori luogo.
Il finale dello show, che personalmente è anche una lezione di musica (ma oserei dire pure di vita), è affidato ad un omaggio a Bo Diddley, oltre che a loro classici come “Midnight to Six Man” e la conclusiva “L.S.D.” con tanto di citazione a “Lucy in The Sky With Diamonds”. Concerto corto, un’ora e mezza di pura energia e di sogni. Un’amalgama perfetta e un sorriso stampato sui loro stanchi volti che non si arrendono.
Nel finale esco a fumare una sigaretta con alcuni amici, passa proprio Phil May con una crostata alle ciliege in mano mentre i più giovani caricano lo scassato furgone che pare essere pure lui sudato marcio sebbene sia parcheggiato in una Torino non troppo caliente. Noi ci guardiamo e vediamo li a un metro da noi questo anziano, dall’aspetto rude, con capelli semilunghi ma mezzo calvo, che nonostante il sudore e i segni del tempo tenuti alla luce del sole, conserva la sua estrema eleganza. Guarda fuori, con una crostata in mano. Mi avvicino e gli dico solo: “great”. E’ l’unica parola che mi sento di dire. Lui mi guarda e mi da una pacca sulla spalla, gli scappa un “thanks a lot” e dopo un sorriso vero, umano. Mannaggia mi aspettavo dal Rock’N’Roll solo un po’ di brio per sotterrare questa triste domenica, invece questo infame si è dimostrato di nuovo più grande di quello che potessi immaginare.

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Finley 16/05/2014

Written by Live Report

Iniziamo la nostra copertura del Theatre Quinto Festival, una rassegna che durerà fino a giugno e che vedrà susseguirsi sul palco del locale rozzanese gli act più diversi, dai Finley ad Andrea Nardinocchi, passando per i gli Yokoano, i Nadar Solo e Dargen D’Amico. La serata inaugurale è affidata ai Finley, band che non ha bisogno di troppe presentazioni: scoperti giovanissimi da un sempre vulcanico Claudio Cecchetto, i quattro inanellano successo dopo successo, diventando il paradigma della band gggiovane che “dice” di fare Punk Rock, e diventano presto una rodatissima macchina scalda-ragazzine, passando addirittura da Sanremo. Da qualche anno i Finley hanno aperto la loro etichetta, Gruppo Randa, senza che questo abbia portato ad un cambiamento nella loro proposta musicale. C’è sempre curiosità intorno a gruppi di questo tipo, che appaiono come strane entità create negli uffici di qualche etichetta, scoprendo il fianco a critiche preconcette e a idiosincrasie astratte. Abbiamo cercato perciò di vederli con i nostri occhi, per scoprire come vivono la dimensione del live, il rapporto con il pubblico, le loro canzoni.

Quando arrivo, davanti al Theatre la fila è ancora lunga. Mi dicono che le prime ragazzine si sono presentate all’entrata intorno a mezzogiorno. Si potrebbero fare succose elucubrazioni sull’aspetto socio-psicologico di un concerto dei Finley, ma per quelle vi rimando ad un precedente report… Nel locale sta già suonando il secondo gruppo d’apertura, i Made In Italy, Pop Rock ironico che critica in maniera sottile alcuni stilemi della musica per teenager (dal finto rap di certi pezzi dance alle mostruosità stile One Direction passando, per l’appunto, anche dagli stessi Finley, di cui eseguono una cover “autorizzata” dalla band stessa…). Finito il loro set parte un breve cambio palco e poi eccoli: Ka (chitarra), Dani (batteria) e Ivan (basso, nella band da qualche anno) salgono on stage mentre in sottofondo parte… l’Inno di Mameli. (Non guardate da questa parte, non ho idea del perché. Scelta terribile, comunque).

Passato il momento patriottico, arriva Pedro (voce). Giusto il tempo di tirare una sonora botta di microfono sulla paletta del basso e il concerto parte a bomba, a grappoli di tre/quattro canzoni eseguite spalla a spalla. La prima parte del live è adrenalinica e tesa (“Gruppo Randa”, “Fuego”, “Tutto è Possibile”): i quattro pestano duro, canzoni Rock lineari e senza troppe pretese ma energiche, soprattutto nelle ritmiche, dove si distingue la bravura tecnica del batterista Dani, capace di sostenere groove rapidi e infuocati, vera spina dorsale dello spettacolo Finley. Come sempre, il rapporto con i fan è centrale: molto più che in altri casi, il concerto è letteralmente fatto per loro. Non manca nessuna canzone delle più famose (ci sarebbero disordini e sommosse), e i ringraziamenti al pubblico sono ubiqui e continui: grazie a chi arriva da lontano, grazie a chi ci segue dagli inizi, grazie a chi ci supporta e ci permette di continuare a fare musica. Il concerto prosegue caldissimo, i pezzi lenti sono veramente pochi: ci si concentra sulla velocità, sulla melodia di ritornelli cantati in coro a squarciagola (“Un’Altra Come Te”, “Adrenalina”, il richiamo al ritornello di “Dentro alla Scatola”). I pezzi sono tutti classici del loro repertorio: testi banali fatti per essere imparati a memoria e cantati a pappagallo, alcuni con prese di posizione apparentemente forti ma basate sul niente, come “La Mia Generazione”, che fa tanto effetto fiction di Rai2. Mi accorgo peraltro che alcuni momenti del live sono estremamente preparati: la presentazione in medias res de “La Mia Generazione” è la stessa identica che fecero l’anno scorso quando li vidi la prima volta, e anche l’introduzione di “I Fought the Law” dei Clash rimane uguale, come uguale rimane l’idea di far salire Roberto Broggi ad accompagnare il brano con il violino, promuovendo l’operazione benefica Punk Goes Acoustic ideata da Andrea Rock, che verso la fine del concerto verrà ospitato dalla band per qualche brano, tra cui una “Blitzkrieg Bop” abbastanza spompa. Ma prima il live fa in tempo a rallentare un po’, mentre i Finley si danno a “Ricordi”, loro brano sanremese che si porta dietro tutti i cliché del caso. La gente inizia piano piano ad uscire, il concerto si sta allungando (non credete chissà che, avranno superato a malapena l’ora, a questo punto: ma non stiamo parlando di Springsteen, stiamo parlando dei Finley).

Dopo il già citato passaggio sul palco di Andrea Rock, la band ci abbandona per qualche minuto, dando il tempo al pubblico di intonare “Diventerai una Star”, il loro pezzo più famoso. Scatta quindi l’encore, con partenza acustica e pianti tra il pubblico (giuro) per “Fumo e Cenere”, seguita a ruota dall’ultimo brano, “dedicato a chi pensa che abbiamo fatto solo questa”, ovviamente, “Diventerai una Star”, cantata da tutto il pubblico con una sola voce. Applausi, saluti, inchini. I Finley mi confermano così tutte le impressioni che già avevo avuto l’ultima volta, un anno fa: una band tecnicamente mediocre (a parte forse Dani, il batterista), sicuramente professionale e capace di gestire in modo sufficiente un palco e una platea di questo tipo, dando al pubblico tutto ciò che vuole e facendo più spettacolo che musica. Le loro canzoni sono banali, vuote di senso, niente più che materia vendibile, e infatti funzionano benissimo nelle pubblicità, a Sanremo, e con le ragazzine (ma non solo: si segnalano anche quarantenni ballerine e più-che-ventenni ubriache e scatenatissime, oltre a parecchi individui di sesso maschile, anch’essi esaltati). È musica da vendere fatta da un gruppo costantemente in vendita, e che, purtroppo, la gente non smette di comprare. Una volta accettato questo, il live assume le caratteristiche di un evento eseguito con professionalità e mestiere. Ma la passione e l’arte stanno tutte da un’altra parte.

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Alkaline Trio, Bayside e For Those Afraid 06/05/2014

Written by Live Report

ZONA ROVERI, BOLOGNA (BO) 06/05/2014

Premetto: adoro gli Alkaline Trio dai tempi storici in cui i loro album venivano pubblicati dalla Kung Fu Records. Tuttavia non ero mai stato a un loro show. Temevo la delusione, consapevole del fatto che il loro ultimo disco, My Shame Is True, non è esattamente una meraviglia. Comunque sia, erano mesi che avevo comprato il biglietto e non me li sarei persi per nulla al mondo, stavolta.

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Dal diario di bordo del capitano Giovanni: che ideona partire alle sette del mattino per arrivare alle undici e trovare una fila pazzesca composta da due persone… Quando si aprirono i cancelli del capannone della Zona Roveri, il palco era già preda dei milanesi For Those Afraid, promotori di un Hardcore melodico serratissimo, tutto moshpit e furore da vendere. Estraggo il mio bloc-notes mentale e prendo appunti. Sono da tenere d’occhio assolutamente.

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Poco dopo, intorno alle 21, fecero capolino i Bayside, da New York City. Un paio di mesi fa uscì, sotto la label Hopeless Records, Cult, un lavoro ben fatto: onesto Punk Rock, condito da melodie riuscitissime ed energia alla massima potenza. Una scaletta, che è stata più un excursus attraverso le loro canzoni più conosciute, ha riscaldato un pubblico fremente, perché il momento dell’ingresso del gruppo clou era imminente, l’agitazione palpabile. Quando vennero fuori dalle quinte, gli Alkaline Trio furono accolti da un boato, che crebbe al riff d’apertura di “This Could Be Love” (il mio brano preferito dei tre di Chicago). In un attimo la Zona Roveri si trovò sotto scacco, messa a ferro e a fuoco dalla maestosità della loro musica cupamente romantica.

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Dal diario di guerra del soldato semplice Giovanni: ero attorniato dalle truppe nemiche, aggrappato alla maglietta di uno sconosciuto davanti a me, ma per difendere il mio posto in secondo fila avrei dovuto combattere con le unghie e con i denti. Nel frattempo, con un carisma fuori dal comune, Matt Skiba e soci continuavano l’opera di distruzione con le varie “StupidKid”, “Sadie” e “Time To Waste”, con tanto di intro di pianoforte accompagnato dal battito delle mani di tutta la calca. Nella tristezza generale il live volgeva al termine, purtroppo è vero che tutte le cose belle prima o poi finiscono. I due bis conclusivi furono l’acclamatissima “Private Eye” e “Radio”, un cavallo di battaglia che chiude spesso e volentieri le loro performances. Dopo un minuto dall’epilogo del concerto, già avvertivo un magone. A testa bassa mi rimisi in auto in direzione Pescara, ripensando a questo concerto che è stato una vera esperienza di vita. Altro che delusione. Soddisfazione a pacchi.

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Il concerto dello Zero Maggio: “Premio Maggio” (BA) 30/04/2014

Written by Live Report

No! Stavolta al Primo Maggio (di Roma) non ci vado! Questa non è la line up che mi aspettavo e, con tutto il rispetto per i nomi proposti, proprio non mi va di star tutto il giorno fuori casa. Inventerò una birra con amici e le ore passeranno comunque. Piuttosto, vediamo un po’ Google cosa propone per questo ponte. Due telefonate, pieno in auto e la birra serena da San Lorenzo (Roma) trasloca a pochi chilometri più a est: direzione Puglia! “Va’, partiamo il giorno prima e facciamo tappa a Bari, che almeno domattina siamo belli che riposati” m’han detto. L’evento pugliese quest’anno dura quarantotto ore, spaziando da Bari a Taranto. Ed è la sera del giorno 30 aprile quando si tagliano i nastri e la festa ha inizio. Titolo: Premio Maggio. Location: Arena della Pace (Bari). Line up: ho il piacere di presentarvela a seguire. L’arena è meravigliosa! Centinaia di teste sono sintonizzate con i suoni proposti dall’evento CGIL pre-maggio. Ma noialtri siamo stati colti di sorpresa e siamo inevitabilmente arrivati in ritardo, perdendo l’esibizione di The Piers e dei Fabryka. Tuttavia, la notte è ancora giovane e non disperiamo, perché sul palco c’è la Paola Maugeri, che, con una semplice parola, cattura la nostra attenzione: Zeus!. Il nome non mi è nuovo, ma non credo di aver mai avuto modo di approfondire l’argomento. Mettiamoci a sedere, sentiamo cos’hanno da raccontare questi due ragazzotti metallari, cattivi e con la barba. Poi l’adrenalina. Da Imola con furore, a colpi di un sound che sa di metallo, i nostri Zeus! si fanno spazio e conquistano la platea. Un migliaio di menti ipnotizzate dalla loro opera cercano la concentrazione a ritmo di headbanging. Io non me la godo, preso come sono a raccattare informazioni sull’internet. Poi chiedo ai sostenitori della band. Poi ascolto le interviste (pessime) da backstage. Pensa te che roba: Luca Cavina (basso dei Calibro 35) e Paolo Mongardi (attualmente impegnato con Il Genio)! Evviva le menti pensanti. Meritevoli della promozione, si aggiudicano un posto nella mia agenda: appena rientro approfondisco.

Tutto scorre piuttosto velocemente, gli Zeus! raccattano gli strumenti e fanno spazio ad una delle due band che mi avevano reso irremovibile dall’idea di partecipare alla serata: direttamente da Correggio, i Gazebo Penguins. I giovani amanti della musica Post Hardcore intavolano come antipasto la prima traccia del loro secondo disco (Legna) “Il Tram delle 6”. Riescono facilmente a catturare l’attenzione del pubblico, sfruttando un’esibizione degna di nota (che, se consideriamo la complessità del genere, non è affatto poco). Io mi armo di carta e penna ed osservo dall’alto il pogo che intanto sta prendendo piede al cospetto del palco. Il capitolo Gazebo Penguins scorre incredibilmente rapido (al punto che mi vien da pensare che stiano tagliando i tratti strumentali; e questo mi dona una gran bella vena nera), attraversando nel dettaglio il terzo disco con “Difetto”, “Mio Nonno”, “È Finito il Caffè” e via di seguito sino a giungere ad una chiusura memorabile: “Senza di Te”. Senza soffermarmi troppo sul dettaglio, mi accorgo di esser soddisfatto dell’esibizione nel suo complesso: la scaletta è stata interessante e i tre ragazzi correggesi hanno dimostrato di saper suonare. Punto a favore, palla al centro: tocca agli Zibba & Almalibre. Stimoli naturali, facciamo presto che me li perdo! Coda chilometrica per avere accesso all’unico servizio dell’arena. Voglio un cazzo di Sebach! Complimenti per l’organizzazione. Zibba rimbombava un po’ fra le pareti del bagno (non me ne voglia!). Natura 1 – Uomo 0. Inveisco. Cari organizzatori, la bandierina vi salva! Non ho tempo per scazzare, tocca ai Marlene Kuntz. Il buon vecchio Godano non si smentisce mai. Presuntuoso, sale sul palco e saluta la folla con gesti plateali ed inchini datati: lui è il Duce. Mi aspetto un discorso al popolo, ma la chitarra di Riccardo Tesio mi salva, mi distrae e mi ricorda che sul palco c’è un pezzo di storia di gran lunga lontano da quello sovvenutomi alla mente. Erano i tempi che seguivo i tour dei giovani Marlene, ecco cosa provavo! Mi tocca riprendere il passo però, loro vanno avanti ed io sono lento e faccio fatica a stargli dietro. Tocca spolverare i vecchi dischi ed acquistare quelli nuovi. Quassù ci sono musicisti con l’iniziale maiuscola che suonano tracce che non riesco a cantare. Mi sento piccolo così. Poi la rivisitazione di “Uno” in chiave molto più Marlene (e meno cantilenata) e la chiusura con “Ape Regina” perfettamente interpretata mi donano speranza: non sono io ad essere arrugginito, è la scaletta ad essere più moderna di me. Attraverso “Io e Me” (2010) arriva la conferma che (a giusta causa) le proposte sono per lo più recenti. Ma non sarà di certo questo a farmi voltare le spalle, anzi. Sai che c’è di nuovo? Bravi Marlene! Dimostrate puntualmente talento, riuscendo a farmi apprezzare pezzi che da disco mi suonavano come addii alla vostra arte. Anche voi avete segnato un punto e tornate a casa con l’ennesima vittoria. Migliore in campo Cristiano Godano, che, a gran sorpresa, si avvicina ad un palmo dal pubblico e lascia che decine di mani accarezzino il Duce che sta li sorridente e non scazza.

L’arena si svuota. Il bello è passato.  Dubioza Kolektiv, perdonateli perché non sanno quello che fanno. Sette (dico sette) ragazzotti bosniaci indossano l’uniforme gialla e nera e salgono sul palco. Scatenati come potevano essere solo i Sex Pistols, riescono a riportare il delirio in tavola nel giro di un quarto di track. Lo servono attraverso un mix di generi che fomentano una folla sull’orlo della follia. Punk, Ska, Elettronica, fanno di tutto questi biondi raver. Sono lontani chilometri e chilometri da casa, ma l’imbarazzo e l’emozione non gli calza neppure per sbaglio. In un lampo l’arena ha dimenticato i Gazebo, la CGIL, i Marlene, la morale e persino i superaffolatissimi bagni che fanno rimbombare il saggio Zibba. Mi ficco nel mucchio, pogo, salto, ballo, sudo, vado a fumare. Un accento bosniaco chiude la serata, intonando (o stonando) una “Bella Ciao” che forse forse era meglio risparmiarsi. Vabè, siamo in casa CGIL. Ringrazio il sindacato, ringrazio Bari, ringrazio la musica, spunto sui mancati servizi e, in definitiva soddisfatto, mi allontano dall’arena. Recuperiamo la donna, che domani si va a Taranto!

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Meganoidi 26/04/2014

Written by Live Report

Mare Blu, Torino Di Sangro (CH).

Ricordo ancora bene quando vidi i Meganoidi in quel di Giulianova, all’Indhastria. Allora erano all’apice del successo. Era il tour promozionale di Inside the Loop Stupendo Sensation, una fatica discografica che li staccava dalla commercialità dello Ska, per trascinarli verso sonorità più mature e ricercate. Una scelta singolare, ma, a mio avviso, azzeccata. Oggi li ritroviamo dopo 15 anni di vita, reduci da dischi altalenanti, dai risultati non esaltanti. A giudicare dalla folla presente al Mare Blu di Torino Di Sangro, pare abbiano comunque mantenuto uno zoccolo duro di sostenitori accaniti. Ci sono anche io tra di loro. Il gruppo di apertura prescelto sono I Giorni dell’Assenzio, provenienti da Tollo e facenti parte della scuderia Ridens Records. Il loro Rock Alternativo, con venature Stoner, al principio entusiasma, ci fa strabuzzare gli occhi. Col passare del tempo, la palpebra cala e l’entusiasmo scema. Soprattutto se in uno degli innumerevoli intermezzi al confine con la Psichedelia, il chitarrista/cantante si mette a prendere a cazzotti (letteralmente!) la pedaliera, rea di non fare il suo dovere. Mani nei capelli (folti…) si prosegue e guardandomi intorno vedo facce assenti. I Giorni dell’Assenza più che dell’Assenzio…

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Il tempo di un rapido cambio di palco ed ecco arrivare i nostri eroi. Subito salta all’occhio, ma soprattutto alle orecchie, la presenza del nuovo batterista Francesco La Rosa, capace di un drumming furioso (non è un caso se è membro del gruppo Gothic Metal Thought Machine) che, personalmente, trovo stia al sound dei Meganoidi come un gatto in un canile. La tecnica c’è tutta, ma ripeto, sovrasta il resto degli strumenti. Questo live, senza infamia né lode, ci mette davanti la verità dura e cruda: sono i pezzi estratti dai primi due lavori a far ballare e cantare la gente. E’ bastato il trittico “Inside the Loop”, “The Penguin Against Putrid Powell” e, soprattutto, “Meganoidi” a riscaldare gli animi tiepidi degli spettatori. Notavo poca partecipazione durante l’esecuzione di brani come “Altrove” o “Dighe”, entrambi estratti dal quarto album Al Posto del Fuoco, che io ritengo due canzoni di valore che meritavano di essere cantate a perdifiato.

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Era un concerto atipico che viveva di momenti: ad un abbozzo di nota di “King of Ska” o “La Fine” il pubblico si ridestava di botto. Caos finale con la grinta di “M.R.S.”, “Supereroi” (qui tutta Torino Di Sangro ha tremato) e “For Those Who Lie Awake”. Immancabile l’agrodolce “Zeta Reticoli” che ha chiuso i giochi insieme a “Ogni Attimo”, ultima traccia dell’ultimo album in studio Welcome In Disagio. Vado via dall’affascinante location del Mare Blu (a proposito: un locale che dà spazio alla musica dal vivo e a queste iniziative non può che meritarsi una vagonata di applausi) felice, ma con un pizzico di amaro in bocca. Sarà perché vorrei che i Meganoidi, grazie a un improvviso colpo d’ali, potessero essere elogiati per il coraggio che solo i buoni (e non i cattivi) dei cartoon hanno nel profondo del loro cuore.

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L’Altro Primo Maggio 01/05/2014

Written by Live Report

2 maggio 2014, tutto è pronto per riportare su foglio un  Primo Maggio del tutto alternativo. Fermi tutti! C’è un errore! Il mio pc segna la data sbagliata o sono io che son nuovamente desto? Urca! Questo Primo Maggio è durato un po’ troppo mi sa! “Questa vita mi distrugge”…

Sono le ore 12 in punto. La macchina è carica. Pieno di benzina. Pieno di birra. Pieno di adrenalina. Manca nulla? Destinazione Taranto! Ad accoglierci all’ingresso del parco un ospite del tutto eccezionale, degno del migliore dei Jovanotti: si chiama fango…questo però è reale. Avanzo lentamente alla ricerca di un posto dove adagiare il mio telo, al solo scopo di capire chi sono e perché sono lì. Poi il miraggio. La laguna mi saluta e dona spazio ad una distesa erbosa. Verde. Il mio posto è qui! Ma intanto Caparezza è salito sul palco, io sono distratto e le mie scarpe sono luride. Beh, siamo qui per questo. Il buon vecchio capellone si esibisce a pochi passi dalla sua dimora molfettese e la cosa non passa affatto inosservata. Vuoi che io possa sorvolare e fingere di non aver notato l’infinita platea accorsa a Taranto per l’occasione, vuoi che io possa sorvolare il fatto che siano appena le 15, ma proprio non riesco a sorvolare e far finta di nulla quando mi accorgo che un’elevatissima percentuale degli accorsi sta intonando i testi del ricciolone fuori moda. È inutile a dirsi, qui il Caparezza gioca in casa. E lo fa con immenso stile, donando un’esibizione degna del nome che porta. Un ottimo inizio, azzarderei. La giornata si prospetta interessante.

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Vorrei tornare alla mia erbetta e, in effetti, sono lì lì per farcela quando il mio sguardo si posa nuovamente sul palco. Vedo volti noti: sulla sinistra un uomo familiare se la gode, sulla destra una donna dai capelli blu. Sono Fabrizio Pollio e Ketty Passa e si stanno per esibire i Rezophonic. È la prima volta che vi assisto, vediamo come se la cavano i ragazzi. Tutto fila giusto, l’audio è un po’ compromesso e male afferro le parole, ma i ragazzi sanno muoversi e coinvolgere il pubblico (e forse anche loro stessi) con estrema semplicità. Il Pollio (frontman degli Io?Drama) scatta con il suo iPhone foto al pubblico ed agli artisti e chissà perché mi tornano alla mente quei bravi ragazzi degli Offlaga Disco Pax, alla vecchia macchina a rullino di Max, alle foto che ha scattato. Le conserva o le getta via? L’esibizione è già terminata. Poco spazio per così tanti artisti (oltre i 30, mi dicono dalla regia).

3 nobraino

Mi allontano e torno al mio posto mentre la voce di Luca Barbarossa (che veste i panni del presentatore) fa un discorso rosso ed invita il pubblico a visionare il prossimo video. Il primo di una lunga serie. Molto lunga. Troppo lunga. Ho tutto il tempo per stravaccarmi sull’erbetta umida e sorseggiare un po’ di sano luppolo, mangiare un che di salutare e navigare in giro per il parco di stand in stand. Che roba! Qui fanno persino lo zucchero filato! Con il palloncino bianco, morbido e appiccicoso torno alla tana e stavolta la voce annuncia la prossima esibizione: si tratta degli SLT Family (acronimo di “Sotto Le Torri”), ragazzotti locali che rappano, strappano, straziano, rompono e si giocano l’unica chance di far sentire cos’hanno da raccontare ad un pubblico ben più vasto del loro uso comune. Cito ancora una volta una frase che mi è rimasta: “Il Rap è come il porno: ci si nasce!” [J-Ax].

4 rubbish factory

Gli Après la Classe (pugliesi anche loro) ristabiliscono l’ordine, riportando la musica sul palco. Poi cedono il microfono ad un gruppo di sofisticato intelletto: i Nobraino. Kruger si presenta vestito al solito modo: alla cazzo. Hanno poco tempo a disposizione per mostrare la loro follia e lo sfruttano al massimo spaziando da tracce proprie (come “Bigamionista” o “Record del Mondo”) a tributi ad artisti di elevato spessore, quali Manu Chao (“Desaparesido”) o Cotugno (“L’Italiano Vero”). La scaletta prosegue, il caro Lorenzo si spoglia della giacca (che stavolta non è quella di Ernesto), si fa spazio e scende dal palco. Lascia che i seguaci assetati gli carezzino mani, corpo e viso. È l’unico a cercare un simile contatto in tutto il festival. Elevatissima umiltà o banale appariscenza?

5 tre allegri ragazzi morti

Le band sono tante, il sole è stanco di sorgere ogni giorno e stenta ad uscire. D’altronde è la festa dei lavoratori anche per lui. Le nubi minacciano pioggia e il fango se la gode. Poi un colpo di corda scaccia via ogni cattivo pensiero ed attrae il mio sguardo sul palco. Direttamente da Roma, i Rubbish Factory se la menano sfoggiando un Metal nuovo di zecca. Risale a novembre del 2013, infatti, il loro album d’esordio The Sun ed in appena cinque mesi ‘sti due romanacci sono riusciti a condividere il palco con nomi quali Afterhours, Caparezza, Capossela, Mannoia e altri a seguire, che tanto la sorpresa è già bella che rovinata. Inutile a dirsi, mi colpirono allora e mi colpiscono adesso. Esibizione degna di nota, nonostante la giovane età del duo.

6 afterhours

Fra un Diodato che a Sanremo sta da dio (ma che qui proprio non l’ho capito), un po’ di Municipale Balcanica che fa ballare tre quarti di piazza (ma che alla terza traccia fa ballare ben altra cosa), una Mannoia più rossa della festa dei lavoratori ed una Paola Turci che cantare “Fuck You” senza gli Articolo 31 è stato un azzardo fallimentare (e di questo non mi riesce di perdonarla), la lista si accorcia e si avvicina uno dei momenti pià attesi ti tutta la giornata. Vinicio Capossela si mette comodo sul palco e si gode per un attimo le urla in suo favore. D’altronde sa perfettamente di essere chi è e lo sa a giusta causa. Spazia a lungo attraverso ballate popolari ben acclamate, facendo tappa su una “L’Uomo Vivo” cantanta ad occhio e croce da tutta la platea. Un’esibizione interessante quella del Capossela, come al solito, d’altra parte.

1 caparezza

Mancano pochi nomi e quelli di scarso interesse son già passati tutti. È sera ormai e tutti i video che ci hanno proposto (o propinato) hanno stancato ancor più del ballare e delle birre. Rivoglio il fango! Torno al mio posto? Non è il caso, ormai siamo agli sgoccioli e non voglio perdermi un finale tanto atteso. Ed intanto che mi concedo qualche riflessione, Mama Marjas ci riporta per un attimo nell’Africa felice attraverso un Raggamuffin che in realtà sa più di Reggaeton. Il pubblico balla ed i volti sono sorridenti. Non apprezzo il genere, ma riconosco il talento nella sua voce e la sua capacità di scena. D’altra parte la giovane Maria Germinario ha un punto a suo favore: si esibisce in madreterra. Cerco di abbandonarmi al ballo collettivo stile centro sociale che ormai dilaga fra il pubblico e mi accorgo che siamo giunti alla a tale fase della serata. La Mama abbandona il palco e, con grandissima angoscia, i Sud Sound System salgono su accompagnati da una fittissima nube di fumo che oscura il lato est della piazza. L’odore è quello tipico: ‘sti tali hanno confuso la Germinario con la Giovanna! I ragazzotti salentini aprono con una prevedibilissima “Le Radici ‘ca Tieni”, cui non posso negar l’efficacia. Mi abbandono e la canto. Son bravi. In fondo piacciono persino a me. Avanzano con una “Sciamu a Ballare” standard, il che mi porta a pensare che i talentuosi ragazzi marcino oramai da anni sulla scia dei loro successi. Ma non mi va di disprezzare, in fondo l’esibizione è degna di nota ed il pubblico canta. Come se non bastasse sono ospite in casa loro e non mi va di fare il maleducato. È indiscutibile: i Sud Sound System sono una band che funziona, nei centri sociali si, ma funziona (e a quanto pare funziona anche a Taranto al Primo Maggio, com’è lecito attendersi). Dopo l’esibizione, torna la Mama Marjas sul palco, al suo fianco due napoletani belli grossi grossi e mi sento di nuovo a casa. I 99 Posse non se la lasciano cantare dai salentini e rispondono a tono con i loro successi. In Puglia “Curre Curre Guagliò” la conoscono proprio tutti e la giovane barese si esibisce al loro fianco intonando i successi napoletani degli sfegatati comunisti. Da “Antimafia” a “Rafaniello”, passando per “Vulesse”, i 99 Posse prendono l’uscita di scena acclamati e cantati dalla Puglia intera. Complimenti anche a loro, lo ammetto.

Sono esausto. L’odore di marjuana mi distrugge e voglio bere. L’acqua è finita, ma il concerto no. Ora tocca ai Tre Allegri Ragazzi Morti. Conquisto un posto in prima fila e me li godo. “Mio Fratellino ha Scoperto il Rock’n’Roll” mi gasa abbastanza e su “Occhi Bassi” mi fiondo nel pogo. Il colpo basso tirato da “Il Mondo Prima” mi strema ed i jeans si infangano quanto basta. Poi il classico “vaffanculo” chiamato dal palco e gli allegri ragazzi (erano un tempo) si dileguano, lasciando spazio agli operatori di scena. L’esibizione è stata ottima, come al loro solito. Scaletta incredibilmente breve, quanto sapiente. Ma loro sono oramai professionisti e ad inciampare non sono più capaci. Magari con un po’ di impegno potrebbero riuscire anche nel fallimento. Ma per ora ce li conserviamo abili e artistici, nonostante la critica negativa. Una snervante attesa precede il miracolo: Manuel Agnelli appare sorridente sotto gli occhi increduli di tutti. Fa casino, gioca con il cavo del microfono, se la gode. Forse la nebbia di poc’anzi mi ha appassito i neuroni. Poi attacca con una “La Verità che Ricordavo” del tutto inaspettata direttamente da uno dei dischi di maggior spessore, quale Non è per Sempre (annata 1999). La scaletta prosegue e l’Agnelli ancora se la gode. Tocca buona parte dei lavori degli Afterhours, navigando attraverso una “Male di Miele” (in diretta dal 1997), una “1.9.9.6” (alla quale il nostro milanesotto provinciale è particolarmente affezionato) e “Non è per Sempre”. Poi un fonico gli dice qualcosa, Manuel scazza e torna ad essere l’asociale di sempre. Smette di essere allegro, intonandosi perfettamente con “Ballata per la mia Piccola Iena” che segue. Al pubblico, tuttavia, questa nuova (solita) versione del frontman piace uguale. Nonostante la formazione fin troppo dinamica negli anni, i ragazzi sembrano sapere il fatto loro ancora una volta, mostrando capacità di collaborazione ed un’organicità interna degna dei più grandi nomi della storia (ci sarà un motivo eh?) e gasano il pubblico con un’antica, quanto funzionale, “Lasciami Leccare l’Adrenalina”. Di traccia in traccia l’evento scorre rapido e mi accorgo che non è un breve intervento, ma un vero e proprio concerto. Ospiti d’onore, non si lasciano sfuggire una “Padania” recente quanto sottilmente satirica ed una “Bye Bye Bombay” con la quale salutano un pubblico infervorito dal pogo e dal delirio. Inutile a dirsi, la critica stavolta ha ragione: “una delle band italiane di maggior spessore degli ultimi 20 anni” (e a parer mio di sempre).

Sono soddisfatto! L’evento è stato grandioso e, “aggratis”, ho visto ancora una volta gli Afterhours su un palco che sembrava allestito apposta per loro. Di tutto l’evento ho trovato due sole pecche, a parer mio, eccessivamente gravi. La prima è un commento di Luca Barbarossa, secondo il quale a Roma festeggiano il Secondo Maggio, perché il Primo Maggio è qui. Bravo, Luca. Buttar fango sull’evento parallelo è molto molto professionale. Complimenti al “genio” della musica italiana. La seconda va sotto il nome di protesta: troppe chiacchiere, troppi video e troppe persone sul palco a raccontarci storie che abbiamo già sentito e in cui non credono più neppur loro stesse. Siamo al Primo Maggio e qui la gente (forse ignorante?) viene per la musica, non per i convegni. Le otto ore lavorative sono passate di moda, inutile appendersi a lampioni fulminati. Oggi i problemi sono ben altri!

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Gasparazzo, un live per la Resistenza

Written by Live Report

Sabato 12 aprile 2014 presso il Teatro Nuovo di Teramo si è esibita la band emiliana dei Gasparazzo. Si tratta, in realtà, di un ritorno a casa per due dei membri della band, Generoso Pierascenzi (chitarra) e Alessandro Caporossi (voce) in quanto originari del capoluogo, e in generale per il sodalizio emiliano-abruzzese, che si esibisce con una certa frequenza nella provincia teramana. I Gasparazzo si sono presentati al pubblico con un nuovo disco prossimamente in uscita, (“Mò Mò”) e una band rinnovata rispetto alla formazione del precedente lavoro; cambio di bassista con il contrabbassista pescarese Roberto Salario (che sostituisce Marco Tirelli) ed entrata in pianta stabile di una vecchia conoscenza per il gruppo: il fisarmonicista reggio-salernitano Giancarlo Corcillo; è stata confermata, inoltre, la presenza del batterista emiliano Lorenzo Lusvardi, una certezza imprescindibile per la band.

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Il concerto ha avuto luogo in un ambiente molto raccolto, impreziosito da immagini tratte da grandi film del passato e da una scenografia minimale: numeroso e caldo il pubblico che vi ha partecipato. Lo spettacolo ha avuto un carattere per lo più acustico componendosi di soli contrabbasso, chitarra acustica, batteria e fisarmonica, oltre al kazoo e a percussioni varie, nel quale i cinque hanno dato sfoggio per l’ennesima volta della loro grande versatilità e padronanza tecnica. Nella prima parte i Gasparazzo hanno ripercorso il loro grande impegno civile ed artistico vicino alle istanze della Resistenza, quasi epiche ormai, attraverso canzoni come “Campazzo”, “Le Staffette”, “Rosso Albero” e un superba versione di “Villa Emma”, dove emergono, come rocce millenarie dal terreno, storie di eroismo quotidiano che hanno avuto come scenario l’Appennino e la pianura emiliana, e come sottofondo esistenziale ideali di fratellanza e tensioni utopiche.

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Nella seconda parte invece si è preferito dare largo spazio ad alcuni brani del nuovo disco (“Centopelle”, “Michelazzo” e “La Tromba di Eustachio”) con l’inframezzo di un rapido excursus nel recente passato (“Obiettivo Sensibile”) e un deciso tuffo nel primo album (“Siesta”, “El Loco”, “Mesci ddo Tazze e Rulla nu Truzz”, “La Margherita dell’Amor”, “Lu Lupe”, “Solami”), nel grande entusiasmo generale. Il concerto e il nuovo lavoro sono un chiaro cambio di atmosfera e di direzione rispetto a quanto fatto precedentemente e manifestano un deciso ritorno al passato, verso le sonorità Folk Rock e i testi più densi di “Tiro di Classe”. Un consiglio: se vi capita, non perdetevi la perfomance della band, decisamente di grande spessore e sicuramente la dimensione nella quale i Gasparazzo danno il meglio di loro stessi.

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Management del Dolore Post Operatorio (+ Borghese) 28/03/2014

Written by Live Report

A noi abruzzesi piace molto vantarci del fatto che abbiamo mare e montagna a pochissima distanza l’uno dall’altra. Salvo poi dover arrivare nel giro di mezz’ora da L’Aquila alle estreme propaggini settentrionali del teramano, che saranno anche poche decine di chilometri ma il percorso da affrontare è una specie di videogame, con tunnel che squarciano il Gran Sasso, pieni di uscite di sicurezza di quelle belle grandi da cui da un momento all’altro spunterà il mostro da sconfiggere per passare al livello successivo, e poi curve a gomito, buche, segnaletica vaga e traditrice. Come se non bastasse, sprezzanti di ogni pericolo io e la Bionda (noto personaggio del circuito underground della provincia di Pescara, la chiameremo così per tutelarne la privacy) decidiamo di partire senza l’ausilio di quelle piccole grandi tecnologie che sono oggi alla portata di tutti. Leggasi navigatore satellitare. Prima però che mi immaginiate come una specie di Indiana Jones coi tacchi alti a bordo di una Panda, taglio corto e confesso che il mio smartphone era completamente scarico, perché delle due io sono quella sfigata, mentre lei ha impiegato l’intero tragitto a capire come usare il suo, perché lei è quella bionda e il cliché vuole sia quella scema.

Stasera si gioca in casa. Palco abruzzese, artisti abruzzesi. La Bionda è molisana ma non stona, ‘che tanto al nord sono ancora convinti che siamo un’unica regione. Parlare di irriverenza per descrivere l’evento è quasi un eufemismo. Gli headliner sono una band che per l’artwork del proprio ultimo album ha scelto un’opera di un artista che raffigura Mao Tse Tung truccato da Ronald McDonald. Come se non bastasse, l’opening act è affidato a un cantautore che ha rivisitato in chiave grottesca ma tristemente attuale l’inno partigiano per eccellenza. Eccolo McMao, in bella vista sullo stage del Dejavù. Artisti e realtà live di Marche e Abruzzo sono in crescita costante e proporzionale. Insomma, da queste parti vale sempre la pena affrontare un paio di chicane se alla fine del circuito vi aspetta un live show. Il pubblico è in trepidante attesa dei MaDeDoPo ma Borghese, per l’occasione con un set minimalelectro, cattura l’interesse con i brani del suo esordio, L’Educazione delle Rockstar. Su una insolita versione Elettro Rock di “Ma che Freddo Fa” le ragazze iniziano persino a ballare. Una di loro accanto a me dopo un minuto di ascolto esclama entusiasta rivolta all’amica “Aaahh sì! Quella dei Modà!”, ma questa è un’altra (triste) storia. “Bella Ciao” in chiusura genera le reazioni contrastanti già manifestatesi tra i commenti su Repubblica XL dopo l’uscita del videoclip in anteprima un paio di mesi fa: chi ne coglie l’amara ironia al primo ascolto già intona il ritornello, mentre un tipo grida indignato i versi dell’originale. Ironico che un fraintendimento tanto reazionario nasca in difesa del movimento partigiano.

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Un rapido cambio e sul palco arrivano i Management. L’euforia con cui li accolgono la dice lunga su quanto ormai siano indubbiamente una delle più grosse novità del panorama musicale nostrano. Merito di questo secondo disco (McMao) o della trovata di Luca Romagnoli di tirarsi giù i pantaloni in mondovisione a una manciata di minuti a piedi da Città del Vaticano? Per stasera mi tengo il beneficio del dubbio e mentre ci penso mi godo lo show di un tipo che sembra nato per essere un frontman, qualunque sia la cosa che gli sta alle spalle. Un timbro vocale che poco ha a che vedere con l’intensità del cantautorato italiano, ma che traina il pubblico come un performer di quelli con un paio di greatest hits all’attivo: qui si poga già dal primo pezzo (“Il Cinematografo”, anche gli astuti MaDeDoPo sulla scia del clamore dell’Oscar a Sorrentino), e cantano proprio tutti. Il che non è così scontato. Ai concerti di Vasco Brondi cantano solo le donne, per dire. I quattro proseguono a ritmo serrato intervallando brani di Auff!! ai nuovi, “Marilyn Monroe” e poi “Hanno Ucciso un Drogato”, introdotta da una invettiva contro le forze dell’ordine – molto più probabile che Romagnoli li abbia chiamati sbirri – che quanto pare è una tematica ricorrente (anche in Auff avevano un paio di cose da dire ad un “Signor Poliziotto”) e i presenti sembrano condividere appieno e lo dimostrano prendendosi a spallate più convinte.

La realtà è che ad essere convincente è l’intero progetto MaDeDoPo. Strampalati ad ogni costo, si beffano della normalità, o per meglio dire della presunta tale, bocciano ogni forma di futuro prossimo e anteriore e lo gridano forte, ma l’astuzia sta nel farlo con un sound easy e immediato. Miscelalo con una sezione ritmica martellante, aggiungi testi sfrontati, non scontati e ben mirati a ficcarsi nelle teste dei più, avvolgi il tutto con quell’aria goliardica da Punk pagliacci vestiti da hipster, ed ecco che hai messo tutti d’accordo. Sì, un paio di punti li conquista per loro il batterista con la sua felpa rossa con motivo paisley: il mio obiettivo nella vita da domani sarà averne una uguale. La dimensione live è senza dubbio quella in cui i Management danno il meglio. Quando parte “Sei Tutto il Porno di cui Ho Bisogno”, l’anthem è un boato unanime, ma anche brani di McMao come “La Pasticca Blu” e “James Douglas Morrison” sono già celebri tra i seguaci. Il Deja Vu è così pieno che scoppia, la zona mixer è praticamente sotto assedio, ed ecco che l’impianto salta. Un vero frontman sa che non bisogna concedersi tempi morti, ed ecco che Luca coglie l’attimo di silenzio per lanciarsi in aria in uno stage diving che neanche Iggy Pop nella sua forma migliore, e dico in aria perché il palco è in realtà una pedana di venti centimetri e a Iggy non sarebbe mai venuto in mente.

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Le brevi interruzioni sono solo quelle tecniche, per il resto i ragazzi non si risparmiano. “La Rapina Collettiva”, “Auff” e anche “Fragole Buone Buone”, che è proprio quella di Luca Carboni, una insolita scelta coverizzata e inclusa in McMao a sottolineare il fatto che non bisogna pensare di aver capito di che pasta sono fatti i Management, arriverà sempre una mossa che non ti aspetti. Mentre navigo tra la folla verso il fondo della sala in cerca di una birra sulle note di “Norman”, mi sorprendo in una bizzarra connessione mentale e ricordo un aforisma di Nietzsche sull’espressione “prendere sul serio”. Tre parole correntemente messe in fila che così disposte veicolano un insano pregiudizio circa l’impossibilità di ridere e pensare contemporaneamente. Che speranza abbiamo di sopravvivere al quotidiano senza l’arma dell’ironia? Conquisto una 0.2 e resto in ascolto nelle retrovie. Questo Alt Rock impegnato nei temi e paraculo nei modi mi appare la lingua migliore che rimane alla generazione di quelli cresciuti con tutto, e con la convinzione che lo avrebbero avuto per sempre, per poi ritrovarsi adulti nell’epoca in cui ogni cosa è inevitabilmente a termine.

Lasciateci cantare il nostro scazzo esistenziale mentre ci divertiamo a saltellare sugli stilemi del Rock, conditi di elettronica ma neanche troppo, giusto quel tanto che ci faccia sentire europei. Possibilmente con della birra a portata di mano. E che Nietzsche mi perdoni per averlo tirato in ballo nel raccontarvi di un concerto in provincia di Teramo.

Pics by Ilaria | Jela photo | https://www.facebook.com/pages/Jela-photo/317280911635779?fref=ts

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Franz Ferdinand

Written by Live Report

Alle volte per me è inevitabile associare certi concerti ad una gravidanza. So che con questa affermazione rischio la morte per decapitazione da parte di tutte le donne che hanno passato ore ed ore in sala travaglio, ma abbiate pietà di me e delle mie libere associazioni, che in questo caso fanno riferimento principalmente al sentimento dell’attesa che governa entrambi gli eventi. Compri un biglietto, aspetti per nove interminabili mesi l’arrivo del concerto, consapevole che in quel lasso di tempo può davvero succedere di tutto. Poi il giorno del concerto quasi per magia arriva, e ti trovi improvvisamente catapultato in un Regionale Veloce con destinazione Milano, dove ti aspettano i tuoi compagni di numerose battaglie; quelli forti, valorosi e temerari, che non si spaventano nemmeno all’idea di dover passare una notte da barboni nella stazione di Milano Centrale per andare direttamente a lavoro l’indomani freschi, riposati e soprattutto profumati, per la gioia dei colleghi. Per fortuna la sorte non ci è stata così avversa: il nostro “sopporter” ufficiale avrà pietà di noi ancora una volta e ci riaccompagnerà a casa. Dopo aver sbagliato treno alla fermata Famagosta (ma secondo voi potevamo farci mancare anche questo tipo di emozioni?), arriviamo finalmente al Forum Assago per essere letteralmente assaliti, sin dalla banchina della metro, da un numero incalcolabile di bagarini che offrono biglietti a prezzi modici e stracciati (a detta loro), tanto che mi chiedo se sono l’unica scema ad averlo comprato. Sono le 21.00, il Forum è pieno, ma dei Franz Ferdinand nemmeno l’ombra. Dal palco, l’occhio stampato sul fronte del cd Right Thoughts Right Words Right Action, riproposto sulla grancassa della batteria, ci osserva: uno sguardo divino sulle nostre esistenze? Un Grande Fratello che ci scruta dall’alto? Non lo sapremo mai. Noi lo interpretiamo come un occhio severo che, pur senza proferire verbo, è capace di farci arrivare un cazziatone interiore che dice più o meno “Che cazzo ci fate ancora senza birra in mano?”. Tranquillo occhio sulla grancassa, provvediamo subito.

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Con una birra in mano le 21.30 arrivano senza problemi, e finalmente si comincia. I Franz Ferdinand si palesano in tutto il loro splendore sul palco. Alex Kapranos guadagna la posizione centrale, ed io lo amo già solo per la sua giacca di pelle, per il suo modo di saltellare sul palco e per come dice “Buonasera Milano”. La scenografia retrostante non è di grandi pretese, ma essenziale: uno schermo centrale e due grandi schermi laterali per proiettare immagini, luci ed effetti. Si comincia con “Bullet”, dall’ultimo album, e si prosegue con pezzi degli album precedenti, per un mix letale tra vecchio e nuovo. Tutto procede a meraviglia, l’energia che si sprigiona è tanta, come da previsioni: dentro, fuori e intorno è tutto un gran saltare. Intuisco l’arrivo di “Do You Want To” e mi preparo ad una carica nelle ginocchia da salto sulla luna, ma stranamente il ritmo rallenta, e così accade anche per “Walk Away”. Mi sa tanto che ci toccherà preservare l’energia potenziale per il seguito. Infatti a partire da “Take me Out”, seguita da “Love Illumination”, sarà uno scatenarsi di emozioni, voci e mani al cielo senza tregua, che solo “Jacqueline” e “Goodbye Lovers and Friend” riusciranno a mettere a freno, lasciandoci intravedere in controluce la fine del concerto. Mentre canto Goodbye lovers and friends, so sad to leave you, when they lie and say this is not the end… la mia voce si unisce a quella di altre “millemila” voci, ma mi ritrovo infine abbracciata a coloro che poco prima in metro mi facevano ridere in una maniera così spensierata, e penso che no, non ci dovrebbe mai essere una fine a tutto questo; non dovrebbe mai avere fine la Bellezza.

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Zen Circus + Dr. Quentin 21/03/2014

Written by Live Report

Il 21 marzo 2014 Streetambula (la costola di Rockambula che si occupa di eventi live per artisti emergenti) sbarca in territorio pescarese affiancando un proprio artista, Dr. Quentin, agli Zen Circus, terzetto pisano attivo dai primissimi anni 90 nell’affollato panorama indipendente italiano, presso una venue di tutto rispetto come il Tipografia di via Raiale. Sbrigate le formalità burocratiche al botteghino, giungo finalmente in prossimità del main stage; il tempo di gustare (si fa per dire) la classica birra annacquata e scambiare quattro chiacchiere con il numeroso pubblico accorso ed ecco salire in scena il nostro beneamato Dr. Quentin, per l’occasione in versione unplugged (chitarra acustica e voce).

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L’emergente artista sfodera con maestria dal suo repertorio a cavallo tra Reggae, Punk e Classic/British Rock, brani piacevoli e scanzonati come “What I Got”, “Sweet Dirty Music” e l’italianissima “Senza di Te”, proponendo in chiusura il roccioso quanto sperimentato cavallo di battaglia “Carry On”, vero e proprio mid tempo in puro stile QOTSA. Ottima presenza scenica, un’esecuzione tecnicamente impeccabile, tanto coinvolgimento ed ironica determinazione. Per quanto mi riguarda, é un si. Promosso a pieni voti. Dopo un cambio palco piuttosto snervante (prolungatosi per oltre mezz’ora), finalmente i tanto attesi Zen Circus, capitanati dal talentuoso chitarrista, cantautore e produttore discografico Andrea Appino. La compagine toscana, reduce dal recentissimo full length Canzoni Contro la Natura (La Tempesta Dischi, 21/01/2014) aggredisce immediatamente l’audience con un sound incisivo e compatto, egregiamente sostenuto da una sezione ritmica (il drummer/percussionista Karim Qqru ed il bassista Massimiliano Schiavelli) che, pur nella sua apparente linearità, viaggia indiscutibilmente a mille, il tutto condito dal poliedrico impianto chitarristico (si spazia dal Punk, al Folk cantautorale, giungendo infine all’Alternative Rock) di Appino.

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Complice la discreta acustica del luogo (l’unica nota negativa riguarda forse la presenza vocale, soffocata e pressoché indistinguibile per l’intera durata dello show, nonostante il cantato in italiano), gli Zen Circus offrono davvero un’ottima performance, ripercorrendo brani recenti (“Viva”, “Postumia”, “Canzone Contro la Natura”), e vecchi evergreen di sperimentato successo (“Nati per Subire”, “Andate Tutti Affanculo” e “Vent’anni”). Birra annacquata a parte, un piacevolissimo concerto, davvero. La prossima volta, però, mi attesto in prima fila, promesso.

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Bologna Violenta 15/03/2014

Written by Live Report

Il 15 marzo era una data che aspettavo da molto tempo; da almeno due anni infatti (a meno che la memoria non mi faccia brutti scherzi) Nicola Manzan alias Bologna Violenta non si faceva vedere da queste parti. A dare un ulteriore valore a questo week-end si è aggiunta, inoltre, la visita inaspettata in uno special guest ti tutto rispetto con il quale ho il piacere di avere in comune parte del patrimonio genetico, ma questa è un’altra storia. Come spesso accade mi trovavo al Blah Blah, ed il pubblico che animava i portici e l’interno del locale, quella sera, era davvero molto variegato: abbigliamenti “normali” affiancati a look sovversivi da pirata, con comparse sporadiche di chiome dal colore cangiante, dal blu elettrico al rosso vivo.

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Mi sento comunque di dire che il colore predominante era il nero, nella sua variante di nero con borchie. Anch’ io per l’occasione ho deciso di sfoderare il mio finto pellame da combattimento lasciando però le borchie a casa; non avrei mai voluto esagerare con la sobrietà. Tra i look “estremi” che mi circondano, vince il primo premio quello del tizio capellone e cotonato che mi ritrovo davanti durante il concerto, e che per l’occasione ho deciso di ribattezzare “Mufasa” (chi come me ha passato parte dell’infanzia a piangere durante la visione del Re Leone sa di cosa parlo). Il concerto è aperto dai Seitanist, ma l’attesa è tutta per Bologna Violenta che presto si palesa sul palco carico di strumenti accompagnato da Nunzia, carichissima anche lei. Un brevissimo soundcheck  per Nicola, e poi subito si riparte.

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Uno Bianca, l’ultimo album di Manzan, viene suonato per intero, senza interruzione: 27 brani di pura violenza emotiva per raccontare uno dei peggiori fatti di cronaca nera avvenuti in Italia, accompagnati da immagini di repertorio, video di quegli anni e scritte essenziali che meglio aiutano a descrivere i fatti e a comprendere la tragicità degli eventi. Si tratta di video minimalisti, essenziali nella loro forma, di contorno alla vera protagonista che rimane sempre e comunque la musica, che da sola riesce davvero a narrare e ad esprimere tutta l’angoscia, la violenza ed il terrore legato a quegli anni tristissimi. Terminata la performance legata ad Uno Bianca, Manzan procede con alcuni pezzi memorabili tratti dagli ultimi suoi due album; in questo caso i video di accompagnamento alla musica si fanno decisamente più espliciti sia nelle immagini che nei contenuti (Manzan non ti perdonerò mai per avermi fatto assistere alla decapitazione di un toro! Sappilo!). Terminato il concerto, Mufasa ed il suo branco assalgono BV con le loro domande. Io passo a salutare Nunzia nell’area “merch” e subito dopo raggiungo anch’io il mio branco. Mentre mi perdo in un interminabile monologo interiore di cui questo live report è figlio, penso che stavolta Manzan abbia superato sé stesso dando vita non solo and un album degno di nota, ma mettendo in scena un vero e proprio “spettacolo” dal forte valore emotivo, capace di coinvolgere anche i meno amanti del genere; un qualcosa che va oltre un semplice concerto, e che è legato in qualche modo col concetto di Memoria, per non dimenticare ciò che è stato, per fare in modo che non accada più.

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