Live Report

Paul Mc Cartney

Written by Live Report

26 giugno 2013 @Arena di Verona

Paul è Paul!

E’ questo il primo commento che viene da fare appena usciti dall’Arena di Verona a tutti…

In quasi tre ore di concerto Mc Cartney infatti ha dato fondo a tutte le sue energie per garantire ogni singolo secondo il migliore degli spettacoli, gradito da persone di tutte le età (c’erano giovanissimi ma anche sessantenni e persino qualche over 70!) e da alcuni vip avvistati tra il pubblico (si sono fatti i nomi di Paola Turci, Marco Mengoni, Elisa, Mario Venuti  e Cesare Cremonini che tra l’altro sedeva a poche file di distanza da chi scrive). Avrà superato i settanta, ma la grinta è ancora quella di un ragazzino, tanto da indurlo a provare diciannove delle quasi quaranta canzoni previste per lo spettacolo serale in un soundcheck segnato da un violento acquazzone. All’arrivo all’Arena nel medio pomeriggio è stato accolto da un centinaio di impavidi fans che lo attendevano già tempo sperando di potergli rubare un autografo o una foto in compagnia (sogno però spezzato dal fatto che si è fermato scortato dalle guardie del corpo giusto una manciata di secondi accennando appena un saluto). L’Out There Tour è approdato quindi ufficialmente in Italia per un unico concerto andato ovviamente tutto esaurito che è cominciato verso le 21:30 con un “Buona sera Verona, siete tutti matti?” per l’esecuzione di “Eightdays a Week“.

L’Arena di Verona solitamente sarebbe ad uso della musica lirica ma già negli scorsi anni mostri sacri della musica pop e contemporanea quali Deep Purple e Duran Duran vi si sono esibiti ottenendo grande successo di critica e pubblico. Molti sono stati durante la serata i pezzi attinti al repertorio dei Beatles, grandi classici quali “Let it be”,“Hey Jude”, “Day Tripper”, “Get Back”e“Yesterday” ma tralasciando anche “Penny Lane” o “Michelle”. Probabilmente quindi ci sarà stato anche chi come me si sarà lamentato di non avere sentito “Goodbye and Hello”, ma forse era davvero impossibile proseguire lo show dopo due ore e quaranta minuti davvero al top. Ogni tanto qualche dedica ai suoi ex compagni di gruppo, John Lennon (succede in occasione di “Here Today” che confessa essere il dialogo mai avuto con l’amico ucciso nel lontano 8 dicembre 1980 dal folle Mark Chapman) e George Harrison ed anche alla sua ex moglie Linda, indimenticato grande amore e musicista accanto a lui sin dai tempi dei Wings per la quale scrisse “My Valentine” eseguita in una toccante versione. C’è stato anche tempo per un breve tributo al più grande chitarrista della storia del rock, Jimi Hendrix (bellissima l’esecuzione strumentale di “Foxy Lady”) e per dei fuochi d’artificio durante “Live and Let Die”, colonna sonora del noto omonimo film di James Bond.

La chiusura è stata affidata (giustamente) a “The End”, ultimo brano di “Abbey Road” per un 25 giugno che difficilmente chi era lì dimenticherà mai! Tanti gli accorsi da fuori regione, molti persino dall’estero per il baronetto del rock che a cinquant’anni dal primo disco dei Beatles non smette di far sognare persino le ragazzine…

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Turin Brakes

Written by Live Report

14 Giugno 2013 @ San Damiano d’Asti

La cornice scelta per l’unica data italiana dei Turin Brakes è la piccolissima cittadina di San Damiano d’Asti, in Piemonte, in occasione del Fuori Luogo Festival, una tre giorni di letteratura, cibo e musica che le Officine Carabà hanno ideato l’anno scorso. L’idea fondante che traspare subito, è quella di avvicinare i giovani al proprio territorio, alla cultura enogastronomica di una regione che su questo aspetto ha molto da offrire, offrendo anche loro show di qualità di ospiti internazionali, per altro gratuiti. Certo, alla sola seconda edizione ci sarà ancora probabilmente molto da apprendere, modificare, progettare, ripensare, ma il progetto è coraggioso e ha buone prospettive di fronte a sé, difendendosi con dignità in un panorama in cui persino i più grossi festival faticano a completare una line up e fanno che annullare tutta la manifestazione. L’edizione del 2013 del Fuori Luogo si è aperta il 14 giugno, proprio con l’esibizione dei Turin Brakes. Un po’ troppo forse per una provincia di hipster per moda e indie snob annoiati. Così snob che sotto il palco ci saranno state sì e no trecento persone, ridotte particolarmente in fretta ad ogni brano eseguito dalla band (e non perché fosse tardi, visto che la band ha suonato un’oretta dalle 23 alle 24 e la piazza adiacente, quella con gli stand di cibo e bevande, per capirci, era gremita di primi vestitini da bancarelle indiane, calzoncini corti e sandali).  I Turin Brakes non sono certo dei mattatori da palco, l’estate che ha tardato ad arrivare avrà fatto uscire di casa un sacco di sprovveduti, accorsi per l’occasione festaiola e per la gratuità del concerto e probabilmente ignari di ciò che avrebbero trovato sul palco.

Cosa c’era dunque sul palco? Una band poco calorosa e anzi proprio tendenzialmente freddina, con una grande competenza tecnica e un ottimo gioco dialogico delle linee melodiche, ma pressoché immobile, silenziosa perché probabilmente frenata dalla differenza linguistica, riflessiva, intima ma in modo poco empatico. Il concerto si apre con Time and Money, brano inedito che dovrebbe essere inserito nel nuovo album (la cui uscita è prevista per il prossimo agosto) e prosegue con Stalker, Oblivion ed Emergency 72. Solo la prima fila sembra particolarmente entusiasta di ciò a cui sta assistendo, ma per il resto del pubblico arriva la cover di Wicked Game, che, per lo meno, han già sentito da qualche parte.

Il concerto prosegue, senza troppi momenti di particolare pregio con Rescue Squad, Mind Over Money e la bellissima e freschissima Painkiller. E a questo punto è bene spezzare una lancia a favore del pubblico e fare una seria critica alla band: pulitissimi da disco, perfetti, particolari pur nel loro essere comunque uguali a centomila altri gruppi, i Turin Brakes dal vivo mancano di appeal, di verve, di energia. Persino la vocalità nasale del cantante, elemento che lo distingue per esempio da una formazione come i Kings of Convenience, con cui condividono sensibilità e costruzione della forma-canzone, viene meno. E la delusione in me è tanta che mi perdo persino l’esecuzione di Fishin’ For a Dream. Mi riprendo praticamente solo per Underdog, con momenti improvvisativi in cui finalmente sul palco qualcosa si muove, e la chiusura con Slack. Probabilmente quanto ho scritto non sarà condiviso dai presenti, ma mi aspettavo davvero tutt’altro. L’augurio è che almeno un nome di respiro internazionale come quello dei Turin Brakes porti un po’ di lustro alla manifestazione crescente. Sicuramente, invece, consiglio di continuare ad ascoltare la band da disco, anche se vi suonano praticamente sotto casa e gratis.

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Luminal (con intervista)

Written by Live Report

Venerdi’ 8 Giugno 2013 @ L’Aquila, Piazza Angioina

Erano anni che non tornavo a L’Aquila, o meglio in quella zona del nostro capoluogo che chiamano Rossa, forse per il sangue che ha bagnato la terra, sporcato le pareti traballanti in quella maledetta notte del 6 aprile 2009 ore tre e trentadue. L’occasione è arrivata. Lotto giugno è una festa oltre che un momento di partecipata riflessione. Piazza Angioina è un luogo nascosto nel cuore della città che fu e che ora vuole rinascere.
Oggi la Piazza è però solo cibo, giochi popolari, mostre, concerti, videoproiezioni e spettacoli organizzati da ragazzi delle varie associazioni, Tre E Trentadue, Asilo Occupato, Case Matte e Appello per L’Aquila.
Questa sera ci sarà il concerto di Le Naphta Narcisse, band aquilana prossima al primo full lenght e soprattutto dei Luminal, una delle formazioni che più sto apprezzando, grazie all’ultimo album Amatoriale Italia, in questo 2013.

Iniziato il concerto non c’è molta gente (anche se nella zona centrale del paese scoprirò poi esserci tantissimi ragazzini che evidentemente amano più discoteca, cicchetti e cazzeggio a Rock, birra e “partecipazione”) e l’impianto di amplificazione sembra quello di una serata tra amici. Ti guardi intorno e capisci che gli amplificatori sono l’ultimo dei problemi. Nel pomeriggio ho fatto un giro tra le macerie, ho visto le case dei miei anni universitari, ho visto la mia vecchia dimora e ho quasi pianto nel osservarla ancora in piedi pur se sofferente, con gli arti spezzati e la porta spalancata come una ferita aperta su quella cucina e quel vecchio divano dove ho poltrito, bevuto birra, cazzeggiato, chiacchierato e conosciuto la gente, il mondo e la vita. Ho avuto paura di quei silenzi irreali, della mia memoria, paura di qualcosa che non so bene cosa sia ma che probabilmente resterà fino alla fine dei nostri giorni appollaiata sulle spalle di noi aquilani cittadini, provinciali o d’adozione.

Fanculo amplificazione, fanculo il freddo, fanculo il governo, Berlusconi e il M5s, fanculo tutto e tutti. Quello che conta è che L’Aquila sia ancora qui e che ci sia ancora qualcuno che crede in lei, come i ragazzi che hanno organizzato tutto questo ma anche noi che abbiamo fatto sessanta chilometri per essere qui ed io che scrivo e vi ricordo che L’Aquila non è morta in quella maledetta notte del 6 aprile 2009 ore tre e trentadue.

Quello che conta è che i Luminal stanno per iniziare il concerto ed io voglio solo stare ad ascoltarli, senza dirvi una parola di più. Ho chiacchierato con Alessandra Perna, voce e basso della band, il giorno dopo il concerto e insieme vi stiamo per raccontare quello che è stato.

E tanto per sdrammatizzare, alla fine trovate il video (perdonate la scarsa qualità audio) della caduta di Alessandra sul palco (un ringraziamento speciale a Fabio Presutti). Capita quando ci si mette l’anima.

 

Ciao Alessandra. Vi ho visto pochi giorni fa suonare a L’Aquila. Cosa vi ha portati proprio nel capoluogo abruzzese. Quale particolare occasione?
Abbiamo suonato in occasione della festa della NON ricostruzione, un concerto organizzato nel cuore di quella città che si è fermato dopo il 6 aprile del 2009.

Che impressione vi ha fatto la città e la sua gente?
La città fa paura. Fa paura il silenzio, fa paura il vuoto, fanno paura i salotti che si vedono dalle finestre ancora aperte dei palazzi distrutti, come se lì dentro ci fosse ancora vita, fa paura il fatto che in quelle zone qualcuno sia riuscito di nuovo a votare Berlusconi alle ultime elezioni.

L’Aquila tornerà mai quella che era? A proposito, ci eravate già stati?
Non ti posso dare la mia impressione sugli aquilani perché ne conosco pochissimi, e quelli che conosco sono completamente pazzi. E in generale sugli italiani sono la persona meno obiettiva che possa esistere. Non ho mai vissuto una tragedia del genere, non so che cosa significa ma non credo che L’Aquila tornerà mai quella che era. Qualsiasi discorso affogherebbe nel qualunquismo e questa è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Una cosa è certa: ci abituiamo troppo in fretta alle tragedie.

Il concerto è stato organizzato dentro la zona rossa, in una piazza che già prima del terremoto era poco frequentata. Ci lamentiamo del fatto che ai concerti il pubblico è sempre meno ma  poi gli organizzatori sembrano fare di tutto per nascondere gli eventi. Cosa ne pensi?
Spiegami meglio cosa intendi. Pensi che gli organizzatori abbiano pubblicizzato poco l’evento?

Pubblicizzato poco e scelto il luogo meno adatto.
Credo sia un discorso lungo e complicato. Fare le cose in Italia è sempre molto difficile, soprattutto quando hai poche risorse e non offri nulla di “cool”. Poi magari ti ritrovi a suonare su un palco traballante con una chiesa che ti può cadere sulla testa da un momento all’altro, però anche questo è rock’n’roll, quindi va bene così.

Passiamo al concerto vero e proprio. Avete suonato con Le Naphta Narcisse ma avete aperto voi le danze. Ci aspettavamo il contrario. A cosa è dovuta la scelta fatta?
I Naphta sono un gruppo nato all’Aquila, ed era giusto che fossero loro a chiudere la serata.

Nonostante la location suggestiva, ho notato, nella parte iniziale soprattutto, non pochi problemi di resa audio. Un problema di risorse limitate degli organizzatori o cosa?
Noi sul palco sentivamo molto bene, poi è normale che a meno che hai un impianto molto potente e costoso non si può sentire benissimo in una piazza

Avete suonato per intero (vado a memoria) Amatoriale Italia e niente dei lavori precedenti. C’è un motivo particolare (viste anche le differenze non solo stilistiche tra il prima e il dopo) o solo scelta promozionale?
Suonare i primi due dischi in questo momento non ha molto senso per noi, prima di tutto perché io suono il basso e non più la chitarra, Carlo canta e basta, quindi i pezzi vecchi non sono fattibili con questa formazione, anche se prima o poi ci piacerebbe rifarli, magari collaborando anche con altri musicisti..vedremo che cosa succederà.

Nello specifico dell’esibizione aquilana, avete dato il massimo (praticamente perfetti, compresa la tua caduta) pur non essendo dei virtuosi dello strumento, quando al basso c’era Carlo e tu alla voce. Nella situazione normale e contraria avete avuto problemi sia tu che lui. Come mai?
Oddio, noi non abbiamo percepito nessun problema in entrambi i casi (ridiamo ndr) (forse un cavo mezzo rotto del microfono che poi è stato sostituito?).

Che differenza c’è tra i Luminal che hanno suonato a L’Aquila e quelli che suonarono anni fa, sempre in Abruzzo, a Sulmona?
I Luminal di oggi hanno finalmente trovato la forma giusta per esprimere quello che hanno sempre pensato e il loro modo sbilenco di vivere la vita.

A proposito di “modo sbilenco di vivere la vita”, nelle vostre canzoni parlate in maniera feroce e dura di Facebook (di un modo malato di usarlo), della critica musicale e di hypster (oltre a tante altre cose). Quanto vedete queste cose come “problemi” di cui parlare? e come vi rapportate a essi?
Internet ha ucciso l’arte, ha ucciso il pensiero critico, impone regole di vita sociale peggiori di quelle della televisione, ha eliminato la noia e la solitudine salvifiche per la creazione, ha reso i giornalisti pigri, i musicisti troppo simili fra loro (almeno quelli della scena dominante).
Sfido chiunque a vivere la stessa vita degli artisti che condividiamo con tanto orgoglio ogni giorno su Facebook credendo di fare la rivoluzione (che non deve essere per forza politica, ma anche semplicemente umana).
Detto questo, vado un secondo sull’homepage di Rockit a vedere che sta succedendo.

Qualcuno ha definito i vostri testi a tratti “adolescenziali”. Non ti dico cosa ho risposto io (ormai hai capito quanto mi sia piaciuto Amatoriale Italia). Rispondi tu.
Se fai discorsi seri ti dicono che sei presuntuoso, se dici cose in maniera chiara e semplice ti dicono che sei adolescenziale, se dici la verità ti dicono che sei qualunquista, se non dici nulla ti dicono che ti lamenti e basta. Consiglio uso massiccio di benzodiazepine, grappa, una preghierina a satana e un vaffanculo a mammà ogni tanto che fa sempre bene.

Domanda “intima” suggerita da un tuo segreto ammiratore. Tu, Alessandro e Carlo siete solo amici?
(ride ndr) Io e Carlo stiamo insieme da 7 anni

Domanda ovvia per chiudere. Prossimi appuntamenti live e studio?
Si ricomincia il 23 giugno da Modena, Agriturismo Cantoni, poi potete trovare tutte le altre date sulla nostra pagina facebook. Credo che inizieremo a scrivere nuovi brani da settembre, ci sono già dei testi e un bel po’ di idee.

Abbiamo finito. Non posso che rinnovarti i miei complimenti per l’ultimo disco, Amatoriale Italia e augurarmi di rivedervi presto. Un saluto anche ad Alessandro e Carlo. P.s. perchè non togliete la vostra pagina da Rockit?
Ma in realtà non la gestiamo noi.  Comunque il senso di tutto è che Rockit è una webzine come un’altra.

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Dinosaur Jr

Written by Live Report

Lunedi 27 Maggio 2013 @ Blackout Rock Club, Roma

I Dinosaur Jr fossili dell’Indie Rock made in USA sono tornati sulle scena Italiana. Dopo un lungo silenzio nel 2007 pubblicano Beyond e si riaffacciano con nuova grinta sulla scena Indie internazionale. Qualche sera fa la loro terza data italiana al Blackout Rock Club di Roma con il nuovo tour e album, uscito a settembre 2012, I Bet on Sky.
In un lunedì sera da sfigati, il trio, J Mascis, Lou Barlow e Murph (rimpiazzato nella serata per problemi di salute) arrivati da Amherst, città sperduta del Massachusetts, provano a sfondarci i timpani. Sul palco del Blackout un muro di amplificatori Marshall copre le spalle ai dinosauri facendomi supporre schitarrate a tutto volume con la loro tempra da “giovani” skater. La platea è mista, dai giovani fans dell’ultimo periodo ai più veterani quarantenni sfegatati, tutti in fermento per questa data unica nel genere.

Nonostante il lunedì sfigato il locale è quasi pieno e quando manca qualche minuto alle ventidue ecco che sul palco compaiono i Dinosaur Jr. Con i suoi lunghi capelli bianchi e l’occhiale da nerd, Mascis, voce e chitarra, perduto nella sua fragilità, sembra un personaggio uscito da un fumetto giapponese, attacca a suonare diretto, dopo solo un ciao, e non smetterà per tutto il concerto. Un pezzo dietro l’altro senza mai fermarsi, senza pause, ma il pubblico sembra non aver bisogno di preamboli e nonostante i postumi del week end sembra carichissimo. I più giovani, al suono malinconico della sua chitarra, saltano e pogano, mentre nelle retro file veterane tutti annuiscono con la testa. I Dinosaur Jr fanno da ponte fra le generazioni e i loro ultimi lavori dimostrano che non hanno perso smalto e riescono ancora a far presa fra i più giovani.

Questa la scaletta della serata: “See It on Your Side” – “Repulsion” – “The Wagon” – “Don’t Pretend You Didn’t Know” – “Watch the Corners” – “Crumble” – “Rude” – “Out There” – “Feel the Pain” – “Training” – “Ground” (Deep Wound cover) – “Tarpit” – “Start Choppin” – “Freak Scene” – “Forget the Swan” – “Just Like Heaven” (The Cure cover) – “Sludgefeast”.

Nulla da eccepire per questi sempre verdi dinosauri dell’Indie, esecuzione perfetta e pulizia del suono uniti ad una grande empatia, nascosta sul palco ma evidente nel timbro vocale e fra le note dei brani. Un piacevole lunedì sera dove ogni spazio è lasciato alla loro musica, che nasce dal disagio da eterni adolescenti. Questo trio dimostrata tutta la sua grandezza underground rilevandosi senza pretese, senza fronzoli, mostrandosi al pubblico con tutta la propria “strana” naturalezza per una serata dalle forti tinte rock.

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Ministri (+ Fast Animal And Slow Kids)

Written by Live Report

Sabato 18 Maggio @ PinUp Mosciano (TE)

Come era prevedibile, la serata di sabato 18 maggio al Pin Up di Mosciano Sant’Angelo si  è rivelata un appuntamento che ha attirato centinaia di appassionati di musica Indie da ogni parte d’Abruzzo e persino da fuori regione.

I Ministri sono ormai un nome conosciutissimo nell’ambiente, ma la vera sorpresa della serata sono stati i Fast Animals And Slow Kids, progetto nato nel 2007 a Perugia per mezzo di Aimone Romizi, Alessandro Guercini, Alessio Mingoli e Jacopo Gigliotti e che esordì per l’etichetta umbra To Lose La Track di Luca Benni con un fortunato ep.
Oggi anche questi ultimi hanno un loro folto pubblico, ma per me che non li conoscevo (se non di nome) sono stati davvero un elemento che ha impreziosito il valore dell’evento.

I quattro ragazzi sul palco hanno una presenza scenica davvero fantastica e in poco meno di un’ora hanno sfoderato tutte le loro hits, tra cui la mitica “Troia” che è compresa nel loro ultimo album Hybris (uscito anche in vinile) scatenando più volte un pogo che ha coinvolto gran parte dei presenti.
I Ministri si presentano sul palco invece nella consueta formazione a quattro (nonostante i membri del gruppo siano tre) e danno il meglio già dalle prime note della prima canzone, “Stare Dove Sono”.

Tuttavia con la granitica “Mammut”, che tra l’altro apre il loro ultimo cd, Per un Passato Migliore riescono persino a migliorarsi.
La setlist li ha visti impegnati in ben diciotto canzoni che continuo ad elencare qui di seguito: “Il Sole”, “I Nostri Uomini ti Vedono”, “Comunque”, “Mangio la Terra”, “Gli Alberi”, “La Pista Anarchica”, “Una Palude”, “Tempi Bui”, “Spingere”, “Diritto al Tetto”, “Non mi Conviene Puntare”, “Il Bel Canto” e poi in bis: “Mille Settimane”, “Giornata Che Tace”, “Noi Fuori” e “Abituarsi Alla Fine” che conclude una scaletta di tutto rispetto (nonostante alcune grandi assenze quali “La Faccia di Briatore”, grande hit dei Ministri contenuta nel cd Tempi Bui).

Il locale era davvero strapieno ed era formato sia da fans fedelissimi che cantavano a squarciagola sia da semplici curiosi che comunque di certo non sono rimasti delusi dalle esecuzioni curatissime in ogni singolo arrangiamento.
A fine concerto poi spazio anche per autografi e foto coni ragazzi della band che come sempre si dimostrano disponibili verso tutti anche per scambiare due chiacchiere e ciò forse li rende migliori rispetto a molti colleghi pur essendo “arrivati” anche loro.

Un’ultima raccomandazione: se capitate a una loro data non mancate di far visita al banchetto del merchandising perché è davvero fornitissimo avendo a disposizione oltre a tutta la loro discografia magliette, spillette, manifesti, adesivi e quant’altro.

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Giovanni Lindo Ferretti

Written by Live Report

Sabato 4 maggio @Pin up Mosciano (TE)

Live report scritto da Silvio Don Pizzica e Marco Vittoria. Le parti in corsivo sono di Marco e le restanti di Silvio.

Con quale spirito ci si appresta a godere dell’esibizione di un artista come Giovanni Lindo Ferretti a ventinove anni di distanza da Ortodossia? Avevo solo quattro anni allora e la vita dei CCCP, quella fantastica macchina di ribellione artistica e sociale, socialista e anarchica, italiana, russa, mediorientale e mediterranea si sarebbe conclusa solo pochi anni dopo. Ma il genio di Giovanni Lindo Ferretti non trovò certo pace con la fine dei CCCP. Dalle sue ceneri nacque un’altra band che avrebbe segnato la mia esistenza per sempre e che ebbe il merito di farmi scoprire anche la creatura precedente, a me tenuta nascosta dai miei pochi anni. Da quell’istante in poi, quando i CCCP divennero CSI, tutto iniziò a mutare in maniera quasi fulminea e nello stesso tempo a nascondersi agli occhi di chi come me si era innamorato di Canali, Ferretti, Zamboni, Maroccolo e tutti gli altri con incolpevole ritardo. Ognuno di loro prese la sua strada, chi scegliendo la via della spiritualità, chi della continua produzione musicale. Sto per vedere Giovanni Lindo Ferretti dal vivo e quello che sento è la paura dell’amore. Paura di non riconoscere quel folle compagno con la cresta. Paura di cosa avrei potuto ascoltare dopo che mi avevano raccontato dei suoi spettacoli, per molti tediosi e non certo musicali, fatti di poesie e Spoken Word.

Ho visto la scaletta.

CANTO EROICO – TU MENTI – AMANDOTI – TOMORROW – MI AMI? – OH! BATTAGLIERO – AND THE RADIO PLAYS – RADIO KABUL – POLVERE – OCCIDENTE – CUPE VAMPE – ANNARELLA – DEL MONDO – MORIRE – BARBARO – PER ME LO SO – IRATA – OMBRA BRADA – EMILIA PARANOICA – UNITA’ DI PRODUZIONE – SPARA JURIJ.

Non posso che esserne felice, una felicità nostalgica. Non ho amato l’ultima parte della sua carriera e, con la banalità e la semplicità di gran parte di chi è al Pin Up questa sera, ecco la scaletta che volevo. Sono al locale di Mosciano (TE) per la prima volta. Una sorpresa. Un perfetto esempio di recupero industriale. Un ex capannone trasformato in luogo di aggregazione, ideale per i live (non perdetevi se potete i Dinosaur Jr il 26/05/2013), grande abbastanza per il tipo di artisti che ospita, organizzato alla perfezione, sia per quanto riguarda la gestione pre serata (promozione, ufficio stampa, ecc…) che per quanto riguarda la coordinazione, la disposizione dei posti a sedere, dei bagni, dell’area fumatori. Uno dei migliori locali del genere che abbia visto negli ultimi anni, forse, per la parte al coperto, meglio di locali storici come Il Circolo Degli Artisti.

Il posto è caldo, in tutti i sensi. Il pubblico è variegato, come ci aspettavamo. Giovanni Lindo Ferretti si fa attendere e noi aspettiamo con ansia. Non sarà solo. Lo accompagnano Ezio Bonicelli (chitarra e violino) e Luca Alfonso Rossi (chitarra e basso). Eccolo finalmente; si parte…

Inizia un cammino che ripercorre quasi trent’anni di carriera con un pubblico attento, sempre abbastanza tranquillo (pochi gli stati di agitazione, per usare un’espressione a lui cara) e due ex Ustmamò (il gruppo che aveva alla voce Mara Redeghieri) a supporto musicale di una voce mai sbiadita dal tempo e che semmai è andata sempre via via migliorando nello stile.
L’impressione è di trovarsi di fronte a un trio che è una sorta di CCCP 2.0, un gruppo teso al futuro più che al passato (e, infatti, il concerto inizia con l’ultimo pezzo dell’ultimo lavoro di Ferretti che vede fra i collaboratori un certo Pat Mastelotto, già in forze nei Mr. Mister e nei King Crimson e oggi apprezzato solista e membro degli Stickmen) che è capace di alternare la delicatezza di “Amandoti” a “Tomorrow (Voulez-Vous un Rendez-Vous) ” che pur mancando della voce di Amanda Lear emoziona tutti i presenti.
È sorprendente l’opera di ristrutturazione effettuata da Ezio Bonicelli e Luca Rossi, ma del resto se avete ascoltato il disco A Cuor Contento che uscì in allegato con Xl di Repubblica e oggi reperibile solo nei punti vendita Feltrinelli, dovevate aspettarvelo!
Pochi i momenti della serata narrati, tanti quelli suonati e cantati con un Ferretti che esibisce una presenza scenica che a sessant’anni pochi potrebbero avere.
Peccato solo per la presenza forse un po’ troppo massiccia della drum machine e di continui campionamenti, ma del resto negli anni duemila ormai è questa la prassi, che lo si voglia o no.
Comunque sia, se il tour “In concerto, a Cuor Contento” dovesse toccare la vostra città non lasciatevi sfuggire l’occasione di ammirare un pezzo di storia della musica italiana.
Del resto molti artisti “moderni” devono tanto ai CCCP e ai CSI, basti pensare alle cover di Gianna Nannini e dei Subsonica e forse persino noi che usufruiamo della musica tutti i giorni dobbiamo qualcosa a loro per l’innovazione sonora apportata durante gli anni ottanta e novanta.
La domanda quando arrivano le ultime note di “Spara Jurij” che chiude il concerto infatti è stata per molti: “Ci sarà mai qualcuno in grado di raccogliere un’eredità tanto pesante quanto quella di CCCP, CSI e PGR”?
Per me la risposta è ovviamente no e i 100 minuti cui ho assistito sono stati indubbiamente fra i più intensi della mia esperienza concertistica.
Lunga vita a Giovanni Lindo Ferretti dunque!

Finito il concerto, la cosa che resta più di ogni altra è la pelle d’oca che ho avuto quando ha intonato “Mi Ami” o “Occidente” e il vedere tutta quella gente scatenata sotto le urla di “Spara Jurij”. Non ho idea di quanto tempo sia passato da quando sono entrato al Pin Up, da quando ho ascoltato l’ultima volta questi brani, da quando mi sono sentito vivo l’ultima volta. Il tempo si è fermato, l’esistenza di Giovanni Lindo, la mia, la serata in questo locale in stile anni cinquanta, la musica. Tutto è fermo. Tutto è diventato un unico istante talmente piccolo da somigliare all’infinita eternità.

E non capisci tutto il veleno che qualcuno riesce a sputargli contro.

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Appino e Il Testamento 25 Aprile @Magnolia

Written by Live Report

25 aprile in un Magnolia non pienissimo sono in attesa di partecipare a un live ricco di aspettative, soprattutto musicali, visto che per il suo primo lavoro da solista Appino si è circondato di musicisti di gran rispetto come Giulio Favero e Franz Valente, militanti nella sezione ritmica del Teatro Degli Orrori, ed Enzo Moretto dei navigati A Toys Orchestra. Il lavoro realizzato dalla voce degli Zen Circus si discosta, e non poco, dalla consueta veste nella quale si è solito ascoltarlo. Niente Pop/Punk irriverente e ironico, tutto è momentaneamente congelato per dar spazio a un mondo oscuro, tetro fatto di demoni e masse alienate, di sentimenti dalle sfumature nere come la pece e rosse, di quelle porpora degne di un horror all’Argento. La gente stasera non è venuta con le scarpette lustre e le maglie lucenti per passare una serata scanzonata, è tutta lì per ascoltare un album che ha rapito per la profondità dei testi e il peso delle parole. Il live purtroppo incomincia con qualche problema acustico, il Magnolia è un posto nato per la musica ma questa volta le pecche sono molteplici sia per la voce sia per il basso. L’inizio è comunque oltremodo irruento, rock duro e puro quello che esce dalle note di “Fiume Padre”, “Fuoco” e “Lo Specchio Dell’Anima”. Tripletta devastante dove l’impronta del duo ritmico del Teatro Degli Orrori si fa sentire di prepotenza, manca solo che Appino si trasformi in Capovilla, ma questo per fortuna non accade. Si accentuano le sincopi e i toni psichedelici con “Passaporto”, nella quale Favero abbandona il basso per dedicarsi ai synth. Fino adesso i suoni sono ricchi di distorsioni e la stessa voce di Andrea si fa decisamente più sporca rispetto al disco. il live rende questo disco, grezzo, accentuandone in maniera decisa la durezza. E’ tempo di ascoltare la title track “Il testamento”, dedica a Mario Monicelli ed intensa come poche. Si prosegue con un omaggio e una dedica ad un giorno come il 25  aprile e “Questioni Di Orario” risuona per tutti quelli che sono figli di nessuno, un po’ come noi italiani verrebbe da pensare. L’esplosività della prima  parte lascia il passo a melodie più chiare e delicate nelle quali le chitarre travolgenti si prendono un profondo respiro per lasciare la sola voce di Appino nei “I Giorni Della Merla” a scaldare la platea, tanto che dismessi per un attimo i panni da roker scende a cantare con il pubblico, come se all’improvviso fossimo tutti catapultati ad una festa tra ragazzi che urlano emozioni al cielo. Si continua sul filone ballata con “Godi” e con un marcato accento pisano si fa anche ironia sul tema del carpe diem. Il momento intenso e melanconico si infrange nell’istante in cui si intuiscono le note di “Tre Ponti”, il ritmo riprende e la chitarra di Moretto si incendia, tanto che lo stesso Appino finisce travolto in un duetto all’ultima nota. Segue il primo singolo “Che il lupo cattivo vegli su di te”, una vera ninna nanna di cui però rompe gli schemi tradizionali per trasformarsi in un incubo ad occhi aperti degno dei fratelli Grimm. Pelle d’oca non c’è altro da dire, difficile stare fermi o non cantare un motivetto così pervasivo. Seconda citazione per Monicelli con il brano “Solo Gli Stronzi Muoiono” con annessa invasione di campo o di palco da parte di un troppo esuberante ascoltatore, per fortuna allontanato dal microfono dalla discreta security. Appino si rivolge al pubblico: “Avete paura di morire?” E mentre sale un corale no in sottofondo parte una sommessa marsigliese sulla quale si innesta una paranoica “Schizofrenia” pezzo selvaggio, vero Punk Rock che chiude il concerto. Il gruppo esce ma tutti sanno che manca ancora qualcosa all’appello, e infatti si torna sul palco per i saluti finali e per concludere questo viaggio nell’Ade personale di Appino con due brani: l’attuale “1983”, canzone dedicata al presidente Pertini e al suo discorso di Natale, e con ultima perla: “La festa della Liberazione”. Appino indossa le vesti da cantautore vissuto, imbraccia la chitarra e la fisarmonica e ci incanta con una ballata alla Bob Dylan dal sapore agre come il fiele, che per me vale tutto il concerto.  Il super gruppo ci lascia ai synth e alle distorsioni ad libitum che stonano con tutto l’atmosfera creatasi lasciando gli ascoltatori allontanarsi tra rumori e distorsioni. Bel lavoro, bel concerto, un 25 degno di essere ricordato.

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Afterhours

Written by Live Report

@ Factory Milano, live 18 aprile 2013.

Seconda data sold out per gli Afterhours al Factory di Milano ed io da brava fan non posso non presenziare all’ennesimo live della band. Appena varcato l’ingresso la domanda sulla location è d’obbligo: posto piccolo, mal disposto, lontano dal centro, acustica pessima, viste le premesse stasera ne varrà la pena? Perplessità a parte si passa all’occhiata di rito ai presenti e subito ci si rende conto di essere al live giusto.  Molti giovanotti sui vent’anni e una folta schiera di persone con qualche capello in meno e la barba brizzolata, ma non c’è da stupirsi sono gli After che richiamano da sempre chi è cresciuto con loro dagli anni 90 e chi invece poco avvezzo a Lady Gaga&Co cerca altro nel mondo “alternativo” italiano.
Il live incomincia in orario rispetto a quanto comunicato dal gruppo sui social e il sestetto di bianco vestito fa il suo ingresso alle 21.50. Il candido vestiario simil boy-band fa rimpiangere il grigio look da rockers, se non fosse per Roberto Dellera che pur di non rinunciare alle sua mise anni ‘70 sfodera occhialoni bianchi e ciondolone dorato e Xabier Iriondo al quale manca solo il pacchetto di Marlboro arrotolato sul braccio per fare il muratore a tempo perso, o il coatto di periferia.

La musica incomincia e tutto va in secondo piano; “Veleno”, “Elymania” e il “Sangue di Giuda” sono i brani della tripletta iniziale che scalda subito la platea, e il peso del sold out si fa immediatamente sentire sulla pelle. La scaletta prosegue con “Spreca Una Vita”e un piccolo dono per i fan di vecchia data, la toccante “Rapace”, pezzo che mancava da tempo nei live degli After. Si prosegue con una sapiente alternanza di pezzi tratti dell’ultimo disco Padania e da album più datati come Hai Paura Del Buio del 1997 e Ballata Per Piccole Iene del 2005. Il gioco con la linea del tempo messo in campo dal gruppo, però, non corrompe la continuità sonora e si passa da “Ci Sarà Una Bella Luce” a “La Sottile Linea Bianca” e “1996” come se fossero capitoli dello stesso libro. La prima parte scorre veloce e si conclude con “Padania”, che inizia silenziosamente in versione acustica con Manuel  e  Rodrigo per poi esplodere in una vero e proprio tripudio di suoni e chitarre distorte.
Seconda parte. Si rientra in scena e la carica del gruppo si fa sentire: scaletta serrata e cuore in gola per “Varanasi Baby”, l’attualissima “Costruire Per Distruggere” con Rodrigo e Xabier ai fiati, “Tutto Domani” e il cavallo di battaglia “Male di Miele” che scatena anche l’immobile uomo-armadio dalla maglietta troppo aderente al mio fianco.

Piccola pausa, la seconda serata probabilmente si fa sentire, e si ricomincia con “Musicista Contabile” per arrivare alla vera perla della serata “Io so Chi Sono”. Brano di Padania che per me è sicuramente la perfetta rappresentazione di cosa sono gli Afterhours adesso. Lo si vede e lo si sente dall’intensità dei suoni, dalla voce di Manuel e da come la usa, dalle vibrazioni tra di loro, tanto che anche il semper serafico Ciccarelli cede e si butta nella mischia delle chitarre con Manuel e Xabier.
Scivola “Tutti Gli Uomini Del Presidente” con Dellera in veste di cantante e l’irriverente “Sinfonia Dei Topi”. Ci si avvicina al finale e il gruppo si concede a ritmi meno incalzanti con la ballata “Il Mio Ruolo”. Un breve tuffo nel passato con la spettacolare “La Vedova Bianca”, più veloce rispetto alla versionedel 2005, ma che genera sempre grande energia così che le mani alzate, di un pubblico che già sa quale ritmo seguire, battono all’unisono. Si torna ai giorni d’oggi con la struggente “Nostro Anche se ci fa Male” e “La Terra Promessa si Scioglie di Colpo”.

Fine. Respiro profondo, gli Afterhours salutano, si ritirano e sembra tutto terminato, ma nessuno si muove come chi sa inconsciamente di dover aspettare. Infatti, il gruppo riesce per una lauta ricompensa la canzone che non può mancare “Bye Bye Bombay”, dove la pelle d’oca è un dovere e urlare a squarciagola “Io non tremo è solo un po’ di me che se va” assomiglia a un rito collettivo di liberazione. Grandi ovazioni per tutti, noi siamo soddisfatti e felici, tutto concluso, ma questa sera siamo in grazia divina e a sorpresa ci viene regalato un extra bis con “Voglio Una Pelle Splendida” e un’ immensa interpretazione di “Quello Che Non c’è”. Stanchi, un po’ sudaticci e provati, dopo due ora e mezza di concerto non posso che rispondere alla domanda iniziale con un sonoro ne valeva la pena, eccome! Io sono di parte poiché fan, ma ricomprerei il biglietto altre cento volte e la prossima volta mi avranno ancora sotto il palco a urlare. Premio energia a Xabier che spesso ruba la scena al più tranquillo Manuel, nonostante gli Afterhours siano tornati ad essere Manuel centrici, ma a noi questo piace.

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Nelly Furtado

Written by Live Report

Eccomi catapultato quasi per caso al concerto di Nelly Furtado, lo scopro pochi giorni prima dello stesso e ciò che mi torna subito in mente è il mio passato da ragazzino in cui la bella Nelly mi aveva attratto più per la sua indiscussa bellezza che per la sua, diciamo, particolare voce. Ricordo il suo primo album Whoa, Nelly!. Scorreva veloce tra semplici ma ricercati ritmi pop e ritornelli che entrano in testa facilmente, ritornelli che eri pronto a fischiettare per le 42 ore successive. Era però evidente già da questo album che Nelly avrebbe riscosso un discreto successo e avrebbe avuto il modo di coltivare i piccoli esperimenti presenti in alcune tracce dello stesso, a partire dai ritmi portoghesi che si porta con sé date le sue origini.

Gli anni a venire la confermano come pop-princess di buon livello, se Folklore segue un po’ la strada aperta da Whoa, Nelly!, l’album successivo Loose ci mostra una Furtado completamente diversa dalla precedente. L’album riesce a fondersi nonostante l’eterogeneità dei singoli pezzi: si varia dall’Hip-Hop alla Dance, passando dal Pop per finire al R&B. Ora, dopo qualche anno fuori dalle scene, una gravidanza, tante collaborazioni, un Best of e la scoperta della meditazione, Nelly Furtado torna con un nuovo album dal nome The Spirit Indestructible.

Il concerto viene aperto da Dylan Murray, la sua chitarra e la sua voce. Niente di che, scoprirò dopo che deve il suo successo a Nelly stessa che lo chiamerà per duettare sulle note di “Be Ok”. Ore 21.50, mi guardo intorno. L’Alcatraz è tutt’altro che pieno. Nelly spunta fuori puntuale ed inizia il suo concerto con le note di “Spirit Indestructible”, secondo singolo rilasciato dall’album omonimo. Si capisce sin da subito come la cantante canadese adori coinvolgere il pubblico e divertirsi con esso. E il pubblico, il suo pubblico, gradisce e canta ogni singola parola con lei. Si prosegue con “Waiting 4 The Night”, in versione più dolce dell’originale quasi a voler scaldare gli animi per i pezzi successivi “Say it Right”, che senza l’ossessivo “Hey” ripetuto da Timbaland sembra addirittura migliorare, e “Manos al Aire” in cui tutto il pubblico partecipa attivamente con le mani in aria per la gioia della stessa Nelly che ringrazia a fine canzone con un buon italiano.

La canzone successiva, come tutto il concerto, rispecchia esattamente il percorso di sperimentazioni varie seguito negli anni da Nelly Furtado. “Powerless (Say What You Want)” parte con un ritmo country, soft e gradevole e dopo aver intonato probabilmente la frase più significativa del pezzo “Cause this life is too short to live it just for you“, una chitarra quasi rock entra prepotentemente in scena per dar vita ad una canzone completamente diversa. L’azzardo è notevole, riesce e scuote i poveri genitori venuti ad accompagnare i propri figli (quindicenni o giù di lì). La prima parte del concerto si chiude con il ritorno sul palco di Dylan Murray con il pubblico tutt’altro che felice. Lui stesso sembra fuori posto e pronto a scappare.

La seconda parte è un crescendo tra hit del passato e bei pezzi del nuovo album. “Turn Off The lights” suona soffice fino all’arrivo di un assolo sulle note di “Fly Away” di Lenny Krevitz e un intermezzo simil-dubstep ottenendo così una versione completamente differente dall’originale. Dopo aver eseguito “Bucket List”, lasciando cantare anche gente dal pubblico, e “Broken Strings”, si passa ad “All Good Things (Come to an End)”, uno dei maggiori successi di Nelly. E tu che sei lì, a Milano, e non aspetti altro che l’entrata trionfale degli Zero Assoluto rimani deluso, tremendamente deluso.

L’ultima parte del concerto passa da un primo momento Hip-Hop/Rap con “High Life / Bigger The Better” per concludersi con ritmi più dance con “Live it to me” e “Promiscuos”. Piccola pausa, candele sul palco in stile Madonna e succede esattamente quello che ti aspetti: medley “Miracles – Like a Prayer” con tanto di cambio di vestito in corsa. Si chiude con “Maneater” e tanta energia sul palco e tra il pubblico. Un concerto senza esagerazioni, senza immense scenografie, Nelly, il suo sorriso e il suo pubblico che sa comunque apprezzarla, accompagnarla e stimolarla semplicemente per quello che è.

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Swans

Written by Live Report

Un venerdì qualunque, arrivo al Circolo Degli Artisti, Roma, esattamente nell’ora in cui dovrebbe iniziare il concerto e io dovrei essere lì davanti al palco con un pinta bionda in una mano che aspetto l’ingresso degli Swans sul palco, in tour con il nuovo album The Seer. Mi sarò anche perso il gruppo spalla ma non Michael Gira con il suo ultimo lavoro che definisce come:  “30 years to make. It’s the culmination of every previous Swans album as well as any other music I’ve ever made, been involved in or imagined. But it’s unfinished, like the songs themselves. It’s one frame in a reel. The frames blur, blend and will eventually fade.” Non posso perdermi questa gestazione, il lavoro di una vita. Della formazione iniziale rimane solo Gira che a quanto pare non si è ancora stancato e in un’atmosfera Industrial-Gotica ci racconta la nera metropoli fatta di violenza, negozi porno chiusi, alienazione, degrado in uno squallido pessimismo apocalittico.

Sono dentro, l’atmosfera è al punto giusto, il Circolo è pieno di gente, gli Swans sono sul palco, Michael Gira in un lutto tenebroso imbraccia la sua chitarra nera, china il capo leggermente per salutare il pubblico, si gira e fa cenno con la testa al batterista di attaccare. Il pezzo è Coward e il basso allo stesso ritmo della batteria inizia a scandire un ritmo secco e cupo a cui si unisce una chitarra stridulante. Si crea una situazione di assuefazione da vibrazioni sonore, mi sento come risucchiato in questa profana cantilena rumorosa e arida. I miei pensieri vengono scartati dalla potenza di queste cupe vibrazioni mentre il vuoto sembra aver preso il posto del pavimento e una tempesta di meteoriti sta elettrizzando il mio corpo. Non ho mai ascoltato nulla di così dirompente e dal vivo posso assicurarvi che si coglie a pieno l’idea che Gira ha delle sue composizioni che rispecchiano un orizzontalità delle voci in campo; nessuno strumento prevale sull’altro, neanche la voce, tutti insieme allo stesso volume per dare armonia al caos. I pezzi si inchiodano su un motivo e lo perseguitano per svariati minuti, anche quindici, venti, perché Gira sostiene di sentirsi più “vicino a Dio quando si suona lo stesso accordo più e più volte”. Nulla che io possa scrivere qui farà giustizia a questo evento estremamente religioso, estremamente intimo. Un evento spettacolare che ha riempito le mura del Circolo degli Artisti di vibrazioni apocalittiche come fosse una cattedrale destrutturalizzata della nuova epoca postmoderna.

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Black Rebel Motorcycle Club

Written by Live Report

Sold-out a Milano, pienone a Torino, all’Hiroshima Mon Amour, lo scorso 19 marzo, per l’esibizione dei Brmc, terzetto composto da due californiani, Peter Hayes e Robert Levon Been, e dalla danese Leah Shapiro. Due date imperdibili che coincidono praticamente con l’uscita dell’ultimo album, Specter at the Feast, acquistabile dal 18 marzo e già ascoltabile gratuitamente su Spotify. Un disco diverso dal precedente Beat the Devil’s Tattoo, forse più incentrato sulla cura del suono che non sul ritmo, più riflessivo che di pancia, ma dotato del solito energico groove a cui la band ha abituato i suoi fans. E proprio con pezzi stravolti del nuovo lavoro, aprono il concerto: su “Let the day begin” tutti iniziano a saltare e ballare perché il fumoso shoegaze della band è commisto a un blues sanguigno e alla cassa in quattro, in un ideale mix di Kasabian da una parte e Black Keys dall’altra. Al quarto pezzo c’è già qualcuno seminudo che fa crowsurfing sulle prime file. I Brmc sono impenetrabili. Suonano un brano dietro l’altro senza dire neanche una parola, scenicamente non fanno nulla di nulla. Il massimo del movimento è l’inversione dei posti di Peter e Robert che indifferentemente cantano e suonano chitarra e basso, spostandosi quindi solo per assecondare la posizione degli amplificatori. Eppure l’occhio sul palco è indispensabile e si cerca sempre di capire da dove arrivi un certo suono, guardare quanto la corporeità, seppure fissa, stia sottolineando una frase o un crescendo dinamico. Ed è proprio nelle dinamiche che sta la grandezza dei live dei Brmc: solo tre componenti e dei crescendo calibratissimi che arrivano a raggiungere muri sonori corposi e impensabili per un organico tanto ridotto.  Personalmente rimango impressionata dal suono della batteria (e sono andata debitamente a sbirciare il palco post concerto e cercare informazioni il giorno dopo): la Shapiro suona una Sonor customizzata per lei, tutta in legno (rullante escluso), con un suono caldo e una pacca precisa, secca ma avvolgente. Bacchette lunghissime e una compostezza invidiabile: schiena drittissima, capelli lunghi che quasi neppure oscillano dietro i suoi movimenti, polsi fermi e tanta velocità. La stragrande maggioranza dei presenti non aveva avuto modo di sentire l’album nuovo e la cosa si nota soprattutto per la reazione entusiasta con cui invece vengono accolte le vecchie glorie: “Beat The Devil’s Tattoo”, “Whatever Happened to My Rock’n’roll”, “Spread Your Love”, “Love Burns”. I veri cultori impazziscono quando la band attacca “Screaming Gun”, una b-side del 2002, raramente presentata dal vivo.
Quasi due ore di concerto e non sentirle: sul finale l’atmosfera si fa serissima, finalmente i Brmc salutano e ringraziano e chiudono con un’intimissima e intensa versione di “Lose Yourself”, la mia preferita di Specter at the Feast.  Andate e perdete voi stessi, vivete a pieno, del tutto, sembrano dirci. E l’unica cosa con cui si torna a casa è il pensiero che si poteva perdere tutto, ma non una piccola perla come questo concerto.

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Finley

Written by Live Report

Mentre entro al LiveForum di Assago, dove a breve saliranno sul palco i Finley per il FUOCO E FIAMME TOUR 2013, penso che io, di loro, non so proprio nulla. Come tutti, mi è capitato di ascoltare qualche loro singolo dei tempi che furono, ma adesso che hanno abbandonato la EMI per fondare la loro etichetta Gruppo Randa sono curioso di vedere se e come sono cambiati. In ogni caso, questa mia ammessa ignoranza mi permetterà di vivere il concerto da un punto di vista assolutamente neutrale, che con band del genere è già un grande risultato.
Una volta dentro, mentre la band punk-rock romana The Anthem finisce di scaldare gli animi, la prima cosa che mi balza all’occhio è la multiforme umanità che riempie il locale. Il mistero statistico che mi perseguita in queste ore non è tanto quali strati sociali abbiano votato o meno il M5S, o quante probabilità ci siano che il prossimo Papa sia nero, ma più che altro come si sia riuscito a comporre questo miscuglio di gente varia al concerto dei Finley. Mi aspettavo più che altro ragazzine e ragazzini, o magari qualche ventenne a cui i quattro di Legnano hanno suonato la colonna sonora dell’ingresso nella pubertà. Ok, i cinquantenni saranno accompagnatori/genitori, ma quella coppia di trentenni tatuati coi vestiti firmati? L’hipster con gli occhiali giganti? Cosa ci fanno qua? Mistero.
Intanto, The Anthem finisce il suo set di musica innocua e cover di Bruno Mars, e l’aria si fa più pesante. Ed ecco che dopo una pausa di un venti minuti buoni salgono sul palco i Finley: boy-rock-band prodigioprodotta, ai tempi, da Claudio Cecchetto, vincitrice di ben due Best Italian Act agli Mtv Europe Music Awards, con alle spalle partecipazioni a Sanremo, dischi di platino, eccetera.

Esordiscono con un simpatico “lasciatemelo dire, gente… Minchia!”, anche se in realtà il pubblico non è così numeroso (sarà nell’ordine delle trecento persone – e io che pensavo che i Finley potessero riempire quantomeno, chessò, l’Alcatraz). Le prime canzoni passano senza lasciare troppo il segno, prese in egual misura dai vecchi dischi e dall’ultimo Fuoco e Fiamme. È un rock abbastanza banale, morbido, inerme, musicalmente distante dal mondo punk-rock o pop-punk al quale, non conoscendoli, mi aspettavo di collegarli. A livello lirico, le banalità aumentano: tra i primi pezzi, “La Mia Generazione”viene presentata come un inno alla partecipazione (politica, immagino). Pedro ci informa che “hanno sempre detto che noi giovani siamo un problema, quando invece siamo una risorsa”, mentre in realtà nessuno s’è mai sognato di dire una cosa del genere (per quanto i fatti poi smentiscano tutte le belle parole). Sa tanto di operazione paracula, ma inizio a pensare che in questo tipo di ambiente ci sguazzino un po’ tutti, nella paraculaggine.
Mentre ci presentano il nuovo bassista Ivan (il vecchio, Ste, ha lasciato la band da qualche tempo), ci informano anche dell’uscita di un disco-raccolta, Sempre solo noi, che riepiloga i dieci anni di vita della band. Una band che, sinceramente, mi aspettavo più battagliera, più tecnica, più frizzante. Tolta la bravura indubbia del batterista Dani, e qualche uso intelligente della chitarra da parte di Ka, il resto non è di certo al livello che mi aspettavo per una band di questa portata. Forse in Italia, per fare successo, davvero basta un calcio in culo.
Pedro inizia a sbarellare su “Le Mie Cattive Abitudini”: la voce non risponde come dovrebbe, e le vocali finali iniziano a calare inesorabilmente. Brutti scherzi della stanchezza. Parte poi un medley di loro vecchi pezzi, tra cui la versione crossover di Dentro alla scatola, cover del successo d’esordio di Mondo Marcio, con il quale si erano gettati in questo featuring “all’americana”. Segue momento di vuoto e breve pausa, in cui tutti scendono dal palco tranne Dani, che si lancia in un divertissement di batteria e basi, molto electro, dimostrandomi ancora, se non altro, di essere un musicista capace, alla bisogna, di non risparmiarsi.

Le basi rimangono spesso, sotto la botta live, a riempire il suono di una band comunque scarna (batteria, basso, chitarra). Così fanno anche in “Ad Occhi Chiusi”. C’è da dire che il LiveForum non rende proprio al 100% per quanto riguarda l’audio, che spesso è confuso, distante (ci si mettono pure le ragazzine, con i loro urletti striduli, a far diventare il tutto ancora più incasinato). Una fonte mi ha informato, tra l’altro, che i Finley, per questo live, non si sono portati dietro neanche un loro fonico personale (e la cosa ovviamente non aiuta).
Proseguendo, Pedro vuole ricordarci che, cinquant’anni fa, usciva il primo singolo di una band, “quattro, belli(sic), bravi, destinati a cambiare la storia del rock”. I quattro sono ovviamente i Beatles, e i Finley ci donano la loro personale interpretazione rock di “A Hard Day’s Night”. A seguire, un ringraziamento a Bennato per aver partecipato al loro ultimo disco in “Il Meglio Arriverà”, che prontamente eseguono, tra basi di armonica e mie definitive riflessioni sulla parabola discendente del rocker napoletano.
Mentre il concerto evolve, io continuo a guardarmi intorno. Davvero, la fauna presente mi sorprende e incuriosisce. Ragazzi più che ventenni, tatuati, con magliette dei Led Zeppelin, o di Jimi Hendrix, che ballano urlando. Io non capisco. Se sono venuti qua per scopare, non avranno vita facile: la maggioranza dell’ecosistema femminile della sala è gente che sembra uscita da una fiction della Rai degli anni ’90 sugli effetti devastanti dell’eroina nella provincia italiana. Mentre penso questo, mi passa accanto una stangona dal pantalone maculato, bionda, truccatissima, col pass al collo. Ecco, penso, ribaltando il ragionamento: se i Finley, facendo tutto questo, non riescono nemmeno a scopare, sono, senza appello, dei veri loser.

Tornando alla musica: i quattro si buttano su “Bonnie E Clyde”, e quando terminano, col fiatone, ci informano di essere stanchi: “dovremmo iniziare a drogarci, ma le droghe non ci interessano”… Ciononostante attaccano con “Fantasmi”, “l’ultima!”: ovviamente no. Dopo la pausa (riempita dai cori del pubblico che intona “Diventerai Una Star” a cappella), ecco l’encore: in versione acustica, con ospite il violinista Roberto Broggi, introducono la loro entry per la compilation benefica di Punk Goes Acustic (“un gruppo di oltre 30 musicisti emergenti italiani uniti dalla passione per il genere punk”), una versione quasi-folk di “I Fought The Law”dei Clash (non male, per niente, anche se Pedro e l’inglese non paiono andare molto d’accordo…).
Il resto del concerto è già scritto: mancano quelle tre/quattro canzoni fondamentali (questo, almeno, è quello che mi dice gente più informata di me). Ecco infatti che parte Adrenalina, con relativo pogo (giuro!) di qualche tipa sovrappeso che rischia, nonostante il mio quasi metro e novanta, di sdraiarmi a terra come sogliola nel mar. (Che se questo è pogo, ai concerti dei Sick of it All è guerriglia urbana). Fumo e Cenere calma gli animi: tutti si fermano per cantarla. Un brano morbido, italiano (come direbbe Stanis LaRochelle), azzeccatissimo come penultimo della scaletta.
Infine, ecco scattare “Diventerai Una Star”: ed è subito adolescenza condivisa. Che poi la domanda che mi faccio è: cosa dice una canzone del genere al pubblico dei Finley? Dove scatta la mimesi? Cosa ci trovano, di loro, in quella canzone, che alla fine parla di una band che vuole fare successo? Posso capire che possa raccontarti qualcosa se fai (o provi a fare) il musicista. Ma per tutti gli altri, che senso ha cantare a squarciagola “diventerai una star / una celebrità…”? Un altro mistero che si aggiunge ai tanti che mi infesteranno la mente stanotte.

Chiudendo il concerto con un ennesimo “Raga, è stato fantastico” (segnare: firmare proposta popolare di legge sul divieto dell’uso pubblico del termine “raga”), seguito da “siete voi che supportate questo progetto indipendente, che ci fate sopravvivere, giorno per giorno”, i Finley mi lasciano una sensazione strana addosso.
Crederci o vendersi? I Finley ci credono, nella loro infinità banalità, o è più un “teniamo famiglia”, un “si deve pur vivere”, che, intendiamoci, in un mondo in cui la musica è mercato, è totalmente e senza dubbio legittimo? Non so cosa sarebbe peggio, nella mia Weltanschauung in cui la musica è, oltre che un mercato, anche un qualcosa di morale, qualcosa che mette in ballo le profondità – abissali – delle persone (e vale anche per il pezzo più pop e meno “impegnato”, se fatto bene).
La cosa peggiore non è tanto responsabilità della band, che fa il suo mestiere tutto sommato bene, suonando ciò che vuole (per un motivo o per un altro). La cosa peggiore è la gente che, per mancanza di strumenti intellettuali, o, peggio, per scelta, sceglie di annullarsi, di appiattirsi, a mani alzate sotto un palco. È questo morbo della facilità, per cui se i Finley ti dicono che in Italia i giovani sono considerati un problema tu applaudi e urli, ma in realtà non ti rendi conto che, detta così, è un’immane cazzata, e soprattutto non ti stai confrontando con l’aspetto reale del tema che quelle parole (in modo pessimo) suggeriscono. E badate bene che non è tanto questione di Finley, ma vale anche per altre situazioni di fanatismo (mai stati ad un concerto milanese dei Ministri? Con la sola attenuante che, se ti sei convinto, criticamente, che ciò che dicono sia giusto, almeno è l’idea a convincerti, e non una maschera, un trucco, una finzione: non è solo il potere del palco, quel meccanismo per cui un concerto è, ricordiamolo, una comunicazione a senso unico, dove il pubblico è, sempre e comunque, passivo).

Mentre torno a casa ho una visione: la mia coscienza politica che si palesa in un fantasma, uno strano incrocio tra Antonio Gramsci e Obi-Wan Kenobi. Mi dice: “la dittatura è nei gesti. L’Impero è un concerto dei Finley”. Io lo guardo, sconsolato, e scuoto la testa. È da quando esiste il rock’n’roll che esiste il fanatismo, l’idolatria, lo strapparsi i capelli, il dio-mio-quanto-so’-fichi. Anzi, che dico? Da quando esiste l’Uomo, da quando il nostro antenato nudo e peloso si è alzato sul monolite per agitare la sua accetta di selce e, così, eccitare la tribù prima della caccia. Ad ogni modo, non è certo mia intenzione farmi additare come un Mosè che scende la montagna e distrugge il vitello d’oro (già li vedo, i fan dei Finley – i fanley? che pensano “ma che cazzo vuole ‘sto qua?niente, ragazzi, si fa per dire). Sto tranquillo: so già che domani mi sveglierò e questa strana sensazione sarà svanita. D’altronde, come mi ha detto un amico, “ti fai troppe seghe mentali, sono i Finley, fanno le canzoni alla LEGO” – e no, non riesco a dargli torto.

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