Live Report

Glen Hansard

Written by Live Report

Onestamente la lunga coda per Glen Hansard in un freddissimo 20 febbraio milanese, non me l’aspettavo proprio. E invece in molti si sono presentati più che puntuali, in tempo per vedere anche l’opener, Lisa Hannigan. E qui la seconda sorpresa. Perché la Hannigan è fondamentalmente la talentuosa corista di Damien Rice che ha intrapreso una carriera da cantautrice e non ci si aspetta certo che il pubblico sia lì anche per lei. Non fraintendetemi, la Hannigan è bravissima, con il suo uso della voce a cavallo tra Emiliana Torrini e Julia Stone, un personaggio delicato che al tempo stesso trasmette determinazione, capace di stare sul palco da sola e incantare solo con le sue melodie e un ukulele. Ma mi aspettavo il solito semivuoto sotto il palco e una platea caciarona in attesa dell’headliner. E invece tutto il pubblico era già piazzato, col naso all’insù, in un silenzio attentissimo interrotto solo da qualche “Brava Lisa” e dal brusio di qualcuno che cantava Little Bird o Passenger.

Hansard si presenta sul palco con dieci strumentisti: basso, chitarra, batteria e uno dei violini sono  i componenti dei The Frames, a cui si devono aggiungere trombone e sax, tastiere, altri due violini e un violoncello. Il concerto si apre con You will become a cui seguono Maybe not tonight e Talking with the wolves, tutt’e tre -per altro in quest’ordine- presenti nell’ultimo disco Rhythm and Repose: in un attimo l’atmosfera si fa intima e famigliare. Hansard ama raccontare aneddoti e parlare di se stesso, così intervalla i brani con la storia della gita al faro finita male o con la sua personale opinione della generazione X-factor (“Voler diventare celebri per la celebrità in sé è roba da fottuti ignoranti!”). La gente gli urla “Bravo” e “Grazie” e lui risponde “Grazie” e “Grazie” in un siparietto ilare che andrà avanti per tutto il concerto, quando finalmente Glen avrà imparato a dire “Prego”. L’irlandese è una cantautore serio ma che non veste i panni dell’intellettuale, è un frontman con un grande carisma ma anche molta modestia: il palco è gestito con professionalità, ma anche con leggerezza e disimpegno, con la consapevolezza implicita che uno show debba prima di tutto intrattenere, anche e soprattutto per catturare l’attenzione del pubblico e far passare meglio i propri messaggi. La scaletta prosegue con alcune sorprese: Love don’t leave me waiting finisce con una citazione improvvisata di Respect di Aretha Franklin, vengono eseguite alcune cover de The Swell Season, il progetto di Hansard con la pianista e cantante Marketa Irglovà, fra cui spicca la dolce In these arms, ma è l’accenno in palm muting di Wishlist dei Pearl Jam che scalda la platea: è una richiesta, il cantautore si lamenta anche perché non riesce a leggere testo e accordi per colpa del luciaio del Limelight che gli ha cambiato le luci (e ironizza: “Gli avevo detto di non farlo e lui l’ha fatto lo stesso! Che poi questo posto è una discoteca, avrà sì e no cinque colori…”). Fedele all’originale ed eseguita con molta delicatezza con il solo accompagnamento della chitarra, il brano richiama i musicisti sul palco per Fitzcarraldo, Santa Maria e Song of good hope, un momento serissimo in una serata leggera e divertente: la canzone viene dedicata a un amico malato di cancro che dopo anni di inutili cure si è messo in giro per il mondo a vivere il tempo che gli resta.

È l’encore, però, il vero apice di una serata piacevole e piena di sorprese: Hansard torna sul palco con la sua sola acustica (tra l’altro con la tavola armonica bucata – il ragazzo pesta come un dannato e credo si diverta anche a non usare i battipenna) e canta Say it to me now, senza microfono e senza amplificazione. Il pubblico si stringe sotto il palco, tutti fanno silenzio e ascoltano incantati. Con la Hannigan, poi, intona O sleep (brano composto dalla ragazza) e Falling Slowly dei The swell season. I musicisti tornano sul palco e c’è un momento veramente grottesco: un ragazzino dal pubblico aveva richiesto un brano dei Nirvana, perché il 20 febbraio sarebbe stato il compleanno di Cobain. Hansard lo accontenta, ma a condizione che salga sul palco per cantare. Il ragazzino è tutto imbarazzato, non sa che dire. La band attacca Breed e lui sta lì, microfono in mano, ad ammettere di non sapere le parole, poi prende coraggio e si limita a saltare e a fare le corna, secondo il migliore stereotipo. I musicisti sul palco sono divertitissimi (e per altro fanno una versione davvero bella del brano, energica e raffinata al tempo stesso), il pubblico anche. Con una splendida e caldissima This Gift (dal vivo davvero molto molto più potente che da disco – c’erano schegge di bacchette di Hopkins ovunque) finisce il concerto. Hansard e soci decidono di congedarsi dal pubblico in un modo meraviglioso: abbandonano tutti l’amplificazione, si dispongono sul palco come una compagnia teatrale per i saluti e gli inchini e intonano Passin’ through di Leonard Cohen: danno istruzioni agli spettatori sulle parole da cantare e scendono in mezzo a noi come una marchin’ band. Si fermano un po’ in mezzo alla platea e poi, continuando a suonare e cantare, salgono la scala che porta su una balconata di fronte al palco.

Davvero meraviglioso!

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Paul Banks

Written by Live Report

Il cambio di location dell’ultim’ora o quasi aveva fatto malpensare. Spostare il frontman degli Interpol, che sceglie Milano come tappa per il tour europeo di presentazione del suo ultimo album da solista, l’omonimo Paul Banks, dai Magazzini Generali, al ben più piccolo Tunnel, fa temere una risposta freddina del pubblico italiano. Arrivare alle sette e mezza per l’apertura cancelli e per gustarsi anche la performance di Roads Collide, progetto del romano Paolo Thomas Strudthoff scelto come spalla, non è valso a nulla: l’esibizione del cantautore è stata cancellata senza alcun preavviso (con grande stizza del fotografo accanto a me che mi mostra una mail sull’iPhone e mi dice “Ma non doveva esserci anche questo qui -indicando col ditino- oltre a Banks?”- letto esattamente com’è scritto, con la A bella aperta). Aggiungeteci che il Tunnel è stato deserto praticamente fino alle prime note di Skyscraper (poi si è riempito) e otterrete l’ umore di chi per quasi tre ore ha aspettato di sentire un po’ di musica in un locale vuoto e coi bagni luridi (di cosa e chi poi, che non c’era nessuno?). Fortuna che Banks ha un pubblico parecchio variopinto tutto da studiare, che va dal quarantenne negli abiti casual di chi è appena uscito dall’ufficio e con l’andazzo di chi probabilmente dieci anni fa si era preso la fissa degli Interpol, alle ragazzine finto hipster pronte a starnazzare su quanto sia bono Banks, a cui non lanciano reggiseni sul palco solo perchè hanno dovuto portare tutta la loro collezione di prime coppa a datate per avere uno nuovo da Tezenis o chi per esso. Chiariamo subito una cosa: a me gli Interpol fanno schifo. Sono andata al concerto di Banks perchè ho un ragazzo che da mesi me ne parla e adoro andare ai concerti di quelli che per me sono praticamente perfetti sconosciuti a fare la snob. E stando ai live report usciti su altre webzine sono stata molto fortunata perchè non presentarmi al Tunnel né sperando mi venisse offerto un amarcord della band né tantomeno che i pezzi solisti del cantautore americano fossero all’altezza delle sue precedenti esperienze, mi ha permesso di godermi il concerto in sé e per sé. Tutti i brani, grazie a dio nessuno degli Interpol, sono eseguiti sul palco in maniera praticamente fedele all’originale, un disco (di cui ho già parlato nelle Pills di qualche settimana fa) veramente ben riuscito per quanto riguarda le registrazioni e la cura delle sonorità. Ed esattamente come da disco spiccano le solite canzoni, I’ll sue you, Young again, Lisbon, The base. Banks non è un frontman con molto carisma, sembra stanco e concentratissimo, a malapena sorride tra un pezzo e l’altro e il massimo dell’espressione corporea è agitare gli stinchi nei pantaloni elegantemente stirati; per fortuna ha alla sua destra un chitarrista rockettaro, Damien Paris, che, se ha irritato i puristi del genere (mi riferisco alla recensione uscita su indie-rock.it), mi ha sorpreso per versatilità e buon gusto. Non è facile passare dall’hard rock della sua band, The giraffes, ai brevi incisi melodici e alle scale zeppe di riverbero degli arrangiamenti di un album solista squisitamente indie, ma Paris riesce a portare un po’ del calore sanguigno delle tradizionali pentatoniche, insinuandole sulle dissonanze arpeggiate eseguite dal cantante su quella che dovrebbe essere una Yamaha eg112 da poche centinaia di dollari. Fondamentale, per quanto visivamente si releghi in un angolo del palco, è il bassista-tastierista Brandon Curtis, maniacalmente preciso e pulito in ogni intervento. Durante l’esibizione emerge un dettaglio, che sfugge all’ascolto dell’album, sul criterio compositivo del newyorkese: non è la verticalità armonica la base della costruzione del brano, ma l’orizzontalità melodica e contrappuntistica. Ogni canzone è costruita su incisi melodici, di lunghezza variabile, ciascuno affidato a uno strumento: è proprio la loro sovrapposizione che crea la base per supportare la parola. Non c’è la classica distinzione fra chitarra ritmica e chitarra solista col basso che fa da sostegno armonico, perchè semplicemente non c’è un elemento più importante dell’altro. Ne esce una trama sonora molto moderna, a tratti stridente per tutte le dissonanze che si creano, sostenuta, supportata e portata avanti dalla batteria di Charles Burst, attento quanto i compagni ai suoni al punto di sfruttare contemporaneamente due rullanti di diversa tensione. La sensazione finale è che sia tutto molto meno artefatto, meno concepito in studio ed effettato di quanto si pensi. Purtroppo temo che nessuno si sia soffermato a notare queste cose. Le ragazzine erano impegnate chi a sbavare chi a cantare a squarciagola manco fosse stato Vasco a San Siro e la prima fila, che di solito dovrebbe essere lo zoccolo duro dei veri fans, aveva i notes per gli autografi già su The base, terzultimo brano in scaletta, o la compatta in modalità video accesa dal primo attacco.


 

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La Notte Della Locusta

Written by Live Report

Nonostante la neve per le strade di Torino, questa sera l’Hiroshima Mon Amour è gremito. Non solo in platea, plasmata da ragazzi più o meno giovani, ma anche sul palco. Anche qui, più o meno giovani. Tutti però pronti a sfoderare un grade repertorio musicale per debellare il sintomo di una musica popolare morente.
E questa è la nostra musica popolare, proprio come quella dei cantautori seduti nei teatri, di Radio Italia e di Sanremo. La troviamo pure nei club e non è neanche una novità, inutile fare gli snob. Se “Andate tutti affanculo” è finito tra i primi 100 dischi italiani di sempre per Rolling Stones (insieme per altro a Africa Unite e Perturbazione), non è solo una questione di stupide classifiche o di colpo trasgressivo sparato alto da un giornale mainstream, ma forse è un segno di un vero fenomeno di costume che dovremmo accettare: la “musica alternativa” ci appartiene e forse è anche riduttivo continuare a definirla “alternativa”. Fuori dal circolo, con quell’etichetta che ha tutta l’aria di chi in estate va al mare ma preferisce arrampicare le montagne alle spalle piuttosto che stare in spiaggia a godere del sole e della salsedine. Qui, oggi di questi semplici doni della natura godiamo eccome, anche se in questa atmosfera colabrodo i raggi ultravioletti ustionano la nostra pelle e il mare è mosso, pieno di rifiuti e meduse pronte all’attacco. Tutto questo rende la musica più vera e reale. Proprio come la vogliamo noi.
E così anche la musica “alternativa” si posa in spiaggia senza però smettere di far lavorare il cervello. Sta un po’ coperta sotto l’ombrellone e guarda in cagnesco i vicini che si differenziano tra veline dalla voce di plastica e bellimbusti ben pettinati. Rimane comunque ferma li a pavoneggiarsi, a godere e farci godere della sua nudità, della sua incredibile forza e qualità artistica. Certo l’occasione è ghiotta per mostrarsi, La Notte Della Locusta ci propone nella stessa sera due acclamatissimi “big” come Il Pan del Diavolo e Zen Circus.

 
Ad aprire le danze ci sono Flora e Fauna: toscanacci e attivi dal 1991 al 1999, riuniti proprio in questo 2012 per supportare gli Zen Circus in tour. Il trio sprigiona post-rock stortissimo intriso del riflesso americano dei gloriosi anni 90, suonato con minuziosa precisione, senza mai disperdersi in freddi tecnicismi.
In poco più di mezz’ora di set (in gran parte strumentale) ne escono angoscia, rabbia, claustrofobia e vertigini. Inizio spietato affidato a chi di palchi marci ne ha visti fin troppi e questa sera si mette in tiro per l’occasione. Sembra quasi la celebrazione di una band che nonostante i vent’anni alle spalle suona incredibilmente moderna e grida ancora a gran voce il suo disagio e la sua voglia di libertà.
Pare un po’ meticcia, ma anche questa è musica italiana.

 
Dopo l’uragano scatenato dai Flora e Fauna veniamo lentamente risucchiati nell’inferno. Il Pan del Diavolo sale sul palco e due chitarre acustiche ci fanno sprofondare a suon di blues antico, oscuro e mostruosamente scandito. Come un’inesorabile e apocalittica clessidra.
Il duo palermitano parte a razzo con “Coltiverò l’ortica”. Le narrazioni di Alessandro Alosi e le pennate composte (più composto ancora è il suo ciuffo) di Gianluca Bartolo ci schiacciano il viso al pavimento. La forza di gravità aumenta in modo esponenziale finché non perfora il suolo e veniamo assorbiti nelle fiamme durante la canzone perfetta per questa festa: “Il centauro”.
Il fuoco ci colora gli occhi e il fumo esce dalle mani dei ragazzi che colpiscono la chitarra come i demoni tagliano le teste (“taglia la mano come la lama” dice “Scimmia urlatore”). Il set rimane minimale nonostante l’uso di basi e nonostante la grancassa percuota le mura del club torinese invocando scenari catastrofici.
Il Pan del Diavolo non è una band innovativa e lo sapevamo, niente di trascendentale. A dire il vero il set di un’ora risulta essere anche leggermente ripetitivo. Ma questo è il solito e vecchio inferno dantesco, un poco rivisitato ma che ci brucia ancora la pelle e il cuore.
I peccati della nostra sorda società ci sono tutti e i due ragazzotti siciliani li elencano con meticolosità in tutto il loro repertorio. Su tutti la frenesia e la futilità del raggiungimento della vetta in “La velocità”. Altro che vetta qui sprofondiamo sempre di più, fino alla chiusura, affidata all vortice “Farà cadere lei”. Ora siamo proprio in fondo. In faccia ai nostri demoni e all’ultima nota restiamo davanti a loro per farci quattro chiacchiere mentre aspettiamo di risalire un poco in questo ultimo atto della notte.

 
La salita però si fa attendere e viene subito rimandata a domani. Sul palco attaccano gli Zen Circus con un primo set semiacustico: “Vent’anni”, “Atto secondo”, “I just wanna live” e “Andate tutti affanculo”. Direi che accendiamo una sigaretta, ci sediamo di fronte ai nostri amici demoni che di chiacchiere per esorcizzarli ne dobbiamo fare ancora un po’.
Del trio pisano Rockambula è grande fan, inutile nasconderlo e di parole spese ad elogiarli ne sono già state versate a fiumi in questo 2012.
Oggi Appino nella prima parte pare non essere in forma perfetta, forse la pausa pronunciata fino al 2014 è dovuta, necessaria nonché meritata. Certo dettagli, gli Zen Cirus rimangono a mio avviso la migliore live band italiana: muscoli e offese, mai troppo celate e comunque costruttive, sparate a raffica nel loro più completo greatest hits. Grande gioia per tutti noi fan.
E allora poche sorprese (una è sicuramente il punk finlandese con la cover “Poliisi Pamputaa Taas” da “Metal Arcade”), e tanti canti corali insieme a un pubblico caldo e un po’ intristito dal vuoto che gli Zen lasceranno nel prossimo anno. Si alternano “L’amorale”, “Gente di merda”, “L’egoista” e una simpatica e intelligente serie di “canzoni a coppie”. Così la “Ragazza eroina” direttamente dai ‘60s se ne va via a braccetto con il “Ragazzo eroe” elogiato dalla grattugia di Karim Qqru (incredibile come riesca a pestare anche con quel trabiccolo al collo!).
Non mancano ovviamente le burle narrate da Ufo (sempre spassosi i suoi siparietti), l’inno natalizio di “Canzone di Natale” e la fatidica domanda finale: siamo “Nati per subire”? La loro risposta è no! I tre bischeri ci lasciano con un barlume di speranza e il cuore infuocato di rabbia e ribellione. Come se in questa gelida notte di neve non fossimo già roventi grazie agli episodi precedenti.

 
Fine. I nostri eroi si alzano dalla spiaggia belli abbronzati, si scolano il cocktail ancora fresco e ne fanno carburante.
Si ritorna sui monti circostanti a rintanarsi per un po’. A scalare qualche altra vetta, per rinforzare i muscoli di una musica che comunque oggi ci dimostra di essere bella tonica e prestante. Un bel fisichino che non sfigura mica sotto i riflettori.

 

 

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Band of Horses

Written by Live Report

Coi Band of Horses avevo un conto in sospeso dal Rock in Idrho 2011, quando avevo cercato rifugio dalla calura estiva e dalla cappa mozzafiato che tirava su l’asfalto (non c’era neanche quella verdeggiante copertura sintetica usata nell’ultima edizione dell’Heineken Jammin’ Festival) allontanandomi sotto qualche stand proprio durante la loro esibizione. A mia discolpa posso dire che dovevo risparmiare sali minerali e forze fisiche per i Social Distorsion e Iggy Pop e che aspettavo fremente l’esibizione serale dei Foo Fighters.
Ad ogni modo, il 4 novembre scorso sono andata all’Alcatraz di Milano con l’intenzione di farmi perdonare: guadagnare una posizione tra le prime file e non perdermi neanche un secondo di show.
Sopportare la pretestuosa arroganza estetica e il poco talento degli opener, i Goldheart Assembly – londinesi, un tastierista hipster, un batterista con l’aria da hyppie ripulito, il chitarrista solista che fa il rumorista, il chitarrista ritmico che fa il solista e un bassista fact totum che da solo ridimensiona un pochino il mio giudizio negativo sulla band – mi è valsa la terza fila. Davanti a me fans insospettabilmente sulla quarantina accozzati alle transenne, di fianco e dietro un tripudio di barbe finto incolte, camicie a quadretti e maglioncini a righe, con l’età media che diminuiva man mano che ci si allontanava dal palco.

The great salt lake apre il concerto e insieme alle immagini paesaggistiche dello schermo sul fondale e alle stampe che rivestono le tastiere e le rastrelliere poggiachitarre (una scelta scenografica essenziale ma decisamente adeguata e di buon gusto) ci fa dimenticare di essere al chiuso in una grande città. E si respira, perché fin da subito i BoH regalano quella stessa sensazione che si ha in campagna, quel misto di libertà e tradizioni ritrovate.
I cinque sul palco hanno tutti una personalità e un ruolo ben definiti: Creighton Barrett è il batterista muscoloso con un tocco in realtà delicatissimo, una certa agilità e una buona cura delle dinamiche, Ryan Monroe è l’animo blues che investe i brani tanto da dietro le tastiere quanto con la chitarra a tracolla e le back voices (neanche troppo back, visto che la grana particolarmente calda e sanguigna della sua voce è stata più volte determinante per dare carattere al brano, sorprendendo chi non si aspettava proprio tanta grazia da un corpulento polistrumentista),  Tyler Ramsey è l’asociale del palco, tutto avvolto nella sua camicia a scacchi e il viso nascosto tra barba e capelli, solo con un paio di serenissimi occhi azzurri che rivelano quanto se la stia spassando realmente, mentre Bill Reynolds è il fascio di nervi che tengono il plettro nella mano destra e aspettano il loro turno per riempire tutto di basse frequenze. L’insieme è magistralmente diretto da Ben Bridwell, che roteando il braccio scarabocchiato da tatuaggi improponibili marca stacchi ed entrate. Si guardano e si sorridono sempre, con un entusiasmo, una freschezza e una genuinità che sorprende: sarà la costante dell’ora e mezza di spettacolo, insieme alle sigarette di Bridwell che pure non sporcano assolutamente la sua voce, pulita come in studio, potente all’occorrenza e senza mai un cedimento.
La scaletta prosegue e il pubblico la riceve quasi inebetito e impotente fino a Laredo, quando finalmente l’Alcatraz si mette a cantare (con me in versione snob che un po’ mi risento per l’ovvietà di inserire questo pezzo, io che sto aspettando – alla fine invano – che facciano Detlef Schrempf). E da qui sono tanti i momenti veramente intensi: On my way back home, Powderfinger di Neil Young e soprattutto Infinite Arms. I BoH hanno un muro di suono caldissimo, che forse non ci si aspetta dall’ascolto domestico del cd. Lo giostrano magistralmente in un crescendo di emozione: Is there a ghost, Weed Party, Everything is gonna be undone e la recentissima e americanissima Knock Knock. L’apice però lo raggiungono con No one’s gonna love you: sul palco luci basse, solo Tyler che arpeggia con due dita, senza plettro, dando morbidezza e rotondità al suono, e Ben che non sbaglia neanche uno dei salti melodici che la canzone impone; sotto il palco, invece, coppie abbracciate che si sentono protagoniste di quel testo. E sorridono. E ci si rende conto che non è solo perché si ha una persona da abbracciare a un concerto, in un momento così romantico oltretutto, ma perché sul palco c’è qualcuno che da quasi un’ora continua a sorridere in modo contagioso, rimpallandosi sguardi complici. L’umanità dei BoH viene fuori con chiarezza in The Funeral, quando Bridwell ha la prima e unica incertezza di tutto il live: si dà il quattro ad alta voce per rientrare e sbaglia, sbavando le note della ripresa alla chitarra. “Oh shit, sorry” e un sorriso, imbarazzato questa volta, che non rovina per nulla il mood del brano.
L’encore dovrebbe prevedere The first song: la steel guitar è preparata dai tecnici durante la pausa, ma resta inutilizzata (non si sa se per un problema tecnico o per un semplice cambio di programma). Il concerto si chiude con Cigarettes, wedding bands e con la cover dei Them Two di Am I a good man. I Band of Horses non hanno fatto solo il compitino, anzi. Hanno dato prova di essere una band professionale e preparata, modesta come attitudine ma affatto mediocre artisticamente (non come sostenuto da Gianni Sibilla nella recensione di Mirage Rock su Rockol, in cui la formazione è definita “media”, in grado di soddisfare i gusti di un pubblico vasto e variegato, non eccellendo in nulla di particolare), con una passione e una carica probabilmente insospettabili da disco, ma che è sicuramente il punto di forza dei loro live e la loro migliore soluzione comunicativa.

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THE TALLEST MAN ON EARTH

Written by Live Report

Certo le dimensioni questa sera sembrano esageratamente ristrette. Lo sono in primo luogo per la folla che intasa un piccolo e facilmente intasabile “Spazio” 211(storico locale di Torino).
E poi lo sono soprattutto perché un cantautore dal nome così imponente, in realtà non lo è affatto dato che supererà a mala pena il metro e settanta. E, per sbeffeggiare ancora di più il suo nome, si abbassa spesso con la sua acustica, forse per vederci meglio in faccia, per raggiungere il nostro panorama o forse più semplicemente per farci vedere il suo di panorama. Il giovane Kristian Mattson, vede lontano, o meglio vede distorto: i suoi orizzonti confondono Svezia con madre America. La madre del cantautorato più viscerale e rupestre.
La serata inizia verso le 22 con un sold out inaspettato e sul palco salgono Dan Haywood’s New Hawk che risultano tutto sommato piacevoli ma poco incisivi, una bella lavata di acqua fresca in preparazione del viaggio.

Alle 23 dopo un po’ di attesa arriva l’ometto del Nord, con canotta addosso. A sottolineare che il freddo lui lo conosce bene e non è sicuramente questa tiepida serata di Ottobre a Torino. Kristian è pronto a farci vedere come il suo tenue calore di fiammifero può convivere in un immenso prato innevato, dando quel piccolo sollievo, come un illusione che calma i brividi e le paure. L’opener è affidata all’emblematica “To just grow away”: pietre preziose e fiumi in piena (“with a rain to help a river, but a river is so hard to please, but I’ve grown to see the diamond thrown in just for me”).
Il folk prende una nuova dimensione, senza snaturare la dura vena melodica, la campagna, le radici dei “padri fondatori”. Onde dinamiche che ci portano in alto, per capire la prospettiva di Kristian, e poi ci riaccompagnano comodamente giù. Così la giostra sale piano e raggiunge subito uno dei punti più alti con “Love is all”, passionale e poetica in parole e fingerpicking: chitarra e voce sono un unica entità, occupano lo stesso spazio nelle nostre orecchie, graffiano e accarezzano. Non importa se ad accompagnare la splendida voce sia la Gretch o una acustica, le pungenti corde vocali e quelle sintetiche viaggiano sempre a braccetto, come due pazzi e giovani innamorati.
Il ricordo del terremoto svedese di “1904” porta in casa nostra una piccola ventata di rivoluzione. Arriva fresca e pungente e strappa un sorriso inopportuno.
“The Gardener” ci conduce verso ritmi più sostenuti, il fiammifero forse non basta. E allora battiamo leggermente il piede, senza fare troppo rumore, senza lasciare i muscoli lavorare troppo che ci pensa già la mente a farci viaggiare. Ora i fantasmi di Dylan (che è ancora vivo ma già da un po’ gioca con il suo fantasma) e di Johnny Cash sono più presenti che mai dietro lo scarno stage del club. Volteggiano come avvoltoi affamati, intenti a catturare applausi ancora meritati. E poi leggermente in disparte, più per il suo timido carattere che per questioni stilistiche, c’è il fantasma di Nick Drake: osserva e si emoziona davanti alle pennate del Tallest Man.

L’attenzione si mantiene viva per tutta la scaletta grazie ad una buona presenza scenica del ragazzo, oltre all’impeccabile interpretazione di brani anche meno conosciuti ma che stregano ugualmente il pubblico torinese. E allora si passa dalla stradaiola “Like a wheel” all’indemoniato fingerpicking di “Where do my bluebird fly”, salita a metà tra dolce paradiso e inferno di ghiaccio.
Nel finale la frequenza dell’altalena aumenta con “The wild hunt” e qui Dylan smette di volteggiare sopra l’alta testa di Kristian, ma scende e per abbracciarlo in un surreale duetto. E nel brano forse solo io in tutta la terra sento la somiglianza con la “Redemption Song” di Bob Marley. Il potere di Tallest Man è così strabiliante da unire radici così lontane, rimandi a culture e panorami così diversi eppure ristretti questa sera in questo spazio. Dall’alto dopotutto ogni distanza pare minuscola.
Persino la cover di “Graceland” stinge li spazi, come per conservare quel briciolo di calore cinetico di ruote che viaggiano. Poco importa se non scorrono più nella “highway across Mississipi river” ma montano le catene per combattere il ghiaccio dei più modesti sentieri svedesi.
Kristian ci lascia infine con una versione al piano della sua “The Dreamer”, la luce e la natura combattono il tiranno divenire e la disillusione (“nothing good out there won’t be old”). Tutto si ferma per un attimo, e poi si disperde nuovamente come la folla prima che entrare nello “Spazio”.
La giostra finisce non c’è un’altra corsa e tutto riprende la sua dimensione. Non ci resta che ringraziare il Tallest Man per averci regalato il suo panorama, alto o basso che sia.

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Soundlabs Festival

Written by Live Report

Il Soundlabs Festival nasce dalla passione per la musica e dalla volontà di coinvolgere il pubblico abruzzese ma anche quest’anno ha fatto registrare ottimi numeri di presenze sia da fuori regione sia dall’estero.
Il programma come sempre era all’altezza delle aspettative ma ad entusiasmare i presenti è stata anche la cornice che lo ha ospitato; Castelbasso, in provincia di Teramo, infatti è uno dei borghi più affascinanti d’Italia e le sue piazze ben si prestano ad eventi del genere.
La tenacia e la volontà che da anni contraddistingue lo staff del festival hanno permesso il perfetto svolgimento della manifestazione.
Punta di diamante dell’edizione 2012 è stato sicuramente Thurston Moore, cofondatore e chitarrista dei newyorkesi Sonic Youth, che attualmente giacciono in un limbo dopo le vicende interne che hanno scosso il gruppo e costretto i suoi membri a concentrarsi in progetti solisti come in questo caso.
Tuttavia il concerto del biondo ed altissimo chitarrista ha offerto spunti di altissimo livello grazie anche alla band che lo supportava nelle escursioni sonore fatte di armonia e rumorismi continui.
Nella calda giornata del 26 luglio Moore è stato preceduto dagli Amelie Tritesse, interessante progetto artistico abruzzese che ha proposto brani dal loro cd/libro di esordio “Cazzo ne sapete voi del Rock and Roll”, curioso lavoro in bilico tra tra rock ed elettronica, acustica e parlato.
Ad essi sono seguiti i cantautori John Wolfington, nato artisticamente sotto l’etichetta Smell Like Records diretta da Steve Shelley, batterista dei Sonic Youth, e Nigel Wright, diciannovenne dal timbro vocale già maturo nonostante la giovane età che ha proposto un concerto intriso di brani tratti dalla sua ultima fatica discografica che era disponibile anche nel merchandising in una curiosa edizione in download digitale attraverso un libretto molto curato nella grafica che presentava al suo interno un codice esclusivo con cui scaricare l’intero album.
Il giorno successivo ad aprire l’evento sono stati i Delawater, side project indie rock di alcuni membri dei già citati Amelie Tritesse, che in poco più di trenta minuti di esibizione hanno tirato fuori brani dal loro esordio tutto in vinile realizzato sotto la sapiente guida del famoso produttore Mattia Coletti.
Successivamente i britannici Let’s Buy Happiness si sono lasciati andare nella loro musica caratterizzata dalla voce della frontwoman Sarah Hall che spesso viene accomunata a quella di Bjork.
Se fossi in voi terrei strettamente d’occhio questa interessante formazione, perché ne vale davvero la pena, credetemi!
Alle 21:30 circa è stato quindi il turno degli A Classic Education, formazione nota per lo più al pubblico oltralpe ma che si sta guadagnando un folto seguito anche qui in Italia.
Guidati dal cantante italo-canadese Jonathan Clancy in quasi un’ora di concerto hanno coinvolto il pubblico presente con il loro rock ‘n roll condensato da atmosfere molto fifties e sixties.
A chiudere la giornata sono stati gli inglesi Veronica Falls, band per metà al maschile e metà al femminile, dal sapore retrò e dal sound che ricorda da vicino i minimalisti Velvet Underground ma anche le grandi formazioni garage / post punk dei primi anni ottanta.
Se volete scoprirli meglio vi consiglio di acquistare un loro ep contenente sei covers di artisti famosi quali Rolling Stones e David Bowie.
Quando lo inserite nel vostro lettore cd sicuro continuerete ad ascoltarlo di continuo…E’ troppo bello e si presenta anche in un’ottima confezione bicolore bianca e blu che rende il lavoro piacevole sia all’ascolto sia al tatto.
L’ultimo giorno è stato inaugurato invece da Orlando Ef, cantautore abruzzese qui accompagnato dalla sua fedele band in cui milita anche il chitarrista dei Reverse Hole.
Le sue canzoni molto artigianali e homemade presentano arrangiamenti curatissimi in ogni dettaglio e si sono ben prestate nella dimensione live.
Dopo di lui IlSogno IlVeleno, alias Alex Secone, che ha anche presentato precedentemente anche il festival in un mini concerto presso lo stabilimento Le Canarie di Pescara.
Il suo esordio “Piccole Catastrofi” è stato già ben accolto da critica e pubblico e potrebbe essere una delle migliori nuove proposte italiane…
Come sempre il Soundlabs è fucina di talenti da scoprire e assaporare!
Anche il progetto tutto siciliano Dimartino nato dalle ceneri dei Famelika potrebbe essere la novità indie dell’anno, il loro live è infatti molto curato in ogni minimo dettaglio ed arrangiamento nonostante sul palco si presentino solo in tre!
Melodie ben strutturate e testi diretti, comprensibili e quanto mai sinceri sono il loro fiore all’occhiello, per cui non lasciatevi sfuggire il loro ultimo lavoro in studio.
A chiudere la rassegna è stato lo svedese Jens Lekman col suo indie-pop ironico ma mai troppo melenso.
Durante i tre giorni è stato anche girato un documentario dell’evento sotto la direzione della russa Evka Bychkova e sono stati condotti dei labs atti alla formazione di nuovi giovani talenti nelle arti musicali e visive.
Arrivederci quindi al 2013 con la diciassettesima edizione del Soundlabs Festival!

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Che rumore fanno i Negrita?

Written by Live Report

CASTAGNOLE LANZE – 30/08/2012

Ammiccanti ma anche outsider sul ciglio del precipizio commerciale. Eclettici ma particolarmente piacioni. Stanno in piedi nonostante qualche sbucciatura alle ginocchia, senza perdere entità e stile, senza scivolare in quel vortice di pochezza così invitante e appetitoso. I Negrita sono una delle band più longeve e pure del panorama italiano, sempre freschi, astutamente coraggiosi e perché no pure fortunati, con lo spirito a mezz’aria tra poesie alla luna e serate etiliche giù in città.

La location piemontese che ospita questa tappa estiva del “Dannato Vivere” Tour è il Contro Festival di Castagnole Lanze, manifestazione ormai decennale: ben rodata ed insediata nella ridente cittadina astigiana dalla grande entità eno-gastronomica. Il contorno è sicuramente suggestivo e pittoresco: piccola piazzetta di paese, colline ad abbracciarla, bambini in braccio ai genitori, qualche zaffata di canna, chiesetta e un balcone a lato del palco con tre vecchine molto attente ai ritmi sfoderati dalla band arentina. Tutto schiacciato in una realtà agricola così viva e così sanguigna che paradossalmente accoglie alla perfezione tutto questo rock’n’roll multietnico.
Il fumo alle 21.45 invade l’esile palco e i Negrita zompano su come dei ragazzini sulle note dell’intro “Pape Satan” già caldi per attaccare “Cambio”, giusto per dirci che gli anni non sono stati così feroci con loro e il grido di rivoluzione non si è ancora spento.

Ed è vero: il grido si sente ancora e si sente per tutte le due ore di show, ma è impossibile non accorgersi che ora è un po’ più pilotato e soffice. Il sound della band è ancora fresco e vivo, suona moderno e voglioso, ma anche patinato e ammorbidito. La “colpa” (se di colpa si dovesse trattare) è forse dei “nuovi” elementi: il tamarissimo John Type, scratcher e campioni, e il matematico Cristiano Dalla Pellegrina, batterista da quasi dieci anni con la band ma che pare un po’ spaesato sui classiconi più aggressivi. Pare che loro rimettano tutto in regola, rendendo più piacevole e morbida la “vibra buona”, una bella levigata per tutti i tipi di orecchio. A discapito però del calore e dell’esuberanza dei veterani Pau, Mac, Drigo e Franky.
La scaletta si destreggia principalmente tra gli album anni 2000 facendo spiccare lo splendore e la genuinità dei brani tratti da “HellDorado”: “Radio Conga”, “Salvation”, “Che rumore fa la felicità” e “Notte Mediterranea” tentano in ogni modo di scatenare un pubblico eterogeneo (e a dir la verità neanche troppo numeroso) più attento a “non far tardi che il giorno dopo si lavora” piuttosto che lasciarsi andare alla fiesta multirazziale ben arredata dal combo toscano. La scelta del dj è sicuramente adattata alla grande nei brani di nuova produzione, anche se per un romantico come me una bella sezione fiati e percussioni renderebbero anomala l’onda, molte volte strozzata dalla digitalizzazione.

I Negrita sono sicuramente a loro agio sul palco, è la loro seconda dimora e si nota. Tranquilli e sciolti in mezzo a questa piccola realtà contadina, che sembra farli sentire a casa. Pau stupisce per la grande espressività sprigionata dalle corde vocali, ma rimango un po’ incredulo quando si interfaccia con il pubblico, l’intrattenimento tra un pezzo e l’altro non è sicuro dei più riusciti.
“Il giorno delle verità” e “Uno giorno di ordinaria magia” sono i momenti di Drigo, chitarrista ipnotico e tecnicamente impeccabile. Sfodera un gusto straordinario nel suo finger picking che sa essere morbido e indiavolato al momento giusto. La vera punta di diamante di questa band è proprio lui, rizza i peli delle braccia ogni volta che accarezza le corde. Dietro le quinte Mac lo fomenta alla grande con un tocco più aggressivo ma mai invadente: i nostri Ron Wood e Keith Richards. Le chitarre però paiono spesso soffuse quando invece ci vorrebbe una bella spinta, “Transalcolico” e “Mama Maè” sono troppo omogeneizzate e appiattite. E sprigionate quel rock’n’roll che avete nel sangue!
Perfetto è invece il processo di “modernizzazione” di “A modo mio”, il reggae comanda le gambe dei presenti in piazza, l’unico momento in cui nessuno pare più pensare molto alla sveglia dell’indomani.

Le ballate sono intense e vere, altro sintomo che i Negrita lavorano col cuore. Gli episodi più riusciti arrivano a sorpresa dal loro ultimo (e a mio avviso mediocre) album: “Brucerò per te” è ruvida e spinge il corpo ad una danza lenta e riflessiva, sotto una luna che sopra di noi si fa spazio tra le nubi, una preghiera al cielo matura e passionale, e poi la splendida “La vita incandescente” dove Pau dimostra per l’ennesima volta di essere un grande paroliere, diretto e profetico. “Ho imparato a sognare” invece viene tirata fuori, troppo stridente e americana, e nonostante il grande coro da stadio resta una forzatura in una scaletta per il resto quasi perfetta.
“Gioia infinita” chiude il cerchio dopo più di due ore e la gente si scatena in questo ritmo fricchettone che apre pista alle note dell’outro “Baby I love you” (The Ramones), in cui i ragazzi poggiano gli strumenti a terra e salutano con enorme calore un pubblico di certo non memorabile.

Bene. Dopo tutto questo non saprei dire se i Negrita sono la migliore band italiana, lo pensavo fino a ieri. Sicuro posso dire che sono una band che se la vive bene in mezzo alle sue mille contraddizioni.
Però di questa serata ricorderò due episodi chiave che vanno oltre il sound e oltre il singolo show: le tre vecchine sedute sul balcone per le intere due ore e la schiena rotta del papà di fianco a me che si è subito l’euforia della figlioletta di 6 anni. E qui io mi fermo e mi inchino davanti alla potenza della musica pop.

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Goriano DiVino

Written by Live Report

Vi ricordate quando vi abbiamo detto che Rockambula sarebbe andata in vacanza? In realtà non era proprio vero. Perché la festa di Goriano, di cui vi racconto oggi, è un po’ la nostra festa, di Rockambula, l’unica webzine che non riposa neanche quando dorme. Non sarà il MiAmi e noi non saremo RockIt (la cosa non è tanto un male visto che i “piccoli” hanno meno da perdere e tanto da dire) ma resta una festa da urlo, da veri amanti del Rock, quello brutto, sporco, cattivo, sudato e pure con la panza, visto il menù della serata. Vi avverto subito che se noterete un costante, inesorabile ed esponenzialmente crescente appannamento nelle mie parole, non è per la stanchezza di una giornata davanti al pc ma la precisa iperrealista rappresentazione dell’evoluzione alcolemica subita nell’arco di quella giornata, cosi indimenticabile che mi sono scordato quasi tutto. Ma farò uno sforzo.

Era il ventotto di Luglio e la personale quarta edizione del Goriano DiVino inizia nel mio paese, in un pomeriggio spettacolare. Molto caldo e un paio di birrette e quattro chiacchiere ci aiutano a resistere fino a quando calerà il sole. Si parte verso Goriano (patria del nostro Riccardo) e per una mezz’ora di viaggio tra le splendide montagne dell’Appennino Abruzzese, ci fanno compagnia curve da brividi, paesaggi mozzafiato e qualche canzone, di quella gradevole spazzatura italiana. Finalmente siamo in cima (per modo di dire, visto che in fondo siamo solo a 720 metri slm, a sud della Valle Subequana) e ad aspettarci non c’è il fresco tanto desiderato ma un borgo bellissimo e tanta allegria. Quella dei bimbi che giocano nel prato che costeggia la piazza dove ci saranno i concerti e quella dei tantissimi ragazzi dello staff che smuovono il culo per dare vita a questo paesino di seicento abitanti. La festa ha inizio.

Il palchetto di Rockambula è ormai pronto, Cd introvabili, spillette, maglie, figurini, tutto a un prezzo simbolico. Vicino al palco è allestita la mostra vivente di Luca “BaraBBa” Colaiacovo, artista di strada pratolano che si mette presto all’opera per mostrarci la nuova strada intrapresa verso la Spray Paint. Un altro artista lo affianca presto. Viene da Pescara, si chiama Massimo Desiato alias Teschio Urbano e potete leggere una sua intervista proprio su Rockambula (https://www.rockambula.com/anche-l%E2%80%99-arte-vuole-la-sua-parte-con-massimo-desiato-alias-teschio-urbano/). Arte oscura, tenebrosa che qualche ora più tardi incontrerà i paesaggi solari di BaraBBa in un’opera a due realizzata in tempo reale.

Il pomeriggio passa svelto, tra qualche saluto ai tanti amici, le solite birre, uno sguardo alle opere esposte e un altro al palco che prende vita. Vicino allo stand di Rockambula è stato piazzato il percorso enogastronomico. Genialata a metà tra il sarcastico, l’ironico e il serio. Il tutto è presentato dai ragazzi come un iter fatto di una decina di vini tutti della zona, ai quali non è assegnata un’etichetta, rigorosamente di produzione propria, e soprattutto spesso pessimi. Ci scherzano anche loro, a volte consigliando di saltare un certo bicchiere perché “benzina” o sfidandoci a berne un altro sorso. Si mangiano stuzzichini di mortadella e formaggio, durante il percorso e ci si diverte tanto, anche a compilare la lista dei vini, dove andiamo a indicare un voto e un giudizio (totalmente libero e giù con gli “aceto, imbevibile, devastante ecc…). Qualcuno capisce lo spirito e si atteggia con aria poco credibile a sommelier di grande esperienza. Nel complesso, una trovata che di certo non apprezzeranno i “grandi intenditori di vino” ma che, in una festa come questa non certo per gente snob, ci sta da Dio. Ed io alla fine, come gli altri, di percorsi me ne sparo più d’uno. È tempo di cena e il menù, quest’anno, presenta una sorpresa. Oltre ai soliti arrosticini c’è la mortadella arrosto, che si dimostrerà ottima oltre ogni aspettativa. Ovviamente annaffiamo il tutto con birra e vino, stavolta in bottiglia e le cose cominciano a decollare. Si avvicina l’ora della musica.

La prima band a salire sul palco è Christine Plays Viola http://www.christineplaysviola.it/. Probabilmente la migliore band della Valle Peligna è composta da Massimo Ciampani (voce), da Teramo, Fabrizio Giampietro (chitarra) da Sulmona (AQ), Desio Presutti (basso) e Daniele Palombizio (Batteria). Come al solito la loro esibizione è pressoché impeccabile. Unione di tecnica e teatralità, influenze multiple che confluiscono in una dark wave mista a elettronica. Un chitarrista da far invidia a Glen Johnson, un bassista storico della scena Rock e Punk pratolana, un cantante che a vederlo ti aspetteresti leader di una band Thrash Metal e un batterista da paura, un ragazzone enorme, che pur potendo non si dà delle arie neanche quando scoreggia (citando Otello). La band è probabilmente più adatta a scenografie cupe e tetre ma la loro qualità esce sempre allo scoperto. Non sbagliano un colpo. Istrionismo e spiritualità, abilità e pathos, passione e melodie nere come il vento di notte. Questo sono i Christine Plays Viola, questo sono stati. Ancora una volta i migliori, anche se in troppi non se ne accorgono (https://www.rockambula.com/christine-plays-viola/).

Ora tocca alle donne. Le scatenate Wide Hips 69 http://www.facebook.com/pages/-Wide-Hips-69-/190213751014648 da Teramo più il batterista Luciano “HalfSpoon”. Loro sono Daniela “Locomotion” al basso, Lorena “SlimHips” alla chitarra e la mitica “Cristina TitsQuake” alle urla. Una botta di energia che non ti aspetti, Garage Rock allo stato puro. E come faccio a non mettermi sotto il palco a saltare e urlare con loro come una squallida groupie? Obbligato. Ci voleva. Una botta di energia. Eccezionale il contrasto musicale tra le due prime band salite sul palco. Ora solo Albano potrebbe scombussolare ancor più le mie cervella in ebollizione.

Invece si avvicinano strani tipi di una certa età. Vecchi poliziotti in borghese a una festa di svitati? I pazzi del paese? Tossici in gita? Chi saranno mai. Lo scopro presto. Sono la storia del Punk Hardcore abruzzese, Digos Goat (sempre zona teramano) nati nel 1984, hanno spaccato palchi per otto anni prima di sciogliersi per poi tornare insieme dopo venti anni. Avete capito più che bene. Avete capito che gente c’era sul palco? Tra l’altro dopo “Il Delirio” e “Testimoni Del Silenzio” quest’anno hanno anche inciso il nuovo lavoro in studio “Stille” che vi consiglio di non perdere (https://www.rockambula.com/digos-goat-stille/). Ormai è tutto pronto, s’inizia a fare hardcore sul serio e mi scaravento sul palco a pogare, barcollare, fare casino, urlare, invitando gli altri a fare altrettanto e qualcuno sale con me. Non ricordo quanto è durato ma sono arrivato alla fine sfinito. Come loro del resto. Ma cazzo se n’è valsa la pena. Senza sprecare troppe parole, senza fare troppo gli alternativi, Marko Sigismondi (voce), Gix Guerrieri  (chitarra), Ghevara Paolone (batteria) e Raimondo D’Orazio (basso) ci hanno ricordato cosa significa suonare hardcore, ci hanno insegnato cosa doveva essere il punk di venti, trent’anni fa e ci hanno dato una lezione di vita. Spettacolo.

La parte live è finita. E’ ora di vagare tra la gente, fare conoscenze e condividere un bicchiere di vino. L’atmosfera è assolutamente rilassata e festosa oltre che brilla come ogni Goriano DiVino deve essere. Ci spostiamo davanti allo stand alcolico e qui cala il sipario della nostra mente. Cominciamo a cantare cori da stadio, pro Pescara, anti Sulmona, per Pratola o contro Chieti. Di tutto, basta che si riesca a sfogare tutta la carica e l’adrenalina accumulata.

Ora è proprio tardi e i ricordi diventano surreali. I più sobri, i temerari e gli incoscienti ripartono giù per i tornanti. Alcuni vanno a dormire al dormitorio che è messo a disposizione dal comune per le band e chiunque non avesse dove restare (trovata da standing ovation). Ma la festa continua. Si sale al bosco, dove Salvatore Carducci alias Dr Greenthumb ha attrezzato tutto per una notte all’insegna del Dj set più devastante. Alberi, musica, notte nera e birra.

E la notte a Goriano, la notte di Rockambula, la notte dei Christine, dei Digos Goat, Di Teschio Urbano, delle Wide Hips 69, di Barabba e del Dottore, la notte del vino e della musica, dei ragazzi e dell’Abruzzo. La nostra notte, la notte del Goriano DiVino contro gli assassini della giovinezza e della follia, della vita, sembra non finire mai e almeno fino a quando non apriamo gli occhi continuiamo a sognare l’irresponsabile e negativo desiderio di, almeno, non essere uguale a loro.

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Bob Dylan. A rolling stone gathers no moss (e allora rotola)

Written by Live Report

Unica data italiana. 6000 fortunatissimi (sold out in neanche una settimana) praticamente rinchiusi per motivi di sicurezza nel perimetro della piazza principale del comune cuneese che dà il nome a uno dei vini italiani più pregiati e che lontano dal festival fatica ad arrivare alle 700 anime.
Cornice splendida: il castello, le colline, una lunga tradizione contadina radicata che si respira nei mattoni vecchi delle case e in quella nicchia che mal riproduce un pezzetto del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Over50 nostalgici e giovanissimi che “Quando mi ricapita?” o “Almeno una volta nella vita si deve vedere”. Biglietto a prezzo più che politico (27€ e qualcosa, più i diritti di prevendita), birra a 3 €.
Tutto faceva ben sperare, insomma.

(Sto per massacrare un icona del rock, perciò, sentitevi liberi di non andare oltre nella lettura).

Bob Dylan è demolito e qualcuno dovrebbe prenderlo per le spalle e fermarlo.
La voce non c’è. OK, non l’ha mai davvero avuta, è un cantautore lui, non ha mai saputo che farsene del belcanto. Ma sembra aver subito una tracheotomia più che essere semplicemente invecchiato.
La mani non ci sono. Dylan sta sempre al piano e prende in mano la chitarra solo per farci vedere perché ormai non la suona più. Tenta un paio di assoli, ma è una successione di note stoppate, sbavature, errori. OK, è vecchio e da un cantautore non mi aspetto sappia andare oltre qualche accordo per la sopravvivenza.
La band non c’è. E qui non c’è tolleranza che tenga: i musicisti di un pezzo di storia della musica mondiale devono essere bravi e devono farmelo vedere. Il chitarrista deve sbattermi in faccia assoli prepotenti e sanguigni e il bassista deve contorcersi e trascinarmi tra i battiti. Niente. Elegantemente standard, giri armonici tradizionali, arrangiamenti blues, perché questa è la nuova cifra stilistica del Dylan anni 2000.
Un blues freddo per altro, che non arriva al cuore, non scalda, fa a malapena ondeggiare la testa a tempo.
Fermati, Bob, davvero. Non vedi che questa sterzatona blues anacronistica se la fanno andare bene sono perché sei tu? Non puoi fare un’ora e mezza di puro blues del Delta praticamente tutto uguale anche nelle tonalità, senza uno straccio di passaggio virtuosistico da parte tua o dei tuoi.
E fosse solo un problema di voci, di genere, di presenza scenica (al piano quasi tutta la sera, strumentisti immobili, non una parola rivolta al pubblico). Dylan ci prende anche in giro, alla fine, o almeno così mi sono sentita io nel vederlo buttare –e non credo ci sia termine più indicato – la tripletta All long the watchtower, Like a rolling stone e Blowin’ in the wind, in chiave blues (ancora? Santo cielo Bob, perdono fatte così, sono tre maledettissimi pilastri di una generazione che ha cambiato le sorti della società e della musica fino ad oggi, trattele con cura!). Quella versione di Blowin’ in the wind mi stava facendo venire da piangere e non per la commozione. Snaturata. Una filastroccona. Non una riflessione amara di un profeta di una generazione. Solo l’ennesima intonazione, da parte di un vecchio, di una canzone in cui non crede più.
E va bene, Bob. Io posso immaginarlo che a forza di cantarla, di vedere il pubblico sbracciarsi su quella come se fosse l’unica cosa buona che hai fatto, un po’ possa esserti venuta in odio, ma me la dovevi una versione quanto meno fedele nell’interpretazione. A me e a tutti quelli per cui ancora quel testo ha un briciolo di significato. E ne ho sentite di ogni per giustificarlo, frasi dette da quelli che facevano gli entusiasti ma sotto sotto sapevano di aver assistito a un concerto di basso livello: “Ma è Bob Dylan”, “Ci sta, è un nonno”. Non sono di questa opinione. È Bob Dylan, certo, e per questo mi aspetto un bello show, in cui sia la musica a farla da padrone, non l’iconoclastia di se stessi. E un nonno, 71 anni lo rendono innegabilmente tale, allora che mi prenda sulle ginocchia e mi racconti come va la vita, come va il rock, com’era quando era giovane lui, quali valori l’hanno fatto crescere come ha fatto.
Peccato, peccato davvero.

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Ray Manzarek e Robby Krieger

Written by Live Report

Credetemi: sembrava di essere in un vero rito di sciamanesimo mentre ascoltavo Ray Manzarek e Robby Krieger che ripercorrevano il viaggio sonoro dei The Doors, di cui furono rispettivamente tastierista e chitarrista.
Tante le persone accorse da fuori regione, qualcuna persino dall’estero, per ammirare questi due colossi della storia del rock mondiale.
Introdotti da un membro della crew con il solito “Ladies and gentlemen from Los Angeles, California”, alle 21.50 iniziano il concerto con la indimenticabile hit “Roadhouse blues”.
L’assenza di Jim Morrison, che come tutti saprete perì a soli 27 anni nel 1971 a Parigi in circostanze ancora misteriose alimentando così la leggenda che sia ancora vivo (qualcuno dice che sia nell’Oregon dove svolge rodei, Ray Manzarek stesso dichiarò anni fa che era alle Seychelles a godersi la vita, qualcuno dice di averlo visto a Parigi negli anni ottanta e ci ha scritto persino un libro!, qualcuno invece ipotizza persino che oggi si faccia chiamare Barry Manilow e sia una rockstar giunta al successo anni fa con la hit “Sandy”…) ma ovviamente nessuno sa quale sia la verità.
Oggi però è possibile visitare la sua tomba al cimitero di Père-Lachaise a Parigi (Ray e Robby l’hanno fatto l’anno scorso in occasione dei 40 anni dalla morte del loro amico).
Tuttavia non chiamate Dave Brock “sostituto” del leader dei The Doors, potrebbe sembrare fin troppo offensivo in quanto il suo lavoro lo svolge davvero egregiamente.
Il suo timbro vocale infatti richiama molto da vicino quello di Morrison ma come presenza scenica forse gli è addirittura superiore (no, non sto esagerando!).
L’unico vero grande assente sembra quindi essere John Densmore, sostituito però egregiamente da Ty Dennis.
Sul palco oltre loro c’era anche Phil Chen (Rod Stewart, Pete Townshend, Eric, Clapton, Ray Charles) al basso che spesso si è esibito in duetti con Krieger.
Fra i pezzi eseguiti “Touch me” (unico scivolone dell’intero live), “People are strange”, “Riders on the storm”, “Five to one”, “Love me two times” ed “L.A. Woman”.
Trovano spazio anche le cover di “Alabama Song” di Bertolt Brecht e Kurt Weill (una delle preferite da Morrison come dice Manzarek al microfono) e di “Backdoor Man” di Willie Dixon.
La conclusione ovviamente è stata assegnata a “Light my fire”, primo grande successo mondiale del gruppo.
Peccato solo che non abbiano eseguito “Spanish Caravan” (durante la quale Krieger dimostra tutta la sua maestria nello stile latino), “Piece Frog” e “The end”…
E quando la musica finisce dopo quasi cento minuti (“When the music is over” per dirla in inglese citando una delle canzoni da loro eseguite) tutti a casa pensando di essere stati davvero parte di una grande ed irripetibile cerimonia…
Un piccolo aneddoto: i più fortunati (fra cui il sottoscritto) hanno potuto anche assistere ad un brevissimo soundcheck che Robbie ha effettuato verso le 20.30 durante il quale ha accennato il riff iniziale di “Love me two times”…

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LUCI A SAN SIRO BRUCE SPRINGSTEEN AND THE E-STREET BAND

Written by Live Report

La notte è madre delle emozioni più intense. Delle più irresistibili pulsioni, delle risate alla vita amara e dei più irrazionali pianti. E c’è qualcuno che tutto questo lo sa benissimo: piglia la notte in mano e la spreme fino a farti piovere addosso gioia e dolore, amplificati sotto un cielo buio e tetro. Questo è il fascino dello stregone, che in realtà si confonde in modo magistrale tra la gente comune.
Lo stregone ora non è più un giovane ragazzetto, ma ha la pozione magica per stare in pista 4 ore senza segni di cedimento e la stazza di chi le maniche se le rimbocca ancora anche solo per dirigere una festa, insieme a 60 mila adepti. Accompagnato da scaltri maestri da lungo tempo fedeli nell’esecuzione dei suoi riti, il mago trasforma tutto ciò che è insipido in piccante o aspro. E tutto questo, dopo tanti anni, ricapita di nuovo quando sale sul palco di San Siro di nero vestito e con in mano il suo scettro: una sgualcita e deturpata Telecaster color natural.
Bruce Springsteen and The E-Street Band sono tornati a predicare. E questa volta la loro festa scarna e prepotente, carnale e mistica risulta essere più corale e più spirituale che mai. Alle 20.30 appaiono 16 ometti, alcuni attempati e altri nuovi arruolati (tra cui un’intera sezione fiati, novità di questo tour). Sotto un cielo ancora ricoperto di un offensivo barlume grigio i ragazzacci del New Yersey imbraccciano gli strumenti quasi ad invocare la notte, che oggi appartiene a tutti noi “amanti”. E il lunghissimo rito (tengo a ripetere e a precisare, 4 ore di concerto senza mai scendere dal palco!) parte con il roboante gioco tom-rullante del solidissimo Max Weinberg, che ci fa subito capire che oggi le sue braccia voleranno alte per picchiare con la foga di un uomo capace di creare il suo personalissimo “caos calmo” senza versare una sola goccia di sudore (incredibile!). Infine entra lui, il Boss, il nostro predicatore, il nostro stregone e senza tante ciance ci spara: “We Take Care Of Our Own”, tutti uniti, Italia e America sono un tutt’uno in questa gigantesca e compattissima arena. Siamo uniti dalla sua passione e dalla sua festa che calpesta la disperazione e il disagio di questi tempi, strappandoci un pianto isterico di rabbia e tanta voglia di riscatto, succede nelle intensissime “Jack Of All Trades” e “Wrecking Ball”. Poi l’attenzione si sposta, nella eterna preghiera “My City Of Ruin” la sua personalissima città crolla al ricordo di Clarence Clemons (ex sassofonista scomparso esattamente un anno fa) e Dani Federici (tastierista e fondatore della E-Street Band). Mai la musica di Springsteen è stata così gospel, San Siro è la sua chiesa e la forza delle sue grida, roche e potentissime aprono il cuore di tutti noi fedeli. Ma ricordiamolo ancora, non fa mai male: questa è una festa. E allora partono le antiche “Spirit In The Night” e “The E-Street Shuffle”, il testimone passa dal gospel al blues, con una maestria di chi ha imparato tutto dalla propria terra e ce lo vuole raccontare. Esperienza che non si ottiene solamente graffiando vinili dentro un vecchio grammofono, ma masticando la terra delle infinite autostrade e delle metropoli con il cemento nel cuore. Il cuore e la sua infinita speranza però spezzano il cemento quando a fianco di Little Steven il vecchio saggio ruba alla notte i sogni infranti, ma mai perduti, di “The River”. L’altalena pende di nuovo verso l’introspettività fino a toccare il suo apice con la versione piano e voce di “The Promise”, suonata da Springsteen come se facesse sentire per la prima volta la canzone ai suoi figli, e ci sentiamo tutti più vicini a lui.
Ma alla E-Street Band non basta piantare la bandierina dentro i nostri cuori. Vuole proprio scuoterci lo stomaco. La seconda parte dello show è un tiro unico, una corsa senza pit stop e Bruce è sempre più in mezzo a noi, persino in senso fisico, improvvisando innumerevoli stage diving. Ci è riuscito di nuovo: palco e pubblico sono un’entità sola. Il trucco prediletto dallo stregone è sempre il solito: portare coi piedi per terra tutta la sua poesia che vola nella notte, la sua arte così cruda e sempliciotta da commuovere noi poveri mortali. E questa sera il trucco funziona più che mai.
In questa ultime due ore e mezza, si mischiano pezzi nuovi e vecchie glorie, anche inaspettate come il blusaccio marcio di “Johnny 99”, “Out In The Street”, terribilmente muscolosa e tamarra e la frenetica “Candy’s Room”. San Siro sorride a denti stretti, con una tensione pacifica e una felicità incontenibile sempre in bilico tra introspezione e coralità. Bruce e la sua band sono colla per l’anima.
Quando tocca alla gioiosa “Waiting On A Sunny Day”, il Boss grande e grosso cantata con una splendida e timida bambina pescata dal pubblico. Lo show non sono fuochi d’artificio e luci strabilianti, ma siamo noi ammagliati e stregati dal nostro domatore (piccola frecciatina a due a caso: capito Bono e Chris Martin?).
Il concerto è eterno, passano via le ore e canzoni che portano gioia, passione, dolore, rabbia, amarezza ma mai e poi mai sconforto o segni di caduta. La risalita dopo la distruzione è tutta riassunta in “The Rising”, la percepiamo davanti alle casse e davanti al magistrale crescendo elettrico della più grande live band al mondo.
Si arriva in fretta ad un finale sbracatissimo dove vengono inanellate tonnellate di hit: “Hungry Heart”, “Dancing in The Dark”, con una pazza scatenata sul palco a ballare con il novello Jake, impeccabile al sax prende il posto del compianto zio Big Man, ricordato con un onesto e sobrio tributo in “Tenth Avenue Freeze Out”. E poi ancora il sudore di “Glory Days” fino al pugno pieno di terra bruciata e teso al cielo di “Born in The USA”, per ricordarci che qui si fa anche politica, ci si balla sopra con il sorriso nonostante il cuore e il portafoglio siano malati e deturpati.
La festa chiude i battenti a mezzanotte inoltrata con una scioltissima “Twist and Shout”. Tutte le luci dello stadio sono ormai accese da decine di minuti, a ricordare che il concerto dovrebbe essere già terminato da un pezzo. Ma questo non è un semplice concerto e San Siro a fari accesi pare ringraziare il suo pastore più che redarguirlo e lo fa con il suo unico mezzo a disposizione, la sua accecante luce artificiale. Luce che sebbene priva di anima prova a colorare una notte senza stelle, e sappiamo tutti noi presenti che una notte così merita di essere illuminata per tutto quello che ha donato al nostro stregone, che non ha esitato un instante a farlo suo per amplificarcelo dritto in faccia.

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NO-BRAIN – NOBRAINO A TORINO

Written by Live Report

Li abbiamo visti pochi giorni fa al Primo Maggio e credo che tutti gli spettatori, anche i più distratti con Rai3 in sottofondo mentre tentano un meritato pisolino, siano rimasti catturati da questa band.
Si dice che siano uno dei migliori live act in circolazione, e anche dentro il tubo catodico non hanno deluso le aspettative. In poco più di 10 minuti di show hanno strapazzato il palco del concertone di Roma: tutine trasparenti con grotteschi palloncini/profilattici in testa, un cantante che, oltre a tuffarsi spavaldamente in mezzo al pubblico rischiando di rompersi tre costole, prende un bel rasoio elettrico e si tosa il crine in diretta. Insomma i Nobraino potrebbero scrivere un manuale su come vivere al meglio il famoso quarto d’ora di celebrità di Warhol (in realtà suonavano qualche anno fa in un programma della Dandini…prendiamola come un secondo giro di ruota della fortuna).
Qualche giorno prima del fatidico Primo Maggio, Rockambula ha avuto l’opportunità di presenziare ad un loro show all’Hiroshima Mon Amour, storico e prestigioso locale torinese. Location forse un po’ azzardata per il quintetto di Riccione, che si presenta davanti a una platea calda ma un po’ diradata nell’ampia sala concerti.
Nobraino sono un gruppo sui generis e lo si capisce subito dalle prime note. Sono in tour con un nuovo album e iniziano il live con un inedito “Esca viva” (impresa che in tutta la mia vita ho visto fare solo a Bruce Springsteen). Nonostante l’azzardato inizio stabiliscono immediatamente un pazzesco contatto col pubblico: dote che sappiamo essere ben rara in qualsiasi tipo di band.
Il loro frontman Lorenzo Kruger è un vero pagliaccio folk, un menestrello con vestiti improponibili persino al Circo Orfei, a metà tra idolo delle balere e santone new age, ricoperto da una barba che rimane lontana dall’essere spocchiosamente intellettuale e gli dona aria gioiosa e buffamente mistica. La sua voce profonda (che pecca solo per essere troppo vicina alle corde basse di De André) parte dagli abissi e ti strappa un sorriso storto. Perché nella loro satira, nel loro stile circense, i Nobraino trasmettono una gioia tesa, spensieratezza sull’orlo del precipizio, sempre senza utilizzare troppo schemi e ragionamenti.
Passano veloci tanti brani (molti dall’ultimo e ambrato “Disco d’oro”): tanta musica in questo show matto e divertente. Spicca nella prima parte “Record del mondo” a metà tra folk e rock’n’roll, quello dei padri fondatori, radice ben dura da estirpare. La band è precisissima e trascinante, il basso di Bartok pulsa come il miglior funky di Flea, Nestor Fabbri schitarra con inconfondibile stile da ganster jazz anni 40, Vix percuote serenamente le pelli, sta sopra le nuvole con spensieratezza degna di colui che suona con e davanti ad amici. E poi la trombetta di Dj Barbatosta dona pepe ad una pietanza già molto saporita e scatena da sola pogo e salti di un piccolo ma caliente pubblico.
Il momento più intenso è incastonato nell’unica ballata del set: “Film Muto”, puro diamante di musica pop italiana; un leggero e breve viaggio a mezz’aria, disegnando il cielo ma coi piedi ben saldi per terra.
Ogni canzone (anche le più frivole) sono poesie dritte e puntate al “cuore muscoloso”. La band cerca di dribblare il nostro cervello in questa ora e mezza di live. Ma quando lo tocca lascia un bel livido. Si ragiona poco in questa gara, ci sono tanto sudore e tanta velocità. Non c’è tempo neanche per una scarica neuronale, la frenesia di questo live concede al cervello pochi istanti, ma la band li sfrutta benissimo, con trovate al dir poco aguzze.
La corsa punta al “record del mondo di chi sta più bene” (“sarò esonerato da qualsiasi tipo di competizione” ci dice la già citata canzone) e prevede tra i vari contorni alle canzoni: una poesia di strada (improvvisata?) di Kruger su un bidone dell’immondizia in mezzo al pubblico, stacchetti comico-musicali degni del miglior Benny Hill e una costante interazione col persone ed oggetti del pubblico (divertente il contest da luna park: “centrare l’asta del microfono con un cappello di paiettes”). Si ride, si canta e si balla. E questa è la forza della loro semplicissima festa, dura e pura, che distrugge la razionalità e pompa brividi nello stomaco. E la loro musica è la perfetta colonna sonora: mai troppo snaturata dalla triste razionalità. Anche il cantautorato italiano allora può’ essere divertente.
Il finale è dedicato a classici come “La giacca di Ernesto” e “Bifolco”, che chiudono il siparietto. Palco e platea sono un tutt’uno in questo encore, tant’è che Kruger è più sotto che sopra il palco. Ci saluta e si dirige verso i camerini saltellando tra noi, a suo grande agio nella sua dimensione migliore. Quella di partecipante attivo della strampalata festa.
Devo proprio ammettere che ci voleva un concerto così, me ne ritorno a casa con il mio neurone che orbita pacioso e ben rilassato.

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