Coi Band of Horses avevo un conto in sospeso dal Rock in Idrho 2011, quando avevo cercato rifugio dalla calura estiva e dalla cappa mozzafiato che tirava su l’asfalto (non c’era neanche quella verdeggiante copertura sintetica usata nell’ultima edizione dell’Heineken Jammin’ Festival) allontanandomi sotto qualche stand proprio durante la loro esibizione. A mia discolpa posso dire che dovevo risparmiare sali minerali e forze fisiche per i Social Distorsion e Iggy Pop e che aspettavo fremente l’esibizione serale dei Foo Fighters.
Ad ogni modo, il 4 novembre scorso sono andata all’Alcatraz di Milano con l’intenzione di farmi perdonare: guadagnare una posizione tra le prime file e non perdermi neanche un secondo di show.
Sopportare la pretestuosa arroganza estetica e il poco talento degli opener, i Goldheart Assembly – londinesi, un tastierista hipster, un batterista con l’aria da hyppie ripulito, il chitarrista solista che fa il rumorista, il chitarrista ritmico che fa il solista e un bassista fact totum che da solo ridimensiona un pochino il mio giudizio negativo sulla band – mi è valsa la terza fila. Davanti a me fans insospettabilmente sulla quarantina accozzati alle transenne, di fianco e dietro un tripudio di barbe finto incolte, camicie a quadretti e maglioncini a righe, con l’età media che diminuiva man mano che ci si allontanava dal palco.
The great salt lake apre il concerto e insieme alle immagini paesaggistiche dello schermo sul fondale e alle stampe che rivestono le tastiere e le rastrelliere poggiachitarre (una scelta scenografica essenziale ma decisamente adeguata e di buon gusto) ci fa dimenticare di essere al chiuso in una grande città. E si respira, perché fin da subito i BoH regalano quella stessa sensazione che si ha in campagna, quel misto di libertà e tradizioni ritrovate.
I cinque sul palco hanno tutti una personalità e un ruolo ben definiti: Creighton Barrett è il batterista muscoloso con un tocco in realtà delicatissimo, una certa agilità e una buona cura delle dinamiche, Ryan Monroe è l’animo blues che investe i brani tanto da dietro le tastiere quanto con la chitarra a tracolla e le back voices (neanche troppo back, visto che la grana particolarmente calda e sanguigna della sua voce è stata più volte determinante per dare carattere al brano, sorprendendo chi non si aspettava proprio tanta grazia da un corpulento polistrumentista), Tyler Ramsey è l’asociale del palco, tutto avvolto nella sua camicia a scacchi e il viso nascosto tra barba e capelli, solo con un paio di serenissimi occhi azzurri che rivelano quanto se la stia spassando realmente, mentre Bill Reynolds è il fascio di nervi che tengono il plettro nella mano destra e aspettano il loro turno per riempire tutto di basse frequenze. L’insieme è magistralmente diretto da Ben Bridwell, che roteando il braccio scarabocchiato da tatuaggi improponibili marca stacchi ed entrate. Si guardano e si sorridono sempre, con un entusiasmo, una freschezza e una genuinità che sorprende: sarà la costante dell’ora e mezza di spettacolo, insieme alle sigarette di Bridwell che pure non sporcano assolutamente la sua voce, pulita come in studio, potente all’occorrenza e senza mai un cedimento.
La scaletta prosegue e il pubblico la riceve quasi inebetito e impotente fino a Laredo, quando finalmente l’Alcatraz si mette a cantare (con me in versione snob che un po’ mi risento per l’ovvietà di inserire questo pezzo, io che sto aspettando – alla fine invano – che facciano Detlef Schrempf). E da qui sono tanti i momenti veramente intensi: On my way back home, Powderfinger di Neil Young e soprattutto Infinite Arms. I BoH hanno un muro di suono caldissimo, che forse non ci si aspetta dall’ascolto domestico del cd. Lo giostrano magistralmente in un crescendo di emozione: Is there a ghost, Weed Party, Everything is gonna be undone e la recentissima e americanissima Knock Knock. L’apice però lo raggiungono con No one’s gonna love you: sul palco luci basse, solo Tyler che arpeggia con due dita, senza plettro, dando morbidezza e rotondità al suono, e Ben che non sbaglia neanche uno dei salti melodici che la canzone impone; sotto il palco, invece, coppie abbracciate che si sentono protagoniste di quel testo. E sorridono. E ci si rende conto che non è solo perché si ha una persona da abbracciare a un concerto, in un momento così romantico oltretutto, ma perché sul palco c’è qualcuno che da quasi un’ora continua a sorridere in modo contagioso, rimpallandosi sguardi complici. L’umanità dei BoH viene fuori con chiarezza in The Funeral, quando Bridwell ha la prima e unica incertezza di tutto il live: si dà il quattro ad alta voce per rientrare e sbaglia, sbavando le note della ripresa alla chitarra. “Oh shit, sorry” e un sorriso, imbarazzato questa volta, che non rovina per nulla il mood del brano.
L’encore dovrebbe prevedere The first song: la steel guitar è preparata dai tecnici durante la pausa, ma resta inutilizzata (non si sa se per un problema tecnico o per un semplice cambio di programma). Il concerto si chiude con Cigarettes, wedding bands e con la cover dei Them Two di Am I a good man. I Band of Horses non hanno fatto solo il compitino, anzi. Hanno dato prova di essere una band professionale e preparata, modesta come attitudine ma affatto mediocre artisticamente (non come sostenuto da Gianni Sibilla nella recensione di Mirage Rock su Rockol, in cui la formazione è definita “media”, in grado di soddisfare i gusti di un pubblico vasto e variegato, non eccellendo in nulla di particolare), con una passione e una carica probabilmente insospettabili da disco, ma che è sicuramente il punto di forza dei loro live e la loro migliore soluzione comunicativa.