Voglio narrarvi una storiella alquanto triste. Avete presente quando in strada o in un locale, dove diavolo volete insomma, incrociate lo sguardo di una donna e il vostro cuore inizia a battere i denti. Qualcosa di oltre il semplice piacere estetico, qualcosa di più assoluto. Vi fate forza, le dite qualche parola imbarazzata e stupida e voi sudate gonfi d’amore e poi sparite, entrambi, per sempre. O no. Sapete che quell’amore durerà per sempre ma poi, magari, la rincontrate e maledicendo Dio, capite che proprio in quell’istante avete smesso di amarla. Venerdì all’ex Wake Up di Pescara (si! Ha riaperto, almeno fino a maggio, con nome Zu::Up o qualcosa del genere (Zu::Bar, altro locale della zona andato in fiamme letteralmente qualche mese fa + Wake Up) sempre nella vecchia location) è accaduto qualcosa di simile. C’era il concerto di Zamboni, proprio lui, l’ex chitarrista e compositore di CCCP e CSI, le band che hanno segnato la nostra adolescenza “ribelle” a modo nostro, una delle più stravaganti e geniali formazioni che la fertile Emilia abbia mai prodotto. Lui è sul palco ed io lo osservo, curioso e intimorito mentre appoggiato al bancone mi gusto la compagnia di un Americano da cinque euro (lezione di vita numero 1 – Una consumazione all’ex Wake Up è sempre cinque euro, birra o cocktail. Fai la scelta giusta calcolando la proporzione a te ideale tra gradazione alcolica e gradevolezza). Sembra che il problema del tempo che passa non sia un suo problema, sempre uguale a quel giovane sognatore che con Ferretti vagava per la Mongolia. Mi vengono in mente mille ricordi, di amici svaniti, serate passate sotto un ponte, tra materassi vecchi, Peroni ad ascoltare Zamboni. Poi il concerto inizia. Lui solo sul palco, con chitarra, i suoi testi e qualche base. Ed io mi rendo conto che qualcosa sta per accadere. Le mie emozioni di cristallo cominciano a farsi in mille pezzi. Con una voce improponibile e testi pseudo impegnati, alterna canzoni che paiono semplici bozze a brani Spoken Words talmente anacronistici che puzzano come cadaveri imbalsamati e rispuntati dalla terra in un’altra dimensione spazio temporale. Siamo circa trenta persona. Quasi tutte siedono a terra, ai piedi del palco. Trepidamente in silenzio, si applaude con fare incerto. Qualcuno sembra apprezzare. La realtà mi sembra lontana. Vedo una mescolanza di ragazzi diversi, spaesati, che si chiedono perché sono lì. Altri hanno paura di urlare “Che è ‘sta merda” per timore di apparire ignoranti. E tanti sembrano rispettare più che gradire. Di scatto mi alzo e decido di andare. Non resisto che quasi mi viene da piangere. Tutto troppo imbarazzante, per me, per lui, forse anche per chi mi ha chiesto dieci euro. Punkow è crollata sotto i bombardamenti tanti anni fa. E noi neanche ce ne eravamo accorti. Il volto di Zamboni è Dorian Gray. La sua musica, il suo dipinto.
Live Report
Paolo Benvegnu
Non è solo un talentuoso cantautore che si esibisce dal vivo su un palco, Paolo Benvegnu.
E’ un performer a 360 gradi. Un interprete, un teatrante, un clown contemporaneo che riempie il palco con la sua presenza scenica creando ironie e paradossi , giocando con le parole come se fossero le corde della sua chitarra.
Un Benvegnu che fa ridere, che sorprende, che stupisce, intrattenendo il suo pubblico e divertendosi insieme a lui.
Ad un certo punto ci racconta che lui parla una lingua straniera e che noi riusciamo a capirlo solo perché hanno inserito una polverina strana dentro le nostre bevande.
Abbattendo la quarta parete come si dice a teatro, si mette completamente a favore del suo pubblico. Mostrando quello che è: Un personaggio assolutamente autentico, quello che due minuti prima ti fa l’imitazione di un recente Piero Pelù e subito dopo ti commuove con canzoni in acustico come Cerchi nell’acqua, immancabile brano del suo repertorio insieme a Rosemary Plexiglass.
Un repertorio che, se non di modifica molto nel contenuto, è ogni volta una sorpresa nella forma. Un trionfo di improvvisazione su una scaletta solo abbozzata, oggetto di continue sperimentazioni e rimodellamenti. Plasmata da Benvegnu stesso sulla base anche delle sue evoluzioni. Come uomo prima che come artista.
Chiunque lo conosce percepisce e apprezza il fatto che lo spettacolo non sia mai uguale a sé stesso. Per questo conosco gente che Benvegnu se lo va ad ascoltare ogni volta che gli sia possibile. Per questo vi invitiamo a seguire le sue prossime performances live. Da non perdere.
Tv Lumiere
Scena 1: Interno Notte
Introducono il live dei Chaos Physique i Tv Lumiere. Talentuosa band
Ternana che da anni fa parte del circolo virtuoso dell’etichetta indipendente Acid Cobra Records, figlia del buon Amaury Cambuzat, che dei Chaos è voce e mente geniale.
Al di là di un palco fumoso il battito accellera sulle prime note dei
brani di ‘Addio amore mio’, ultimo lavoro che i Tv Lumiere portano in tour da diverse
settimane. Arrivano i brividi quando Federico, il cantante, inizia ad
accarezzare le corde della sua chitarra con l’archetto di un violino, per
dare vita ad una danza a volte lenta a volte convulsa con lontani echi di Ian
Curtis che, come Federico mi confermerà poi, è un riferimento costante della band.
Esplode il cuore con il brano finale, tratto dall’album di esordio ‘Tv Lumiere’.
Un’invocazione e mille evocazioni per una band che negli anni è stata
capace di creare uno stile assolutamente personale, low-fi in modo originale e
non facilmente replicabile.
Non sono animali da palcoscenico, formalmente parlando, i Tv Lumiere.
Performano con lo sguardo fisso sull’orizzonte della quarta parete ma, nonostante questo, quello che la loro musica genera è un flusso di innamoramento reciproco e continuo tra loro e il pubblico che li ascolta.
Non ti guarda Federico mentre canta. Non ammicca, ma cazzo quanto lo senti.
Scendono dal palcoscenico e mi complimento sinceramente con loro.
Bacchettandoli più tardi perchè, nemmeno questa volta, “mi hanno fatto” i Gatti”.
Scena 2_Sempre interno notte:
Il live all’Init.. continua con l’ascesa sul palco di Amaury Cambuzat e i suoi Chaos Pshysique.
Un uomo e musicista geniale, Amaury.. un essere speciale per citare qualcuno più famoso di me.
Sta alla voce e contemporaneamente sbatte sulle tastiere o fa l’amore con la sua chitarra. E’ con tutto il corpo che suona mica solo con le mani. Il caos fisico è tutto concentrato su di lui e sull’energia nervosa che riesce a trasmettere in un mix scellerato di noise punk e buona psichedelia. Progetto interessante e caotico 1975. Etichettato Jestrairecords.Uno di quei progetti che prende la forma di colui che lo plasma con le sue nude mani. Un disco di cui ri-sentirete parlare.
ZEN CIRCUS, BUSKING A TORINO
Tutto ebbe inizio con un loro pezzo ascoltato nella compilation del 2009 “Il Paese è Reale”, idea di Manuel Agnelli per promuovere con il consolidato marchio Afterhours un po’ di realtà del nostro stivale. Degno di nota, per carità. Però in quell’album la traccia 13 (insieme a molte altre a dire la verità) la mandavo sempre avanti.
La trovavo fine a se stessa. Catastrofica e poco significativa per il mio ego musicale e per il mio spirito. Insomma, non assolutamente fastidiosa come il brano degli Zu, ma decisamente insapore. O meglio ardentemente desideravo fosse insapore. Ma tutte le dannatissime volte che mi dimenticavo di mandarla avanti, mi infastidiva un po’. Non mi scorreva addosso come l’acqua della doccia, non mi entrava e usciva dalle orecchie senza ostacoli come la parentesi sulla Formula 1 al telegiornale. Con quella frase all’inizio che distrugge la poca educazione religiosa che ti rimane dal catechismo: “La storia ce lo insegna che se Dio esiste è un coglione”. Con quel riff così sporco e quella cattiveria così gratuita e arrogante.
Qualche anno dopo (ovvero pochi mesi fa) grazie al web social approccio per curiosità un manciato di brani degli Zen Circus e scopro di provare per loro la sensazione che già ho provato la prima volta che ho visto un film di David Lynch: estremo, razionalmente non mi rappresenta, senza freni, ma divarico appena le dita delle mani che mi coprono gli occhi e faccio entrare questa oscura magia dentro di me. La differenza ora però è semplice. Mentre Lynch è reale solo nel suo (e forse anche un po’ nel mio) strampalato cervello, gli Zen Circus sono reali nei palazzi di periferia, nella disoccupazione, nella bestemmia, nello spietata lotta al qualunquismo, in questo baraccone di falsi eroi, nell’Italia di Berlusconi (che non mi pare proprio sia finita). Insomma sono reali nella truce quotidianità. Oscuri più di Lynch, perché il loro buio lo vedi tutti i giorni in giro e non solo nel tuo malato cervello, ma i nostri pisani ci ridono sopra sarcasticamente e l’oscuro lo fanno cantare con le loro canzonette. Pazzesco.
Insomma, di tutti i 19 artisti scelti da Agnelli e soci, scopro che questi sono sicuramente i più “reali”. E alla fine vinco le mie stupide tare mentali e me li faccio piacere, fino ad adorarli proprio! Amo contraddirmi in questi casi, anche se non amo ammetterlo.
Pochi mesi dopo mi ritrovo ad uno loro concerto, a Spazio 211 a Torino. E’ il mio primo concerto degli Zen Circus e pare per giunta essere un live molto acustico (il tour è stradaiolo, ha l’inconfondibile sapore del tintinnio della moneta nella custodia della chitarra, tant’è che porta l’inequivocabile nome: “Busking Tour”). L’acustico si sa è la prova del nove, dove emergono le magagne spesso coperte dal baccano elettrico e la scarnificazione della canzone puo’ a volte riservare spiacevoli sorprese.
Sono dunque un poco scettico, continuo a far valere il mio testardo pregiudizio, guardando lo stage con occhio critico prima dell’arrivo dei ragazzi. Anche perché ad aprire la serata c’è il cantautore torinese Stefano Amen, che non mi convince molto né per l’andamento stanco del suo moderno cantautorato, né per il piglio troppo profetico, che non si addice troppo alla serata circense che si aspetta.
Ma dopo un brevissimo cambio palco, tre magri ometti salgono sul piccolo stage dello Spazio 211 di Torino e risultato? Mi becco un bel “vaffanculo”, che si sa i ragazzacci pisani non hanno alcuna remora a invitarti a visitare luoghi poco profumati. Perché citando proprio un loro verso: “A chi critica, valuta, elogia, figli di troppo o di madre noiosa”. E siccome io non mi sento nè di troppo (dato che sono primogenito) nè di madre noiosa, capisco il mio errore e la smetto subito, mi limito dunque a raccontare.
Con “Atto secondo” si aprono le danze, la potenza è impressionante. Una bizzarra formazione (ma in generale, non solo in questo live direi) con Appino e Ufo sempre appiccicati ai loro legnetti acustici e Karim picchiatore di cartoni dell’Ikea e innaffiatoio (notare innaffiatoio come tom, non ho captato la differenza con le pelli finché non ho visto il beccuccio verde dell’irrigatore in plastica), un vortice di elettricità che vibra dalla purezza del legno (e della cartone e della plastica), distorta dai loro tocchi violenti, incazzati. Si, perché gli Zen Circus possono suonare pure il triangolo e gli xilofoni, ma rimangono la band più incazzata d’Italia. E non c’è volume e distorsione che tenga.
Il gruppo scherza tra un’accordatura e l’altra manco fosse in garage con quattro amici di vecchia data, i tre pisani sembrano meno incazzati quando se la ghignano tra di loro insultandosi a vicenda senza mezze misure. Poco professionale, ma molto sincero.
La prima parte di scaletta scivola via e incanala un classicone dietro l’altro. Si passa da “Ventenni” a “Gente di Merda” (in acustico ora mi piace quasi e non perde il tiro del riff incalzante), da “Figlio di Puttana” a “L’amorale”. Il pubblico del piccolo club torinese è calorosissimo e scatena ad ogni pezzo un tripudio di sfogo e di liberazione.
Se andiamo a guardare bassi tecnicismi, la band dimostra di sapere suonare, come per me si suona dal vivo il rock’n’roll: sudore e nervi. Lo si nota bene nella cavalcata finale di “Andate tutti affanculo”, vera e sanguigna, anzi sanguinolenta. Perché gli Zen sanno fare male con le loro affilate parole, mai troppo forbite e mai troppo banali. Hanno la schiettezza di saper utlizzare il sarcasmo nel degrado, pochi scrupoli di coscienza insomma, pochi come ce li facciamo con i nostri amici stretti nel parlare del più e del meno. E questo li rende pazzescamente reali.
A metà concerto Karim, vero showman della band, imbraga un’improbabile asse metallico (un’asse di una sedia?) e, spiattellandoci sopra le sue manone impreziosite di anellazzi, genera groove, arte in cui il pirata toscano pare essere ben dotato. Qui si intonano un paio di canzoni (per intenditori) da “Villa Inferno” e infine “Ragazzo Eroe”, e si scatena un bel pogo stile “anni 90”. Tempo per Karim di ritornare alle pelli (e cartoni e plastiche) che Appino fa cadere neve e stelle comete (e forse anche qualche santo) dal soffitto dello Spazio 211 con “Canzone di Natale”. Anche qui il Circo apre una parentesi cabarettistica scherzando sull’incarcerazione dello spaccino Abdul ma “tranquilli con l’indulto tra poco lo tirano fuori”, ci dice Ufo con il suo buffonissimo accento toscanaccio.
Un attimo di “snobbismo”, un baleno di dieci secondi, in cui la band fa la finta, esce ma rientra subito per gli ultimi pezzi. “Milanesi al Mare” è perfetta in questa versione da strada e non perde affatto lo spirito sixties, un bel boogie per affondare il macigno dei pensieri in questo tragicomico scenario.
Poi accade ciò’ che da un lato speravo, la ciliegina sulla torta che rende questo spettacolo uno dei più veri e onesti che io abbia mai visto. Gli Zen Circus scendono dal palchetto del locale con basso e chitarra acustici e un cajon di cartone (proprio acustici qua, senza neanche l’impianto) e si mettono a strimpellare “Ragazza Eroina” in mezzo a noi. Ma la cosa incredibilmente vera è un’altra e la noto davanti ai miei occhi. Appino pesta il piede di un ragazzo dietro, smette di cantare e chiede scusa.
Gli antieroi sono loro. Talmente vicini e onesti che non potresti mai pensare che oggi siano i migliori sulla piazza. Ma non esageriamo con gli elogi se no “affanculo” mi ci rimandano per la seconda volta.
La Nuova Onda dei Diaframma
Un amico che suona per i suoi amici.
Si potrebbe descrivere così il concerto di Federico Fiumani, leader dei Diaframma, tenutosi il giorno 2 Marzo presso il locale Riunione di Condominio.
La stanza qualunque di una casa qualunque, un palchetto minuscolo, e un live da brividi per una delle figure di riferimento della cosiddetta New Wave Italiana anni 80, in particolare quella Fiorentina che vede in prima linea anche i Litfiba di Desaparecido e i Neon.
Un genere curioso la New Wave, che negli anni ha avuto evoluzioni complesse, contaminazioni continue e nuove ispirazioni.
L’onda di Fiumani oggi si chiama “Niente di serio” nuovo disco in promozione questi giorni.
E Federico, Venerdi sera, sembrava aver davvero voglia di “niente di serio”: Ha scherzato con il suo pubblico, spesso si interrompeva per fare una battuta, a volte dimenticava le parole.
Ma i suoi fan, gli affezionati, lo amano proprio per questo.
Perché Fiumani, nonostante tutto, è rimasto un Puro. Perché Fiumani quando finisce il concerto il palco se lo smonta da solo, si rimette la sua giacca a vento e senza troppo clamore si mischia tra la folla come se fosse esattamente uno di loro.
Lontano dal glam del pubblico di massa, quello a cui negli anni si sono più avvicinati gli eterni rivali dell’epoca, i Litfiba, Fiumani se gli stai simpatico il nuovo disco te lo regala pure.
Io mi sono avvicinata per fargli alcune domande e tra l altre cose, abbiamo parlato di che senso abbia parlare di new wave oggi.
Siamo giunti insieme alla conclusione che, come per altre forme d’arte, qualsiasi etichetta è giusto un elemento funzionale a categorizzare una mole di materiale altrimenti non codificabile.
Federico è un puro ma è tollerante: Non giudica male gli artisti che si avvicinano ai circuiti Mainstream, così come non critica il compromesso artistico, se fatto bene.
Mi dice che secondo lui “L’artista deve essere sempre infedele” perché lo scopo dell’arte è mettersi continuamente in discussione. Mi dice di no anche quando, un po’ faziosa, gli chiedo se i MK, andando a S. Remo, si sono sputtanati.
Io a questo Fiumani già gli voglio un poco bene.
Namless Crime + Ephesar
Namless Crime + Ephesar Live@Sea Legend (NA) 26 Febbraio 2012
Tanti e diversi sono stati gli ospiti che hanno calcato il palco del Sea Legend, un locale di Pozzuoli che ultimamente sta diventando una vera garanzia e notando le prossime programmazioni ci aspettano grandi sorprese. Domenica 26 Febbraio al Sea Legend si sono esibiti i Namless Crime, una band partenopea dedita al thrash metal, carichi di un nuovo disco intitolato “Modus Operandi” e con alle spalle diversi anni di carriera. Veniamo adesso allo show che è stato piacevole in una maniera inaudita in cui oltre agli attesissimi Namless Crime c’ erano anche gli Ephesar che vantano la presenza della talentuosa Aurora, sentita già all’ opera nei Five Sided Room. Ad aprire le danze sono stati proprio Aurora e soci con il loro Rock dalle vene Progressive e nel Gothic, la loro prova è stata davvero apprezzata dal pubblico, tanto che alcuni ragazzi hanno partecipato ai diversi ritornelli delle loro canzoni. Il solo intoppo è stato trovato nella regolazione degli strumenti che erano troppo alti e spesso la voce di Aurora veniva coperta, la giovincella però ha degli alti non indifferenti per cui molte volte è riuscita a cavarsela. Canzoni che hanno colpito sono state “Labirinto”, la successiva “Custode delle Ombre” e la possente “Prezzo della Vendetta”; ottima prova anche per “Weight Of The World” una cover degli Evanescence riuscita davvero bene. Tutto sommato, gli Ephesar hanno dimostrato di saperci fare, siamo fiduciosi e auguriamogli la buona fortuna per il percorso intrapreso che di questo passo ci sbalordiranno. Solo verso la mezza si comincia ad allestire il palco per i Namless Crime. La band sale carica e con tanta voglia di suonare e mostrare di che pasta sono fatti, Dario, il vocalist del gruppo è pieno di energie e come suo solito ce la mette tutta come d’ altronde ha sempre fatto. Un altro complimento va a Maddalena Bellini che con i suoi riff crea un vero e proprio caos, personalmente non mi aspettavo di trovare una musicista di questo calibro, il gruppo è maturato e si sente, l’ esibizione che hanno tenuto al Sea Legend è stata a dir poco eclatante. I Namless Crime partono come macigni con la potente “Jesus Square Suicide” continuando con l’ altrettanta grintosa “Crumbling”. La vetta però per quanto riguarda il sottoscritto, viene raggiunta con “Climb” e “Sleepwalking”, quest’ ultima tratta dall’ ultimo album. Proprio dal loro nuovo disco il quintetto napoletano ci fa ascoltare anche le seguenti tracce: oltre la già citata “Sleepwalking”, c’ era “Under The Bridge Of Sanity” che è un altro pezzo da novanta, “Unsigned” e “Tested”. Domenica abbiamo assistito ad uno show con i fiocchi, spero vivamente di riuscir a presenziare ad un’altra loro data che credetemi ne vale davvero la pena.
AQUEFRIGIDE
AQUEFRIGIDE + TANNHAUSER
Venerdì 20 Gennaio 2012 @ Tipografia – Pescara
Primo atto dell’eroica impresa di Frantic Factory, un appuntamento mensile con l’estremo (almeno per il momento). “Revolution is Heavy” recita lo slogan apparso sui social network e sui flyer in giro per la città, e siamo certi che di rivoluzione si tratti.
Luogo designato per questo happening della Pescara alternativa è Tipografia, locale già noto per le sue derive electro-danzerecce, ma finora poco avvezzo ad ospitare chitarroni distorti e urla sguaiate.
Il colpo d’occhio è dei migliori, gran bel posto, situato in un circondario completamente industriale, tra il grigiore dell’asse attrezzato e le fuliggini del cementificio, habitat ideale per le creature della notte in cerca di luoghi bui.
L’antipasto è a base di stoner metal intinto nel fango, dal retrogusto lisergico e imprevedibile, e porta il nome di Tannhauser. La band pescarese vede tra le sue fila due volti noti del rock nostrano, quali Sergente e Franz degli Zippo, entrambi chitarristi nella band madre, qui rispettivamente in veste di chitarrista e cantante. Ottimo groove alimentato dalla pulsante sezione ritmica, suono corposo e voce potente che non ci pensa due volte ad urlare tutta la propria rabbia. Aspettiamo questi quattro ragazzi al varco, con il primo lavoro che ci auguriamo giunga a breve.
Il piatto forte della serata è finalmente pronto per essere servito. Gradito ritorno per Bre Beskyt Dyrene aka Simona La Muta e della sua splendida creatura Aquefrigide. Un mix più unico che raro di alternative rock, metal, punk, grunge e industrial, per una band che meriterebbe certamente più attenzione dagli addetti ai lavori. Diversi mesi di stop hanno portato ad un ri-assestamento della line-up e la band romana torna ora ad essere un quartetto, mentre Simona torna ad imbracciare la sua chitarra fiammante e a fronteggiare la Transexual Riot.
Poche e fioche luci illuminano la scena, mentre nella sala ragazzi e ragazze in totale venerazione attendono con ansia di venire travolti dalle note di Mephisto Hobbit, Orighami, Carne Cruda, Freddo Mercurio, e ancora In Che Depressione Suono, Svastika, Soffio Veleno, Detesto, e così via. Vengono proposti i migliori episodi elettrici di Un Caso Isolato (2006) e La Razza (2009), ad oggi gli unici due oscuri reperti del combo capitolino.
La partecipazione del pubblico è attiva e concitata, e i testi duri e crudi di Simona lasciano davvero qualcosa di indelebile, come anche i volumi elevati, come si addice al galateo del rock.
La band fa appena in tempo a lasciare il palco quando è costretta ad uscire nuovamente allo scoperto per eseguire una manciata di altri brani, tra cui la bellissima Ago Primavera, graditissima.
Mi auguro che gli Aquefrigide riescano ad ottenere i riconoscimenti che meritano, poiché in un ambiente ormai totalmente a puttane come quello della musica italiana – e soprattutto cantantata in italiano – riescono ad essere ancora “puri”.
Un inizio, questo, che fa ben sperare e che punta a collocare Pescara tra le realtà che contano. L’accurata selezione di Frantic Factory propone nei prossimi appuntamenti i Forgotten Tomb (17 febbraio) e gli svedesi Siena Root (9 marzo), mentre altri eventi verranno annunciati a breve e si preannunciano esplosivi.
Fabrizio Cammarata and The Second Grace
blah blah Torino.
Sono passati quattro anni dall’ultima apparizione di Fabrizio Cammarata sui palchi torinesi: se non sbaglio nel2007 alla Fnac per promuovere il primo disco, poi all’Hiroshima l’anno successivo…per uno come me che crede le sue canzoni siano state scritte su misura, quattro anni sono stati lunghi eccome! Partito dalla Sicilia con Marco Petrigno che in quell’occasione rappresentava i The Second Grace, in nave, durante i giorni di mare mosso, mi pareva già un ottimo motivo per essere in prima fila e lasciarmi trasportare dalla passione che sprigiona quando imbraccia una chitarra. In un clima assolutamente caldo, locale piccolo ma accogliente, Fabrizio ci presenta il suo nuovo album Rooms (di cui potete leggere recensione qui https://www.rockambula.com/fabrizio-cammarata-the-second-grace-rooms) ma non solo. É un concerto che sa di chiacchierata,propone pezzi del primo album (toccante la performance di Sapphire, suonata senza amplificazione e ad occhi chiusi, esattamente “così come era nata”), ci racconta come nascono le sue canzoni; Antananarive ad esempio, forse il pezzo più conosciuto di Fabrizio, scelto anche per una nota pubblicità televisiva, nacque di getto, dopo aver scoperto che l’amore della sua vita era appena fuggita in Madagascar senza preavviso. Oppure Myriam (traccia n° 7 di Rooms), scritta per una donna incontrata per strada e mai più vista.
La passione che trasmette è il modo in cui si cala nella canzone, quasi come esplodesse dentro pur di uscire (esemplare nell’interpretazione di una vecchia canzone messicana, Llorona che potete ammirare qui cantata in una precendete esibizione
, contagia tutto il pubblico che apprezza tantissimo. Senza dubbio un Artista con la A maiuscola. Plauso anche a Petrigno, anch’egli cantautore siciliano, che accompagna Cammarata un po’ alla chitarra, un po’ alle percussioni, un po’ alla tastiera; perfetto complice di una serata che si scalda con il passare dei minuti, purtroppo pochi. Un’ora scarsa, applausi sempre in crescendo.
Ho avuto il piacere di scambiare due parole con lui dopo il concerto, mi raccontava della sue esperienze al SXSW di Austin, uno dei più grandi festival degli Stati Uniti, e delle sue prossime date in Italia, del suo vivere di musica. Ho comprato il cd direttamente da lui, e sono tornato a casa felice come un bambino.
Prossime date: fatevi trasportare dalla sua musica, non ve ne pentirete.
09/03/2012 – Milan (I) – Radio Popolare / Pathanka
11/03/2012 – Mantova (I) – La Tana del Drago
12/03/2012 – Padova – Blu Radio Veneto host
18/03/2012 – Milan (I) – Magnolia (ViaAudio-Night)
07/04/2012 – Salerno (I) – Sol-Palco
Christine Plays Viola
Una pioggia insistente a volte diventa un ottima cornice per abbellire le proprie serate, la musica poi riesce a fare tutto il resto, non siamo in Inghilterra. Nel senso che tutto potrebbe andare nel modo migliore, lasciarsi graffiare il volto dalle gocce perseveranti, siamo lontani dalle calde giornate estive. È uno dei concerti dei Christine Plays Viola nella plumbea ma affascinante Sulmona, questa sera il live prende vita nello scenario del Silver pub. Insolita ma sempre affascinante location, si gioca quasi in casa ma questo potrebbe rivelarsi controproducente, la lingua batte sempre sul dente che duole.
Band giovane giovane che apre e cover band che chiude, i CPV nel mezzo come un cuore piazzato nel petto, una micidiale pugnalata sullo sterno. Poi tanta new wave negli ipnotizzati occhi attenti nel percepire tutto quello proposto dallo spettacolo, le orecchie ormai abituate a certe elevatezze sonore non faticano mai, ubriaco di suoni giusti, la voce è complice della mia commozione. Si alza il sipario per i CPV, scende il doveroso diritto di aguzzare i sensi e lasciarsi trasportare fin dove sia impossibile arrivare, lo show poco italiano cala un aria nordica nell’afoso locale intriso di caldi aliti alcolici, i riff capovolgono la stanza aumentando vertiginosamente la pressione al cervello, mi lascio manipolare a modi cubo di Rubik. Ad averlo ancora un cervello. Poi tutto improvvisamente finisce lasciando in bocca un amaro indescrivibile, una sensazione molto vicina alla nostalgia, Atmosphere dei Joy Division è quello che meglio descrive questa strana sensazione. Del resto non mi frega niente, di tutto adesso non mi frega niente. Conferme ampiamente ribadite dalla migliore band dark new wave dell’attuale scena indipendente italiana, continuiamo ad ignorare queste realtà e la merda pian piano ci entrerà prepotente nella bocca. Questa è una delle poche cose che mi rendono orgoglioso di abitare nel centro Abruzzo. Poi scende la notte.
Zen Circus
Un concerto degli Zen Circus è sempre un buon concerto, questo ormai è assodato, non c’è scusa che regga, l’orecchio vuole sempre la sua parte. Il mio ne ha già sentite troppe. Questa volta allo Zu:Bar di Pescara c’erano tanti piccoli piacevoli motivi per andare, location a portata di mano, venerdì sera e Zen Circus freschi di nuovo album. Loro si sa, dal vivo sembrano punkettoni casinisti ma sono pur sempre la migliore band italiana del momento, i loro pezzi profumano sempre di freschezza, la voglia certamente mi spinge ad osservarli ogni benedetta volta con attenzione maniacale. “Nati per subire” il loro ultimo disco raffigurava perfettamente la gran parte dei presenti insofferenti quella sera, tipi strani non del settore che in nessuna maniera riuscivo a collocare, eppure la discoteca c’era il giorno dopo (o prima?!), o forse Zen Circus assomiglia vagamente a qualcosa dell’ambiente house music tirando un tranello ai consumatori ignari della serata? Mah, mi consolo nel vedere gli scatenati (veri ma pochi, e ce ne sarebbe bisogno…) fans pogare e cantare sotto il palco, loro si che meritano rispetto a dispetto di un acustica orribile e un ambientazione noir forse non proprio adatta ai colori dell’indie rock, una bara saldata con zinco scadente e cerimoniata in maniera maldestra. Fortuna che le birre non mancano mai e la serata scivola liscia come non mi sarei mai aspettato visti gli acidi contorni con i quali mi ero in precedenza confrontato. La scaletta inevitabilmente comprende tutto il nuovo disco ed immancabili pezzi che hanno fatto la storia della band che registrò un disco con Brian Ritchie, ma questo ovviamente lo sapete tutti.
Concerto di qualità per aridi orizzonti senza vie di scampo, iniziative che andrebbero supportate e moltiplicate per un educazione musicale nostrana ai limiti del collasso. Avete voglia di vomitare? Oppure ne avete abbastanza e cercate di alzare nuovamente quella testa troppe volte schiacciata?
Il sentimento alternativo chiede rivoluzione per non lasciarsi sempre sovrastare da situazioni indigeste, nel bene e nel male è stata una bella serata. Almeno per una volta abbiamo provato a farci sentire…
Dente
9 Dicembre @ Zu:Bar Pescara
È passato più di un anno da quando ho visto Dente strimpellare dal vivo la prima volta. Eravamo in un paesino sperduto dell’Abruzzo, non ricordo neanche il nome. C’era un grande palco, c’erano i Bud Spencer Blues Explotion a scaldarci, c’era una piccola folla festante come solo alle sagre paesane. Eravamo in estate, all’aperto e le voci e l’odore di arrosticini e salsicce si mescolavano alla brezza e al sudore, senza minacciarci, senza infastidirci. Abbiamo passato tutto il tempo tra quella sera splendida e oggi a cantare e parlare, ridere e scherzare, dell’appuntato Mazzolino, di Irene, di uno strano tipo di Fidenza e della sua ex compagna un po’ stronza. Dente ha inciso un nuovo lavoro. Le sue canzoni hanno bevuto vino e birra con noi quest’estate. Ormai è un nostro caro amico del nord.
Dente è a Pescara, allo Zu::Bar. Che facciamo? Non possiamo non andare a salutarlo. Andiamo. Raccogliamo i più romantici beoni del paese, barboni dentro, innamorati dell’amore, allegria, semplicità, qualche euro e via. Don Gennaro ci regala un po’ di gioia intrappolata in una bottiglia di plastica. Tre euro è un prezzo onesto per la felicità. Arriviamo al locale, siamo sulla Tiburtina che unisce Pescara a Chieti, siamo nella savana. Attenti ai predatori più feroci della zona. Sbirri, strane creature che si nutrono della nostra disperazione, dei nostri incubi. Questo è il loro territorio. Ma noi siamo furbi, almeno fino a quando non siamo ubriachi. E comunque non abbastanza furbi da far caricare le nostre carcasse sulla navetta che “viene a prenderti dove vuoi, quando vuoi”. Sì, come no! Se un ritardo di un paio d’ore che potrebbe costringerti a fiondarti in macchina fino a sotto il palco, appena in tempo per spararti Zen Circus a palla direttamente nelle caviglie, non rappresenta un problema. Noi arriviamo prima, quasi due ore prima, altro che navetta. Possiamo bere un po’ di vino al sicuro mentre Dente dallo stereo ci racconta dell’amore e ci invita a stanarlo, passando dalla porta sul retro, senza bussare. Esaurite le riserve Terra di Chieti, è probabilmente ora di avvicinarci alla roulotte che serve da botteghino. Siamo i primi, quasi. Possiamo entrare senza fare file e senza altri problemi. Ahahahah. Come siete ingenui.
Lo Zu::Bar è una sorta di troia che si crede pulita perché ti dà il culo, ma non ti bacia.
“Possiamo entrare o serve la tessera ARCI ?”
“Serve la tessera”
“Possiamo fare la tessera?”
“Non ho i moduli; avreste dovuto fare la preiscrizione on-line”.
“Ma l’altra volta non era necessaria”
“Oggi si”
“E quindi abbiamo fatto settanta KM a vuoto?”
“Non posso farci niente”
Intanto la folla aumenta, tanti chiedono dell’iscrizione. Il . tempo . scorre . lento .
“Sono arrivati i moduli, potete fare l’iscrizione”.
“Posso entrare almeno io, che la tessera l’ho già fatta?”
“Non potete ancora entrare, il botteghino è chiuso”.
Accenno al fatto di essere in lista ma capisco che l’utilità è pari a quella di una figa al The Blue Oyster Bar.
Una ressa si muove come un blob fagocitando moduli e penne, mentre aspettiamo il botteghino. Forse se mi facevano entrare, il bar guadagnava qualcosa in più, ma aspettiamo.
Passano ore e per l’ennesima volta:
“Ma il botteghino ancora non apre?”
“Si che ha aperto, ma non è questo. Qui è solo per le iscrizioni. Devi andare all’altro finestrino della roulotte, un metro e mezzo a sinistra”.
“E quando cazzo avevi intenzione di dirmelo che sono ore che aspetto di fianco a te, distribuendo moduli e penne a un ammasso di poveri disperati, neanche fossimo alla mensa di San Francesco?”
Intanto la folla è diventata enorme e quel metro e mezzo è stretto e ruvido come l’ano di Rosy Bindi.
Arriviamo al botteghino e con un imperioso stacco alla Shearer riesco a prendere il biglietto. Sono dodici euro per il concerto e dieci euro per tre tazze, perché accetto la promozione (che è per tutti, non solo per quelli in lista come mi avevano detto credendomi idiota) che mi fa risparmiare due euro a bicchiere. Che culo. Che generosi. Ah, il Natale. Perfetto, entriamo.
Aspettiamo, un rum e cola, aspettiamo, prendiamo posto, aspettiamo, una tipa ci regala pacchetti di Pall Mall semi aperti, aspettiamo, ci spostiamo, aspettiamo, un rum e cola, aspettiamo, ancora la tipa che non ci riconosce e ho le tasche piene di morte, aspettiamo, seguiamo la tipa e non compreremo sigarette per un po’, aspettiamo, la tipa ci riconosce, aspettiamo, vaghiamo dal balcone al centro della pista, aspettiamo, un rum e cola, i ticket sono finiti, aspettiamo e il barista ci offre un cicchetto, aspettiamo, ci spostiamo nella sala rude del locale, dove fumiamo e beviamo birra rubata chissà a chi, ascoltiamo i Rage, aspettiamo e andiamo al cesso. Manca la porta. Una ragazza (chissà chi sarà…mmmhhh) ne stacca una e la sistema, dove una porta avrebbe dovuto effettivamente essere, aspettiamo. Dopo aver aspettato un po’ (mettete qui i simboli delle bestemmie tipiche dei fumetti) il concerto ha inizio. C’è gente, non moltissima, non buonissima. I soli fotografi improvvisati che decidono di farti mescolare le vertebre del collo alla ricerca di un pertugio visivo, i tipi che sono venuti al concerto, ma fanno i duri parlando di Peveri e deridendolo come se per loro fosse un idiota (loro che, ricordo, hanno speso dodici euro, bevande escluse, per essere qui), qualche ubriaco che fa sempre bene a un Live e un po’ di ragazze esagitate. Insomma il classico pubblico Indie, diviso tra snob, fighette, inopportuni e “io sono qui perché non so che cazzo fare e il biglietto costa meno che andare in discoteca”.
In un attimo il concerto è finito.
Ma come, cazzo. Abbiamo cantato e ci siamo divertiti ma resta uno strano amaro sapore tra le labbra che puzza d’inappagamento. Volevamo che Dente cantasse con noi le sue canzoni più belle, più nostre, più tristemente ironiche e invece per quasi tutto il concerto ha fatto promozione all’ultimo album “Io tra di Noi”. So che tante band fanno cosi, ma lui è diverso. Credevo. Ha scherzato con la gente, ha fatto battute come sempre e discorsi senza senso, ma mi è sembrato molto più lontano rispetto all’ultima volta che lo abbiamo visto vivo. Più maturo, forse. Come il suo album, del resto. Forse col successo ha troppe cose cui pensare e la spensieratezza svanisce sotto il peso delle responsabilità, qualunque sia la sua grandezza. Come rapito, me ne torno a casa con la testa ancora sotto il palco a giustificare un live che in fondo non mi è piaciuto troppo. L’ultimo album è il migliore dei suoi ma rende meno dal vivo, specie se suonato per intero. Forse è stato costretto a fare cosi. E poi, poco importa, perché a Dente gli vogliamo comunque bene, no?
Senza accorgermene mi ritrovo nel letto con la scardinatrice di porte e continuo a giustificare la serata. Non sarà sempre cosi. E’ stato solo un episodio negativo e nulla più. Mezzanotte è passata ormai e mentre stanco, medito e il sonno comincia ad abbracciare la mia testa, un pensiero continua a picchiare alla finestra della mia anima. Solo un episodio e nulla più…mentre mi addormento, e nulla più.
Paul McCartney – On The Run Tour
Il fan dei Beatles è una bestia rara. Si è rara, sebbene credo siano centinaia di milioni i fan devoti al quartetto di Liverpool. E’ principalmente bestia rara perché in media è un disadattato. Fin qui niente di particolare: tutti i fan di gruppi vetusti sono ad ora degli instancabili nerds. Ma attenzione: a differenza dei fan di Led Zeppelin, Bob Dylan o di Elvis non lo si puo’ assolutamente ingabbiare in una sola razza.
Anziane signore appesantite con l’innocente caschetto nel cuore, hippie sbiaditi con camicia nei pantaloni che sfoggiano il simbolo della pace in pantofole davanti al telegiornale, instancabili cultori del vinile che assomigliano al venditore di fumetti dei Simpson, bambini ancora incantati dal sottomarino giallo, ragazzini così indie da sembrare indossatori di Soho, insomma un ricco minestrone.
Ma tutto questo è sicuramente ben spiegato in centinaia di libri, che raccontano il devastante impatto che i Fab Four hanno avuto sulla società del XX secolo e io di certo non sono qui per descrivere l’importanza che ha avuto (più o meno inconsciamente) in tutti noi la band più famosa del mondo.
Solo che questa antropologica considerazione non puo’ che balzarmi all’occhio da quando entro nel parcheggio del Forum di Assago per assistere ad un live, un banalissimo concerto, di sir. Paul McCartney. E giusto per farvi capire il mio sgomento, la butto sul gossip. Vedo a distanza di pochi minuti: Rocco Tanica, Mauro Pagani, Noel Gallagher e Massimo Boldi. Ditemi se non è un ricco minestrone questo?
Paul McCartney porta in giro, ormai da tanto (ma forse mai troppo) tempo, una celebrazione spudorata del suo passato. Lo si capisce da subito, quando a 20 minuti dall’inizio del suo show parte un video con vari collage di immagini, icone e disegni che rimandano alla magica Liverpool anni 60. Ovviamente qualche frame è pure dedicato ai Wings e alla sua sfortunata e tanto amata compagna Linda.
Insomma capiamo subito come butta la serata: Beatles in primo piano, ma nel cuore di Paul una buona fetta è dedicata alla sua “band on the run”.
Dopo il video (stupendo per altro e accompagnato da remix molto trendy di suoi pezzi storici) entra Sir. Paul e il Forum è in adorazione. E’ arrivato un gentleman, un nobile direi quasi, elegante e composto, simpatico e piacione. Che si pone davanti alla sua minestra di persone come se fosse davanti alla regina di Inghilterra o davanti ai suoi nipotini. Un gioioso nonnetto tutto sorriso e grinta. Della trasgressione rock ‘n’ roll forse non c’è molto, ma a dire il vero quella in lui non c’è mai stata più di tanto, lo stile e la sua faccia così “pop” rimangono immutate. Questo è il nostro Dorian Gray in carne ed ossa.
Iniziano le danze con “Hello/Goodbye” e giù tutti a cantare. La minestra prende forma e inizia ad amalgamarsi. Metallari figli di “Helter Schelter” indossano per un attimo polo col colletto, ai più anziani ricrescono tutti i capelli. Questo concerto è un momento di comunione spirituale e Paul è il nostro reverendo.
Cio’ che stupisce del signorotto inglese già dai primi brani è la sua bravura tecnica, suona e canta in splendida forma a 69 anni di età. Piano, basso (il suo magnifico ed inseparabile Hofner) e chitarra, in cui si dimostra più rock di quanto sembri (spara pure un paio di assoli arroganti), senza ovviamente mai perdere la sua eleganza. Un inchino a sua maestà.
Nel corso delle due ore e mezza di scaletta Paul cerca di far valere la sua carriera solista che però risulta uno scricciolo nei confonti del mastodontico repertorio che si ritrova alle spalle. Il pubblico infatti pare non gradire eccessivamente “Junior’s Farm” o “Sing The Changes” (inaspettato brano dal suo progetto sperimentale The Fireman) e aspetta impaziente i classici. Triste ma vero: la sua carriera solista ci interessa poco. Vogliamo i Beatles. Ed ecco “All My Loving”, “Drive My Car”, “Long and Winding Road”. La band risponde bene alla rievocazione storica, rimodernizzando anche un po’ i brani, grazie soprattutto alla preziosa presenza del batterista fabbro Abe Laboried Jr., che nonostante l’eccessiva arroganza nel picchiare i tamburi si dimostra scenico e ben adatto allo spirito del live di Macca.
Per rendere ancora più sfacciata la celebrazione Paul cita “Give Peace a Chance” di John Lennon (in una toccante versione chitarra e voce) non prima di aver dedicato la splendida “Something” a George Harrison, forse il momento più intenso del concerto.
Tra un classico e l’altro Paul si atteggia da presentatore TV negli intermezzi, ci tiene ad intrattenerci con le sue smorfiette e il suo buffo ed insistito tentativo di boffonchiare parole in italiano. Sembra fin troppo acqua e sapone, non pare essere uno dei più grandi scrittori di canzoni al mondo.
Il finale di concerto si concentra ovviamente sui megaclassici della produzione Macca.
Le kilometriche “Let It Be” e “Hey Jude” anticipano il momento più tamarro dello show: “Live and Let Die” parte in sordina con Paul al pianoforte a coda e poi fuoco e pirotecnici scatenano l’inferno, in una versione tiratissima da rendere soffice persino la cover violenta di Slash e Axl Rose.
I bis infine sono dedicati ad altre pietre miliari come “Get Back”, “Yesterday” e “Helter Skelter” e per concludere (scelta non proprio banale) il geniale finale di Abbey Road, che chiudeva in pratica la carriera dei Fab Four. E qui chiude il concerto, un concerto come tanti. Semplicemente un memorabile karaoke dal vivo. Con la semplicità di chi arriva al cuore di milioni di persone con una banalissima melodia. E arrivato e ci ha fatto cantare, grandi e piccini, punkers e fichette con occhiali alla moda. Tutti in ginocchio, il vecchio sir. Paul è passato.
Marco Lavagno