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Atoms for Peace – Amok

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Su questo disco è già stato detto di tutto. Lanciato come se fosse l’araba fenice dei Radiohead o la fatica di un matrimonio artistico tra grandi nomi della storia della musica più recente che manco i Them Crooked Voltures, Amok è stato osannato o crudamente bocciato, tanto da tutta la stampa quanto dai fans di Yorke. O piace o non piace, insomma. L’unica certezza è che fa discutere, mettendo in campo tutta una serie di riflessioni che non sono assolutamente sterili e neppure troppo sottintese. Anzitutto viene da chiedersi quanto possa essere originale un progetto parallelo con un leader tanto carismatico e dall’immediata riconoscibilità stilistica come quella di  Yorke. Tra lui e Flea, ad esempio, è indubbiamente il primo a farla da padrone indiscusso, se si considera che l’autorialità di Flea emerge con chiarezza solo nell’intro e in alcuni incisi melodici di “Stuck Together in Pieces” e in “Reverse Running”, passando praticamente inosservata nelle altre tracce di Amok. Non è solo questione esecutiva, per cui la voce di Yorke toglie ogni dubbio e rimanda per direttissima ai Radiohead, come nella title-track “Amok” e in “Default” (solo per citare i casi estremi perché questa caratteristica permea in realtà tutti i brani del disco), ma è proprio una faccenda  interpretativa ed esecutiva: il cantato a bocca appena aperta, la strutturazione della forma canzone e gli arrangiamenti ricalcano moltissimo gli ultimi Radiohead – che, personalmente, mi sono sempre sembrati più gratuitamente sperimentali e asettici che geniali – e solo una virata elettronica massiccia separa gli Atoms For Peace dal passato progetto di Yorke. E qui entrano in gioco un altro paio di questioni. Anzitutto, l’unico leitmotiv del disco sembra essere un tappeto ritmico elettro-dance scandito con una chiarezza volumetrica che spesso è al pari di quella della linea melodica vocale (come in “Before Your Eyes” e nella già citata “Reverse Running”), in una sorta di ideale richiamo costante al trip-hop ma con le sonorità cupe della new wave (“Ingenue”) e accenni afro-beat inconsciamente pulsionali (“Unless”); in secondo luogo, poi, è difficilissimo distinguere dove finisca l’uomo e inizi la macchina e viceversa. E per quanto lo strumento elettronico e l’artificio possano essere usati con maestria e competenza, sì da fare emergere il lato umano del compositore, è quasi impossibile in Amok, capire cosa sia naturalmente prodotto e cosa no, sacrificando, involontariamente, ancora una volta gli strumentisti per esaltare la figura di Yorke come primigenio artista-uomo che convoglia il significato poetico-musicale della canzone.

Lungi da me porre una soluzione univoca a questi quesiti, il gusto personale credo che in questi casi abbatta qualsiasi questione etico-stilistica-estetica. Per me è il primo, buon lavoro di un progetto parallelo che spende a piene mani l’eredità del suo antecedente, nulla più.

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Billy Bragg – Tooth & Nail

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Non gli sono andate tutte per il verso giusto, molte le fuoriuscite stilistiche, abbastanza gli scazzi col mainstream da sempre tenuto ai bordi della sua esistenza e qualche tirata populista che lo ha messo alle corde per averci troppo creduto, ma come tutti i grandi, quando ritornano sui propri passi non c’è altro che inchinarsi e restare all’ascolto in deferente silenzio.
Col passo Folk di certe origini, il musicista inglese Billy Bragg è in giro con il nuovo album Tooth & Nail, album che pur conservando all’interno le prese coscienziali dell’anti-fascismo e di un socialismo immortale, vira verso i campi fragranti del Folk-Country, il vecchio amore dell’artista del Sussex, ed è un suonare dolce/malinconico, depurato dalle asprezze e dalla scorza dura per assecondare ricordi e profondità d’animo vere e straordinarie, nuova vita ispirata da una sua permanenza nello studio di registrazione di Joe Henry in quel di Pasadena, e anche un nuovo ascolto di un capolavoro che si elegge da sé.

Esistenzialismo e suoni splendidamente “americani” per un disco stupendo e ammaliante, esplicito nella stesura e amarognolo nel gusto, amori e dissolvenze che vanno e vengono a ripetizione, il tutto imbastito con i fili field della campagna come essenza atmosferica o fedeltà delle origini, un salto a ritroso dei tempi per fare il passo in avanti nel domani, e dove Bragg ritira fuori la vena poetica spesso sacrificata per i nervi politicians; in questo disco anche grandi firme delle strumentazioni yankee come David Piltch basso e contrabbasso, Greg Leisz chitarre, Patrick Warren tastiere e Jay Bellerose alla batteria e percussioni, tutti insieme per ripercorrere un piccolo e fedele culto country e tenere viva sempre la figura, la parola e la parabola di Woody Guthrie come padre spirituale.
Disco senza fretta d’esecuzione, ballate e passeggiate in solitaria col senso della vita che scorre “No One Knows Nothing Anymore”, gocce di Mississippi sliddato “Handyman Blues”, profumi del Mid-West in fiore “Chasing Rainbows”, il jack innestato per una sola volta nella politica sottocutaneamente incazzata “There Will be a Reckoning” o il passo leggero dei pensieri che si incolonnano per una notte fitta fitta di visioni “Home”, e una piccola meraviglia è servita, una trama che con le nebulose di Wilco e tenui passaggi alla Hiatt, crea quello stato giusto e speciale per l’ascolto in tutta tranquillità. Un altro passo importante nel quasi impeccabile percorso di Bragg, un artista sanguigno capace di aprirsi a nuovi scenari senza mai svendere la propria integrità.

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North – Differences EP

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Inizia la primavera e a dispetto di una copertina fatta di cime innevate quello che ci voleva per caricarsi e prepararsi a uscire dal letargo di un inverno troppo lungo erano proprio canzoni come quelle contenute nell’Ep Differences dei marchigiani North. Pierfrancesco Carletti (voce, chitarre), Giuseppe Gaggiotti (chitarre), Andrea Monachesi (basso) e Gabriele Tomassetti (batteria) propongono sette pezzi, semplici, freschi ed estivi come una limonata a bordo piscina in pieno agosto. Passando tra richiami a Canadians e Weezer, attraverso tutto l’Indie delle tre decadi ormai trascorse, scelgono un suono pulitissimo ed elettrico, fatto di melodie orecchiabili, chitarre e ritmiche essenziali, classico cantato in inglese e uno stile immediato e senza troppi fronzoli o complicati artefici sonici. Nella loro elementarità sembra di intravedere la stessa ingenuità dei gruppi punk dell’esplosione flower italiana, quando la voglia di suonare e di farsi sentire era tanta e “fanculo se non siamo troppo fenomenali”. Proprio come loro i North fanno esattamente quello che sanno fare senza cimentarsi in esagerazioni inutili che potrebbero sfociare in ridicole manifestazioni di ingenua incapacità. La loro bravura sta proprio in questo. Da pochi elementi, senza strafare, tirano fuori pezzi sorprendenti e melodie sublimi, tanto che sarebbe inutile citare, distinguere o elevare sugli altri uno qualsiasi  dei sette pezzi che compongono la tracklist. Da “New Life” a “Free as You” passando per “A Song For Your Boyfriend” tutto si ripete senza sosta, tutto è uguale a se stesso e se la cosa non depone certo a favore dell’originalità, certamente non dispiacerà niente di questo Differences a chi và solo in cerca di belle canzoni Indie (chiamatele come vi pare), merce tanto banale quanto rara in questi tempi di magra.

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She Said Destroy! – Conflicting Landscapes

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Batteria grezza, distorsioni a palla su strumenti e voci, filastrocche di Pop rumoroso e scarno fino alle ossa, con quella noia sporca che fa tanto riot grrl: il duo bolognese She Said Destroy! è perfetto per sfondare in quella scena Lo-Fi/Noise che vive di canzoni vuote ma rumorose, che si nutre più di attitudine che di “ciccia” musicale, di intenzione che di soluzioni nuove.

Un ep di quattro tracce (tra cui una cover di Gwen Stefani) che però suonano come un’unica, lunga traccia di 12 minuti e qualcosa. Le due She Said Destroy! sanno come si scrive e si suona il Noise facendolo sembrare Pop (o il contrario), e scommetto che sanno anche come gestire il palco, ma con questo Conflicting Landscapes non riescono a cambiarmi la giornata. E che cos’altro si chiede, ad un disco?

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Giovanni Truppi – Il Mondo è Come te lo Metti in Testa

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Quando avevo 10 anni sognavo di essere il frontman di una band. Imbracciavo un righello da 60 cm, di quelli azzurri semi trasparenti e fingevo di suonare inventando canzoni sul momento che mi sembravano fichissime, in grado di ammaliare l’orda di fanciulle scalpitanti in prima fila che nitidamente distinguevo nel mio favoloso immaginario. Non sono certamente un esperto di psicologia giovanile ma mi sembra chiaro che la fantasia e la spontaneità sono tratti sani e comuni in un bambino di 10 anni. Ma cosa potrebbe capitare se questo bambino invece arrivasse ad avere 30 anni?
Potremmo chiederlo a Giovanni Truppi che sforna uno dei dischi più originali e allo stesso tempo spontanei degli ultimi tempi. Musica a cui puoi dare qualsiasi aggettivo, ma non di certo “indifferente”. Vivace e violento, bipolare (bastano davvero in questo caso due polarità?), un caos descritto e regolato dalla più complessa equazione matematica. Un mondo in cui tuffarsi dentro vestiti per uscire nudi e privi di ogni barriera con l’esterno.

Il Mondo e’ Come te lo Metti in Testa è il secondo album del cantastorie napoletano e racconta “favole di vita vissuta” con la semplicità disarmante di un bambino un po’ troppo cresciuto che però amplifica ancora tutte le sensazioni. Non esistono filtri: ci sono nomi e cognomi, ci sono nella sessa canzone lo stereo portato a spalle stile anni 80 e Gesù Cristo, ci sono i ministri ladri, “I Cinesi”, il maglione del collega Sabino e le più banali domande sull’esistenzialismo (“Quante volte dovrò nascere? Speriamo che bastino”). Una zuppa indecente che io berrei in continuazione, nonostante le parole di Giovanni si incastrino a martellate e le melodie sfiorino spesso la cacofonia.
Nell’universo del cantautore partenopeo spiccano sicuramente dei piccoli capolavori come: i divertenti e acuti giochi di parole di “Nessuno” (accompagnata anche da un suggestivo video che trovate qui sotto); la stortissima “La Domenica” dove Giovanni e il suo compagno Marco Buccelli alla batteria inventano incastri ritmici da vertigine. Poi degna di nota è certamente “Giovinastro”, risata triste sul nostro incertissimo futuro, pezzo a dir poco geniale composto da Gianfranco Marziano (“da grande voglio fare il giovinastro e so che non farò bene nemmeno questo”).

Il disco è inoltre prodotto in modo perfetto: piano, voce, chitarra e batteria. Niente altro, tutto scarno e scheletrico a sottolineare l’immediatezza di una musica impulsiva. Giovanni cerca di non immagazzinare troppa roba nel cervello, in modo da esportare subito ciò che passa di li senza perdere troppo tempo in inutili elaborazioni. E questo è il risultato: dalla mente si va dritti sulle tracce audio. Forse questo non è un gran disco di musica pop, ma rimane un autoritratto di suprema bellezza.

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Phoenix – Bankrupt!

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Ci si aspettava dal nuovo disco dei francesi Phoenix, “Bankrupt!” – come del resto aveva accennato Thomas Mars in un rotocalco inglese – uno sfolgorante gioco di prestigio programmatico, grandi rivelazioni sperimentali se non addirittura tecnicismi d’alta ingegneria sonora, quando poi, una volta scartato dalla confezione, è sì un bel disco ma della consueta cotta, leggermente votato su territori sintetici e con la smorfia gentile della wave e delle sensibilità kraut, ma nessuna trascendentale svolta da annotare sull’almanacco degli immensi capogiri.

Sostanzialmente un pop-tune dalle infinite possibilità di scavare palinsesti radio, ma se ci vogliamo proprio attenere al mero brivido d’ascolto, il nuovo disco è lineare alle loro produzioni che lo hanno preceduto, composizioni aerobiche che passano come brume autunnali, qualche seduzione ad arrembare atmosfere clubbing e delicatezze dal sapore decisamente europeo, e se vogliamo lanciarsi in azzardati commenti, pure somigliante al predecessore Wolfgang Amadeus Phoenix quasi in maniera imbarazzante, ma che comunque – potremmo parlare per ore e ore – funziona benissimo specialmodo quando si associa la musica dei Phoenix con i groove pubblicitari  urbani; membri della compagine francese che ha portato nel mondo le convulsioni di Daft Punk, Air, Justice, la formazione di Versailles ha sempre saputo giocare la carta del velluto sonoro, quella felice derivazione a metà strada tra equilibrio e ristagno, l’additivo preciso per non cadere mai nel pop terragnolo, quello attaccato alle facilonerie da classifica, ma si è sempre mantenuto candido e alto sulla media, poi non sempre ci si è riusciti, ma senza dubbio una band che- per quanto riguarda il passato prossimo ha irretito abbastanza – poi da qui al dopo chissà.

Disco di contrasti e confronti, come nelle circonferenze oriental oriented “Entertainment”, nei radenti ventilati “S.O.S. in Bel Air”, al centro dello strumentale nordico della titletrack, l’R’N’B che tinge la bella “Chloroform” o – se ci si vuole sentire leggeri come una piuma – aggrappati alla sintonia poppyes di “Oblique City”, poi tutto quello che può alimentare le suggestioni di un ascolto tutto sommato piacevole – ripeto senza nessuna rivoluzione interna – lo si trova nel resto della list, che se anche aggiunge poco valore alla storia della band, perlomeno la mantiene.

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Collettivo01 – Cronovendetta

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Il punk è un genere che non passa mai di moda, vuoi per la facilità di esecuzione, vuoi per l’immediatezza comunicativa. Ad ogni modo, di gruppi punk è pieno il mondo e anche la nostra penisola vanta una certa copiosa discendenza. Gli esiti, ovviamente, sono qualitativamente molto vari e i Collettivo01 si insinuano a spalle larghe e testa alta in questo panorama. Genuini sin dalla prima schitarrata del loro autoprodotto Cronovendetta, si distinguono per un cantato in italiano (che a volte subisce contrazioni d’accento perché le parole si adeguino alla musica, dettaglio che personalmente trovo parecchio irritante) e l’immediata riconoscibilità stilistica. Certo, non è un genere che lascia spazio a grandi improvvisazioni e la band non brilla per creatività. A onor del vero alla quarta traccia ha già anche un po’ stufato, ma se ci si concentra sulle liriche si scopre che questi ragazzi hanno qualcosa da dire. A parte l’incazzatissima title-track, sono molti i momenti di rabbia e sdegno, come “Non Voglio Stare Qui” e “Tutto il Male Che C’è”, davvero d’impatto. Disillusione generazionale, rabbia adolescenziale, ribellione giovanile, ma anche paura e delicatezza, frustrazione e un generale atteggiamento da outsider che guarda dall’alto e con disprezzo la società in cui è sciaguratamente inserito. Insomma. I Collettivo01 sono una band che, ohibò, ha qualcosa da dire, ma dovrebbero togliersi la patina del già sentito e, pur restando fedeli al loro genere, trovare un nuovo personalissimo hook con cui agganciare l’ascoltatore.

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Witche’s Brew – Supersonicspeedfreaks

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Eccolo il disco che attendevo con entusiasmo, Supersonispeedfreaks, il secondo album degli straordinari Witche’s Brew. Venni a conoscenza della band di Mirko e soci qualche anno fa, la fortuna fu che li scovai proprio con il loro disco d’esordio White Trash Sidesow. M’innamorai del disco, aveva una sua personalità, un suo charm, un sound che ti coinvolgeva e ti scuoteva. Rimasi con un ottima impressione del gruppo, adesso finalmente mi ritrovo con il loro nuovo disco tra le mani e posso cominciare a dire che le mie impressioni iniziali erano esatte e che i Witche’s Brew non hanno affatto deluso le aspettative, anzi. La band è senza ombra di dubbio migliorata con gli anni, ha affinato la tecnica e con qualche giusto cambio di line up è riuscita a far conciliare il sound Doom a quello Rock’n’Roll con un eleganza che in pochi hanno, il tutto condito con quella classica spruzzatina di psichedelia che tanto piace al quartetto. Supersonispeedfreaks è un piacevole disco che si fa ascoltare con scioltezza e senza mai stancare. Di questo lavoro sono interessanti le atmosfere che si vengono a delineare le quali ricordano un po’ i tardi pomeriggi nel Far West, immaginate di stare in un Saloon a bere whiskey e nel frattempo intorno a voi ci sono loschi individui che si azzuffano per un Poker mancato accerchiati da stupende ragazze che danzano. La caratteristica dei Witche’s Brew è che la loro musica in un modo o nell’altro deriva da un viaggio mentale, li puoi ascoltare in momenti calmi, bui o più scatenati e il loro effetto varia ma ogni occasione è sempre quella giusta. “Vintage Wine” (l’opener) presenta il disco e la band, il risultato è ottimo, i riff di chitarra sono eccezionali ed anche se l’intera durata della traccia è sui dieci minuti non c’è un solo momento che possa annoiare. “Children Of The Sun” è invece più atmosferica, meno aggressiva rispetto a quella citata prima ma comunque con i suoi picchi. Con “Magic Essence” arriva il momento di scuotersi, in questo pezzo è evidente la vena Rock’n’Roll dei Witche’s Brew, non tanto i riff ma gli assoli anche se di breve durata fanno la differenza. La conclusione del platter è affidata a “Supersonic Wheelchair” in cui ancora una volta si nota il gusto della band per il Rock datato anni settanta e come nella canzone precedente ci si può muovere e scatenare a colpi di “schitarrate”. I Witche’s Brew sanno cosa vuol dire fare musica e sanno come creare un album di pura arte, Supersonispeedfreaks è la loro consacrazione.

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Danamaste – Le Teste Degli Altri

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Spiazzanti questi Danamaste, al terzo album con Le Teste Degli Altri. Meticci, confusionari, capaci di saltare tra la melodia e la distorsione, tra entrate Progressive (“Beat Generation”) e situazioni Rock più standard (“Marmo”), tra – bellissime – voci femminili, sorprendenti e vellutate (“Le Teste Degli Altri”), e cantati maschili alternativamente sotterranei o sopra le righe (“Elettrodomestica”).
In questo disco c’è veramente di tutto: un pizzico di Elettronica (“Centomani es. n°1”), tanto Rock, qualcosa di Progressive, una spennellata di Blues, ma anche del Pop sostenuto (“Le Scarpe” e le sue voci in secondo piano, magistrali). Meraviglia la capacità dei Danamaste di fare slalom tra estremi così diversi ed apparire, in ogni caso, credibili e capaci di gestire atmosfere, arrangiamenti, produzione: non è facile inserire nello stesso disco un pezzo come “Acqua”, sospeso e trasparente, e uno come “90”, gonfio di distorsioni e ritmi sincopati, senza farli cozzare, ma, anzi, facendo trasparire chiaramente come siano due facce diverse della stessa medaglia.

Le Teste Degli Altri è un disco perfetto per onnivori musicali, per chi s’accontenta di avere un’idea di quando si parte ma non gli interessa sapere né dove né come si arriverà. Un lungo viaggio, sfaccettato e multiforme, nelle grottesche maschere che indossano Le Teste Degli Altri. Un disco in cui immergersi, almeno una volta, giusto per provare la vertigine.

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Miavagadilania – Fuochi EP

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Scoperti circa tre anni orsono, i milanesi Miavagadilania ritornano sulla lunga distanza con l’Ep Fuochi a reiterare quella formulazione nero torba che è la loro essenza musicale, un repertorio che rimane quasi intatto e che si rivolta dentro arrangiamenti post del post, una solennità che stringe con le sue spire lattiginose di shoegaze, fumigazioni sperimentali, tutta la patina noir dark che si possa racimolare, e che in cinque tracce diventano ossessioni cinematiche e malattia poetica nitida per tutta la durata della sua corsa d’ascolto.
Elena Capolongo e Claudio Papa – questo il nucleo dei Miavagadilania – sono al centro di un progetto psichedelico concettuale che miscela attitudini alla Born For Bliss con le “trasmissioni” sinottiche dei Bionic, pulsazioni a freddo e riverberi cosmici che si fanno largo in una forma canzone che ogni tanto riemerge dalle “disturbanze” e dagli anagramma sonori “Muoversi Muovere Muovermi” che immancabilmente accentuano i passaggi del registrato, un disco insomma che si fa approcciare dopo vari giri di prova ascolto, ma che poco dopo scioglie il muro gassoso che si trova tra l’ascolto nitido e “loro”.

È’ un design sonico che si prodiga a compattare suoni, effluvi e matrici distorte per poi coinvolgerle e convergerle in pads amniotici e senza peso specifico “Trascinami”, li raffina in velluti melodici “Fuochi” e li aspira nelle suggestioni cromatiche di stampo prog Canterburyane “Hvalur”, una materializzazione ombrosa che non faticherà molto per circuire il lato “sano” dell’ascoltatore ispirato; forti di un seguito conquistato sul campo, i Miavagadilania hanno uno spazio poetico inimmaginabile, un languore impregnato e stratificato che si eleva e romanticizza – a modo suo – un controaltare immaginario, come un viaggio moderno di Verne, su e giù verso i confini non confini di qualcosa che si muove ma non si avverte, poi se si ci si avventura nelle nebbie sciamaniche di “Il Sogno” il non ritorno è assicurato.
Amate in non eccessi e i viaggi amniotici in qualche dimensione in D? Benvenuti a bordo!

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Teho Teardo & Blixa Bargeld – Still Smiling

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Non è un  ritorno o una intensa saga sonora, ma una capacità di combinare parole e formule cinematiche per trasformare in frammenti di poesia manciate di splendidi brani, alto artigianato sperimentale che poi non è altro che surplus di bellezza e ascolto plagiante; “Still Smiling” più che un giro discografico è un insieme di piece sonore che co-producono armonia a largo spettro, ed è il lavoro a due mani e di due anni del musicista Teho Teardo e Blix Bargeld (leader dei Einsturdenze Neubauten), un disco che oltre a guadagnare al primo ascolto giudizi a otto stelle, mette a disposizione un benessere interiore straniante al quale non ci si abitua sfacciatamente al raggio d’azione come fosse un disco di routine.

Due modi, espressioni, originalità e arricchimenti che si scambiano e interagiscono, suoni, timbri, volumi e attese che si fondono e si distanziano come a guardarsi dirimpetto per poi tornare a rifondersi in un gioco eterno o delimitato fino a farsi proposta e appeal altamente contagioso, dieci inediti, la rivisitazione di Alone With The Moon dei Tiger Lillies e una nuova interpretazione di “A Quiet Life” tratta dalla colonna sonora del film con Toni ServilloUna Vita Tranquilla”, questo il bel corredo sonoro che i due artisti (qui con la collaborazione di Martina Bertoni al violoncello e il Balanescu 4et),  applicano per un ascolto prestigioso, insolito.

Dunque sperimentazione e metafisica a tutti i livelli, tracce essenzialmente straordinarie stralunate divagazioni che uniscono accenti e vorticosi stupori, brani che mettono in bolla deliri teneri e trasformazioni oniriche, un qualcosa girato in seppia che srotola immaginificazioni e progressioni dada, dove l’aria vibra e diventa una bella ossessione da ascoltare tutta d’un fiato; per offrire un assaggio di quello che il disco dirama occorre postare l’orecchio nei snodi principali della tracklist, praticamente avvicinarsi al passo felpato della confessione di “Mi Scusi”, affogare nel liquido tattile di “Axoloti”, stordirsi delicatamente coi nervi tesi delle corde di violoncello che scandiscono la vitalità in down della titletrack, se si vuole volare nei tramonti ancient folkly  che tuonano in “Konjunktov II” e perché no,  abbindolarsi nello slow spazzolato regalato da “Defenestrazioni”, e la cosa che più  sorprende durante l’ascolto è che si è presi da un effetto illusorio di nuotare in qualcosa di non ben definito, ma di nuotare all’insù alla faccia della gravità.

Cantato in italiano, tedesco e inglese, Still Smiling è un fusione psichedelica che domina il senso e la ragione, un disco che marca in non contorni della fantasia e che fa  girotondi di grazia tra te stesso ed il tuo Io. Capolavoro di dilatazioni.

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Questi Sconosciuti – S/T Ep

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Spesso – o sempre – mettere d’accordo vecchio e nuovo non è sempre sintomo “volpino” per tenere (a filo del proverbiale escamotage) il piede in due staffe, cioè non prendere una posizione fissa e strutturata su quello che si vuole fare, molte delle volte è una accorta ed onesta velleità a fare le cose bene e senza far finta di essere “migliori”, e l’onestà intellettuale è la base di tutto, poi nella musica è la prima cosa che si riscontra, tanto vale non provarci nemmeno per un secondo. La lezione pare essere stata assorbita bene da questa band pugliese, i Questi Sconosciuti che con l’esordio senza titolo, ma con altri bei titoli da ascoltare, arrivano a prefigurare un trespass di ieri e oggi maturo e rimbombante, un indie-pop che interpreta una eccellenza sonora della quale sentiremo parlare in futuro.

Dodici tracce che tra sferragliamenti chitarristici, malinconie euforiche di stampo Battistiano “Due di Due”, “Me Tapino”,  in azione di congiungimento con irruenze degli anni Novanta di tempra Pere Ubu e Violent Femmes “Ciao, “Tutto il giorno” stilano una tracklist fumigante e radicalmente tormentata, un cammino sonoro che – ci ripetiamo – è una gran bella scommessa e che sorprende se non altro per lo scatto atemporale che porta in dote: Alessandro Palazzo voce/chitarra, Giuseppe Bisignano chitarra/voce, Francesco Lenti basso e Marcello Semeraro alla batteria, sono l’espressione di una “emergenza” che è già matura, una di quelle band sconosciute che già pare conoscerle da sempre, il loro stimolo sonoro è nella densità dei suoni e degli arrangiamenti, un Ep che a suo modo rinfresca la scena indipendente attuale con la semplicità e l’atmosfera artistica che già si fa  respirare avidamente dalla copertina.

Un ascolto di immediata accessibilità per la rivelazione di una band dalla personalissima cifra stilistica, melodia e pedaliere scoppiettanti che disegnano una piacevolezza delle forme e una rilettura del pop in maniera innovatrice, dalla intimità grigia di “Carah” alla punta di penna di “Perdonami Niente”, allo scatto imprevedibile ed epico di “Tutto Il Giorno” fino allo shake puntato di “Prove di Rivoluzione”, ending scalpitante e radiofonico a mille, nonché sintomo di un Sud sonico più che mai pronto a cariche di suoni verso l’alto dello Stivale, la riscossa che tocca e raggiunge il cuore di chi ascolta Questi Sconosciuti e già mette paura a tanti!

 

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