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Uross – L’Amore è un Precario

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Tra l’Italia e l’America c’è Uross, cantautore pugliese attivo dal 2000 con l’ep Musiche da Quattro Soldi, dopo il quale  seguono tanti altri demo e lavori non ufficiali fino ad arrivare al suo secondo album L’Amore è un Precario uscito nel febbraio del 2013, che conta dieci tracce e un omaggio a Rino Gaetano, “Il Cielo è Sempre Più Blu”, settimo brano sul quale è stato fatto a mio parere un buon lavoro di coverizzazione in uno stile molto diverso dall’originale.
Tutto il nostro mondo raccontato in questo album, fatto da bellissime chitarre, anche slide come nel primo brano, da armoniche, testi sinceri, musiche uniformi e atmosfere west accompagnate da ritmo e rime. Una miscela di Rock, Blues, Pop e Folk che per autodefinizione Uross chiama Bastardmusic, come la sua vocalità, quasi parlata e in alcuni punti urlata per esprimere il disagio e tutte quelle emozioni forti del potere cantautorale.Tutto questo anche grazie al lavoro di musicisti, come Maurizio Indolfi e Oscar Marino alla batteria, Andrea Brunetti alle tastiere, pianoforte e organo, Andrea Acquaviva e Carletto Petrosillo al basso.

Il mondo di Uross si muove attraverso quella precarietà che purtroppo è all’ordine del giorno, nella quale i cambiamenti avvengono solo grazie al duro lavoro, fatto “in giorni che passano presto in facce che si dimenticano in fretta”(“Chiedi Alla Polvere”). “Ego”, secondo brano dell’album, racconta più a fondo la visione dell’ipotetico cambiamento di ognuno, l’esistenza di ognuno di noi paragonata ad una strada, ad un viaggio visto come un’ottima esperienza oggettiva di cui la musica si fa portavoce (“Noir”) e l’equilibro critico con cui a volte la vita stranamente procede, invece, è il protagonista del quarto brano “Claustrofobikronico”, anche video ufficiale. Un richiamo a Rino Gaetano lo possiamo scorgere anche in “Cane Vagabondo” soprattutto nell’ultima frase “la sveglia lo sveglia per andare…A LAVORARE” dopo una notte passata a vagabondare per le vie di una città vuota o forse quasi spenta. Lo sconforto a mio parere si fa largo in “Sto Così Scomodo Che Resto”, sesto brano de L’Amore è un Precario, dove viene citata la corruzione, il silenzio interno con cui purtroppo procedere la vita e l’orgoglio inchiodato allo scoglio, e dove compare la seconda voce di Angela Esmeralda. All’ordine del giorno, oltre alla precarietà c’è anche e soprattutto il “Bu$ine$$” di se stessi, dei propri bisogni e sentimenti probabilmente mossi  da un “Flusso di Incoscienza”, dove per la prima volta appare la parola amore, l’amore che dopo pochissimo si scopre essere una bugia, una parola che non significa più nulla in questo mondo dove a vincere è solo la sopravvivenza (“una sola regola, DEVI respirare finché non respiri più”). “Al Mio Funerale” procede per molte rime in un’atmosfera tra blues e quel cantautorato tipicamente italiano e “Lontano”, brano che chiude il lavoro, conferma ogni pensiero e ogni sentimento della vita in generale, accompagnata questa volta dalla figura della mamma attraverso una bellissima visione romantica “Sentivo suonare nel vento carillon antichi di orologi scordati”.

Un album scambiato molte volte come un lavoro d’esordio e in fondo non sarebbe male paragonarlo ad una nuova rinascita. La rinascita sempre nuova di cantautori impegnati ed attenti all’io della propria terra e del proprio mondo.

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Hot Dog – Enemies

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Gli Hot Dog fanno Punk Rock. E questo loro Enemies è un disco quasi da manuale. Copertina rossa sfacciata, produzione scarna ed essenziale, suoni taglienti: i nostri non fanno compromessi e portano a casa un ottimo risultato. Loro sono di Roma e dal 2007 ad oggi hanno realizzato un EP e un album (Death or Glory del 2011), giungendo alla terza fatica in studio forti del sostegno di un etichetta e del lavoro di promozione fin qua realizzato.
Se non siete patiti di punk chiudete qua la recensione e continuate a vivere tranquilli. Se invece masticate un po’ il genere saprete benissimo cosa trovare in questo disco: voci scanzonate, cori da cantare a squarciagola, ritmi al fulmicotone con qualche salto in levare, chitarre graffianti, ritornelli orecchiabili, gusto per la melodia e quel pizzico di schiaffi in faccia che non fa mai male.

Tutto quello che vi aspettereste da un gruppo che si definisce punk rock lo trovate all’interno di Enemies, ma non pensate che sia il solito lavoro trito e ritrito che ascoltato uno li hai ascoltati tutti: i nostri hanno indubbiamente personalità e carattere. Inseriscono qua e là qualche piacevole assolo, qualche divagazione non proprio ortodossa (ad esempio il finale di “Dinosaurs’ Revenge” che puzza di Metalcore bello grezzo) che riescono a dare spessore al lavoro, pur inserendolo in un solco ben definito. A questo si deve aggiungere un certo interesse per i testi, sempre alla ricerca del giusto compromesso tra l’ironia e l’impegno, come a voler mascherare un certo tipo di serietà con la spensieratezza propria del Punk.
Ed è forse proprio questo il merito dei nostri Hot Dog, colpire come furie mantenendo sempre intatto il gusto per la semplicità.

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Electric Sarajevo – Madrigals

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L’album d’esordio degli Electric Sarajevo può essere visto come una struttura fondata su tre elementi portanti. Innanzitutto la parte plastica, fatta di synth e programmi computerizzati, gestita da Stefano Tucci. Poi ci sono le armonie classiche, date dalle chitarre di Massimiliano Perilli e Paolo Alvano e il basso di Andrea Borraccino, che plasmano di volta in volta eufonie Post Rock, Neo Folk e Dark. Infine ci sono le voci degli stessi Perilli e Alvano, che arrancano nella loro semplicità, regalando melodie semplici, immediate e soprattutto di una delicatezza molto dreamy e Pop. Questi tre elementi vanno a formare un sound molto particolare che batte a volte Synth Pop, altre Post Rock o Industrial, Pop, Rock e New Wave; in pratica sembra che suoni sempre come qualcosa che già era passato tra le orecchie in passato, tanto e cosi particolarmente che alla fine ti diventa difficile capire cosa hai effettivamente ascoltato. L’album Madrigals è la prima prova di questi quattro ragazzi che comunque non sono assolutamente inesperti (avendo già suonato con Muven, Barnum Freak Show e Kardia) e lo dimostreranno anche a voi, se avrete il buon senso di starli a sentire. Electric Sarajevo è il loro nome. Sarajevo, città distrutta dalla guerra, violentata dal male, dall’indifferenza. Una Sarajevo elettrica come metafora delle nostre vite bombardate da guerra e morte e in cui l’unico rifugio è l’amore.

Madrigals è un lavoro che trasuda un amore romantico e decadente, nostalgico e malinconico e la stessa musica contenuta dall’artwork tristemente penetrante, mette in mostra tutti i dualismi dell’umor nero del Dark Rock e del Post Rock con le ariose parti vocali e i passaggi e gli arrangiamenti elettronici vellutati e dinamici.
Non so quanto la presenza dei fratelli Soellner (Klimt 1918), voce in “Watercolours” Marco e timpano e tom in “The Sky Apart” Paolo, e Valerio Fisik (Inferno), urla e controcanti su “If You Only Knew”, possa essere stata radicale nella creazione di questo clima decadente né quanto al contrario sia il risultato che si stava profilando ad aver suggerito i suddetti ospiti illustri. Fatto sta che Madrigals riesce alla perfezione a ricreare le stesse atmosfere nostalgiche già assaporate in (con le dovute distanze tra le opere) Dopoguerra.

Come abbiamo detto, musicalmente siamo davanti ad un amalgama assolutamente particolare. La matrice è certamente un tipo di Post Rock elettronico depurato da ogni possibile esplosione sonora ma che si tiene saldamente attaccato al terreno attraverso la vocalità dal fascino ambiguo. “Lost Impero” è l’esempio evidente di cosa significhi questa commistione. La melodia vocale appare precisa e chiara e molto orecchiabile non solo nel ritornello, mentre schegge elettroniche di stampo industriale schizzano sommergendo echi di parole in italiano che fanno da sfondo al testo invece in inglese.
Derive Industrial e quasi Neo Folk che si manifestano anche nella marzialità delle ritmiche di “Watercolours”. Non mancano momenti elettronici che miscelano lo stile Röyksopp alla New Wave (“A Revelation”) e altri in cui la voce e i suoi ricami leggiadri diventano protagonisti assoluti (“City Dream”, “The Worst Lover”). Ma anche tanto Synth Pop che dipinge la vita sopra un telo di elettronica ridotta in frantumi come un cumulo di macerie (“If You Only Knew). Il punto più alto dell’album è il brano “Teresa Groisman” nel quale si fanno vivi in maniera più chiara elementi Dark e sfuriate Post Rock, mantenendo sempre intatta quella voglia e capacità di affascinare ed evocare suggestioni languide. Ovviamente non tutto è riuscito alla perfezione. “The Sky Apart” o “The Madrigal”non convincono pienamente, venendo a mancare tutto l’incanto creato sia dalla corposità del sound, sia dalla sua difficoltà d’inquadramento. Proprio la title track si mostra come un brano di Post Rock elettronico senza alcuna variante rispetto alle proposte dei nomi più noti del genere (Mogwai, God Is An Astronaut, Explosions In The Sky o chi volete voi) con l’aggravante di mantenersi su ritmi piuttosto blandi.

Come ho già fatto notare non è facile descrivere quanto ascoltato e nello stesso tempo non potrei certo dirvi che quello che udirete è un sound assolutamente innovativo. La problematicità di catalogazione è la stessa sua forza tanto quanto la sua energia sta proprio nell’essere un cocktail di Post-Rock, Electronic, addirittura Trip Hop, se vogliamo azzardare, Experimental Rock, Synth Pop, Indietronic, New Wave, Post-Punk, Dark e Gothic Rock. Combinazione che però non ha mai il sapore di un beverone indecifrabile e indigesto. Se l’obiettivo era di raccontare la natura eclettica e poliedrica dell’amore, con Madrigals, gli Electric Sarajevo hanno trovato uno dei modi migliori, una delle strade più affascinanti per uscire dalle macerie di una città che piange calce e cemento.

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30 Miles – The Smiles of Rage & Paranoia

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Un colpo diretto in faccia, questo è The Smiles of Rage & Paranoia, dell’onesto Punk Hardcore che poco ha da invidiare alle band internazionali. Un disco di sano punk rock coi controcoglioni, e scusatemi il termine ma non ne ho trovato un altro più appropriato per descriverli. Sono in 3: Samuele (voce/cori, chitarra ritmica) Samy (batteria) e Daniele (cori/voce basso), e suonano compatti e decisi. Attivi dal 2010, condividono palchi importanti con dei veterani della scena come i Los Fastidios, finchè nel 2011 l’Indie Box si accorge di loro ed include il brano “Nobody” all’interno dell’ Indiebox Compilation Vol.6, che vanta brani firmati Antiflag, Casualties e Mad Sin. Ora sono più carichi che mai e sfornano The Smiles of Rage & Paranoia, con la determinazione di spaccare anche nei confini asiatici per Bells On Records. I 30 Milesmi hanno fatto tornare indietro alla mia adolescenza, rimanendo fiera delle mie radici punk e della scena italiana in generale.

Il singolo “Dancing In Her Eyes” di cui è stato realizzato anche un videoclip, è veloce, arricchito da cambi di tempo e accordi, riuscendo così a differenziandosi dalla semplicità e  dalla monotonia in cui il punk rock spesso ricade. Nei loro testi non si limitano a parlare di argomenti adolescenziali, ma scavano piuttosto nel profondo attraverso la psiche umana, come in “Nightlife” dove citano il caro e vecchio Einstein ed il suo Ego, Super Ego ed Es, cercando di comprendere le loro fantasie più nascoste nella mente e nell’insonnia. In “Here I Am” parlano invece della difficoltà di aprirsi e raccontarsi completamente nella società odierna, che spesso induce le persone ad indossare una maschera. Verso la fine del disco guardano invece lontano verso un mondo colorato con “LSD”, brano di cui è facile immaginare l’argomento principale. Insomma, se vi piacciono i NoFx ascoltateli e non ve ne pentirete, l’album completo lo trovate gratuitamente in streaming su Spotify, ed invece qui sotto potete gustarvi il video ufficiale.

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Youth Lagoon – Wondrous Bughouse

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Uno stratificatissimo “bedroom psich-pop” si sta avvicinando ai nostri lettori con la delicatezza di un soffio alterato. Non stiamo parlando di uno stereo-invaders come ce ne sono a migliaia nello spazio aereo indipendente, ma di un bel disco impalpabile che si fa trip legale per farci toccare con mano ed orecchio un cosmo a parte, il cosmo di Youth Lagoon, aka del musicista “non allineato” Trevor Powers, un folletto geniale dell’Idaho che si aggira nel village della vecchia Frisco per abbandonarsi, creare e divulgare “Wondrous Bughouse” un profumato sensore psichedelico di dieci tracce che tra le ali di Perfume Genius e un Julian Linch prende linfa vitale e coraggio per andare avanti dopo il buon esordio di The Years Of  Hybernation del 2011.

E senza mezze parole, questo disco è una riconferma della poetica stralunata di questo giovane artista, osannato nell’America “alcaloide” e in un certo qual modo weirdness, dove avere a che fare con le nebuloidi che circumnavigano l’alternative o l’underground è un vezzo più che un vizio, e queste tracce sono la parte integrante ed in movimento di quel modo di vivere, pensare e rivivere “le parti nascoste” dei riverberi a gravità zero. Ed il risultato è un disco all’opposto degli opposti, una scaletta inafferrabile che sale e ancora sale sulle rampe e sui vapori infinitesimali sfumati all’inverosimile; sintetico e umano si avvolgono come pollini in fregola, come nelle evoluzioni celesti di “Raspberry Cane” e “Dropla”, nella melodica avvenenza che rilascia “Mute”, nel mezzo degli anni Sessanta dei voli radenti “Pelican Man” o con il barocco luminescente che brilla in “Daisyphobia”, in poche parole un groviglio ammaliante di inebrianti e libere atmosfere che prendono quota per non riscendere mai più.

Paragonabile ad un’esperienza di un sogno ad occhi aperti.

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Absolut Red – A supposedly Fun Thing We’ll Probably Do Again

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“Non sarò solo una copia se saprò essere te” cantava il leader dei braidesi Mambassa qualche anno fa e io devo ancora capire come si possa applicare questa frase agli Absolut Red. Appropriarsi di qualcosa attraverso l’imitazione e saperlo fare proprio non è un fatto semplice in ambito musicale. Si rischia sempre di essere tacciati di scarsa originalità, di già sentito. E la band di Sasso Marconi effettivamente suona come già sentito fin dalla prima traccia, “Embriology”, in cui i riferimenti a un certo alternative rock americano dei primi Duemila si delineano subito attraverso l’uso di chitarre chiare e cristalline che eseguono melodie composte e raffinate. “Occasion” apre con un riff semplice ma incisivo, dal sapore molto Nineties, che lascia spazio a brevi incisi strumentali che dialogano creando un tappeto ideale a una voce che spesso si lascia andare a falsetti sullo stile dei Muse di Showbiz (non di quella porcata tamarra che sono diventati adesso). E già a questo punto si capisce che gli Absolut Red prendono a piene mani dagli Strokes. Ma tanto. Anche in “A Love Story From Outer Space”, una ballata con un momento chitarristico delicatamente blues, le agogiche e il timbro vocale ricordano l’uso della voce di Julian Casablancas. Mio dio, in Italia c’è qualcuno che sa suonare così: è davvero entusiasmante rendersi conto che è possibile anche dalle nostre parti fare un rock gustoso, serio, meditato a livello fonico ma non necessariamente ingessato, politico, incazzato.

Ma in “90’s Call”, quando ci si rende conto che gli Absolut Red non muoveranno passi in superamento della loro primaria ispirazione, quasi viene da chiedersi perchè non ascoltare gli originali e farla finita. “Sunday” mostra la bravura tecnica sopratutto della sezione ritmica, con un basso quasi didascalico che esegue passaggi tecnicamente didattici, così come emerge in “Life in Black and White”. “Bathroom Wishlist” è scanzonata e apparentemente leggera, ben sostenuta ritimicamente, al punto di sembrare, a tratti, un surf rallentato. “African Savannah” ha stacchi netti e aperture di gusto, ma, ancora un volta mi chiedo cosa mi stiano lasciando questi ragazzi. Probabilmente tanta voglia di finire di scrivere e far partire “I’ll try anything once”.
A Supposedly Fun Thing We’ll Probably Do Again è un esordio felicissimo per una giovane band nostrana, a cui non posso che augurare, però, di riuscire a rintracciare un sound molto più personale e di elaborare criteri compositivi che, pur guardando al panorama internazionale, li allontanino dall’essere semplicemente copie e rendano il giusto merito alla bravura tecnica degli Absolut Red.

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Depeche Mode – Delta Machine

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Delta Machine”, tredicesimo appuntamento sonoro degli inglesi Depeche Mode, non è come gli altri della prosopopeica della formazione capitanata da  David Gahan, ma si allontana dai contenuti seminali della loro storia per abbracciare un blues elettronico mantenendone sempre quelle tonalità scure e di pece, travalicando i territori della loro istintività, ratificando una vena fosca e ossessiva che è – o pare – parimenti attitudine o specchio dei tempi; Gahan, Gore e Fletch con l’avvicinarsi al blues non come sperimentazione ma come nuovo pads da colonizzare, si introducono in una differenza sostanziale che nelle ballad murder e nei suoni profondi, condensati, ritirano fuori quella nozione geografica sonora che ridona respiro e vitalità alle loro genesi per ritornare quei cavalli di razza a rimordere il freno delle grandi e buone cose.

Con i precedenti Playing The Angel e Sounds Of The Universe già si aveva in tasca l’incorruttibilità di una band che col passare degli anni dava ancora gioielli neri, ma ora con questo nuovo lavoro la colorazione si tramuta in un rosso rubino maledetto, una proclamazione di bellezza che tra beat, sintetizzatori, bave sliddate e quel trascinamento lussurioso black come la notte, vive una seconda, terza e quarta vita, bellezza tutta miscelata nella “figurazione e nell’estetica”; con la produzione di Ben Hiller, Delta Machine è una vera macchina sonora, entusiasmi sfumati e una innegabile perizia strumentale, una dimensione in cui i singoloni “Angel” e”Heaven”, il Mississippi che score venoso tra le parole di “Slow”, la dance robotica che graffia il marchio sacrosanto DM “Soft Touch/Raw nerve”, la foschia vasta che annebbia “Alone” o la memoria incancellabile di una Personal Jesus che pare resuscitare dall’hook radiofonico “Goodbye”, sono l’alchimia superiore di una profonda svolta che premia questo disco tra le migliori cose uscite in questi primi mesi del 2013, e non è una esagerazione!

I Depeche Mode non tradiscono mai, hanno nel sangue – oltre che la maledizione del bello – anche tutte le sfumature del nero infinito che altri non hanno e non avranno mai.
http://youtu.be/bxi5MlJFyvE

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Loveless Whizzkid – We Were Only Trying To Sleep

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Eccellente esordio per i catanesi Loveless Whizzkind, bel frastuono ed intimidatorio indie-rock in nove tracce “We were only trying to sleep” che suggerisce essenze elettriche diafane, a tratti spalmato da psichedeliche Beckiane “Jassie’s Disappeared”, “Cousin Lizard” con i Pavement come portafortuna e il broncio scazzato di una certa wave, un piccolo brivido lungo la schiena che si conficca nella spina dorsale a mò di spillo alternative.

Un lavoro che vive tutto sulla spontaneità dell’ispirazione dei tre musicisti coinvolti, la glabra e nuda bellezza di melodie storte e di suggestione che, al di fuori di una spigolosità espressiva, sanno modulare una estetica slegata da tante “strizzatine d’occhio”, una fulminante e corrosiva list che fa battere le mani per tanta baldanza fresca e stilosissima; se vogliamo usare parole che più vanno a catturare l’immaginazione di questa band potremmo dire “una grezza e devastante maturità sonante” che solo in un esordio brucia tutto, è già grande e pronta per palchi d’ascolto allargati e per creare una personale linea guida nell’affollatissimo circuito indipendente italiano. E non si può non essere sottoposti brillantemente alla compiutezza di questi brani, scorrevoli e diretti che non disattendono nemmeno la più audace espansione in certi ambiti brit “Lovely Ball Of Snot” come nelle slabbrate sensazioni garage di “Hail To The “Lil” Gorilla”, praticamente tutto il minimo indispensabile per un ascolto a tutto gas e con l’argento vivo sotto i piedi.

Cinquanta minuti di vero talento che, spalleggiati da chitarre multiformi, un cantato densamente “out” e dal rombo di motori rigeneranti dell’irriducibilità indigena al 100% “Blue Butted Baboons”, costituiscono una piccola opera imponente per qualità e quantità, e se poi ci mettiamo dentro la “pazzia” incontrollata di “The Golden Cockroach’s Pinball Song”, la matrice sonica che questo trio vuole imprimere a pelle è inestimabile come un tattoo di un vecchio amore onnipresente.

L’ascolto di questo debutto è una dichiarazione all’estro armonico della sconnessione, una squisita naturalezza che è già realtà fondamentale se si vuole ancora considerare persuasiva la scena “trasversale” cosiddetta indie di testa e dal corpo dinamico.

Strafico!

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Great Master – Serenissima

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Un genere quello Heavy Metal che non appartiene a tutti. Ma lo scetticismo popolare verrebbe subito spazzato via entrando nel mondo di Serenissima, secondo album dei Great Master. Osservando più attentamente la copertina si entra in una città fatta d’acqua, di ponti, di cupole e di stormi di uccelli che sovrastano l’oscuro cielo notturno. Aprendo il digipack di ottimo “cartone” si scorgono i raggi solari di un tramonto che illumina i preziosi intarsi di un bellissimo lavoro grafico che culmina  nel corposo libretto, sicuramente da leggere attentamente per comprendere passo dopo passo il filo conduttore di questo concept album.

Città ricca d’oro ma più di nominanza, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia” come scriveva Francesco Petrarca, “e dalla prudente sapienza dé figli suoi munita e fatta sicura” è il pensiero che accompagna il primo brano strumentale “The Ascension”. “Queen of The Sea” invece è Venezia, città natale del gruppo, “regina del mare, la repubblica della libertà protetta e dominata da leoni d’oro”. La città governata dal Doge, “simbolo di aristocrazia, che n’è anche supremo giudice” (Doge), “terra di mercanti, portati dal mare in terre orientali per barattare ori” (The Merchant) e di cavalieri, ospiti durante la caduta di Zara. Si ricorda Marco Polo che “durante il suo viaggio ha visto illusione e realtà, miglia dopo miglia, sulla via della seta”, “attraverso il mare, il silenzio è rotto solo dalle onde. Magiche luci, guidati dalle stelle” (Across The Sea). Un album che ricorda la peste nera (Black Death), la guerra tra Genova e Venezia del 1372 (Enemies at The Gates), le battaglie a cavallo (Marching on The Northen Land), la battaglia di Lepanto, cristiani contro turchi (Lepanto’s Call), l’attacco francese contro il quale non si aveva possibilità di vittoria, “arrendersi o combattere, i cannoni sparano ancora forse per l’ultima volta” (The Fall) e dell’onore medievale dove “c’era stato un tempo lontano in cui gli uomini combattevano per l’onore, in cui la spada valeva più dell’oro” (Medieval Still).

Ma prima della grafica e della storia contenuta in questo lavoro, la vera scoperta è la vocalità di Max Bastasi, comprensibile, pulita e limpida perfino nei vibrati tenutissimi. Tutto questo anche e soprattutto grazie all’aspetto strumentale, alla batteria studiata e non opprimente di Francesco Duse, alle chitarre forti e melodiche di Jahn Carlini e Daniele Vanin, e all’ottimo basso di Marco Antonello. Un album e un gruppo che ricorda gli Hammerfall, ma purtroppo senza capelli, o a tratti la forte melodia dei Sonata Artica. Un Heavy Metal che accontenterebbe tutti, metallari, rocker e chi vorrebbe trovare ritmo in atmosfere melodiche. Insomma, un ottimo lavoro interessante da ascoltare, guardare e leggere.

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Barranco – Ruvidi, Vivi e Macellati

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Sanno come presentarsi i Barranco, band folk sui generis dalla bassa padovana. Artwork ricercata, ma soprattutto prodotta in 300 copie numerate in legno fatte a mano (!). Vi dico solo che me n’è arrivata una omaggio per la recensione ed è effettivamente fatta bene, intrigante quello che basta, e chissenefrega se risulta un po’ scomoda per trasportare il disco di qua e di là: se i Barranco volevano incuriosirmi, ce l’hanno fatta.

Ruvidi, Vivi e Macellati è un disco molto strano. Si parla di Folk, ma non la rivisitazione indie da Mumford & Sons a cui siamo abituati ultimamente: proprio Folk, atavico, ancestrale, fatto di chitarre, ukulele (?), concertine, mandolini, più Branduardi che Modena City Ramblers. Quasi medievale, direi: l’uso della voce, particolarissimo, così come le armonie vocali, e l’andamento generale delle canzoni, tutto porta indietro nel tempo, in un immaginario pittoresco e affrescato da liriche spesso cupe, quasi mai banali (che però non ho trovato da nessuna parte. Un peccato: avrei volentieri approfondito la questione).

Tornando ai Barranco: il disco procede dritto, senza troppi scossoni. La maggior parte delle canzoni sono ballate sospese, tra ritmi mordenti di chitarra, percussioni pungenti e un impianto vocale da cantastorie d’altri tempi, con qualche episodio che si discosta un po’ dal sentiero (“Astenia”, “Milite”). Un po’ più di varietà non avrebbe guastato, però come full lenght di debutto non mi sentirei di chiedergli altro. Piuttosto, la produzione: si sarebbe potuto fare meglio. Ruvidi, Vivi e Macellati gira, non si può dire altrimenti, però a volte suona troppo frizzante, troppo alto, e poco definito. Niente di male: bisogna sempre lasciarsi qualcosa alle spalle, come scusa per tornare. E noi aspettiamo molto volentieri il futuro ritorno dei Barranco, guitti sanguinari.

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Wonder Vincent – The amazing story of Roller Kostner

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Atto primo per gli umbri Wonder Vincent, The Amazing Story Of Roller Kostner, musica hot per orecchie “americanizzate” a tutta dritta,  ottimo rock’n’roll dentato di blues, funk e solletichi slabbrati di rockabilly punky e stoner che fanno tempi gloriosi lungo la tracklist, sul dorso di otto tracce impazzite, un disco che cucina a fuoco vertiginoso un ascolto pieno e mai allineato come le pieghe di lunghe notti su ballrooms alla corte di vizi inconfessabili.

Tutto gira intorno alla figura allucinata di un Roller Kostner, eroe ed antieroe di tutto ma che da modo e moto proprio a questa formazione di trattare una creatività sonica non indifferente, aggiungeteci un pizzico di volume alle stelle e tutta la sfrenata disinibizione dei debutti che fanno subito centro, e sarete protagonisti assoluti di una sensazione da mainstream, a confine tra un’opera laida di rock a sangue e una benedizione densa di immaginazioni e strade sterrate da cavalcare con l’anima e cuore; otto ingranaggi sonici da frontiera voraci di libertà in grado di far dialogare gli strumenti con i suoi raid stilistici, e non è un semplice contentino per amanti o aficionados di settore, è un carboidratico sound generale che mette soggezione per la parte tecnica e spacca il plesso solare per la forza meravigliosa che percuote ogni millimetro della list.

Andrea Tocci alla voce, Luca Luciani guitars/harp, Marco Zitoli bass/voce e Andrea Spigarelli batteria e percussioni, gestiscono una pressione musicale d’alto bordo, circola nelle venosità do ogni singolo componente il sangue dolce-amaro del rosso yankee, imprevedibile e corale, masticano  e sbavano chitarrismi imperanti, urlano e addolciscono melodie e anthems come dentro immaginette sacrificali in equilibrio tra deserto e Delta, una sequenza di brani di grinta e ficaggine assoluta; irresistibilmente  adorabili gli ondulamenti wah wah –funky “Funk’o’Saur”, feroce l’epilettismo sliddato alla Alvin Lee “My Little Bunny”,  sfiziosa la spennata slogata che si traveste da garage “Piss & love”  ed il Dylan virtuale che da continuità ad un country baldanzoso e da hi hip urrà “Venus in Darfur”.

E’ solo un inizio questo dei Wonder Vincent, un quartetto che fa grandi numeri ed è già un preciso indicatore di quello che verrà. Consigliatissimo!!

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Malatempora – Vite Parallele

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“Castelli di Sabbia” apre questo ep (anche se suona strano chiamare così un disco seppur virtuale che contiene ben sette pezzi per una durata totale di poco più di mezz’ora).
Nel brano scorgerete echi dei Marlene Kuntz un po’ dappertutto, con qualche piccola mescolanza al dark anni novanta, che non mancheranno di riempirvi il cuore di gioie ed emozioni.
“In Aria” per parafrasare il titolo di uno noto libro vi porterà “Tre Metri Sopra il Cielo”, più in alto delle nuvole, già dal parlato iniziale e dalle melodie (davvero intriganti con quel tanto di effetti che bastano ad ammaliare l’ascoltatore) delle chitarre.
Subito dopo invece viene naturale chiedersi chi sia la “Ilaria” a cui è dedicato il titolo del brano successivo, protagonista di un passato (ancora vivo?) che ritorna.
“Il Pifferaio” invece porta più che in un tempo remoto in una dimensione diversa con i suoi sounds che paiono usciti da una colonna sonora di quei telefilm anni settanta di fantascienza (Star Trek e Dr. Who ad esempio) ma con un fading eccessivo (che forse è l’unico difetto del brano e che secondo il sottoscritto andrebbe rimosso perché quei secondi di silenzio, diciamocelo, non hanno senso).
E con “Moniti Lontani”, come dicono i Malatempora stessi, piano piano ti allontani ancora più verso una destinazione ancora ignota.
“Vetri e Calci” infatti discorda con tutto quanto sentito finora ma non è detto che ciò sia un male perché è forse l’episodio più riuscito in assoluto in cui questi ragazzi della provincia di Salerno danno il meglio.
“Mentre tu te ne Vai (Il Mio Risveglio)” chiude questo lavoro che di immaturo ha ben poco e a cui basta davvero poco per poter essere un prodotto “commerciale che possa giungere alle orecchie di tutti.
Perfetto per l’airplay, un po’ meno forse per essere riproposto in concerto (sarebbe troppo difficile e forse un po’ assurdo riprodurre con maestria tutti i suoni) questo disco è un puro concentrato di vibrazioni sonore.

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