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Polar For The Masses – Italico

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Con “Italico” i Polar For The Masses fanno quattro, quattro dischi in otto anni che lacerano e segnano a fondo l’endemico tremore dell’underground nostrano, una necessità – la loro – di stare ai margini del rumore per dare vita ogniqualvolta ad un contrasto epidermico e da brivido sottocutaneo che si fa riconoscere subito, immediatamente, all’istante.

Dieci traccianti sonici che sono un trionfo di sonorità onnicolore, un cromatismo plumbeo che si bagna di liquidi elettro, fendenti chitarristici, trillii di esplosioni di basso, urgenze sociali e tonnellate di sudori di vita vissuta, sogni evocati e deliri tormentati; un disco come sempre notevole, carico di pesi e attitudini clamorose, mai fuori tempo e doppiamente interessanti che favoriscono quei piacevoli e solitari momenti di ribellione interna. Marlene Kuntz, Fluxus ed effervescenze alla Bluvertigo d’antan fanno da consapevoli istintività con i quali la formazione – nella sua scrittura estrosa e di attacco – si dota per creare paesaggi e paradigmi eccezionali, una presa diretta di elettricità, shuffle no borders “Laogai”, “Un Uomo, un Voto”, “Ruvido” che si attacca alla pelle come plastica fusa.

Minuti di fuoco e d’azione quelli che questa tracklist sforna a ripetizione, avvolgenti tappeti si suono che portano ad una nuova lettura – oltre che il cantato in italiano – in cui il trio vicentino sfonda, ovvero la maturità agognata per una band che matura già lo era alla partenza e qui confermata alla grande; aggressivamente sensuale in talune parti, il disco dei P4TM è un tripudio di componenti altisonanti, i grandi numeri di un basso incazzato “Terrorismo e Deejay”, la frenesia accalorata di “Wall Street” e l’opulenza marziale e pesante che detta legge in “Mia Patria” non sono altro che i primi effetti di una devastazione interiore e “affacciata” sulle vie sottostanti della vita di tutti i giorni.

Disco “nobile”, drasticamente calato nel nostro tempo e perciò imperdibile. Bentornati P4TM!!

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ILA & The Happy Trees – Believe it

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Roba da donne. E se questo significa bel timbro, bella musicalità e bell’intonazione, sia in italiano che in inglese, allora sì, è roba da donne. Sono l’ultima che si metterebbe a fare un discorso da femminista, anche se le femministe sono molto punk, ma per come è andato il mondo, soprattutto passato, nel quale le donne musiciste (sorelle, mogli e madri dei grandi geni) sono state messe nell’angolo per il troppo grande ego dei loro uomini, e degli uomini in generale, allora sì, penso che il mondo si sia perso, se non qualcosa di necessariamente grande, almeno qualcosa di bello. E Believe It, il nuovo album di ILA & The Happy Trees, lo è.

Ila è una cantautrice genovese, inizia a suonare a 17 anni, nel 2004 esce il suo primo singolo Penso Troppo, nel 2007 il suo album completo Malditesta, nel 2011 Little World, dopo due ep, e finalmente nel 2012 esce Believe It. L’album si muove tra l’italiano e l’inglese (e come lei stessa dice “se sapessi dieci lingue penso che le userei tutte”) senza perdere significato, precisione e atmosfere che vanno dal cantautorato italiano più melodico, a quello d’oltre oceano per certi versi più country, con qualche soffio dark e ambient. Il mondo d’appartenenza è quello acustico, in cui la voce e la chitarra (l’ukulele e la kalimba) di Ila vengono accompagnati dalla batteria e percussioni di Teo Marchese, dalla chitarra acustica, il banjo e l’ukulele di Lorenzo Fugazza edal basso e dai cori di Paolo Legramandi. Inoltre ospiti speciali del disco sono il cantautore italo-brasiliano Franco Cava e la violoncellista svedese Katy Aberg.

Tante persone, tanti colori e tante esperienze che si incontrano per un album per certi versi solare, dove protagonisti siamo tutti noi, con i nostri sentimenti, le nostre paure, ma con una grande voglia di credere in qualcosa, di fare tanto e di lavorare per cambiare ciò che ci sta stretto. Come si legge sul sito della cantautrice “Questo è un disco che potrebbe infastidire i più cinici”, semplicemente per le atmosfere belle e soprattutto propositive che quest’album emana. Con le sue dodici canzoni che senza dirlo esortano ogni giorno a trovare tre cose belle che sono accadute. Un esercizio che faccio costantemente e che mi aiuta, e aiuterebbe tutti, ad allontanare il grigiume che opprime questa vita frenetica. “Believe it è così: all’inizio non riesci a capire cos’è quella sensazione che le dodici canzoni ti lasciano addosso”, ma ci vuole davvero poco per innamorarsi di Ila e della sua musica, che dopo un paio di ascolti diventa familiare, come il prendersi un caffè al bar con vecchie amiche, ricordando le risate dei tempi passati, o come la musica lasciata andare sotto a fotografie  che imprimono i momenti più belli di una vita.                                                  
Insomma, una musica che lascia addosso belle sensazioni e belle emozioni, che non va tanto spiegata ma soprattutto ascoltata e vissuta, ogni giorno.

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MF/MB/ – Colossus

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Partiamo subito dal presupposto che gli MF/MB/ non sono una band emergente in cerca di fortuna, sono di fama mondiale e molto conosciuti. Spieghiamo il perché a chi per ovvie ragioni non li conoscesse. Vengono dalla gelida Svezia e alcuni pezzi estratti dal loro primo disco Folded del 2010 sono stati inseriti in colonne sonore di serie televisive di caratura mondiale come CSI:NY e The Inbetweeners, forse avete ascoltato i loro brani tantissime volte senza sapere di chi fossero. Siamo quindi d’accordo che gli MF/MB/ sono già una grande band non in cerca di fortuna. Sotto quest’ombrello non piove di sicuro. In una fresca primavera svedese del 2012 decidono di tornare in studio per dare vita al loro secondo disco Colossus esaltando le loro capacità compositive oltre l’umana immaginazione. Colossus esce per Adrian Recordings dopo un accurato missaggio di Magnus Lindberg (Deportees, David Sandström, Totalt Djävla Mörker e Refused), Colossus ti spacca la faccia al primo ascolto. I ritmi sono esagerati, i suoni bellissimi e il concetto di musica raggiunge prospettive non ancore conosciute in Italia, o meglio, non ancora valorizzate come dovrebbero essere. La batteria spinge talmente forte che ogni drum-machine ben confezionata risulterebbe banale a confronto, i suoni freddi sanno di elettro new wave, la voce calda porta il giusto equilibrio e le chitarre scavalcano i confini della realtà. Colossus non lascia mai spazio alla libera interpretazione da parte di chi ascolta, è talmente deciso da possedere potenti armi persuasive, sono gli MF/MB/ che decidono in quali direzioni bisogna andare per godersi il disco in tutte le sue parti più intime. Gli MF/MB/ dicono del loro ultimo concept rispetto al precedente:” Colossus è auto-analisi e terapia. E’ affrontare noi stessi e la bestia che è la nostra band. In Folded la nostra rabbia e frustrazione erano dirette verso l’esterno a tutti i bastardi che non capivano. In Colossus abbiamo invece guardato dentro, sperando di ottenere risposte a tutte quelle cose che non capiamo”.

Un disco terribilmente personale al quale dobbiamo riconoscere la propria bellezza, non esistono pezzi migliori di altri, il livello si mantiene alto dall’inizio alla fine ma per dovere comunicativo sono costretto a citare l’opener “Unto Death” , il primo singolo estratto “Casualties” (di cui sotto potete vedere anche il video) e la conclusiva “You Where The Last One to do Such a Thing”. Niente viene lasciato al caso, niente può essere fatto per caso quando vengono fuori dischi del genere, una scalata verso la magnificenza in chiave gotica. Una lezione molto forte alla musica italiana ormai sempre più strumentalizzata e comandata a svolgere il compitino classico, gli MF/MB/ sono tanta roba.

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Black Rebel Motorcycles Club – Specter At The Feast

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C’è  qualcosa che torna da lontano, ineffabile nelle pastorali psicotrope dei sempiterni Black Rebel Motorcycles Club, sì una nebbia vaticinante ora scarna ora ingrassata a pedaliere, e Specter At The Feast riafferma il magnetismo conquistadores che la band americana spalma nella sua – propedeutica sognante? – energia al rallenty che ogniqualvolta si (ri)presenta travolge sensi e teste in un trip da acchiappare al volo.

Disco maledetto dalle malelingue che vuole Peter Heyes e Robert Been al filo di lana di una creatività posticcia e riempiticcia, nulla di più falso, certo qualcosa si è smagnetizzato dagli esordi, ma il clangore calmo e la destrezza emozionale è ancora intatta, sottovoce e dreaming come poche, rimangono – loro –  un marchingegno sonoro intimo e sofisticato che è tratto distintivo di una maturazione che pare non avere fine, sempre pronta a rimettersi in gioco e ad assimilare la giusta via di mezzo tra rock e una certa metafisica ondifraga che sebbene figlia adottiva di certi Jesus And Mary Chain o Primal Scream, lascia intendere una spiccata personalità customerizzata a dovere, senza ma senza se; dodici stati per una scaletta che carbura a dovere, un binomio – quello di Heyes/Been – che rimane in sella ad un bagliore “stradaiolo” esteticamente stiloso.

Polveroso e nebulizzato, l’album è una apparizione sonora dietro a territori volatili, distorsioni accennantemente seventies e quella decadenza drogata di certe visioni Altmaniane a fare da bastione a languidezze da desert-road “Fire Walker”, “Lullaby”, spettacolarità e derive alla metedrina pura “Some Kind of Ghost”, “Lose Yourself”, sgasate  garage “Rival” ed una rivisitazione velocizzata di “Let The Day Begin” dei Call since 1989, un pathos che riempie l’animo e che dimentica certe similitudini forzate, specie quando il multistrato sonico di “Funny Games” rimbomba tra echi di estati d’amore e paure messianiche.

Abbreviando il moniker della band in BRMC, no si “smoscia” la tempra né la voracità d’azione, è solo un vezzeggiativo per sentirli ancora più vicini e ancor più “nostri” come riserva per momenti di vuoto in cui si vuole stare a tu per tu con l’armonia dell’elettricità.

Per cuori teneri e ardimentosi!

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La Notte Dei Lunghi Coltelli – Morte A Credito

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Il primo disco de La Notte Dei Lunghi Coltelli, progetto solista di Karim Qqru, già batterista degli Zen Circus, è una sorpresa assoluta. Al primo ascolto lascia perplessi, al secondo cattura, al terzo incanta. È un disco stratificato, profondo, citazionista, colto, e devo ammettere che non mi sarei aspettato questa varietà di stili e rimandi da un disco del genere.
Morte A Credito (questo il titolo, “rubato” ad un romanzo dello scrittore francese Louis-Ferdinand Celine) è infatti un pastiche di generi ed influenze. Si passa dall’hardcore di “La Caduta”, energico e accorato brano d’apertura, fermo su due accordi e sul mantra l’urlo che precede l’urto (testo ispirato al romanzo omonimo di Albert Camus), al quasi-rap industriale di “J’ai Toujours Été Intact De Dieu”, da un testo di Jacques Prevert. C’è una cura quasi maniacale sia delle atmosfere, incazzate o sospese, alla bisogna, sia del materiale lirico, che viene gestito con una sapienza rara (abbandonato per pezzi strumentali, come in “Ivan Iljc”, regalato da altri autori, come Aimone Romizi dei Fast Animals And Slow Kids che firma “Levami Le Mani Dalla Faccia”, o addirittura, con l’aiuto di Diego Pani del King Howl Quartet, sperimentato in sardo logudorese in “D’isco Deo”).
L’anima del disco è, senza dubbio, il punk: quello sentito, duro, sgolato; più un approccio, una forma mentis, che un genere musicale. “Morte A Credito” (la canzone) ne riassume tutte le caratteristiche: diretto, incazzato, disilluso, cinico, ma allo stesso tempo disgustato. Il punk, però, viene infilato ed immerso in un bagno di modernità industrial/ambient, soundscapes umidi o polverosi, che aiutano a bilanciare la ruvidità degli episodi più duri (come nel lungo parlato sintetico de “La Notte Dei Lunghi Coltelli”, con l’ausilio dell’onnipresente Nicola Manzan).
Morte a credito è anche un racconto: la follia dell’uomo, il male, l’orrore, la morte, appunto. Il raccapricciante rifrangersi delle onde della Storia sugli uomini e sulle loro azioni, visto attraverso una lente molto novecentesca, che sorprende trovare in un disco, così ben strutturata e fondata. Morte a credito è un esperimento audace, rischioso, e, purtroppo (ma mi piacerebbe essere smentito), di nicchia. Ma è un esperimento che, almeno per quanto mi riguarda, è completamente riuscito.

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Leon – Come se Fossi Dio

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Personaggio indubbiamente controverso e fuori dal tempo questo Leon. Diretto come una freccia puntata in fronte, nudo sia in copertina che nella sua musica e spudoratamente egocentrico già dalla prima uscita discografica. Dopotutto come si può ignorare la spavalderia del titolo Come se Fossi Dio? Ma il ragazzo valdostano, nato tra la solitudine delle sue montagne e vari goccetti di alcool, ha sempre mirato verso l’altro e non ha mai abbassato la guardia. E cita pure il latino: ”si vis pacem para bellum: guerra alla mediocrità, al politicamente corretto, al conformismo del gregge”. Onore alla causa e alla forza di volontà. Il risultato? Buono, un esordio distinto, ben delineato e personale. Non di certo un capolavoro di innovazione ma un gran bel gesto di personalità. Anzi un gestaccio, in faccia a tutti coloro a cui piace vincere comodo.

Pop violento e sanguinante già dalla title track che apre le danze. “Come se Fossi Dio” è carnale e profana, sensuale e blasfema. Regna dal primo istante una verace fisicità, uno spogliarello di fronte a tutti. Pregi e difetti amplificati sotto un costante martello elettropop. E il lavoro dietro le quinte merita un’ovazione, carezze ruvide del produttore Pietro Foresti, gemma oscura e incredibilmente versatile, al lavoro tra gli altri con Valeria Rossi (si quella di “Tre Parole”!), Scomunica e Tracii Guns (L.A. Guns). L’anima più dark e violenta nel ragazzo aostano viene dunque da subito sprigionata grazie ai meticolosi arrangiamenti. “Bellissima” avvolge con la sua intro comoda per poi infrangersi in uno specchio rotto: visioni distorte e realistiche si accavallano e si scontrano tra la bellezza e l’anoressia: “tra la pelle e le ossa c’è nulla, come il vuoto che è in me”, canto disperato a corpo libero.

“Immagini” è visiva e semplice, più naturale nell’arrangiamento e con elettronica rilassata che si mette un momento in disparte per creare tappeti volanti e sollevare in aria la canzone meno fisica del disco, vicina alle splendide ballate dei Depeche Mode. “Profughi” è l’episodio che finalmente ci porta a sentire più vicini gli echi dei tanto attesi Subsonica e di quella sana elettronica anni 90 di cui andavamo tanto fieri. Gli argomenti scomodi ritornano prepotenti nell’adulazione alcolica di “Nel Gin” e in “Ego te Absolvo”, sarcastica visione di un prete pedofilo. Non ci sono mezze misure, Leon qui suona davvero spavaldo, svergognato: “tocca qui con mano cos’è la trinità”. Mandiamo a quel paese i puristi e apriamo gli occhi.

Il disco si conclude con due chicche: la versione francese della sensuale “Wicked Game” di Chris Isaak e un remix bello tamarro di “Nel Gin”, opera di Nedagroove. Forte e orgoglioso Leon chiude il sipario di un disco a volte un po’ poco focalizzato e ancora disperso tra argomenti e suoni lontani. I muscoli possono rilassarsi, il primo sforzo è stato comunque premiato. Speriamo però che gli occhi non si chiudano e anzi che la vista migliori, in modo da osservare i dettagli a distanza. Sempre più lontano dalla schifosissima mediocrità.
http://www.youtube.com/watch?v=H6RIPMSXWDk

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Ben Harper – Get Up!

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Dopo album da brividi, album senza piega e concretezza, il mito di Ben Harper torna a splendere nell’assoluto, torna a confabulare mistiche indiavolate e anime vendute ai tanti Balzebù che infestano da secoli (forse da sempre) le acque e le lagune del Mississippi, e lo fa con un compagno sensazionale, il sessantacinquenne armonicista Charlie Musselwhite, dio del blues bianco e dell’armonica sbavata al massimo, tanto che “Get Up!”  – questo lo strepitoso album- già scala tutte le charts possibili dentro e fuori quell’America dei folli compromessi.

Dieci tracce immacolate di traditional, blues, rock-blues e soul degli avi che si perpetuano in un giro formidabile di lussuria sonora e oasi di spettacolarità, un Harper al meglio di sé ed un Musselwhite che non si risparmia a coronare ed impreziosire ogni singola nota, bridge o quant’altro, una tracklist di gran culto, un attimo professionale che – onestamente – da un Ben Harper non si sentiva da tempo, e quanto è dato sentire lo spirito si è “rialzato a testa alta” e con lui tutto il pandemonio divino della grande musica del Delta e dintorni; la mitica Weissenborn che l’artista americano strapazza a suo piacimento, strugge, gioisce, copula ed eiacula suoni, stridori, melodie e tutto quanto possa far incantare qualsiasi ascolto, un disco fortissimo che ti strappa i capelli e ti imbarca nei suoi infiniti viatici come e quando vuole.

Licenziato per l’ancor più mitica Stax, l’album è senza dubbio il migliore della discografia Harperiana, il più vivo e crudo tra le emozioni che ci ha da sempre regalato, e questa bell’accoppiata artistica premia il sound del Southern Spirit al meglio che si possa premiare; disco a due livelli, la parte dei cardiopalma sonori “Blood Side Out”o “Don’t Believe a Word You Say”, e quella passionale da genuflessione  – tra le tante – “You Found Another Lover”, “Don’t Look Twice” o “All That Matters Now”, parti che una volta unite e strette al massimo della loro ricerca d’anima esplodono per regalarvi un delle cose più belle uscite  in questa prima tranche d’anno.

Fatevi attraversare tranquillamente l’anima, ne vale la pena davvero.

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Iacopo Fedi & Loris Salvucci – The 4th winter session ep

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Dieci minuti appena per un ep tanto breve quanto intenso da parte dei marchigiani (sono di Ascoli Piceno) Iacopo Fedi e Loris Salvucci.
I due hanno iniziato a collaborare nel 2009 facendo entrambi parte del gruppo rock blues Moonbeans con i quali incidono un demo (Taste It) e suonano in diversi locali e festival anche fuori regione.
Terminata l’esperienza con i Moonbeans i due danno vita ad una nuova formazione rock blues, i Glass Onion Trio (ancora attivi). Parallelamente Iacopo Fedi decide di portare avanti la registrazione del suo terzo disco da solista (Crazy Heart) al quale Loris partecipa suonando il basso elettrico e la chitarra slide. All’inizio del 2011, i due fondano insieme gli Iacopo Fedi & the Family Bones, gruppo che segue Iacopo sia nell’arrangiamento sia nella riproposizione del vivo dei propri brani.
I brani qui presenti fanno parte di una serie di canzoni sulle quali i due hanno lavorato insieme al di fuori dei vari gruppi musicali sopracitati (e in particolare scritti per essere regalati a Daniela Giorgi, in occasione della sua laurea).
“Summer Day” è un colpo al cuore, anzi alle orecchie!
Vi stupirà con le sue melodie e armonie alla Elton John e/o Chris Martin (Coldplay)ma è bello anche sognare di essere distesi di notte sulla spiaggia in compagnia di una bellissima bionda che vi tiene compagnia…
Magari proprio quella “Beautiful girl” che in neanche centoventi secondi vi ammalia e vi ipnotizza con chitarre e voce che ben si fondono e incastrano con un organo.
“Spanish gift” invece è ancora più pacata ma con piccoli contorni leggermente “heavy” con una chitarra in sottofondo che dà un tocco di classe al tutto.

Conclude il tutto “Headless Byrd” (sì scritto proprio così… licenza poetica? Errore? O semplice svista? Oppure… è giusto così?) che ricorda da vicino gli Eagles e il Neil Young di “Needle and the damage done”.
Peccato che il sogno duri appena quattro canzoni, ma del resto un ep è progettato sempre in tal maniera…
Non ci rimane quindi che attendere il duo a una prova full lenght, ma per ora la prova è indubbiamente superata a pieni voti.
NB: I brani sono stati registrati in presa diretta e successivamente sono state realizzate delle sovraincisioni che hanno visto la partecipazione di Francesco Ciabattoni (Glass Onion Trio; Family Bones) al sax, e di Vincenzo Marconi Sciarroni e Giampiero Mazzocchi (entrambi nei Family Bones), rispettivamente alla chitarra elettrica il primo e all’organo e piano il secondo.
Solo per questo meriterebbero di sforare il punteggio massimo, ma va bene così!

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Amari – Kilometri

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Spazio e tempo sono due concetti astratti che vanno di pari passo. La musica poi sembra essere la loro concreta attestazione. Il tempo è quello endogeno del metro, del ritmo, della scansione sillabica, degli accenti. Lo spazio è l’orizzontalità dello spartito, il cursore che scorre sul vostro lettore, ma anche il luogo reale in cui ne fruite e quello immaginario in cui vi conduce. Gli Amari ci offrono la loro ultima fatica, Kilometri, come unità di misura di un’ideale dimensione spaziale anzitutto ma anche, conseguentemente, temporale,  in cui l’ascoltatore viene sospeso e condotto sin dal principio, da “Aspettare, Aspetterò”, in cui il ciondolare ritmico a tratti dub scandisce il tempo e imita una camminata spensierata, sottolineata dalle rime, ma smascherata nella sua vera essenza riflessiva dal verso “Capire se il mio tempo ha lo stesso valore del tuo”. “Ti Ci Voleva La Guerra” è un brano ironico, in cui l’artista sembra riflettere sulla propria condizione, affermando che  “Per rompere la bolla non basta una canzone”. E si capisce subito che questi ragazzi nascondo una grande serietà dietro la maschera dell’ironia e delle rime scontate sul modello sanremese, come conferma “Africa”, in cui la frase “Prova a spiegare la provincia a chi sta in Africa” ci rimanda in un attimo alle ultime discussioni politiche sull’accorpamento degli enti provinciali se non addirittura sulla loro abolizione, così come ci porta a riflettere sui tanti immigrati stoccati in case di accoglienza di cui si sente parlare per due giorni per poi dimenticarsene. Il singolo di lancio, “Il Tempo Più Importante” è la canzone più dichiaratamente riflessiva: una ballata pianistica in cui ci si concentra maggiormente sull’amore e sul tempo, che “non c’è più”, la cui ripetizione ossessiva viene scandita alla maniera di Francesco-C. Azzeccato è il dialogo che si intreccia tra basso, tromba e voci in “Il Cuore Oltre la Siepe”, mentre la mia personalissima coccarda per il miglior testo va a “La Ballata del Bicchiere Mezzo Vuoto”: il pretesto del ricordo del corteggiamento diventa occasione per meditare su se stessi, i propri cambiamenti e le pirandelliane centomila proiezioni del sé negli occhi degli altri. “A Questo Punto” a me ha ricordato il terremoto de L’Aquila. Non credo assolutamente fosse il riferimento primario per la costruzione del brano, che sviluppa ancora una volta una riflessione sull’individuo, ma la citazione della “casa dello studente” e il protagonista del testo che trema, mi ha ricordato quei tragici fatti. La title-track, “Kilometri”, è la più fumosa, densa e cupa di tutto il disco, costruita su una melodia arpeggiata e ipnotica in cui addirittura l’apertura del charlie della batteria diventa tematico. “Rubato” riassume perfettamente l’iniziale considerazione sul tempo e lo spazio: “La domanda non è dove, ma quando”.
Gli Amari sono una band facile da ascoltare e difficile da recensire; il disco non è immediato nella sua profondità, ma non fatica certo a farsi studiare. Ben riuscito davvero.

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Edaq – Dalla parte del cervo

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Scartare un album è come scartare un regalo di natale, soprattutto se il suddetto non si conosce. Dalla prima occhiata alla copertina si entra in un mondo tutto nuovo, fatto di cervi, di praterie, di atmosfere e sapori lontani, di gonnellini scozzesi e di quella natura selvaggia tanto preziosa, quanto dimenticata. Tutto questo gli Edaq (acronimo del nome originale Ensemble D’Autunno Quartet) lo raccontano nel loro lavoro d’esordio Dalla Parte del Cervo, album di dodici brani, strumentali, suonati e goduti per circa sessantasette minuti.

Ogni strumento è chiaro e centrato in un genere che va dal popolare al folkloristico più marcato, in quelle danze abbracciate in gruppo, che si evolvono in melodie malinconiche che mi ricordano un’America vuota e abbandonata, al contrario di altre che sanno di piccoli paesini francesi, allegri e festaioli. Non mancano le melodie più contemporanee, con una puntina di sperimentazione, che subito ritornano all’idea primordiale, di tradizione (quasi classica, che ricorda la musica antica) e di danza, come il valse, la polca e la bourrèe, in ritmo ternario, veloce e friccicante per la voglia di battere le mani. Bella la rilettura dei classici “bal-folk” europei, il tutto fatto con la massima libertà espressiva senza tradire lo spirito dei brani originali. E come loro stessi dicono “Cerchiamo di fare in modo che questa musica diventi una sorta di arte popolare, per essere più precisi di artigianato popolare, in cui si vanno a mescolare diversi linguaggi multimediali”. Come diverse sono le esperienze, le collaborazioni e le estrazioni culturali dei componenti dell’ensemble, formata da Francesco Busso alla ghironda, Gabriele Ferrero al violino, Flavio Giacchero alla cornamusa e clarinetto basso, Enrico Negro  alle chitarre, Stefano Risso  al contrabbasso e Adriano De Micco alle percussioni.

Un bell’esordio, con un album che non è fatto per tutti, ma che tutti dovrebbero ascoltare per riscoprire da dove veniamo e dove dovremmo andare. Una musica che va ascoltata attentamente per carpirne i cambi di tempo, le dinamiche, il diverso colore degli strumenti, come la cornamusa e la ghironda (un cordofono di origine medievale) e tutti quegli elementi nascosti nei molteplici minuti di questi dodici brani, molto lontani dalla noia, che a volte attanaglia l’esistenza di alcuni album, fatti solo di suoni assordanti.       
Insomma, in poche parole, un ottimo esordio e un’ottima conoscenza.

                                                                                                                                                               

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David Bowie – The Next Day

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Dopo dieci anni, il Duca Bianco è tornato a farsi sentire con un disco nostalgico e dolente, “The next day”, quattordici tracce che rompono un silenzio – molti indicano per scarsa creatività – in cui sono sorte idee, malelingue e istintività represse circa una fine non annunciata dell’arte di Bowie, col senno di poi degli ultimi flop discografici; invece è qui con i suoi occhi glaciali e  sessantasei anni sulle spalle a togliere dubbi e a rimettere in circolo la sua stupenda immagine deluxe in continua trasformazione.

Ma se la fisicità oramai risente di lente demolizioni, la musica e l’alchimia affatto, certo un disco che stringe immagini e proiezioni di un uomo artista che comincia a fare i conti con sé stesso, con le sue debolezze, fragilità, tanto che la tracklist ci riporta indietro, in quella Berlino del 1997 in cui l’artista ridava fuoco alle vampe electro del suo rinascere, di quell’essere eroe anche per un solo giorno ma intero e compiaciuto “Where are we now?”. Quindi un Bowie preoccupato per il futuro e per il presente, preferisce voltarsi indietro e lo fa con tonalità sobrie, eleganti, minimali, con una poesia che pare odiare gli spazi aperti preferendo rifugiarsi negli anfratti dell’anima, e se questo potrebbe sembrare una specie di annullamento o smarrimento interiore, ebbene si, lo è fino in fondo e bestialmente bello.

Prodotto dal fido Tony Visconti, The Nex Day è un riscrivere il passato interiore ed artistico, ed è pure un ritirare fuori con garbo certe magnetizzazioni che strappano ovazioni interiori quando “ripassano” la memoria i lustrini e gli strass argentei di Ziggy “Valentine’s Day”,  le ombre notturne di “Love is Lost”, la lisergia”Seventies” che trema nella titletrack o il lipstik che ancora emana fluorescenze glammy tra le bracciate divistiche di “How Does The Grass Grow?”; si,  tutto prende la cornice ed il suo immancabile passe partout di un impressionismo vivo, di un eroismo oltre il tempo che Il Duca Bianco non se la sente più di nascondere,  e ce lo manda a dire con una opera d’arte. un disco stupendo, di “rinascimento” delicato, tutto sommato, come una candida tela di ragno.

E’ vero, i Grandi non tradiscono mai.
http://youtu.be/md5zxN20-2s

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Geddo – Non sono mai stato qui

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Geddo, cioè Davide Geddo, cantautore ligure d’alta scuola, propone questo Non sono mai stato qui: un disco ampio, strutturato, sfaccettato (14 brani per un’ora e qualcosa di musica) che è praticamente un’enciclopedia del migliore cantautorato italiano. C’è veramente tutto, qui dentro: c’è il Folk, il Manouche, il Blues, il Rock leggero all’italiana; ci sono fiati, duetti vocali, violini, slide guitars, pianoforti. Ci sono canzoni ironiche e briose (“Piccolina”, “Angela E Il Cinema”), episodi più pacati (“La Campionessa Mondiale Di Sollevamento Pesi”, “L’Astronave Di Provincia”, “Venezia”), brani intensi e appassionati (“Equilibrio”, “Non Sono Mai Stato Qui”). Si sentono, in controluce, anche tutti i Grandi: la tradizione ligure, De Gregori (la partenza di “Un Pugno In Un Muro” sembra quella di “300.000.000 Di Topi”).

Non sono mai stato qui è un disco suonato veramente bene, dove gli accompagnamenti non si appoggiano mai, anzi, cercando di seguire le evoluzioni stilistiche del padrone di casa senza mai strafare, senza mai lasciarsi al caso. Insomma, mi ripeto, suona decisamente bene: la produzione è ottima e il livello medio degli arrangiamenti è piuttosto alto.

Devo ammettere che stavo per partire prevenuto, su questo disco: il cantautorato contemporaneo che si rifà più massicciamente al passato rischia spesso di essere una copia sbiadita degli originali, o, peggio, una caricatura in cui toni e movenze tipiche del genere si intensificano fino a sfiorare il ridicolo. Geddo invece mi ha stupito: riesce tranquillamente ad evitare tutto ciò, soprattutto grazie al suo modo di scrivere, che è alternativamente poetico e ironico, serio e divertito, regalandoci liriche a volte intense, a volte simpatiche, ma sempre intelligenti, quasi mai sopra le righe.

Se proprio qualche critica al disco dev’essere fatta, punterei sul rischio della mancanza di originalità, che è ovvio in un tipo di musica che riprende molta della storia passata del genere. E forse sulla voce del Nostro, che è sì versatile, ma non ha il timbro magico di certi cantautori del passato. Ma questo è mero esercizio retorico: prestate un orecchio al caro Geddo e fatevi raccontare una storia o due. Male non vi può fare.

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