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Giuliano Clerico – La Diva Del Cinemino

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Il cantautore pescarese Giuliano Clerico, prova a dettare le regole del proprio gioco sonoro, e il risultato è piacevolissimo, romanticamente storto, cromatico e urbano, il prodotto si chiama La Diva Del Cinemino, terza prova discografica per un teller-maker di rispetto, un’equazione di dieci tracce che sono spirito fresco per anima e mente, un eccellente “cantato e suonato” col gusto del particolare, blues, rock, calligrafia dolce/graffio e storie on the road, nonché struttura di suoni che ogni volta che vengono rimessi in circolazione, riaprono il senso acuto anche di una certa rimodulazione folk.
Disco appariscente e amarognolo di fondo e che emana musica che non annoia, anzi sorprende – nella sua semplicità caratteriale – nell’inserirsi tra centinaia di arrivi indie e quant’altro, elettrico, riflettente e pensieroso regala una fantastica economia d’ascolto tra refoli di Rino Gaetano, Dente, MuschitielloZona industriale e ondate di anni Sessanta esaltati da stupendi  “sbavoni” di schitarrate e organi con Lesli che innalzano le quotazioni  della tracklist a picchi astronomici; dicevamo dieci tracce a denominatore disparato, brani che offrono storie da ascoltare in momenti in cui il bisogno di una complice dolcezza è forte, e questo artista sembra fatto apposta per lenire e intaccare la carica di emotività a seconda della sua percezione del momento.
Il classico registrato dove non si butta via nulla, tutto è  decisamente figo e “da viaggio”, la ballatona da ronzino “Alla Bonnie e Clyde”, la spennata beatnik “La Strada”, “Il Prodotto”, l’ironia di una non erezione in salsa folk-western “La Valeriana”, o il Tarantiniano mex-mood che si insinua nella bella “Via Col Diavolo”, un impatto attualissimo che cesella pagine di un cantautorato inaspettato quanto valido.

Il talento di Clerico si riconferma, ed il suo essere nell’oggi con i sintomi creativi dello ieri lo premia sopra ogni aspetto, sotto ogni forma.

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Cut/Julie’s Haircut – Downtown Love Tragedies (Part I & II)

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I progetti che includono solamente cover sono spesso visti con occhio critico, si pensa subito alla perdita di ispirazione, ad un facile appiglio per acquietare un poco gli stomaci voraci degli ascoltatori.
Personalmente non la vedo proprio così e rompo una lancia a favore di chi ancora oggi crede nella cover. Chi la violenta, la rivolta, dandogli un proprio significato, oppure chi la conserva, magari la rende meravigliosamente scarna (pensate ai brividi provati da Trent Reznor nell’ascoltare “Hurt” rivista da Johnny Cash!) mantenendo lo spirito e la naturalezza delle vibrazioni “originali”. In entrambi i casi la cover ha il suo sporco perché e la band registrando una cover si mette in gioco più che mai.
Questo che abbiamo davanti è un progetto indubbiamente ambizioso. C’è da dire che si parla di due nomi che a mettersi in gioco sicuramente non hanno paura. Un 7’’ splittato con due cover soul interpretate da due formidabili band del nostro paese molto legate tra loro. I brani in questione sono “Emma” degli Hot Chocolate (versione originale) interpretata dai garaggioni bolognesi Cut e “Who is he and who is he for you” di Bill Withers (versione originale) stravolta dalla psichedelia dei Julie’s Haircut. Potete capire come la scelta di queste due canzoni sia ambiziosa quanto singolare per due gruppi che nel panorama nostrano ci hanno abituati a ben altri sound.

Partiamo dai Cut, che per altro di questi esperimenti sono pratici (per esempio la rivisitazione del classicone di Prince “Sign O’ the times”). “Emma” gioca sulla dinamica: prima intima, lontana migliaia di pianeti dalla Terra, poi il chitarrone che ci risbatte sul pavimento, ma nonostante la botta non ci svegliamo. Rimane tutto onirico e confuso. Il sogno però non è per nulla piacevole, è straziante, agonizzante. La voce, l’hammond e le chitarre di Ferruccio Quercetti e Carlo Masu marciano indisturbate in questa odissea spaziale accompagnata dal semplice e dinamico groove di batteria. La versione degli Hot Chocolate viene conservata, certo meno black, ma altrettanto intensa e forse addirittura più straziante. In questo episodio la “tragedia d’amore” fa male. Bella pugnalata inaspettata, una lenta agonia.
I Julie’s Haircut si sa, sperimentano a tutto andare senza mai trovare un punto fermo. In continuo movimento e mutamento (e sia chiaro ci piacciono così!). Qui rubano il riff di “Little Johnny Jewel” dei Television e sparano una versione tastierosa, vetrosa, tetra e anche qui distante e spaziale. Si rimane in aria, appesi. Forse questa cover risulta snaturata della semplicità della soul music e sarei curioso di sapere cosa ne penserebbe il buon vecchio Bill Withers in mezzo a tutti questa elettronica e questi accenni post punk. Si perde il ritmo ballabile ma non la tensione, che viene addirittura amplificata dalla band di Sassuolo in un crescendo sintetico, piccola salita che arriva dritta allo strapiombo.
Questo split funziona, è “genuino” (lo dicono gli stessi Julie’s Haircut!), arricchisce e scarnifica le perle “originali”. Le gratta a mani nude per riappiccicarci sopra vestiti nuovi, conservando li da parte i vecchi pezzi, pronti ad essere rincollati da un momento all’altro.

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Adam Carpet – Adam Carpet

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Mi arriva una mail. Contiene una serie di informazioni ghiottissime su questa band, Adam Carpet. Vorrei rivelarvele subito dall’inizio, così col convincervi a parole della validità di questo progetto, ma proverò far parlare la musica, per prima cosa. Anche se l’impresa ha il gusto delle cose impossibili.
Il primo brano che ascolto è sul tubo: “Babi Yar”. Avete presente quando siete lì, un po’ annoiati in un qualche anonimo pomeriggio d’inverno e vi arriva quella canzone che appena parte sbarrate gli occhi increduli? Ecco, io ho reagito così: per qualche istante mi sono pure domandato se non mi fossi addormentato, precipitando in qualche sogno di indefinita bellezza.

Che cosa sono questi Adam Carpet?

Dei mostri, forse degli alieni. Suonano musica extraterrestre, un intenso di mix di elettronica, rock, industrial, post rock e tutto quello che potete vederci. È un qualcosa di travolgente, sublime: ci sono groove e ritmiche serrate,suoni pazzeschi, divagazioni, atmosfere intense e dense di ispirazioni.
Ho detto suonano. Sì suonano: di programmato ci sono solo i synth e qualche arpeggiatore, il resto è tutto sudore di braccia e mani. E si sente. L’energia è davvero tanta, ti pervade e ti invade come poche cose. Forse in molti storceranno il naso a sapere che è un act interamente strumentale: mi dispiace per voi, ma qua non c’è posto per le parole, l’organico soddisfa già a dovere ogni esigenza comunicativa.

Ora come ora mi accorgo di quanto questo sia il tipico disco che le parole servono davvero poco a descrivere: ogni brano è talmente ricco di spunti e di sonorità che riuscire a trovare una decina di frasi che li inglobi tutti è praticamente impossibile, almeno quanto descrivere ogni singolo brano. Rileggo le frasi che ho appena scritto: suonano un po’ ridicole rispetto alla potenza sonora che mi sta passando nelle orecchie, una misera briciola di un qualcosa di gigantesco.
Provate per credere: lasciatevi travolgere dalle ritmiche ipnotiche dell’opener “Carpet”, dalla disperata riflessività di “Carlabruni?” e dalle sonorità grezze di “Jazz Hammered”. Fate solo anche un salto sul tubo, sentitevi di due singoli apripista di questo primo lavoro omonimo, “Babi Yar” e “I Pusinanti” e lasciatevi conquistare.

Infine, chi sono questi Adam Carpet?

Due batterie, due bassi, chitarra e synth. Componenti dei Timoria, delle Vibrazioni e di altri gruppi di livello. Certamente dentro questi soggetti vivono dei mostri, forse degli alieni. Oltre a questo è di indubbio interesse la scelta del packaging di questo debutto: un box in carta riciclata contenete un codice per il download digitale, la t-shirt del gruppo e una seed-card, che una volta innaffiata diventerà un fiore.
È un progetto indubbiamente di avanguardia, sia scenicamente che musicalmente. Chiedo scusa per il senso di ineffabile che questa recensione trasmetterà, ma posso farci davvero poco.

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Guarentigia – Dove Vivono Gli Uomini

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Ok, l’italiano (forse) non è la lingua più adatta per scrivere canzoni; perde nettamente il confronto con la musicalità dell’internazionalissimo Inglese. L’italiano è la lingua della poesia, della prosa, della recitazione, dell’opera o, se vogliamo, la lingua del cantautore. Non certo la lingua per eccellenza del rock. Essendo anch’io autore e compositore, mi sono spesso ritrovato a dover scegliere di non usare la mia lingua perché “sporcava” in qualche modo la musicalità della melodia che avevo creato e sono sovente venuto al compromesso (a dire il vero mai troppo sofferto) di scrivere in inglese. Di contro abbiamo una più difficile comprensione da parte della mamma del vicino della porta accanto ma… come scivola bene sulle note!
C’è da dire però che, a differenza mia, molti autori italiani sono invece riusciti a rendere al meglio la sonorità della nostra parola sulla musica, anche in generi musicali come il rock o il punk. Non è questo il caso dei Guarentigia, almeno non per quanto riguarda quello che ho potuto ascoltare nel loro nuovo lavoro Dove Vivono Gli Uomini.

Il disco inizia con “Sola”, un brano che già da subito vi farà capire che la band milanese non scende a compromessi con la commercialità del rock radiofonico: la potentissima intro dura infatti ben 45 secondi, tempo dopo il quale qualsiasi discografico che intenda passarvi su Radio Deejay vi dirà che deve arrivare il primo ritornello. Il brano ricorda, soprattutto nei refrain, l’atmosfera e la melodia dei “vecchi” corregionali Timoria. Dopo i 5 minuti abbondanti della prima traccia ci ritroviamo sorprendentemente una piccola intro di percussioni che, prima dell’arrivo delle chitarre di Jacopo Iamele e Daniele Cetrangolo, ci illude quasi che il genere musicale dei Guarentigia sia eterogeneo: e invece no. Rock-on.
La pregevole voce di Luca Bianchino canta poi con estrema rabbia il pessimismo di “Nessuna soluzione”, terza traccia del disco, ritornello della quale richiama il titolo del disco: “se vuoi puoi convincerti che ci sia un mondo migliore, ma di certo non è dove vivono gli uomini“. Particolarmente apprezzabile in questo brano la linea di basso di Roberto Rizzi, ottimamente supportata dalla sua metà ritmica, la batteria suonata da Ivan Visciano. Purtroppo però, anche se a sprazzi intravedo la famosa musicalità delle parole fuse nella musica di cui ho scritto sopra, anche qui incappiamo spesso in sillabe eccedenti e parole infilate a forza nella linea melodica. Intendiamoci, può essere una scelta. Una scelta però che non condivido.
Il disco scivola sugli stessi binari, peggiorando a mio avviso sensibilmente proprio nella quarta e quinta traccia, ma non deludendo tutto sommato le aspettative iniziali. I Guarentigia hanno le idee chiare su quello che dicono e su quello che suonano, questo va detto.

Menziono infine la canzone messa al numero nove nella tracklist, “La patria, la legge”, denuncia alla corruzione e all’ipocrisia della società e di chi ci governa, purtroppo ancora e più che mai molto attuale.
Note molto positive del disco riguardano il suono e la resa strumentale globale: tecnicamente suonato molto bene, ottima scelta sonora e ottima realizzazione in fase di incisione e mix. Gli arrangiamenti non introducono alcuna novità stilistica nel panorama del rock ma fanno egregiamente il loro lavoro di supporto. Unico “appunto”, probabilmente ancora una scelta consapevole da parte della band ma che ancora non condivido, riguarda la presenza della voce solista (il volume un po’ basso, la scarsa brillantezza), forse un po’ troppo “dentro” il mix considerando l’importanza che la band vuole dare a ciò che dicono i testi.
Sul loro profilo facebook i Guarentigia scrivono “Crediamo nella potenza del suono, nella magia delle atmosfere e nel peso delle parole”. Che dire? La potenza del suono c’è tutta, l’atmosfera è apprezzabile ma un po’ contaminata dal trascinarsi delle parole sulla musica. Il peso delle parole, già. Anche quello c’è, francamente un po’ troppo. I testi sono senza dubbio non banali o forse talmente non volutamente banali che risultano il contrario. I messaggi che i cinque ragazzi lombardi fanno passare attraverso le loro canzoni sono però certamente importanti e degni di dibattito e approfondimento. Ma non siamo di fronte a un saggio, a un libro di pensieri e punti di vista sulla società. Siamo di fronte a un disco e personalmente da un disco mi posso anche aspettare un messaggio, ma anche e soprattutto una musicalità che deve esistere nella fusione tra la musica e il verbo e che mi porti a godermi appieno l’esperienza dell’ascolto. Questa musicalità, in questo disco, non l’ho trovata. Se però vi piacciono le intro chilometriche, il rock vecchio stampo Timoria-style, i testi non metricamente impeccabili ma importanti nei messaggi e cantati bene, concedete un ascolto a “Dove vivono gli uomini”.

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Andrea Nardinocchi – Il Momento Perfetto

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Questo disco ha due anime: la prima è pop, italiano, che più classico non si può, con i testi dai congiuntivi sbagliati (“sembra che ho”) e le rime alternate, mi fai sorridere quando mi fai incazzare, perditi con me, le lacrime sanno di sale, insegnami ad amare, ecc. – niente di male in questo: è evidente che sia un progetto costruito con l’intenzione di sfondare (e con questo non intendo dire che Andrea Nardinocchi non ci creda, anzi, si sente, sottesa, una certa – e profonda – necessità espressiva).
L’altra anima è ciò che rende Il Momento Perfetto un lavoro interessante: la produzione (impeccabile). Il disco si snoda tra un’elettronica morbida, ritmica, cool, e un R’n’B come non ce n’è molto in Italia. La voce di Nardinocchi, anche se a tratti ricorda, nell’uso, un più famoso Marco Mengoni, è un ottimo fil rouge per queste costruzioni di samples, synth, campioni, che fanno di Il Momento Perfetto un prodotto più internazionale di quanto si possa pensare.

Il disco è tutto qui, tra qualche featuring (Marracash, Danti dei Two Fingerz) direttamente dal mondo dell’hip hop italiano che Nardinocchi frequenta spesso, episodi più mossi (“Le Labbra Screpolate, “Tu Sei Pazzo), singoli strappa-mutande (“Un Posto Per Me, dove la “necessità espressiva” di cui parlavo sopra emerge parecchio, e la sanremese “Una Storia Impossibile), tracce più sperimentali (“Il Momento Perfetto”, “Confondersi), aerate stanze d’amore e rimpianti (“Bisogno di te”, “Amare Qualcuno), flirt swingati (“Con Uno Sguardo), strani incroci di sintetizzatori gonfi e pianoforti (“Come Stai).
Per apprezzarlo dovete saper sopportare: la musica sintetica; le canzoni d’amore; le voci che escono dal cuore, e soffrono, e fanno soffrire; la lentezza intrinseca che un prodotto del genere si porta dentro. Se ce la fate, Il Momento Perfetto è un disco che vale la pena ascoltare, più e più volte, magari in dolce compagnia…

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Ottovolante – La Battaglia Delle Mille Lepri

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Sono sempre felice come un bambino quando mi arrivano dischi come questo: scoprire che ci sono ancora band che si divertono, che non fanno il compitino appoggiandosi a ciò che veniva prima di loro, che non danno per scontato che una canzone debba avere questo, fare quest’altro, dire quell’altra cosa ancora… io so che esistono tanti gruppi così, solo che spesso me lo dimentico, e a La Battaglia Delle Mille Lepri deve essere riconosciuto almeno il merito di avermelo ricordato.
Scritto, composto ed eseguito dagli Ottovolante (al secolo Gianni Mannariti e Denial Marino), il disco si snoda in 13 tracce di rock divertito e mobile, tra echi naif (“Balliamo Anche in Soggiorno”, che però non mi esalta più di tanto) fino a piccoli capolavori d’atmosfera e melodia (“Nota Panoramica”, che mi riporta alla mente i Meganoidi più rock, con un arrangiamento di fiati e chitarre molto azzeccato).
La Battaglia Delle Mille Lepri è cantato in italiano, con una voce che a tratti mi ricorda Manuel Agnelli – e prima che gridiate alla bestemmia, specifico: come utilizzo e valore, non tanto in tecnica o capacità. I testi si indovinano interessanti, in bilico tra litania e filastrocca, ma emergono poco nel marasma, sia per come sono scritti, sia per come sono cantati (esclusi un paio di episodi, come la già citata “Nota Panoramica”, o la rilassata “Adesso Torno, tra pacatezza da Ministri – la voce e un arrangiamento di chitarre e archi fatto sottovoce, o la toccata-e-fuga acustica de “La Folla).

Il bello de La Battaglia Delle Mille Lepri è anche questo: la quantità di riflessi che s’intravedono tra le sue pieghe. “Francesca non vuole sentire” si porta dentro un’ambientazione rock aperta alla Brahaman,“La folla”suona acustica e viscerale, vedo un mezzo Bennato in Caro dittatore (1972), gli Afterhours fanno capolino qua e là tra riff di chitarra ossessivi e voci acrobatiche (“La Mente Mente e il Mondo è Pieno di Luoghi Della Mente”) . Devo ammettere che rimango più incollato agli Ottovolante negli episodi meno aggressivi (“Nota Panoramica”, “Adesso Torno”): sarà perché gli riesce meglio o sarà perché sono meno appoggiati al già sentito? Fate una prova e sappiatemi dire.
La Battaglia Delle Mille Lepri è bello perché è vario. È un disco divertente (e ciò non vuol dire che i pezzi siano tutti allegri e spensierati). È multiplo, è pieno di arrangiamenti diversi, un parco strumenti interessante (batteria, rototom, pentole, cocci in cucina, cucchiai forchette e cucchiaini, synth, kazoo, basso, chitarra elettrica, classica e acustica, pianoforte, trombette, e non vado avanti perché dal booklet leggo cose tipo vocine tupatapatapatapa o auanasheps e ho come l’impressione che gli Ottovolante mi stiano leggermente prendendo per il culo). Tre brani su tredici sono skit sotto i dieci secondi (se hanno un significato recondito, non riesco ad afferrarlo). Rimangono dieci tracce, e ne vale comunque la pena.
A qualcuno La Battaglia Delle Mille Lepri non piacerà perché è troppo semplice, troppo terra-terra, troppo insensato. Più per partito preso che per altro.
E vabbè, ce ne faremo una ragione.

https://www.youtube.com/watch?v=tlCWsLDttM4

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La Musa – Italiano

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Nell’arena megagalattica dell’underground in cui arrivano, stazionano e partono migliaia di nuove formazioni musicali, c’è chi riesce, chi scompare e chi addirittura muore senza mai conoscere una via d’uscita, e quando capita di trovarne una che pare dire qualcosa, un singolo talento isolato appare come un’onda travolgente.

Dalla Puglia il passo inquieto dei La Musa, quartetto che spinge forte sulle pedaliere come sulle parole/denuncia che caratterizzano la loro poesia amplificata e Italiano è l’ufficialità sonora con cui si presentano al pubblico largo e, senza troppi panegirici, è una presentazione di tutto rispetto, l’impeto dell’hard rock emulsionato con spruzzi pop riesce a dare una forte soluzione continuativa all’ascolto mentre una fresca energia elettrica riporta a certi anni novanta tricolori, specialmodo a certi Malfunk di primigenia e taluni Settore Out dispersi con l’avvento di nuove esigenze; le sette tracce della tracklist si concedono senza mai sbracarsi, scorrono di loro e lasciano dietro una scia, una sonorità tecnicamente carica e metodica, merce rara di questi tempi.
Dicevamo scariche hard di base e melodia pop che si incontrano trasformandosi in hook radiofonici trascinanti come la titletrack, “Lei”, gli ariosi open chord che lievitano la stupenda “Aria” o le distorsioni shuffle che fanno tremare la conclusiva “Lacrime dal mondo”, il resto e forza d’insieme, una buona capacità di iniettare scintille e regalare momenti veri di musica.

Se è vero che il rock ama e adula l’imperfezione grezza del suo verbo, i La Musa si completano già alla loro prima turnazione.

http://www.youtube.com/watch?v=ZHBpHh_-3yE

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Sinervia – Limit Of A Dream EP

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Nata poco meno di tre anni fa, la band di Gattinara (Vercelli) è lo strumento primario col quale Luca “Lupo” (voce, chitarra & synth) ha palesato le sue creazioni originali e inedite, sotto il nome Sinervia, band nella quale andranno di volta in volta a congiungersi quelli che sono i membri attuali della formazione, Fabio “Cippo” (batteria), Jonathan (chitarra) e Matteo (basso). La prima scelta del gruppo fu di provare, provare, arrangiare e provare i pezzi proposti dal fondatore, soffocando parzialmente l’ovvia voglia di live, caratteristica di ogni musicista a inizio carriera. Il risultato di tanto lavoro è questo Ep di quattro tracce, Limit Of A Dream, gonfio di tutta la vena creativa di Luca ma anche ricco delle diverse sfaccettature proposte dagli altri membri i quali hanno riversato nei brani la propria cultura e formazione musicale oltre che la loro voglia di esprimersi messa al servizio del nucleo originario dei pezzi oggetto di arrangiamento. Il risultato è un rock duro, con diversi agenti che richiamano il Metal (perlopiù Post e Nu) ma non solo. Si passa da accessi vigorosi stile Deftones, fino al Grunge molto fuori dalla norma degli Alice In Chains (“Black Rainbow”, “Broken Eyes”). Alcuni riff si riallacciano addirittura ai Tool (“Shadow Of Light”) senza mai pareggiarne la magniloquenza ma non mancano momenti meno aggressivi di puro Alt Rock (“Red Sea”), con melodie più morbide e armoniose (Incubus, Kings Of Leon) e rimandi ai nuovi grandi vecchi del Rock nostrano (Verdena, ad esempio). Anche il post-rock/metal è accarezzato, come si può notare con chiarezza ad esempio nei muri di chitarra di “Red Sea”. Questo è certamente il brano più complesso, più strutturato, con diverse variazioni e interessanti cambi di ritmo, che fanno altalenare le sensazioni tra inferno e paradiso. Ottimo il lavoro di Luca e Jonathan alle chitarre, puntuale la sezione ritmica e assolutamente convincenti gli inserti sintetici, che s’incastrano alla grande senza suonare forzati, cosi come la voce, sia come intonazione sia come timbrica (forse in alcuni momenti appare forzata la pronuncia inglese ma potrebbe anche essere un’impressione di un non anglofono di nascita). Non male neanche le melodie cosi come l’esecuzione tecnica. Limit Of A Dream è il classico Ep nel quale è trasparente il tanto lavoro fatto da chi suona. Ha un unico grosso neo. Le diverse influenze dei quattro confluiscono in una proposta troppo precisa e poco originale che rischia di trovare difficoltà a far breccia sia nell’anima di chi non ama questo tipo di sonorità, sia di chi si sente troppo legato alla ricerca del nuovo. E magari gli altri si chiederanno perché ascoltare i Sinervia quando ci sono i Deftones, gli Incubus e tutta una scuola di genere piena di talenti stranoti. Se questi ultimi rileggeranno dal principio, forse troveranno la risposta in un paio di semplici parole.

https://soundcloud.com/sinervia/broken-eyes-mp3

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Widowspeak – Almanac

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Arrivano dallo Stato di New York i due Widowspeak, e ci portano un bastimento carico di chitarre western e ambienti ariosi, voci eteree e atmosfere sognanti.
Registrato in un fienile vecchio più di cent’anni, Almanac (come i vecchi annuari con i consigli per agricoltori e naviganti) è il frutto soprattutto del labor limae del chitarrista Robert Earl Thomas, che ha espanso i demo prodotti dalla coppia dopo l’esordio omonimo del 2011 con strati e strati di chitarre, armonium, piano Rhodes, organi. Il risultato è un fondale a metà strada tra il West e il mondo dei sogni, dove tutto levita leggero, il vento soffia piano facendo roteare la polvere e le stelle tremolano distanti: davanti ad esso scorre il tempo della natura, con i suoi cicli infiniti, la vita e la morte delle stagioni, la giovinezza, l’amore.
Ma il disco non sarebbe lo stesso senza l’altra metà del duo, Molly Hamilton, che ci regala linee vocali sottili come carezze, leggere come soffi. E questa leggerezza è il marchio di fabbrica di tutto il lavoro, caratteristica centrale e ragione di vita del duo, che ci tiene sospesi sia negli episodi più incantati (“Perennials”), sia in quelli dall’andamento più western (“Thick as thieves”, “Minnewaska” – sorta di canto popolare sui generis -, “Spirit is Willing”), sia in quelli più spiccatamente pop (“Devil Knows”, “Ballad of The Golden Hour” – che fino al primo inserto di slide guitar sembra un brano da cantautrice folk anglosassone, tipo Amy McDonald).

Un ottimo prodotto, nel complesso, tra echi di Slowdive e capacità di sintesi alla Low. Da gustare passeggiando nei boschi (ma quelli con le sequoie), oppure osservando le onde disegnate dal vento su pianure coltivate a grano. O anche sdraiati su un prato, o seduti in veranda, ad aspettare le nuvole. Consigliato.

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Pablo e il Mare – Miramòr

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Non è facile fare un disco pop senza risultare banali, già sentiti, scontati. Non è facile, pure nella banalità, nello scontato, nel già sentito, riuscire a dire qualcosa di personale. Non è facile soddisfare i gusti di un’onnivora musicale meteoropatica come me. Eppure i Pablo e il Mare sono riusciti in ciascuna di queste cose.

Miramòr è un lavoro discografico elegante fin dalla copertina, fatto solo di uno fondo bianco con un mazzo di peperoncini rossi annodati dai gambi, che ricorda tanto certi matrimoni in cui la sposa, pur dovendo rispettare le tradizioni, trasgredisce ficcando dei peperoncini nel bouquet, ché in fondo sono rossi come l’amore e la pelle arsa dal sole e calienti come la passione. Perché c’è questa latinità nel disco, una forte e diffusa componente mediterranea che si traduce in un gusto per le sonorità acustiche, a tratti più propriamente folk come in “Fidelina” o “Ora lo sai”, che fa un uso del popolare commisto al pop molto simile a ciò che fa Daniele Silvestri, o “Farfalle”, più mossa e danzereccia. E il cantautorato è il vero protagonista di questo disco: “Immaginario” ha un certo sapore retrò, soprattutto per gli archi di accompagnamento, la chitarra acustica e il riferimento testuale alle ventimila Lire di ormai lontana e nostalgica memoria; “Pesci Tropicali” è quasi l’ideale colonna sonora di un film, con il suo raffinato accompagnamento pianistico. Il cinema, infatti, è l’altra grande ispirazione dell’album: molte tracce sono costruite con il solo intento di narrare storie, contrapponendo e giustapponendo immagini diverse in grado di ricreare suggestioni, mentre la musica, talvolta dal sapore pulp, sottolinea, evidenzia, accompagna. Eclatante è il caso di “Franco Ciccio e la Sirena”, mentre l’atmosfera diventa più fumosa e cameristica in “Gatto sul Tetto”, in cui la voce esegue salti melodici volutamente rochi, che mi hanno ricordato certi slanci vocali di Piero Pelù. La più riuscita, per quanto forse sia fin troppo didascalica è “Migrante”: l’introduzione fatta di suoni di onde che si infrangono e gabbiani in volo, su una linea melodica strumentale quasi arabeggiante. Mi ha ricordato molto, per i riferimenti, le ispirazioni e, innegabilmente, per l’argomento, Il Treno del Sole dei Mau Mau di Luca Morino. Il belcanto nostrano e la nostra tradizione pop, invece, sono il trait d’union di “Avvampa”, la traccia di apertura che subito mostra la capacità di curare gli arrangiamenti (per quanto non siano originalissimi e mi abbiano subito rimandato a Le Vibrazioni) e di “Viva”, brano di chiusura del disco dal sapore vagabondo, un po’ alla Negrita. Le influenze del lavoro dei Pablo e il Mare sono davvero disparate, ma tutte interiorizzate e rimaneggiate in una chiave stilistica molto personale. Ne risulta un disco con una individualità precisa e una capacità evocativa molto alta. Una bella scoperta davvero.

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Libera Velo – Rizoma contro Albero

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Talento atipico quello dell’artista campana Libera Velo, un equilibrio frizzante ed una formula sospesa che torna dopo tre anni di assenza dalle scene con un bellissimo album “Rizoma contro Albero” e già dalla copertina è un preludio all’imbattersi in uno dei dischi più intelligenti dell’ultimo cantautorato in circolazione.
Disco da salopette, ed è proprio così, una tracklist intrisa di frizzante e giochi sonici diretti da una voce limpida ed inusuale, un argentino tecnicamente fonogenico che si rotola nelle preziosità blues, cantautorali folkly e tutto il pindarismo di una artista che profuma di classe e che si concede al pop con la giusta misura che hanno gli sprazzi, i cambi di passo veloci e le folate di vento tranquillo; con un accostamento virtuale alla Ani DiFranco per via della spigliatezza esecutiva “Puca”, “Memo bizzarra”,  Libera è una artista che vive dentro e fuori dal tempo, spazia equilibrismi e atmosfere che modulano e mettono in agio assoluto l’ascolto, sia quello legato alle parole, come quello della tessitura sonora, un compendio generale di goduria e profondità che solo i piccoli gioielli posseggono.
Già da tempo – ma qui confermata – l’idea di avere a che fare con una nuova eroina della scena cantautorale “femmina” si è concretizzata, la quadratura del cerchio si è chiusa aprendo una splendida “alatura” che piroetta, si posa, svincola e torna a posarsi con un fare poetico libero e anarcoide di suo; disco anche di grandi collaborazioni, partecipano membri dei 99 Posse, Foja, 24 Grana, Slivovitz e Gnut, e un tornare in pista alla melodia fluttuante, alla caratterizzazione limpida di chi sa essere figlia naturale della grazia. Plateali gli odori di limo e alligatori del Mississippi “Jimmy’s Blues”, “Il Punctum”, l’intimità riflessiva “Questo mio essere brillante”, il battito field che scorrazza in “Mi piace il suo vestito” fino a chiudersi nel mood jazzly che “Zenzero” sigla e da “essenza” coccolona a questo ottimo registrato.
E si, Libera Velo torna a ripopolare le formule e le alchimie di un cantautorato che raschia il barile, e lo fa con una produzione che cattura perdutamente, che ti fa perdere momentaneamente la noia di ascolti vuoti con le sue vibranti “innocenti” fantasie vissute. Welcome!

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Balagan – Nonostantetutto

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Da Vicenza passando idealmente per gli States, i Balagan ci regalano questo disco, autoprodotto, di blues scuro, folk strascicato, con qualche incursione jazz e samba: un album notturno, da bar gonfio di fumo, col biliardo in un angolo e un barista scontroso oltre il bancone.
I Balagan sono chiari fin dal principio: figli di Tom Waits, basano la loro musica crepuscolare e ruvida sul binomio “voce di carta vetrata” + “atmosfere retrò”. E il connubio è vincente: tra cantautorato da strada e un tono colto, come da concerto a teatro. Strumenti folk, perlopiù, dove comandano i pianoforti e le chitarre, i primi leggeri e sognanti, le seconde ondivaghe e tremolanti.
È bellissimo farsi trasportare in questo mondo di buio con poche, incerte luci a segnare la strada. Davide Ghiotto ci culla sussurrando rauco nelle nostre orecchie, mentre il resto della banda lo accompagna, tra arrangiamenti sapienti e un gusto che si percepisce studiato e di classe.
Il fantasma di Tom Waits è sempre presente, così come il suo emulo italico Capossela (Gatti = Contrada Chiavicone?), insieme a qualche eco da cantautore nostalgico (leggi: Francesco De Gregori in Meste’), fino ad arrivare al recital di USS Constitution, brano che chiude il disco.Sono proprio gli “inciampi” (se così vogliamo chiamarli) a rendere questo disco un piccolo scrigno di perle (penso a Venere, così cantautorale, o a Samba blue, così… samba).
I testi, sebbene alla prima lettura possano sembrare nudi, scarni e poco ispirati, vengono totalmente stravolti dalla voce di Ghiotto, che riesce a far passare, attraverso versi che spesso sembrano filastrocche in rima baciata, una passione e un sentimento che non avremmo creduto potesse abitarli.
Un disco onesto, sincero, suonato e arrangiato bene, forse troppo appoggiato su questa voce così particolare, e che allo stesso tempo ci ricorda (molto? Troppo?) spesso qualcos’altro. Un disco da ascoltare in auto viaggiando nel buio, o seduti in poltrona bevendo da un bicchiere senza fondo, ad occhi chiusi.

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