Il trio fiorentino ritorna prepotente e lo fa a quattro anni di distanza dal precedente Growing Heads Above The Roof, con Asylum: Brain Check After Dinner, un concept album per folli, reclusi, e per tutti quelli che sentono il bisogno di trovare una via d’uscita non convenzionale alla monotonia della quotidianità.
Il disco si apre con Suicide Watch e Being Ed Bunker in cui il ritmo scandito dalla voce e dalla batteria sembrano ricordare marce e grida di rivolta, mentre contemporaneamente i suoni sintetizzati, ripetitivi e stridenti cerchino invece di avvertire l’ascoltatore che potrebbe impazzire.
Loop allarmanti, suoni glitch e caos organizzato prendono il sopravvento nel finale di Mohamed Bouazizi ed in Nothing Better Than a Morning Fuck dove pare trovarsi di fronte ad una catena di montaggio che improvvisamente va in tilt. Arabs On The Run Psycomelette si caratterizza per un inizio dolce come i campanelli che strimpellano ninna nanne per bambini, per poi svelare tutta la rabbia punk nel finale. Di cattive abitudini si parla invece in Bring Drug And Food ed in Holy Ravioli In A Drug Free Zone, quest’ultima caratterizzata da una voce hip-hop ed un contorno distorto e caotico. Un mix insolito e ben riuscito. Conclude il disco Tecnocratic Chinese Flue, più quieta rispetto alle altre tracce, ma comunque sia alienante.
Diciamo che il passato carcerario dei componenti in questi 11 brani si è fatto sentire, come anche la loro insanità mentale, in quanto dopo l’ascolto dell’intero album ci si chiede se durante le registrazioni non fossero stati in preda ad un delirio psicotico. I Miranda sono spregiudicati, sporchi ed irriverenti, pronti a regalare allucinazioni distorte ed emicrania patologiche a tutte le persone sane di mente.
Recensioni
Miranda – Asylum: Brain Check After Dinner
PornoVarsavia – [O]
Di traverso o negli angoli meglio celati dell’underground patriottico, i novaresi PornoVarsavia meritano un posto di eccellenza alla voce ”AmplificatIndomitIndie”, perché attraverso il complesso groviglio di ispirazioni elettriche di cui si dotano, tracimano esplosioni e dilatazioni psicotiche che nel loro – per il momento – piccolo around fanno avvertire gli spostamenti d’aria di chi è oggetto destinato a piccolo culto per iniziati.
Con Cristiano Santini (Disciplinatha) alla produzione, [O], questo il monogramma del disco, è un intenso pathos rabbuiato in dieci tracce che drizzano il pelo, catturano e movimentano una scena uditiva che va dall’indie venato di wave “Bla bla NYC”, “Luz Mala” al rock con inflessioni grunge “Odilia”, “Fango e polvere” senza schifarsi per nulla di colorare qua e la citazioni psichedeliche “Il fronte è lontano” ma giusto un accenno per restare sopra ogni sospetto; il quintetto si carica liricamente di un social-poetry che penetra molto nell’ascolto, un’espressione che apre veemenza e criticità, lasciandosi accostare nella sua imprevedibilità, nella sua stesura elettrica con volontà e attenzione.
Non mancano percorsi da sviluppare ulteriormente, da “raddrizzare” dalle loro pendenze anonime e fuori riga come l’indigenza strutturale che caratterizza la pretenziosità Ferrettiana di “Sei gradi di libertà” o il barocchismo prog epico che annienta “Il giorno che fugge”, ma sono solo piccoli nei che nella trama generale del disco passano via senza demonizzare, poi al passaggio della spiritualità Disciplinathesca che rimbomba in “Carogiulio” il valore di questi pezzi è messo al sicuro ed il senso “tirato” del pathos generale altrettanto. I PornoVarsavia devono ancora mettere a nudo quel 5% che gli rimane per mostrarsi in tutta la loro opalescenza grigia, per tutto il resto già una formazione spigolosa e cerebrale pronta per arrancare qualche gradino più in su dei gironi calienti dell’underground.
Oslo Tapes – un cuore in pasto a pesci con teste di cane
Nella musica uno degli elementi fondamentali è emozionare l’ascoltatore, non importa il tipo di emozione provata, l’importante è emozionarsi. Ognuno di noi deve farlo per sentire viva quella parte intima che altrimenti rischierebbe di soffocare.
Ed ecco che Marco Campitelli (The Marigold e Deambula Records) incontra l’estro passionale del sempre attivo Amaury Cambuzat per dare vita al progetto Oslo Tapes (un cuore in pasto a pesci con teste di cane), atmosfere cariche di nuvole pesanti sopra un cielo rumoroso di quasi primavera. Non c’è molto da rivendicare se pensiamo ad un disco ricco di spunti melodicamente sporchi e pieni di significato, non credo tanto nella banale categorizzazione del semplice rock italiano, qui abbiamo tanto nord Europa dentro picchiato a forza dalle chitarre comandate come fossero angioletti cornificati dall’esperienza di Cambuzat. Campitelli sorride come un diavolo quando può avvalersi della complicità artistica di musicisti come Nicola Manzan e Giole Valenti (solo per citarne alcuni), il prodotto finale assume uno spessore rilevante al quale bisogna in ogni caso rendere omaggio, la differenza si sente. Impercettibili vibrazioni mandano in affanno il cervello.
Oslo Tapes al contrario di una tradizione passata adottata dalle produzioni vicine a Campitelli che voleva solo liriche in inglese inizia una sperimentazione dei testi (se pur brevi) in italiano, possiamo considerare questa scelta molto importante ai fini della divulgazione nei circuiti indipendenti italiani che non vedono di buon occhio lo sperperare della lingua britannica ai soli fini d’esportazione e musicalità. Insomma, siamo Italiani e nonostante tutto ci piacciono anche i pezzi cantati in italiano. Oslo Tapes (un cuore in pasto a pesci con teste di cane) racchiude undici brani diversi ma con un percorso molto concettuale, situazioni mistiche in ambienti prevalentementi cupi, la new wave indirettamente trova il proprio spazio all’interno del disco, ascoltare brani come Distanze e Attraversando per farsene un idea precisa. La vita non lascia certezze a cui aggrapparsi, meglio perdersi in infinite spirali senza fine (Nove Illusioni e Tremo) per dimenticare di essere sovrastati da un sistema brutto e decisamente pesante. Il finale viene affidato ad una ballata profonda (Crux Privèe) alla quale il progetto Oslo Tapes decide di affidare la firma dell’intero lavoro senza nessuna remissione di peccato.
Era tanto tempo che non mi caricavo di tanta fragilità mentale, Oslo Tapes suona come un ipnotico
gioco di prestigio in una serata di pioggia, un progetto molto importante per la sperimentazione musicale tricolore, qualcosa che riesce a smuovere le menti della gente.
Qualcosa di tendenzialmente bello e importante. Il disco uscirà il 12 Marzo, nel frattempo qui sotto vi lasciamo un assaggino.
New Order – Lost Sirens
Pur nell’evidenza clamorosa di molteplici riferimenti caratteriali, nell’indolenza nevrotico/lunatica che li ha sempre contraddistinti, i “nuovi” New Order di “Lost Sirens”, al di fuori delle contorte code giudiziarie, rimangono sempre sulla linea della sicurezza, ripercorrendo quasi per intero le gittate sonore di ieri, magari con un po’ meno di sgambettamenti dancers, ma da quel versante non ci si muove.
Il casinista e adorabile bassista Hooky se ne è andato sbattendo le porte ma in questo Ep comprensivo di otto brani per un circa quaranta minuti di musica nebbiosa, Ottantiana con tutti i crismi, il suo basso risuona e fa tonfo ancora in maniera impareggiabile, con intatta la fascinazione wave che ha segnato una generazione al completo; tracce estrapolate da sessioni discografiche del 2005, tirate fuori da quel bel “Waiting for the sirens” messo a congelare per vicissitudini e relazioni increspate e che solo ora vengono messe all’aria per la goduria di massa. Dunque una band riformulata nel fisico ma identica nella memoria, un sound totale che ritrova l’equilibrio e l’ostinazione intatta per piacere ancora.
Alcune tracce già sono note, rivisitate con noise “Hellbent”, con l’impronta noir dei Velvet Underground “I Told You So”, un ottimo sculettamento dance “Sugarcane” e qualche lascivia sdolcinata che tra “Californian Glass” e “Recoil” stende una bava amara di nostalgia appassionata, e le atmosfere di contorno? Tecnicismi soffici di elettronica e belle fiammate di chitarra (spesso anche computerizzata) che già sono patrimonio insostituibile per memorabili bridge radio-friendly.
E la storia va, prosegue il suo viatico sommersa da distorsori e foto ingiallite di Joy Division verso un futuro al contrario.
In-Hour’s Mind – S/t
Vi darei ragione se diceste che non c’è niente di terribilmente innovativo in questo scarno e spartano prodotto dei milanesi In-Hour’s Mind, ma se un disco lo si dovesse giudicare esclusivamente dal numero di volte in cui lo si tiene incollato all’orecchio, dovrei essere molto, molto più generoso.
Un’elettronica lineare, naif, ma forse proprio per questo più psichedelica, più allucinata. Synth, campioni, batterie, una voce distante e mascherata, ritmiche ossessive, lead impeccabili nella loro semplicità, ritornelli da saltare, sudati ed esaltati, sotto un palco. È un electro-rock per niente fighetto, è grezzo, ignorante, rasoterra – ed è questo, per me, il segreto della sua piacevolezza immediata.
I quattro pezzi di questo non-ep (tre originali dai titoli rubati a personaggi del mondo di Super Mario – non credo casualmente – e una cover dei Soulwax, Krack) scorrono infatti tutti abbastanza facilmente, ma devo ammettere che la vera sorpresa del disco è stata l’apripista, Yoshi, che continuo, non so perché, a canticchiare insistentemente, da giorni. Non so se la colpa sia da imputare alla voce anthemica, o a questa ambientazione da videogame anni ’90 (espressa alla perfezione da un video parecchio lo-fi, ma che centra esattamente il punto).
In generale, nonostante l’orecchiabilità delle tracce più riuscite (la già citata Yoshi e la conclusiva Daisy), l’operazione mi sembra, in qualche modo, incompleta… però si porta dentro dei semi molto interessanti: se gli In-Hour’s Mind sapranno sfruttarli a fondo, e con più metodo, mi prenoto già da ora una copia del loro prossimo disco.
Jaspers – Mondocomio
Premessa: ho visto i Jaspers live, un venerdì sera in cui non avevo nient’altro da fare. Ci sono andato conoscendo solo un pezzo loro, Palla di neve, di cui avevo visto di sfuggita il video (orrendo). Il brano in questione, secondo il sottoscritto, è una ballad pallosissima (mi si perdoni l’espressione non propriamente aulica). Capirete quindi il mio stato d’animo nell’entrare nel locale rischiando una rottura di palle infinita, aspettando questo gruppo stranissimo che si maschera per suonare, stile Slipknot de noantri, e poi produce un pop super-italiano, super-melodico. Ero un po’ interdetto, e non sapevo cosa aspettarmi – ma se avessi scommesso, avrei puntato sulla rottura di palle.
E invece i Jaspers mi sorprendono. Una presenza scenica eccezionale. Una bravura tecnica invidiabile. Si lanciano in lunghissimi brani-follia, uno più pazzo dell’altro – e qui la parola chiave è pazzo. Sì, perché poi scopro che i Jaspers (che prendono il nome da Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco) hanno una loro missione, una loro ricerca: “chi è il pazzo? Chi esplora la follia o chi si nasconde dietro a mille maschere, in nome di una “normalità” fatta di castrazioni e compromessi?” (parole loro).
Insomma, oltre ad avere (pare) le idee chiare, fanno pure un concerto coi contro-cazzi, e scusate il francesismo. Intensi, coinvolgenti, girano per la sala, si dimenano, e in tutto questo suonano benissimo, ognuno il suo: batterie precisissime, tastiere onnipresenti, chitarre avvolgenti, e poi la genialata finale, le due voci, vero punto di forza di tutto l’ensemble. Si mischiano perfettamente, si rispondono, si inseguono.
Ottimi, davvero.
Poi però torno a casa. E mi ascolto il loro disco. E sapevo, giuro, lo sapevo: sapevo che i Jaspers avrebbero rischiato molto nel fissare quel delirio su un supporto qualsiasi. E avevo ragione.
Il disco, è indubbio, è fatto bene (anzi, molto bene). Ma senza l’impatto, senza la pressione, suona un po’ vuoto.
Cerco di spiegarmi meglio.
I sei Jaspers hanno diversi punti di forza, ma li confondono. Non scelgono una strada, ma diverse, e questo, secondo me, li penalizza. Sono tecnicamente ineccepibili, ma a volte il mettersi in mostra, su disco, annoia. Sono simpatici e tentano la strada dell’umorismo, a tratti demenziale, spesso più teatrale, ma su disco ovviamente perdono tantissimo (sono sempre dell’idea che di gruppi come EELST ne nasca uno su un milione). Tentano, come prima accennavo, le ballad, cercando (e non ne fanno mistero) un’esposizione e un’attenzione mediatica che credono (e giustamente, anche) di meritarsi, ma ne escono maluccio – Palla di neve, dai… sembra una versione degli Io?Drama immersa nell’immaginario posticcio dei Lacuna Coil…
E c’è da dire che i Jaspers hanno un curriculum esagerato: hanno studiato al CPM, sono stati formati da Mussida (o chi per lui), hanno vinto una quantità di concorsi, hanno persino fatto un party al Just Cavalli per i 10.000 fan su Facebook (con ospiti di livello, tra cui Lola Ponce e Patrick, che non so chi sia, ma immagino non l’amico di Spongebob). Per cui, cercate di capirmi: sono molto combattuto nel giudicarli, e oscillo tra una passione (controllata) per il progetto e una (non proprio lieve) stroncatura.
Quindi?
Quindi il consiglio è: andate a vederli da vivo. Fatevi trascinare. Non fidatevi dei video, dei singoli, del curriculum, del disco. Immergetevi nel Mondocomio: ma fatelo faccia a faccia coi brutti musi (mascherati) dei Jaspers. Questo è quello che mi sento di dirvi. Poi so già che il disco farà faville in tante delle vostre orecchie, ma dicono che il mondo sia bello proprio perché vario…
Peanuts 78 – Questione di Gusto
In questi giorni mi sento vecchio. Saranno i malanni di stagione che ogni anno si accumulano tra le ossa, la testa e la gola. Sarà forse che i miei problemi fino a qualche anno fa erano arrivare pronto all’esame e ora mi ritrovo a pensare a mutuo e investimenti. Forse saranno semplicemente le maledette responsabilità. “Old at heart but I’m only 28” diceva Axl Rose in “Extranged”. E mi sento ancora più vecchio perché una volta lui era il mio idolo e ora per me è solo un fantoccio che ha scritto una manciata di belle canzoni.
Potete capire dunque come il mio stato d’animo non possa giovare troppo di un disco che arriva da una giovanissima band propensa a quel pop tanto fresco da rischiare una prematura data di scadenza, condito di parole da Smemoranda liceale, arricchito da elettronica patinata e chitarre pseudo punk (chiedo perdono a Joe Strummer e Joey Ramone ma ormai a queste storpiature credo siano abituati). “Questione di gusto”, il titolo è inequivocabile e i tre torinesi Peanuts 78 sanno benissimo quali sono i gusti dei ragazzi al giorno d’oggi. E attenzione, niente ma proprio niente di male nell’essere degli spudorati “piacioni” soprattutto se si crede nella musica che si suona. “Se sapessi scrivere come quel buzzurro di Fabio Volo di certo non sarei qui a rompervi i coglioni con Leopardi”, diceva spesso la mia superaccultuarata ma onestissima prof di letteratura. E i brani dei Peanuts sono delle vere bombe da classifica a partire da “Insipido”, un po’ ballata alla Tiziano Ferro, un po’ elettronica da luna park. “Non è possibile” invece percorre strade meno lineari, ritmiche inaspettate vengono però raddrizzate in un ritornello facile e sintetico. Il singolo “Fuori Rotta” che ad una prima orecchiata pare non dare nulla in più al disco, stupisce per la facilità di comunicazione. “In equilibrio” prova a spingere su distorsioni e velocità, si cerca di accelerare ma ci troviamo in un autoscontro e i ragazzi cozzano contro le limitazioni del loro stesso pop.
Un bell’applauso in ogni caso va alla produzione, tutto si incastra alla perfezione. Il prodotto certamente suona preconfezionato, ma almeno non da scaffale del supermercato il cui beffardo destino è sempre il cestone dei saldi. Diciamo che conserva la sua genuinità da bancone del mercato.
Tra gli episodi più riusciti sicuramente spicca “Il re”, che rimanda allo stile frivolo di Cremonini ma degenera in un finale robotico. La cornice non cambia: cameretta stracolma di poster, di collezioni autunno/inverno di Zara e un computer portatile posizionato fisso su Facebook.
“Questione di gusto” non è un album memorabile, ma rimane ben suonato, allegro, fresco, orecchiabile, moderno e ricco di pretese. E consideriamo sopra tutto ciò che i ragazzi sono davvero dei pischelli pieni di futuro e strabordanti di musica pop. Non so se la mia prof avesse ragione, ma se potessi tornare indietro di otto anni e fare un album così un pensierino ce lo farei.
Local Natives – Hummingbird
Mentre in altri ambienti musicali marcati indie è iniziato un evitabile declino asfaltato da chili di produzioni apatiche e vuote, dischi come questo “Hummingbird” dei Losangelesini Local Natives paiono – in controtendenza – lievitare in una fragranza ottimale senza risentire minimamente fiacche e condizioni castranti, una quasi “sempre evoluzione” che comunque si capisce e capta senza usare tante vocali o aggettivi.
Arrivati al secondo giro discografico il quartetto capitanato da Kelcey Ayer recupera buon terreno e – nonostante il debutto con Gorilla Manor del 2009 faccia ancora stragi di consensi in tutto il globo – questo nuovo registrato appare come un fiatone sul collo di quest’ultimo, una nuova dichiarata maestà onirica e indipendente che fa luce con i propri brillanti vaporosi, emozionanti; leggermente ombroso, vettorato su coloriture grigio topo come a differenziarsi dal precedente, l’album è di un morbido melanconico che culla, scompare e culla, un dondolante visionario che realizza momenti sospesi e orfani di gravità che non fanno fatica alcuna a costruirsi – in musica – un’alternativa più che credibile.
Folk terso e indie sparuto, uniti e legati in un vero e proprio mondo impalpabile, arie graduate e Aaron Dessner dei National che è “immischiato” nella tracklist per un mid-perfezionismo immaginario che lascia gocce di sogni qua e la; un disco a strati congiunti, anime liberate che svolazzano tra ombre di Grizzly Bear, Arcade Fire, tenerezze intricate col pop “Mt. Washington”, bolle di sapone eteree “Black ballons” , una dolce sbandata psichedelica “Ceilings” e tutte quelle ammiccanti assimilazioni di stampo Zulu Winter che fanno jogging sulla via lattea di “Bowery” e che chiudono con una lancinante dolcezza intoccabile ogni tentativo di cambiare rotta.
Per intraprendere un trip d’essenze e note efficaci fatevi pure avanti, non manca nulla.
Sailor Free – Spiritual Revolution
Ci vuole un carico di ambizione pesante come il mondo per realizzare un concept album di questa portata, soprattutto se la band che lo edifica è una formazione emergente e non un grande e noto nome del panorama alternativo mondiale. Il fulcro di questo Spiritual Revolution dei Sailor Free è il concetto di energia inteso come esistenza, dinamismo, spirito creativo, mezzo di progresso collettivo. Interpretato come fulgore, ardore, sostegno, fluttuazione e potenza del rinnovamento. Come intuizione della ragione e dell’anima, come voglia di conoscenza. Allontanarsi dalle strade comuni e conservatrici per sperimentare nuove vie che possano permettere un arricchimento sociale condiviso e di grado superiore cosi da ridistribuire correttamente l’energia. Il punto di partenza dell’intera opera, la fonte d’ispirazione, è il Silmarillion di J.J.R. Tolkien (Il Signore Degli Anelli, The Hobbit). L’opera è essa stessa base dei capolavori di Tolkien ed è il fondamento di tutto il mondo creato dall’autore, una sorta di Bibbia che racconta la genesi e la vita di una realtà parallela e/o futuristica, un cosmo che non esiste se non nella sua mente e in quella dei suoi lettori. Tale testo, forse non molto noto al grande pubblico, è in realtà spesso stato punto di partenza per diverse band (Blind Guardian, Marillion) che hanno trovato nelle parole del grande autore britannico l’ideale guida per la ricerca e lo sviluppo delle loro necessità compositive. La storia, volendo riassumerne gli aspetti per noi più utili, narra l’amore tra due entità, particelle disperse di due universi, le cui traiettorie finiscono per intersecarsi per via della loro attrazione, finendo per generare un’immediata fusione. Da tale aggregazione vi è una nuova nascita che li porterà in un creato alla deriva del quale si trovano obbligati a cambiarne le sorti, attraverso la conoscenza da condividere in maniera osmotica con l’umanità tutta, alla ricerca del benessere comune e non del personale appagamento dei singoli. Partendo da queste premesse, avrete capito che si tratta di un disco complicatissimo ed effettivamente lo è, anche sotto l’aspetto prettamente musicale. I Sailor Free scelgono un modo di fare musica caratteristico di decenni addietro, gli anni del progressive e della psichedelia, ma riescono a portare quest’idea di componimento in età moderna fondendo elementi propri del passato con le caratteristiche del rock alternativo moderno. La loro opera diventa il punto più alto di una carriera ventennale e il risultato di otto anni di assenza dalle scene. Spiritual Revolution è un lavoro colossale e mastodontico che si può definire come il manifesto musicale di un nuovo modo di pensare (vedi Spiritual Revolution People). Dentro i quattordici brani si alternano diversi movimenti, disparate melodie, un’infinità di cambi di ritmo, stili che viaggiano nel tempo, spesso all’interno dello stesso brano. La stessa “Spiritual Overture” è una serie di passaggi dall’ambient mantrico e religioso, attraverso la drone-music, a momenti di epico progressive, fino a riff taglienti e scenari psichedelici anni sessanta/settanta, per chiudersi in un Pop delicato e misterioso, grazie all’apporto del piano di David Petrosino. Non mancano pezzi in cui è la matrice Alternative Rock moderna a farla da padrone (“A New World”, “Beyond The Borders”), con sezione ritmica pulsante e chitarre acide e aggressive, cosi come non scarseggiano accenni al Rock anni ‘80/’90 stile The Cult e non solo (“The Run”, “Betray”, “The Faithless”, “Spiritual Revolution”), al Prog Rock/Metal stile Muse o Tool misto a schitarrate Hard Rock (“The Curse”, “Spiritual Revolution”, “War”). La calma che contraddistingue alcuni brani (“Daeron”, “My Brain”) sembra richiamare alla mente anche la scena di Canterbury nella persona del grande Robert Wyatt (Soft Machine) di Rock Bottom pur non disdegnando elementi propri del Pop pre fine millennio. Innumerevoli sono gli inserti ritmici e melodici tipici della World Music (“Spiritual Revolution”) cosi come gli ingredienti psichedelici, pressoché presenti in ogni brano dell’opera ed evidenti in maniera chiara ad esempio in ”The Curse”; non mancano inoltre brani esclusivamente strumentali che mescolano un certo stile moderno di Post-Rock con psichedelia e progressive stile Pink Floyd (“The Entropia”, “Break The Cycle”). Altri elementi caratteristici, anche se meno palesi, sono gli accenni alla psichedelia post industriale che si possono ascoltare in “The Curse” o nella parte iniziale dell’introduzione. Come vi avevo accennato quindi, la complessità di Spiritual Revolution non sta solo nel fatto che si tratti di un concept che muove i suoi passi da elementi letterari e da ideologie alternative. Si tratta di qualcosa di mostruoso anche a livello sonoro con continui passaggi, anche dentro lo stesso pezzo, da uno stile all’altro, da un movimento all’altro, da una ritmica all’altra. Hard Rock, Psych Rock, World Music, Post Rock/Metal, Alt Rock, Ambient, Drone Music, Pop sono gli ingredienti di un brodo primordiale diventato paradiso terrestre. Spiritual Revolution non è certo un disco che si può ascoltare con facilità e non è un disco per tutti. Ha bisogno di attenzione, tempo, buona preparazione. È l’esatto opposto di quello che la musica sta diventando. David Petrosino (voce, piano, tastiere), Stefano “The Hook” Barelli (chitarre), Alfonso Nini (basso) e Stefano Tony (batteria) ci hanno regalato un piccolo capolavoro e di questi tempi è meglio non farselo sfuggire.