Recensioni

Elio Petri – Il Bello e il Cattivo Tempo

Written by Recensioni

Rimane sempre al centro della sua scena il cantautore-musicista Emiliano Angelilli in arte Elio Petri, ma ora questo moniker è comprensivo di una vera band di contorno, e “Il bello e il cattivo tempo” è la nuova formulazione sonora che l’artista mette sul banco degli ascolti, poi andando a scandagliare la profondità delle sette percezioni che costituiscono la scaletta,  quello che si va ad imprimere al primo giro è la sensazione di un disco che “si apre agli orecchi”, che si rende abbastanza abbordabile rispetto il precedente, con quella misurazione idonea che accorcia distanze e favorisce approcci pressoché “amichevoli”.
Licenziato per l’etichetta perugina Cura Domestica, il disco – che vede due rispettabilissime guests quali Marco Parente nella metafisica di “Capra strale” e Theo Teardo in ben quattro tracce tra cui spicca, per una stupenda costruzione psichedelica, l’aria girovaga di “Ti farò soffrire”, è una di quelle mutazioni artistiche che si palesano come performance assemblate, dove valore e gusto si contrappongono ad attivazioni sensazionalistiche di scarso pregio, qui parola e concetto autobiografico sono un tutt’uno con un ascolto fine e a tratti diabolicamente criptato ma con le chiavi sulla toppa, tracce autoptiche sulla loro stessa personalità, il respiro di un senso di rinascita e il climax malato dell’io, ma che, calcolato nel vortice totale degli Elio Petri,  diventa una miscela da standing.

Se le condense Kafkiane di “Bruco” o “Vipera” vi stordiscono a dovere, potete sempre rifarvi l’animo con il rock isoscele che fulmina in “Blues” o decorarvi l’anima con la filigrana stampata negli equilibri svergolanti di “Il disprezzo”,  ed il gioco è fatto, tutto quello che rimane da fare è catturare le interessanti intuizioni sonore “Mascella”, accurate, intense e nello stesso tempo libere come foglie al vento “Alga”, poi tirando le somme vi troverete a considerarlo non un lavoro di velata sofferenza interiore, ma un pacco di musica dove costruirci sopra infiniti binari interpretativi e, perché no, arricchirvi di personalità multiple.
Bello.

Read More

Da Hand in the Middle – L’Education Sentimentale Avec Le Temps et Les Mots

Written by Recensioni

I Da Hand in the Middle sono secondo definizione del loro agente e biografo “un mistico collettivo Jungle-Blues di Jonesboro, Arkansas, e attualmente operativo nella Valle Umbra Sud” che già dalle prime note del disco dimostrano il loro valore.
Rimarrete infatti stupiti ed incantati dalla opener “El Carcion Fumante” che alterna ritmi veloci ed impetuosi alla quiete più totale includendo anche un breve intermezzo cantato in vecchio stile anni venti.
“Hong Kong Stories” strizza invece l’occhio (ops l’orecchio!) al cantautorato americano che si fonde lievemente alla tradizione francese ed il cui videoclip (in cui compaiono anche Luca Benni e Matteo Schifanoia) è ad opera del regista Federico Sfascia il quale ha dichiarato a riguardo: “Hong Kong stories è stato per me l’occasione di esplorare i più profondi e nascosti meandri dell’animo umano, palesare le connessioni intangibili tra destino e autoconsapevolezza, due percorsi intimi i cui confini si confondono quasi sessualmente, in un pulsante scontro frontale con una realtà esteriore ostile e violenta, inconciliabile con il supremo atto di ribellione che è il peccato originale dell’affermazione della propria individualità invertita”.
“The cook” si rifà invece ad atmosfere anni ottanta stile Madness per far da apripista alla blueseggiante “Study Hall” che sembra esser uscita direttamente dalla penna di Robert Johnson.
La ballabile “Cain” riporta subito l’allegria ma è nulla al confronto di “55 Fire” che ricorda le colonne sonore dei mitici film di Bud Spencer e Terence Hill.
L’acustica “A Ballad of the Mulberry Road” dà un tocco di classe in più all’intero lavoro (che non appare mai sottotono) ma la suite “(Who’s gonna shave) The barber” (abilmente divisa in Pt.1 e Pt. 2) non è da meno.
“Vagner Love” cita nel titolo il famoso calciatore brasiliano del Cska Mosca ed è memorabile per i suoi riff di sax che incantano l’ascoltatore.
Il pianoforte è invece l’elemento portante di “You two look a lot alike” (che purtroppo dura poco più di due minuti) e ben si connette nei rumorismi di “In Tango” che si conclude con un applauso (autocelebrazione di un capolavoro?).
E poi arriva a malincuore la fine con “Cain va en France” ma la voglia di rimettere il cd dall’inizio verrà di sicuro a tutti…

Read More

Marazzita – Mi gioco i sogni a carte

Written by Recensioni

“Mi gioco i sogni a carte” è il secondo EP del “riccio” giovane cantautore calabrese fuori sede Marazzita.
L’EP è composto da sei brani di durata piuttosto radiofonica (a cavallo dei tre minuti e un po’ in media). I testi sono probabilmente la parte più forte del lavoro del cantautore calabrese: tante cose da dire, tante storie che parlano del tempo, della malinconia insita nell’anima evidentemente in fase di cambiamento di Peppe Marazzita, il tutto condito da toni spesso ironici, quasi sempre tristemente arresi ad una realtà che si dimostra, con il passare del tempo, sempre meno simile al sogno del giovane calabrese. La malinconica ironia dei testi è accompagnata egregiamente da arrangiamenti minimali ed efficaci, a volte quasi volutamente trascinati, a volte irriverentemente “un passo avanti”. Plauso particolare ai synth di Gianluca Di Vincenzo nella traccia numero 4, “Un balcone coi fiori”.
L’EP si apre con “Maledetto”, una ballata dedicata al tribolato cantautore livornese Piero Ciampi. Da subito si intuisce il leitmotiv del disco, la dolce apatia e disillusione nelle parole e nella musica della generazione cantautorale degli anni zero. Volendo cercare influenze nel lavoro di Marazzita possiamo citare Max Gazzè (in particolare nella seconda traccia, “Poster”), qualcosa di Bennato, alcune atmosfere di Tiromancino. In generale però Marazzita appare originale e non categorizzabile, anche se assolutamente fruibile, commercialmente parlando.
Nel terzo brano Marazzita non lesina in quanto a metafore e si interroga, cantando su una musica spensierata e dal sapore di hit estiva da juke-box sulla spiaggia, riguardo al futuro del mare, della sua Calabria e in generale del Belpaese. La quarta traccia è un invito per una cenetta romantica con tanto di Chianti e fiori (finti) sul balcone, una scusa come un’altra per raccontare qualcosa dell’insoddisfazione e del disagio di Marazzita, con il sorriso amaro sempre sulle labbra.
Nella quinta e penultima traccia “Vai via da qua” Marazzita cita il titolo dell’EP e cioè la sua volontà di giocarsi i sogni a carte, raccontando definitivamente della sua delusione per ciò che avrebbe voluto fosse ma non è, della ricerca di un rimedio per poter cambiare le cose, magari per trovare il coraggio di andarsene. Il disco si conclude con “L’artista da giovane”, brano che racconta del recente passato di Marazzita proprio come fa James Joyce ne “Il ritratto dell’artista da giovane”.

Il cantautore calabrese si conferma un’interessantissima realtà che fa della sintesi e della semplicità del linguaggio la sua arma migliore. Le melodie e le atmosfere sono tutt’altro che underground, nonostante si possa ad oggi considerare il fuori sede calabrese ancora un abitante della famigerata “nicchia”.
Consiglio vivamente l’acquisto di questo disco a chiunque abbia voglia di ascoltare un punto di vista tutto sommato comune ma raccontato in modo originale e soprattutto sincero da un giovane che continua a “cantare i propri sogni sopra e sotto un palco, in un’estate su una spiaggia senza spiaggia”.

Read More

Sycamore Age – Sycamore Age

Written by Recensioni

Esordio ambizioso e imponente: non un disco di canzoni ma di musica, sanguigna, primordiale e meticcia.
Continue Reading

Read More

Mojo Filter – The Roadkill Songs

Written by Recensioni

Finalmente mi passa tra le mani un lavoro registrato in presa diretta! E si sente!
I nostri Mojo Filter, arrivati alla terza fatica, propongo un disco energico, vivo e sudato, decisamente molto ispirato. Se devo dire la verità, appena il loro nome mi è passato tra le mani mi sono prefigurato il classico lavoro hard rock, un po’ celebrativo, un po’ nostalgico e un po’ scopiazzato. E invece no, sono stato piacevolmente deluso.
La matrice è un rock duro, bello vintage, fatto di chitarre in overdrive grosse e ben definite, ritmiche semplici e dirette: il tutto viene condito da inserti psichedelici e deliranti che sanno impreziosire brani dall’impianto fondamentalmente tradizionale. Ed è qui la forza di questo “The Roadkill Songs”: l’inaspettato. Siete lì che vi gustate il vostro brano, a sospirare nel ricordo di epoche che non torneranno più quando arriva quella cosa che vi fa saltare sulla poltrona. “E questo cosa c’entra qua?” vi domandate spaventati. Allora fate ripartire la canzone da capo, ve la riascoltate con un po’ più di coscienza e di nuovo saltate sulla sedia: allo stupore, allo straniamento, fa posto l’aver compreso.
Prendente l’iniziale “The Girl I Love Has Got Brown Hair”. Incipit da manuale: rumore di jack che si infila nella chitarra, riff ruffiano, strofa-ritornello-riff-strofa-ritornello. E poi uno si aspetta l’assolo di chitarra, magari una ripresa del ritornello: e invece no! Delle trombe ci catapultano immediatamente in un blusettone swingato in cui la chitarra trova un suo spazio negli intrecci con gli ottoni. E poi il tutto sfuma. La successiva “Red Banana” si apre con un sitar, creando un atmosfera sognante ed orientaleggiante. È solo un attimo: parte subito il rock, intarsiato qua e là con divagazioni più psichedeliche. “Closer to the line” ha una sezione centrale di theremin che puzza di Led Zeppelin lontano un miglio: eppure i nostri non cadono mai nella copia spudorata, vivono di un manierismo che cerca di far proprio e di far rivivere un certo concetto di rock. Ed è proprio con i Led Zeppelin che mi sembra più ovvio tracciare un parallelo: la vena creativa, l’estro, l’abilità di divagare qua e là nel folk e nella sperimentazione elettronica, mantenendo un nucleo creativo stabile e ben definito, sono certo delle caratteristiche comuni ai due complessi. Non che voglia dire che i Mojo Filter siano i nuovi Led Zeppelin: dico solo che l’impianto creativo si muove in una direzione simile, difficile da prendere per la rigidità di certe strutture (e di certe opinioni) che alle volte il rock propina.
The Roadkill Songs” ti prende dall’inizio alla fine con la sua energia live, con i suoi momenti stranianti, con la sua bella produzione massiccia. Un lavoro strano, ma solo se lo ascoltate per sbaglio: prendetevi una mezz’ora di calma e abbandonatevi su questo disco!

Read More

Ideogram – Raise The Curtain

Written by Recensioni

E’ vero, le parti del nostro essere sono fatti sia da quelle buone che da quelle cattive. Ed è anche vero che tutti noi in un certo senso indossiamo una maschera che forse nasconde il nostro lato quieto o forse quello aggressivo e violento. Gli Ideogram si fanno avanti per farcelo notare e lo fanno con stile, attraverso un Gothic Metal sperimentale per cosi dire che strizza anche un po’ l’ occhio al Prog. Per dirvi, i Sonia Scarlet dei Thetres Des Vampires apprezzerebbe la proposta di questi cinque ragazzi che si prestano a queste sonorità tra il cupo e l’ aggressivo. Gli Ideogram si fanno notare attraverso un demo di cinque tracce che suscita davvero strane sensazioni.  Trattasi di “Raise The Curtain”, un mini disco dalle mille attenzioni e lavorato veramente nei minimi particolari: partendo dalle tematiche per passare al sound e concludere con le registrazioni ed i mixaggi. Sarò sincero: in quest’ ultimo periodo difficilmente ho ascoltato dischi che sono riusciti a far conciliare cupezza ed aggressività, gli Ideogram sono riusciti attraverso la candida voce di Opera, quella in growl di Kabuki e quella in scram di Grang Guignol, (il tutto chiaramente condito con la potenza della chitarra e le melodie della tastiera) a mettere in accordo i due stati dell’ essere. Le tracce si fanno ascoltare con molta scioltezza senza annoiare, anzi, dopo il primo ascolto viene subito la voglia di far ripartire il lettore con “Raise The curtain”. Insomma, se questo è il biglietto da visita  degli Ideogram, vale a dire che da loro possiamo aspettarci solo ottimi risultati, con l passare del tempo faranno un po’ d’ esperienza,di questo passo il loro prossimo disco sarà un capolavoro. Per adesso godetevi “Raise The Curtain” e date un opportunità a questi cinque ragazzi, che, credetemi, la meritano.

Read More

Giuradei – Giuradei

Written by Recensioni

Un buon disco dopo aver smaltito la sbornia da ri-fagocitazione di estenuanti anni Ottanta ant-post-futur, è proprio quello che ci vuole per fare pace con l’ansia e  con le corse da prestazione sonora cui siamo sotto tiro ogni dì. E manco a farlo apposta arriva il nuovo dei Giuradei brothers che porta solo il cognome dei due musicisti “Giuradei” a ritiraci su, a rimpinguare quelle falle mnemoniche che avanzano imperiose dopo tanto stress.
Ettore non è più solo, interviene nella stesura della tracklist anche il fratello Marco, ed il prodigo cantautorale di questi “esseri alieni” raddoppia e si rafforza nelle loro storie, verità, bazzecole e originalità con la forza astratta di quella poetica sghimbescia che è una indiavolata mutazione spalmata su dieci tracce; disco di incomprensioni, angoli di vita, curve di pensiero e il tratto distintivo e  “disilluso” come la filosofia “Giuradeica” comanda. Gli artisti lombardi sfornano un cantautorato agro, in bilico tra canzone d’autore intinta d’elettrico “Generale”, “Papalagi” o acustiche carrettere e vagamente tex-mex “La sconosciuta”, “Sta per arrivare il tempo”, “Dimenticarmi di te”  un inalterato stile musicale che li fa riconoscere all’istante e dal quale difficile sgamarne le continue inversioni ad U, dai repentini umori che passano sempre ad un livello “successivo” sensazionale, atmosferico.
Storie urbane e desideri di tutti i giorni, un continuo e buon “assorbire” la genuinità dello specchio della vita che i due Giuradei lucidano e rendono opaco a tempi alterni con quel piacevolissimo intorpidimento che spesso la noia e la reminiscenza di refoli d’ottimismo regala; con la bella chitarra spennata da Depedro dei Calexico in “Senza di noi” o il verbo di Giancarlo Onorato che echeggia in “Continuano a volare”, la rappresentazione sonora di stati d’animo e nuvole dai grigi incerti arrivano al loro binario morto senza mai cadere nei trabocchetti revivalistici di certi cantautorati, un disco che vi trascinerà a tentoni nel bagliore e nella meraviglia dell’esperienza estetica. Consigliatissimo!

http://www.youtube.com/watch?v=sOMYHl_3fCY

Read More

Cranchi – Volevamo Uccidere il Re

Written by Recensioni

Il cantautorato italiano può tranquillamente essere sezionato in due: quello impegnato e fatto di sognanti poesie e quello incompetente, commerciale e vergognoso. Lo spacco è talmente netto che chiunque riuscirebbe a scegliere la propria sponda (collocazione) al primo ascolto. Non per questo l’impegnato debba essere meglio del demenziale ma necessariamente superiore al vergognoso commerciale (una fetta molto ampia e diffusa della musica in circolazione oggi).

I Cranchi sono la band del musicista Massimiliano Cranchi e per nostra fortuna fanno parte dello schieramento poetico impegnato, una scelta difficile perché in questo caso bisogna dimostrare di esserne capaci e loro non senza troppe difficoltà lo sono. Il loro disco Volevamo Uccidere il Re arriva come secondo lavoro ufficiale dopo Caramelle Cinesi mantenendo costante le proprie capacità compositive che iniziano a saldarsi prepotentemente all’ossatura della musica d’autore italiana più classica. I Cranchi o Cranchi Band non nascondono mai una somiglianza vocale quasi impressionate con De Gregori, anche il modo di affrontare un brano sembra essere molto simile al vecchio cantautore, un’affinità a doppio taglio per la band, da una parte la facile digeribilità delle canzoni dall’altra un effetto cover sempre nei paraggi. Dobbiamo però considerare la poca originalità di tutto il sistema dei cantautori italiani, ascolti dieci cantanti e nessuno o quasi mette una firma inconfondibile.

Detto questo torniamo al nostro disco Volevamo Uccidere il Re e confermiamo malgrado tutto la propria bellezza, attualità e freschezza. Ho ascoltato il disco per intero almeno quattro/cinque volte prima di arrivare ad una conclusione definitiva, imparavo subito le melodie folk, canticchiavo qualche strofa ma il colpo di fulmine è arrivato per il pezzo La Primavera di Neda (e chi ha già ascoltato il disco ribadirà le proprie perplessità sulla mia critica a questo disco). Non chiedetemi come mai visto che chiaramente non è il cavallo di battaglia della band padana ma il rimanere folgorati non deve per forza avere una spiegazione logica. Forse quel testo dolce e significativo, una melodia condita nel verso giusto, non lo so ma il pezzo merita decisamente. Poi altri grandi brani come Cecilia (penso all’Alice di De Gregori) o Anni di Piombo dove la musica folkeggiante ricorda in maniera convinta Edoardo Bennato. Volevamo Uccidere il Re mantiene un buon atteggiamento positivo per tutta la durata del disco (anche pezzi come Il Cuoco Anarchico) senza mai avere picchi di superiorità o di desolazione, un giusto concentrato di musica e parole, quel cantautorato equilibrato con il quale ogni persona dovrebbe confrontarsi almeno una volta nella propria vita. I Cranchi suonano il sentimento umano di una società senza valori destinata al collasso e lo fanno sulla punta dei piedi senza infastidire niente e nessuno.

Read More

Totale Apatia – Sempre Al Top Ep

Written by Recensioni

Che cosa ha il Punk Rock che L’Indie non ha? Non avete bisogno di andare a rispolverare i grandi nomi del passato o di svegliare il vostro fratellone trentacinquenne per chiedere a lui che magari qualcosa lo ricorda degli anni d’oro di Ramones, Clash e Sex Pistols e della scia di collera, anarchia e ribellione arrivata in Italia. Basta ascoltare un Ep come questo Sempre Al Top dei bresciani Totale Apatia per capirlo. Stavolta non parliamo di cinque ventenni brufolosi che non sapendo suonare meglio di Sid Vicious hanno scelto il Punk per sfogare la propria rabbia adolescenziale. Si tratta invece di una band matura, che ha fatto il suo esordio addirittura nel 1997. Iniziano con qualche live e una demo, Ve L’ho Fatta Sotto Il Naso!?!. Quindi un cambio di batterista e il primo vero album, Cavie. Cominciano a conquistare un certo seguito e partecipano a diverse compilation di settore fino a comparire nella trasmissione Database di Rock Tv. Ciò che li contraddistingue è che, seppur fortemente legati alla scuola Punk a stelle e strisce, le loro sonorità non disdegnano l’influenza di generi apparentemente molto lontani, dal Grunge al Pop. I testi rispecchiano perfettamente quella che è la cultura di strada tipica del genere ma la loro realizzazione non è affidata a estemporanee osservazioni poco ragionate ma piuttosto ad acute riflessioni (spesso vere poesie) esposte nella maniera diretta e chiara, tipica del Punk. Dopo l’album del 2004 Il Sentiero Da Trovare, inizia una nuova fase di mutamento nel quale la line up è nuovamente stravolta. Nel 2009 esce Ritorno Al Futuro e la band, finalmente stabilizzata la sua formazione, entra in tour e realizza questo Ep, Sempre Al Top, di sei pezzi che anticiperà l’album vero e proprio. Tutti i brani sono un sunto di quello che i Totale Apatia sono stati e di quello che saranno. Si passa dalla melodia irresistibile di “I Wanna Live In London”, ai riff taglienti della title track, fino al Punk che sfiora il Combat Folk nella parte cantata di “X” (potete ascoltare il brano anche nella compilation Sounds Of  The Streets For Gaza) e alla potenza Hardcore di “Mille All’Ora” e i suoi immancabili cori, vero biglietto da visita del Punk Rock.  Solo un Ep ma di quelli che fanno ben sperare per il futuro di una band che di passato ne ha da vendere e che consiglio vivamente ai giovanissimi che vogliono cimentarsi con questa musica brutta, sporca e cattiva ma piena di anima e cuore. Per il loro quindicesimo anno di vita i Totale Apatia ci regalano ancora una volta tutta la loro energia, Sempre Al Top e un tour da non perdere. Per ora, unica data confermata  è il 02 Marzo al Csa Paci Paciana di Bergamo con i Berri Txarrak, gruppo basco prodotto da Ross Robinson ma le altre saranno presto presenti sulla loro pagina Facebook. Non avete nessuna scusa per continuare ad ascoltare merda. Dico a voi, lasciate stare Green Day e Blink 182, c’è di meglio anche in terra italiana.

Read More

F.O.O.S. – Showcase

Written by Recensioni

E qui casca l’asino. Leggo nella presentazione di questa band la fatidica parola “electrock” che mi spaventa quasi come vedere il pagliaccio It, incubo della mia infanzia. Che cosa significa mischiare elettronica al rock? Club metropolitani e bui con piazze gremite di umanità. Dj col ciuffo dritto contro il sudore che gronda dalle mani. Luce solare scaraventata su neon prepotenti. Analogico con digitale.
Devo ammettere che la combo mi ha sempre un pò spiazzato. Da sempre ho considerato la musica elettronica come una facile scappatoia per giustificare il fallimento del rock’n’roll nei giorni nostri. Stupida e forzata proiezione futura di un mondo che necessita un presente. Per un purista come me insomma è difficile trovare un connubio tra due realtà così lontane e ritengo buona l’amalgama solo quando di mezzo interviene l’immortale collante: “il pop” (Kasabian, The Killers o gli U2 di “Pop”, tanto per far capire quanto sono “asino”). Ma qui il collante viene usato col contagocce e i due universi si scontrano senza mezze misure, uno scontro titanico senza tante carezze o addolcimenti.
I F.O.O.S. arrivano da Torino, città che da un certo punto di vista già da qualche anno strizza l’occhio all’elettronica. Sono in due, picchiano duro come fossero in cinque (li ho visto dal vivo, fidatevi che vi fanno sentire il vento in faccia) e non hanno alcuna intenzione di abbassare la testa per scendere a compromessi. Il loro esordio discografico è “Showcase” che da anche il titolo al primo brano dell’album. In questo inizio ci troviamo sommersi in un mare apparentemente quieto ma che odora di tempesta, puzza di nervosismo. Un braccio teso a tenere una testa sotto l’acqua per affogarla. La testa però presto si ribella e dal mare esce un terribile mostro (“The monster”), un incrocio devastante con corpo virile e testa robotica. Inizia così lo scontro a colpi di riff villani e tenebrosi synths, il tutto scandito alla perfezione dalle ritmiche di F, batterista precisamente in bilico tra la violenza dell’hard rock e il groove danzereccio.
I due giovanotti non mollano mai la presa, non rilassano neanche un muscolo. La battaglia si fa sempre più serrata in “Hot coals” e “G.O.L.”, la luce artificiale del dancefloor incontra qualche goccia di sudore. I due mondi sono sempre più uniti, ma non si abbracciano, sbattono clamorosamente l’uno contro l’altro e il risultato è pieno di spigoli, sebbene presenti la sua matematica regolarità. “Modermorphosys” è l’episodio più pop con l’intro molto Thirty Seconds To Mars, che poi vira verso terre meno battute fornendo anche a questa canzone la giusta dose di personalità. “Mirror Labyrinth” suonerebbe perfetta per un frenetico videogioco sparatutto e simula l’angosciante claustrofobia del labirinto (giusto per dare un esempio di come la band rifletta bene le sensazioni nella propria musica). Nel finale “The world we could have built” i toni si abbassano, la guerra sembra finita e si torna all’iniziale calma apparente. Il pezzo pare parlare da un altro pianeta e con un briciolo di fantasia calzerebbe perfettamente addosso alla voce toccante di Dave Gahan.

Eh si, devo proprio ammetterlo, questa volta il mix “electrock” è riuscitissimo. I pezzi sono tutti “killer” e il disco è prodotto alla perfezione. Lo dimostra la caparbia gestione del caos apparentemente anarchico (“Hot coals” e “Riot!” i migliori esempi). La testa robotica non ammette sbavature, tutto sta dentro lo schema. Ma lo schema è una terribile gabbia dove “il mostro” si dimena e grida libertà. La libertà non la ottiene, ma il suo grido pregno di umanità rende questo un grandissimo album.

Read More

Bad Religion – True North

Written by Recensioni

Alla faccia dell’età e di tutta l’avanguardia che la musica “rumoristica” del punk-melodico ha portato in avanti come le lancette di un orologio assurdo, i Losangelini Bad Religion sono ancora qui a dare lezione e alfabeto sonoro a tanti e ancora tanti, le loro produzioni, oltre ad aver superato abbondantemente la metrica, danno ancora biada ad un mondo refrattario e si stagliano focosi come sempre, magari con qualche accento smussato, all’arrembaggio di nuovi terreni d’ascolto da colonizzare.
Una band che tra amplificazioni al limite, vette raggiunte e magari qualche inciampo di carriera (The New America), vive una seconda giovinezza senza scadere nel ridicolo di un “revival” anacronistico, ma con la forza garante di una formazione che ancora può confrontarsi con gruppi della stesse specie e uscirne per l’alto, e “True North” arriva proprio nel momento in cui questo confronto è vivo e teso tra i grandi punkers ancora in circolazione; sedici tracce che bollono come dentro una grande marmitta, punk’n’roll di classe e hooks a presa rapida, riff e anthems dispettosi che si danno appuntamento in una tracklist veloce e pirica, ovviamente con il calcolo dei tempi che passano inteso come stilema, ma che ancora schizza potenza e “gioventù bruciata”.
La band di  Greg Graffin da vita ad una baldanza che ha tanta personalità ancora da vendere, un omaggio implicito a non arrendersi mai nonostante le mode e il trust che trancia storie e modelli a proprio piacimento e misura, e loro – questi impenitenti giovanottoni – non se lo fanno dire due volte e perpetuano “la razza” con gli scatti elettrici di “True north”, “Past is dead”, “Lands of endless greed”, facendosi un po riflessivi “Hello cruel world”, ma tanto è l’istinto primordiale del punk a riemergere dal profondo e i Bad Religion tornano a ringhiare – amorevolmente – in “Crisis time”, “Popular consensus” fino a rimangiarsi la tavoletta dell’acceleratore di “Changing tide” traccia speed che saluta senza inchino e scappa con tutto il disco dietro.
Si una vera garanzia e se vogliamo un vecchio incantesimo a 200 orari che si rinnova ogni volta che loro ritornano tra di noi e che- sebbene tutto – non imbrogliano mai sulla loro reale base anagrafica.

Read More

Gambardellas – Sloppy Sounds

Written by Recensioni

Quando ho scoperto chi e cosa fossero i Gambardellas sono stato immediatamente colpito dalla fortissima immagine di un piatto di pasta al cioccolato. Prendete la pasta: è buona, piace a tutti, in bianco, al sugo, con la carne, con le verdure. Prendete il cioccolato: fondente o al latte, bianco o nero, anch’esso incontra il favore della maggior parte della popolazione mondiale. Ora, se siete dei puristi gastronomici, storcereste il naso solo a pensare ad un bel piatto di spaghetti con la Nutella©. Non negatelo, non fate quelli col palato fino e la mente aperta e storcete quel cazzo di naso. Storto? Bene. Poi la assaggiate e vi rendete conto che, per quanto la nostra tradizione dovrebbe escluderne l’esistenza, la pasta al cioccolato vi piace. Vi sorprendete e pensate che vostra nonna non l’avrebbe mai preparato per voi quel piatto di spaghetti con tanto di buonissima salsa marrone ‘ngoppa.
Portando questo paragone in termini musicali ecco inserirsi i Gambardellas, che per pasta hanno il loro sound bello rock e definito, e come cioccolato il loro deus ex machina, Mauro Gambardella appunto, che poi risulta essere l’epicentro di tutta la creatività dietro a questo fresco e interessantissimo progetto. Mauro non è di certo nuovo al mondo del rock indipendente (ricordiamo che ha fatto parte di band come George Merk, Thee Jones Bones, the R’s e Paletti) ma, in quanto batterista, è stato sempre confinato dietro a piatti e fusti col solo compito di trovare ritmi e portare tempi. Quando ha provato a dire qualcosa in più proponendosi come compositore, pare sia stato sempre guardato come l’alieno della situazione o, per meglio dire, come un piatto di pasta al cioccolato. Essendo io musicista (per modo di dire), in effetti, non ho quasi mai incontrato né sentito parlare, a parte qualche eccezione degna di nota, di un batterista compositore; bene, questa è sicuramente una di quelle eccezioni. Succede che, non scoraggiato dai rifiuti di chi non riusciva a capire come un batterista potesse scrivere un pezzo, Mauro si rimbocca le maniche, chiama qualche amico (fra cui Fabio “FabztheDale” Dalè dei Mamakass) e decide di cucinarselo da sé il suo piatto di spaghetti al cioccolato, e con ottimi risultati.

Nasce così questo Sloppy Sounds, disco di esordio della band, che con i suoi 9 brani 9 di garage rock ben contaminato, intelligente e diretto colpisce immediatamente e si fa riascoltare senza indugio. Pezzi anglofoni belli tirati, ritmiche ottimamente studiate e una pulizia nella registrazione non comune (il missaggio è a cura di Fabio Trentini, già produttore tra gli altri di Guano Apes e Mas Ruido) rendono la ricetta sicuramente vincente: alcune tracce sembrano hits partorite da qualche illuminato d’oltremanica pronto per la top chart (Tito, Josh), altre sono sicuramente delle perle per intenditori (Shine Again), altre ancora ti scolpiscono in mente i loro andamenti r’n’r (Needs), ma tutte lavorano bene all’interno dell’insieme e fanno di Sloppy Sounds un disco davvero completo. Non si accettano improvvisazioni e abbozzi: i brani sono, nella loro linearità, eseguiti alla perfezione (con delle sezioni ritmiche che suonano come in certi dischi dei Faith No More) e arrangiati con sapienza e meticolosità, facendo del disco un affresco dettagliato dove nulla è lasciato al caso dalla prima all’ultima battuta. L’unica pecca (se di pecca si può parlare) è forse la copertina, un po’ troppo semplice e povera forse, ma sono miei gusti personali e, come è risaputo, io non capisco una mazza. Fossero così tutti i lavori primi delle band emergenti italiane avremmo una scena da far invidia a tutti i paesi anglosassoni che macinano rock in quantità industriali. Che inglesi ed americani venissero a mangiarsi da noi un bel piatto di pasta al cioccolato: ai fornelli ci sono i Gambardellas, il successo è assicurato.

Read More