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Nick Cave & The Bad Seeds – Push the Sky Away EP

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Capita una volta l’anno dover recensire un album così, un gigante così. Uscirà il 19 Febbraio “Push the Sky Away” il nuovo EP di una delle personalità più contorte del panorama rock mondiale.
The Big One nel suo genere, oscuro e malinconico, per me un mostro. Dall’Australia il grande ritorno di Nick Cave & The Bad Seeds. Solo uno come lui poteva dare un nome così ad un album. Come se volesse chiudere un ciclo che ha avuto inizio nel suo primo album “From Here to Eternity”.  In ombra. Tutto quello che dirò sarà scontato. Quindi lasciate perdere e ascoltate l’album. Questa è una questione personale, non una recensione. Una lunga storia, struggente. All’epilogo di una carriera fatta di personaggi in ombra, sulla vita, sull’amore, sulla “tradizione”. Perchè We go down with the dew in the morningcome ci racconta in We No Who U R la traccia che apre questo EP.
Ma facciamo una pausa. Quest’album viene fuori dopo 5 anni di silenzio dopo l’esperienza di “Dig!!! Lazarus, Dig!!!” in cui si stacca un altro pezzo dei Bed Seeds, Mick Harvey ex chitarra elettrica, chitarra acustica, basso, organo. Uscito dalla band nel 2008 e preceduto già da Blixa Bargeld (ex chitarra, voce. Uscito dalla band nel 2003). Quindi toccherà prendere quest’album col giusto orecchio, preparato a ad ascoltare un Cave che va verso le origini con i Bad Seeds rimasti.
La formazione ufficialmente sarebbe di 12 componenti. Ma sottolineerei Warren Ellis viola, chitarre, in primis. I due  hanno collaborato, tra il 2005 e il 2009, a varie colonne sonore. Una sintesi a noi utile per capire quest’album potrebbe essere Nick Cave & Warren Ellis. Quindi un tentativo di ritorno alle origini musicali dove si sente la mancanza di alcuni componenti del gruppo e la centralità dei pezzi è lasciata alla sua voce, alle sue storie, alla sua malinconia e alla bravura di Ellis.  Una catarsi al rovescio dove si contano i cocci esistenziali.

Notizia dell’ultim’ora invece è quella che vede Barry Adamson primo bassista dei Bad Seeds (uscito dalla band nel 1986) unirsi alla band per il tour 2013 (in Italia l’11 luglio al Summer Lucca Festival).
Ascoltando i testi, accompagnati come ho detto dalla viola/violoncello di Ellis, Cave come suo solito ci porta in posti oscuri. Apre il suo armadio degli scheletri e inizia a vomitare su tutto quello in cui non è riuscito a credere nella sua vita. La traccia che da il titolo all’album è emblematica “Push th Sky Away” che canta sul ritornello. La disillusione dell’amore. Visto come rapporto destinato a finire. Oppure in “Higgs Boson Blues” dove ci narra i suoi dubbi sul razionalismo e come, conosciamo tutti il bosone di Higgs, esso si voglia sostituire a Dio. Un Dio che sta scomodo a Cave in “Jubilee Street” dove ci racconta tutta la brava gente che predica bene e razzola male. Il solito Cave malinconico, viscerale, tetro. Ma pure sempre Cave. Un gigante che in quest’album non ci presenta niente di nuovo ma ci porge il conto. E tocca ascoltarlo……………..

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Modena City Ramblers – Niente di nuovo sul fronte occidentale

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Album doppio per gli zingari del combact-fol italiano, i Modena City Ramblers, il combo che dalla cima delle diciotto tracce del nuovo “Niente di nuovo sul fronte occidentale” tornano a fomentare risvegli di coscienza e a riscaldare animi intorpiditi, e nell’emisfero delle loro elucubrazioni scardinano – con le loro cavalcate d’ideali –  qualsiasi resistenza alla “resistenza”, quella bella declinazione di ballate, acustiche e morsi d’Irlanda che da sempre convince e fa incendiare le notti dell’anima.
Già dal titolo, come nume tutelare Erich Maria Remarque e come estetica un mondo aperto e sconfinato, un viaggio continuo e carrettero in ogni pizzo dell’istinto e la rabbia ritmata di tante, tantissime cose da combattere della società che non carburano affatto, una mano aperta a chi sta sotto e una poesia come medicina per moltitudini; questa è sempre stata la filosofia dei MCR, di quella ambientazione folk perennemente “on the road” al di qua e al di la delle partenze e degli arrivi, una storia – la loro – che ad ogni nuovo capitolo torna a srotolare magnificamente le corde emozionali dell’inquietudine libera. Oltre il combo al completo – senza mai dimenticare il grande Cisco ora zingaro solitario – alcune guest alle strumentazioni quali la tromba di Eusebio Martinelli, Anna Lometto alla ghironda, Daniele Contardo all’organetto, il fonico della band Talu Costamagna e l’ex Luciano Gaetani alla cornamusa elettrica, e una “rappresentazione uditiva” divisa in due pièce – se vogliamo allargarci freneticamente, la prima mostra i denti “Occupy Wall Street”, “Pasta nera”, “La luna di Ferrara”, “Beppe e Tore”,  la seconda coccolona, amaro dolce e con la poesia  pendoloni sui rami di una vita speranzosa per almeno un futuro da poter acchiappare “Due magliette rosse”, “Tarantella Taranto”, “Afro”, “Il giorno che il cielo  cadde  su Bologna” e l’agra ninnananna che “Briciole e spine”  insinua nel labirinti di una notte pensierosa stendendola a fine corsa di questo bel doppio.
Grandi maestri affabulatori, i MCR non hanno bisogno e necessità di inventarsi nuovo percorsi, si sanno elevare al di sopra delle convenzioni e tracciano da anni l’insofferenza della staticità a favore della libertà e la colorano tutto d’intorno con la bella musica, le belle ventate in faccia che spettinano e tonifico la voglia irreversibile di andarsene via, per sempre via. Oltre il tutto.

Immenso.

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Matteo Cincopan – Fantascienza

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Un lavoro del genere ti capita raramente tra le mani. E, tenendo presente il caso fortuito per cui ne sono venuto a conoscenza, devo ritenermi davvero fortunato.
Sto parlando dell’ultimo lavoro di Matteo Cincopan, “Fantascienza”, secondo capitolo di una trilogia che il polistrumentista di Bologna ha elaborato come punto d’incontro tra sonorità del passato (qua declinate seguendo la scia del progressive anni settanta) e liriche del futuro (rappresentate dalla narrativa fantascientifica): il risultato è un disco davvero godibile, un crocevia tra Le Orme, Il Balletto di Bronzo, i Pink Floyd e i Magma.
Fantascienza” ricalca musicalmente quelle sonorità che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta avevano interessato la scena italiana, portando alla ribalta un rock sinfonico, elaborato, colto e raffinato, tanto da essere motivo di vanto nelle parallele scene inglesi e americane: il nostro Matteo Cincopan prende il meglio di quel periodo e riesce ad elaborarne una personalissima visione, fatta di brani dalla media durata, incisivi e diretti, in cui il barocchismo (mai ostentato) degli arrangiamenti trova una naturale posizione come contorno e controparte della lirica.
Si apre diretti con “Giano”: la voce di Cincopan è quella di un moderno e cristallino Tagliapietra, il ritmo è serrato, sincopato, gli ingredienti sono tutti ben miscelati. Ma è solo un preludio: la superba “Andromeda” (forse il brano più riuscito dell’intero lotto) si apre con un lieve crescendo, subito contrastato da una parte sognante e ieratica; refrain dolce e intimo, una vera poesia di musica e parole. Siamo molto sulle coordinate dei Pink Floyd, come se per un miracolo l’atteggiamento space rock dei primi dischi si fosse fuso con la psichedelia ordinata dei grandi lavori successivi. E il testo, malinconico e struggente, ci racconta dell’immensità del cosmo e della nostra solitudine.
Segue “Dottor Morbius” un pezzo eclettico, con ritmo, quasi pop rock. “Le Crisalidi” è un altro di quei momenti immancabili. Pensate ad una collaborazione tra Il Guardiano del Faro e i Porcupine Tree delle ballate più struggenti, avrete in mano questa bellissima ballata.“Psicopolizia” è un brano di una semplicità disarmante, quasi infantile nelle liriche, a ricalcare la semplicità e la banalità degli slogan e delle imposizioni.
Chiude il disco “Eclissi”, metrica storta, cosmiche visioni e un ritornello dannatamente orecchiabile.
Questo “Fantascienza” è un lavoro prezioso. Le sonorità così vintage, così radicalmente del passato sono un risultato che spesso suona anacronistico e ridicolo: non è questo il caso. Qui dentro vive un’anima precisa e significativa, un mondo delineato e preciso, il tutto avvalorato da una prestazione ispirata agli strumenti e alla voce e da una musicalità in grado di creare passaggi che rimangono facilmente in testa.
Immancabile per tutti i nostalgici, per quelli che quel tempo non è finito, ma anche per quelli che cercano qualcosa di nuovo, di diverso e di significativo.

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Eels – Wonderful, Glorious

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Dopo la scorpacciata dovuta alla trilogia che li ha impegnati nel 2009/10, Mister E, ovvero il pazzoide Mark Oliver Everett e i suoi sodali Eels, non se la sentono di essere ancora collegati a quell’urgenza iniziale in cui li abbiamo tutti conosciuti, non ci stanno a rimarcare quelle strutture – meglio sovrastrutture – che li lanciavano tra il teorema del delirio e i grandi puzzle dell’universo alt-tutto, ma decidono di occupare una macchina del tempo, la denominano “Wonderful, Glorious” e ne fanno un transfert accalorato verso gli anni Settanta dove, sulle righe alcaloidi di certi Fleetwood Mac e le ottiche sonanti di chi altrettanti stravizi pop-rock non li vuole dimenticare, continuano in una sorprendente presa  discografica con il ruolo primario di entusiasmare a rotta di collo.
Tredici direttrici che possono scuotere l’immaginazione per via del multistrato stilistico del quale la tracklist si permea e deborda, spazio dove la libertà creativa è più che idonea nel farsi complice di una conquista istantanea; disco di una scrittura fondamentale, scostata dalle precedenti produzioni, ma anche dove una parola e magari uno, due, o al massimo tre accordi, stabiliscono il punto giusto di fusione tra innamoramento e intimità immaginaria “Accident prone”, “On the ropes”, “The turnaround”, tanto a scomodare un qualcosa di più cui Everett non se lo farà dire mai due volte.
Dicevamo gli anni Settanta in cui gli Eels tornano a pescare prodigi e virtù instancabili, e se le chitarre e le tastiere di “pelle nera” disegnano giri funk in “Kinda fuzzy”, il rock-blues tinge nuvole distratte in “New alphabet”, l’atmosfera modificata di una robotica in luna di miele a Beverly HillsPeach blossom” o l’eccentricità Waitsiana in “Bombs away” oppure i Cream con la frangetta beatnik che fanno shake convulso dentro “Stick together” possono sembrare una manna dal cielo che solo gli Eels sanno concertare e impastare, con l’arrivo all’orecchio del beat edulcorato e molto “summer of  love” che la titletrack offre, le gradazioni della goduria intesa come sintonia perfetta con il registrato fibrillano a go-go.
Come sempre sono i primi nella loro disarmante sincerità, mai secondi nella docile psichedelica e ancora primi a ridisegnare le coordinate del rock e delle sue armonie; che dire, Eels la stupenda fantasia in cui non  sai mai cosa vai ad ascoltare!

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Orchestra Dark Italiana – S/t

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“Invitami a casa, è più tranquillo a casa” (GiapponeOrchestra Dark Italiana).

Il quartetto Orchestra Dark Italiana è composto dai musicisti Flavio Michele, Federica Nardi, Giuseppe Paolillo e Savino Pace. La loro missione è portare musica disorientante nelle orecchie mal messe dell’ascoltatore moderno. Quello impavido e dai grossi problemi, quello disposto a mangiare merda pur di non concedere un minimo delle proprie capacità intellettuali alla cultura artistica (musica o arte in generale).
Esistono molti modi per sentirsi padroni del proprio (fortunato) destino nel mondo della musica, trafiggere l’ascoltatore al primo ascolto è uno di questi, farlo sentire a proprio agio è la cosa migliore. L’Orchestra Dark Italiana debutta con il primo omonimo (s/t) disco lasciandosi un gradevole profumo alle spalle, un orchestra nel vero senso della parola con una strumentazione ben assortita e mirata, la quinta essenza di un interpretazione magistralmente corretta. Elettronica in chiave moderna, molto lenta con reti vocali calme e atmosfere cupe, dark appunto ma non new wave. Poi il cantautorato sembra essere uno dei migliori in circolazione con una cura dei testi sopra le righe ( ascoltare Giappone, Vera, Youthell) e la volontà di esporre un buon prodotto finale. Un disco d’esordio chiamato semplicemente s/t per arginare l’incomodo omonimo, una storia raffinata raccontata sopra le proprie esperienze di vita, di terra, di mare, di sole. Orchestra Dark Italiana confonde fortemente l’animo di chi si cimenta nell’ascolto rendendolo incapace di garantire un attenzione sincera per tutta la durata dell’album e ci troviamo sempre davanti a cambiamenti improvvisi figli di una sperimentazione sonora in continuo movimento. Un orchestra degli (nostri) anni dieci da non confondere con quelle sedicenti alla Bregovic, abbiamo davanti meno complessità di arrangiamento e più fascino emotivo, niente virtuosismi da camera e più esecuzioni che vengono dallo stomaco. Certo perché ormai siamo stufi del tutta tecnica (e disciplina) e niente cuore, il periodo attuale che stiamo vivendo ci rende vulnerabili ai sentimenti e quelle poche emozioni belle o brutte che siano vanno vissute fino all’ultimo respiro (non mettendo comunque in discussione la loro tecnica ). Orchestra Dark Italiana suonerebbe bene tra i vicoli emancipati di una triste festa cittadina, tra mangia fuoco, prestigiatori e mimi, la copertina di Strange Days dei Doors trasmette lo scenario lasciato dalla musica di questa band. Un s/t troppo profondo per circolare nella sciatta insoddisfazione dell’indie rock italiano, qualcosa di veramente diverso e interiormente valido, non buttiamoci troppo velocemente in giudizi ultra positivi prima del tempo dovuto ma riconosciamo all’Orchestra Dark Italiana il merito di aver suonato e portato a nostra conoscenza un buon album d’esordio come pochi in questo periodo. Le chiacchiere poi lasciamole portare via dal vento freddo di questa metà di Febbraio e godiamoci un disco che a primavera potrebbe già sfiorire.

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Rebel’s Bay – Carry On

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Da Indelirium Records (che, a quanto pare, sforna tonnellate di punk’n’roll) arriva l’ep dei Rebel’s Bay, una band di Riva del Garda che gira Italia e Europa da un paio d’anni col proprio carico di tatuaggi old school, camicie a quadri e coppole d’ordinanza – senza dimenticare la musica: punk diretto, retrò, molto canonico, che non si risparmia né in energia né in cliché.
Il contesto che richiamano è affascinante: velieri, ancore, la Baia dei Ribelli… e i titoli dei brani sono azzeccatissimi: My Friend My Family, Wild Heart And Broken Bones, Billy’s Legend… il frontman Al, dalla voce sporca e strascicata, ricorda tanto Shane MacGowan quanto Eugene Hütz, ma la somiglianza con i rispettivi gruppi d’origine si ferma qui: nessun meticciato, nessuna contaminazione a inquinare l’ortodossia punk del trio trentino.
E forse è questo il limite, condiviso dai Rebel’s Bay con centinaia (se non migliaia) di band europee che a loro assomigliano: il rischio di non avere nulla di propriamente loro. Come band punk si difendono ampiamente, dimostrando, anche solo nei sei brani di questo ep, di saper gestire con gusto, energia e bravura quel linguaggio così particolare che è il punk; ma se dovessimo distinguerli da band simili (anche solo da alcune delle band che ne condividono la militanza nel roster Indelirium) faremmo tanta, troppa fatica.
Amanti del punk’n’roll fatto come Dio vuole: abbeveratevene dai Rebel’s Bay, ce n’è a sazietà. Se cercate qualcosa di più, avete sbagliato strada…

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Small Giant – Now We’Re Gone

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Ai tempi della mia remota adolescenza le primissime scelte musicali che operavo si basavano principalmente, oltre che sul genere, sulla copertina. Sì, quella cosa che tutti oggi chiamano cover per aumentare il proprio livello di figaggine. Una buona cover fa di un ottimo disco un disco eccezionale, lo completa e gli dona quel valore aggiunto che altrimenti non potrebbe ben veicolare la sua fruizione e distribuzione. Non provate neppure a pensare che sia un mero accessorio non facente parte di un disco nella sua totalità: dimostrereste che di musica non ne capite proprio un cazzo. Ben lungi da chi ci legge. Bene, la cover di questo album lo identifica in maniera egregia, e non è roba da poco nel mondo del fai da te di oggi, dove tutti si sentono fotografi o grafici con uno smartphone in mano. L’immagine è quella di una libreria piena di libri e giocattoli (molto ben realizzata) piena di citazioni provenienti dal passato (vi invito a cercarle), un rimando voluto all’età dell’adolescenza che fa da filo conduttore in questo ep di italo dance, così come ama definirla il suo autore Simone Stefanini, già conosciuto ai più per essere il chitarrista dei Verily So, ma che in questa sua escursione solista si presenta come Small Giant. Anche lo pseudonimo da lui scelto è dei migliori, essendo che qualsiasi adolescente si sente un piccolo gigante dentro. Molti anche fra le gambe, ma questa non è sede per dibattiti di tipo freudiano, qui si parla di musica, e di musica continuiamo a parlare.
Questo Now We’Re Gone nasce come vero e proprio tributo ad un certo tipo di musica degli anni ’80 e da subito attira l’attenzione per la sua semplicità e la sua pulizia, dirottando l’ascoltatore più che sulle citazioni, sulle intuizioni e le atmosfere che i brani lasciano traspirare coinvolgendolo nei suoi suoni essenziali ma tiepidi e rassicuranti.

A partire dagli arrangiamenti dei brani, l’album suona compatto e delicato, le sue melodie si intersecano alla perfezione ed esondano (notare il termine esondare, anch’esso reminiscenza delle mie interrogazioni di geografia in piena adolescenza) in un ordinato e ben bilanciato ascolto. Now We’Re Gone si articola molto bene a partire da We Were Fuckers, con il suo sound pacifico, passando per le tastiere frenetiche e la chitarra selvaggia di The Night Apollo Died (Apollo Creed, proprio lui), o alle più introspettive Murakami e The Other MeDivisi, con il suo vocoder ed i suoi suoni fortemente pacifici ci trasporta dritti dritti in una qualsiasi domenica pomeriggio del 1987, mentre è evidente lo struggersi da quindicenne trasportato avanti nel tempo in Another Way to Die. La bonus track, Neverending Story, è proprio quella Neverending Story, colonna sonora della pellicola che un po’ tutti conosciamo e che, nonostante l’ottima realizzazione, sembra a mio parere leggermente troppo ridondante ma tutto sommato azzeccata per completare l’insieme. Il sound del disco nasce da basi elettroniche molto semplici arricchite da tastiere e chitarre molto ben studiate (The Night Apollo Died su tutte) e parti vocali di tutto pregio. Il tutto per merito anche delle ricchissime collaborazioni, come quella di Laura Casiraghi degli Starcontrol, o Davide Lelli dei The Please, per passare aStefania Salvato dei Talk To Me, ad Emanuele Voliani dei Bad Love ExperienceLuigi Cerbone degli Elara, oltre ai due Verily So Marialaura Specchia e Luca Dalpiaz, fino alla più prestigiosa di John Neff dei lynchani Bluebob.
L’album suona quasi come una sperimentazione a tutto tondo dove poter affondare la zanne più del solito e dove anche la sua etichetta, la Fairy Sister, sperimenta la sua stessa esistenza, essendo questa la sua opera prima.
Now We’Re Gone è sicuramente un’ottima prova che lo stesso Stefanini affronta a testa alta, parlando linguaggi a volte diversi dai suoi abituali ma con grande dimestichezza, pronto a mettersi in gioco per divertimento ma anche per cercare un po’ se stesso, proprio come tutti i buoni adolescenti non mancano di fare.

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The Autumn Leaves Fall In – The Different Visions of Things

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Il 2013 si tinge post-rock, con l’uscita, il 17 gennaio scorso,di The Different Visions of Things, primo album dei toscani The Autumn Leaves Fall In, il trio formato da Lorenzo Terreni (chitarra), Fabio Melani (basso) e Alessandro Lucarini (batteria), formatosi nel 2010.
Sei tracce per scoprire la diversa visione delle cose. Come i cieli ghiacciati di un futuro lontano, in cui il noi si trasforma in un’unica entità, attaccata da ombre teatranti, tra le nuvole sopra i grattacieli o nel più profondo nascondiglio, fino a tronare bambini. Sei mondi. Sei sensazioni così diverse che potrebbero sembrare reminiscenze ci centinaia di persone.Che regalano emozioni dalla purezza al caos, dalla pace all’inquietudine, come loro stessi scrivono. Diversi modi di interpretare e di sentire, dunque, niente testi, niente parole inutili. Solo musica, finalmente!
E tutto inizia con Blue Ice Sky, il primo brano che lentamente presenta gli strumenti e rimane in quell’atmosfera sospesa di sperimentazione fino al terzo minuto, dopo il quale tutto diventa più tangibile, più terreno, come una corsa, ma verso il nulla… Wewereone procede quasi alla stessa maniera, battute uguali, che si ripetono all’infinito, assieme  alla batteria che come una marcia porta il tempo. Un tempo che si perde, nei pensieri o nella malinconia di qualche ricordo, che magari affiora ad occhi chiusi, mentre la musica inizia a declinarsi. Ma le ombre di Chinese Shadows Theaternon emanano paura, ma quasi tristezza,che quando esaurisce il suo percorso, lascia un vuoto o forse troppo silenzio. Silenzio che si spezza con Like Clouds Over Skyscrapers, che potrebbe, ma non lo fa fino in fondo, ben accompagnare le immagini di splendidi viaggi, di posti nuovi, incantevoli, arabeggianti o moderni fino all’eccesso. E dal quinto brano, Deeperthroughit, si va verso la fine, ma, ecco, forse la pecca di questo lavoro: troppa batteria. Strumento splendido, suonato con bravura, ma che talvolta opprime tutto il resto, che comunque chiede attenzione. Kids chiude l’album, con i suoi sei minuti di musica soffice, accostata all’infinito con le sue mille ripetizioni. Un finire che ricorda un sorriso o un arrivederci al prossimo album.Blue IceSky, Wewereone e Kids sono a mio parere i brani più interessanti, ma che nascondono qualcosa di celato, di non detto, di trattenuto..
The Different Visions of Things è un buon primo lavoro, nel quale il rock prende piede, contaminato dall’ambient e dalle sperimentazioni, che però dovrebbe liberarsi da tutto e lasciar andare la musica a briglie sciolte. La musica suonata ad occhi chiusi, senza schemi, senza pensieri, per dar vita a qualcosa di più caratteristico. Per creare atmosfere magiche, come i Giardini di Mirò o i SigurRòs. Queste sono mie esternazioni personali, certo, ma se è vero che la musica è l’arte delle arti (anche se non sarei molto propensa nel sostenere questa affermazione) allora la musica può tutto: creare colori, far nascere mondi, raccontare delle storie.. Può e deve creare tutto questo, altrimenti rimane solo musica, solo note e nulla più. I The Autumn Leaves Fall In si definiscono una band che continua a evolvere il proprio sound pur rimanendo fedele alla matrice post-rock, e sono sicura che in questa evoluzione uscirà fuori tutta quella musica di cui parlavo prima.

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Father Murphy – Anyway, Your Children Will Deny It (Remix Series)

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Siete riusciti ad ascoltare qualcosa di veramente figo in questo duemilatredici? È dura, lo so, l’anno non è iniziato nel migliore dei modi e neanche i ritorni di Yo La Tengo e My Bloody Valentine sono sembrati degni della nostra esaltazione. Ancor meno in terra italiana, dove piccoli accenni di entusiasmo (me escluso) si sono avuti con i nuovi lavori dei Bachi Da Pietra e dei Baustelle. Veramente poca roba. Tuttavia, solo qualche giorno fa, il quattro Febbraio, i pezzi di una delle più belle realtà italiane (sì, sono italiani), i Father Murphy, contenute nel loro ultimo lavoro Anyway Your Children Will Deny It, messi nelle mani di alcuni dei più grandi nomi della musica Psych-Noise (e non solo) internazionale, hanno visto la luce sotto forma di 7”+ 12” LP. È vero che l’idea di fare dei remix di album editi solo l’anno prima non è certo originale ed è anche vero che il risultato è spesso deludente (vedi i Battles, Gloss Dropp e i remix del 2012 di Dross Glopp). È anche vero che l’album originario dei Father Murphy del 2012 non era stato proprio il capolavoro di una carriera (a proposito vi consiglio piuttosto Six Musicians Getting Unknown e Brigadisco’s Cave #6) anche se per molti questa mia affermazione è una bestemmia. Vero tutto ma vero anche che il risultato che mi pulsa nelle orecchie è ancora meglio dell’originale. Non la penserà cosi chi avrà adorato Anyway Your Children Will Deny It ma come vi ho detto, non è il mio caso. Non v’incazzate, punti di vista.

Il gruppo trevigiano nasce nel 2001 e si sviluppa attorno al cuore composto dal trio Freddie Murphy (guitar, vocals), Chiara Lee (keyboards, vocals, percussion, bells) e Vittorio Demarin (drums, viola, vocals). Il disco da cui i remix prendono spunto, è il quinto lavoro sulla lunga distanza in dodici anni di produzione. Si tratta di un’opera che mescola avanguardie blues, sonorità oscure e agghiaccianti, Neo-Psychedelia, inserti vocali ed elettronici da far tremare l’anima, Folk, Post-Punk e Noise. Un sound assolutamente unico nel panorama tricolore e che ha reso i Father Murphy una di quelle band che fai fatica a renderti conto vivere nel tuo stesso paese. Sono molti i gruppi che scimmiottando le star britanniche giocano a fare gli stranieri ma in questo caso la realtà è ben diversa. I Father Murphy sono una band internazionale perché la loro musica non ha radici terrene.
Il 7” (Two Views) è composto da “His Face Showed No Distorsions” nelle mani degli Indian Jewelry, band che ammetto di apprezzare notevolmente (andate a ripescare i loro lavori e non ve ne pentirete). Un gruppo enorme proveniente da Houston, composto di un numero indefinito di elementi (ci saranno quattro batteristi, tre sassofonisti, diversi chitarristi e poi synth, rumori vari, percussioni, per un totale di membri che supera gli anni della band, nata nel 2001). Il secondo pezzo è “Diggin The Bottom Of The Follow” rielaborato dal francese Philippe Petit.
Il 12” (Heretical View) invece inizia con “How We Ended Up With Feelings Of Guilt” degli Happy New Year e quindi un’altra versione di “His Face Showed No Distorsions”, stavolta degli W.H.I.T.E. (che vi consiglio di cercare senza arrendervi). Segue “It Is Funny, It Is Restful, Both Came Quickly” dei Zulus e ancora “Diggin The Bottom Of The Follow” rivisitato dai danesi Thulebasen. Che cosa è cambiato fino a questo momento, rispetto all’opera madre? Certamente in ogni rielaborazione, i gruppi/artisti hanno messo un pezzo del proprio essere, senza limitarsi a un freddo remix. I brani non si sono certamente trasformati in pezzi da dancefloor, ma hanno acquistato ora pulsante ritmica ossessiva, ora rigonfiamenti lisergici. Diciamo che se l’opera dei Father Murphy è servita a dare conferma della loro grandezza senza aggiungere troppo alla loro proposta, questa diversa visione ci mostra l’inferno sonico dal punto di visto del Demonio e non del dannato. Nella seconda parte troviamo “In Praise Of Our Doubts” di Yvette e “Their Consciousness” di Noel V.Harmonson/Sic Alps. Avrete notato che molti dei partecipanti all’opera fanno parte della scena neo-psichedelica elettronica mondiale ed è proprio questo uno dei diversi punti di riferimento che possiamo trovare all’interno. Inoltre spesso si tratta di artisti non troppo noti al nostro pubblico ma la vera chicca viene con “In The Flood With The Flood” dei grandissimi Black Dice (chiarisco che anche con loro come altri nell’album i Father Murphy hanno condiviso il palco). Attivi dalla fine del millennio scorso, la band statunitense ha sempre proposto una musica dalle mille sfaccettature (cercate l’opera prima Beaches and Canyons), dall’elettronica sperimentale, al Noise, dalla psichedelia al Plunderphonics (genere che si basa sul collage di diverse fonti sonore, col quale si sono cimentati anche i The Residents). Anche in questo caso i Black Dice non si tirano certo indietro per rielaborare alla loro maniera il brano dei Father Murphy. Il disco si chiude con “Don’t Let Yourself Be Hurt This Time” rivisto in chiave EMA.

La musica dei Father Murphy è violenta ma non aggressiva, inquietante ed esoterica, precisa e deforme. Un continuo divenire tra industrial, psichedelia, neo-folk e tutto quanto ci sia di più lontano possibile dagli ascolti di uno spettatore italiano medio (non è un caso che abbiano firmato per l’etichetta statunitense Aagoo). Forse non vi ho detto tanto ma come la loro musica è avvolta in un oscuro mistero, voglio lasciarvi anch’io con la voglia di scoprire i pezzi, uno per volta, scovarne i demiurghi e i loro sofisticatori. Spogliarne i segreti e centellinare con stupore le differenti scie emozionali che vi lasceranno gli ascolti. Se si poteva aggiungere qualcosa, dare nuova linfa ai brani di Anyway, Your Children Will Deny It, aumentarne la potenza, questa è la reazione pragmatica.

 

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Tetrics – Tetrics

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I Tetrics si presentano con quest’album omonimo dove rockeggiano, blueseggiano, a tratti raggeaggiano, facendo il verso al rock italiano “classico”, anni ’80/’90, ma senza, ahimè, lasciare traccia alcuna nell’orecchio dell’ascoltatore.
Sono tre le grosse critiche che si possono fare a questo lavoro: al primo posto, la voce del frontman Marco Plebani, che non raggiunge nemmeno una lontana sufficienza. È una voce stanca, sforzata, senza un minimo di verve, che a tratti sfiora il ridicolo – lo dico senza alcun intento denigratorio, ma per consigliare un eventuale sviluppo tecnico, o magari un uso diverso, delle capacità vocali del cantante: ne gioverebbe tutto il progetto.
Il secondo problema sono i testi, che si fermano troppo spesso alla rima baciata e ad un immaginario ormai liso e consunto – alcool, amori velenosi e carnali, rock’n’roll – risultando a tratti ripetitivi, a tratti scontati.
Ultimo, piccolo neo: a parte qualche episodio effettivamente “fuori canone” (vedi la terza traccia, 9:07), il resto s’appoggia decisamente al già sentito, al già visto, al già esperito (cosa che accade troppo spesso, di questi tempi… sarà che si è già suonato – e detto – di tutto? Chissà).
In conclusione: lo sforzo dei quattro Tetrics è apprezzabile, ma il prodotto finale necessiterebbe di una buona sessione di make-up anche solo per rendere possibile un ascolto totalmente finalizzato al piacere onanistico di fruire di un rock italiano molto, molto classico. Se poi l’obiettivo è di rimanere nella testa, di comunicare qualcosa di duraturo all’ascoltatore, serve molto, molto di più.

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Cesare Basile – S/T

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Scaricato in free streaming dal sito del Teatro Coppola, Teatro dei Cittadini di Catania e tutt’ora occupato, ecco il nuovo diamante grezzo del cantautore Cesare Basile, diamante grezzo che non porta nessun nome, ma che rovescia addosso a chi mette orecchio un climax ruvido, gravido di quelle melodie al quarzo che scintillano luce, riverberi scarni,  sapore di sale e ferite aperte che sono oggetto e verifica di quella passione graduata che l’artista siculo ci ha sempre plasmato dentro lo stomaco e dintorni.
Quello che colpisce della poetica di cartavetro di Basile è che non alberga mai voli liberi, abbandoni o albe da trascendere, ma una costante elegia alla celebrazione della sofferenza e nello stesso tempo alla riflessione nuda e cruda intesa non come esistenzialità piuttosto come perfezione “dal basso”, di quella rabbia costipata messa in circolo sottoforma di intimismo agro e cupo che fa titillare all’inverosimile le meccaniche di collegamento delle emozioni vere; dieci tracce – alcune cantate anche in siciliano – che se fossero colore sarebbero color seppia, un istinto la giustizia, uno sguardo il profondo e una movenza un volo di farfalla triste, dieci tracce che quantizzano l’enfasi e i ricordi di un autore schivo  quanto vero, sincero, arte fatta con gambe, parole, pensiero e lingua per poi andare a zonzo in una esistenza che non lievita le masse ma le prende in considerazione, le fa contare non come numeri ma come un insieme di fratellanza da scuotere forte e ancora forte.
Cantautorato spesso, che odora, profuma e puzza di vita e voglia di libertà, storie amare come cicuta e raccontate fuori dai denti, senza abbellimenti e pinnacoli, la Sicilia parlata dalla parte delle sue ingiustizie, dai fondi dei  suoi negazionismi libertari e pregna di quelle frecce popolari che alimentano corpi e intelligenze sottomesse e  da infilzare, un disco che con “Parangelia”, “Nunzio e la libertà” ti apre disegni metafisici e contorni mediterranei, ti attraversa l’animo con la scardinata prosa popolare e i suoni  acustici del tempo “L’orvu” e “Caminanti” fino a quell’arcobaleno sbiadito ed intermittente che s’ inchina alle rime della stupenda  – tra le stupende – “Lettera di Woody Guthrie” ballata nera bagnata da un folkly tratteggiato e larsen messi a contrasto tra spiriti indomiti e un America bastarda.
Cesare Basile è tornato per farci tremare, e lo fa attraverso il nostro ascolto che prende quota al di là della forma visibile.

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Jack Folla – Jack Folla Ep

Written by Recensioni

I Jack Folla si presentano al pubblico con questo ep, omonimo, di 4 tracce, dove mescolano con abilità rap e rock duro, chitarre distorte e ritmiche serrate, nella gloriosa tradizione del crossover di stampo nineties.
Notizia buona e notizia cattiva. La notizia buona è che il lavoro suona benissimo (merito anche dell’ottima produzione di Cristiano Sanzeri di 29100 Factory, che personalmente mi ha stregato già in passato con la produzione di Ulysses dei Kubark). Scorre continuo e tutto è suonato bene: chitarre immerse in oceani di delay à la Limp Bizkit, batterie che pompano (e come suonano…), voci che s’intrecciano – il rap di Teo Zerbi ha un buon flow, mentre Dave Magnani ha un timbro da rock italiano che può essere un’arma a doppio taglio, discostandosi da quello che ci si aspetterebbe da un prodotto del genere, ma che almeno ne crea una versione peninsulare sui generis. C’è bravura anche negli arrangiamenti, e le melodie ricordano certi Crazy Town, ma anche parecchi di quei gruppi clonedei capostipiti del genere (Papa Roach, primi Lostprophets…).
Già, la cattiva notizia. Il crossover, fatto così, è nato, cresciuto e morto, e dal funerale ad oggi sono passati una decina d’anni. Siamo nel 2013 e nonostante la bravura indiscussa dei Jack Folla, a sentire questo ep si ha un senso nauseante di déjà vu. Sì, qualcosa di diverso dalla pletora crossover ’90-’00 c’è (le liriche in italiano, timbriche diverse, un approccio che possiamo considerare più orecchiabile e di facile ascolto rispetto ad alfieri del genere come Rage Against The Machine o Korn), ma non basta per fare dei Jack Folla un capitolo a parte.
Nella musica non si crea nulla, è tutto un ripetersi di cliché, smontati e rimontati in un circolo infinito di vita-morte-resurrezione. Detto questo, ascoltate (e godete) dei Jack Folla se il crossover è la vostra ragione di vita e non volete perdervi nulla (ma nulla nulla) di ciò che ne può scaturire. Altrimenti, fate un tuffo negli States di fine anni novanta e scoprirete un mondo.

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