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Valentina Gravili – Arriviamo Tardi Ovunque

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La Balena del Tamigi, l’album secondo di questa artista brindisina, Valentina Gravili, già due anni fa l’aveva messa ben in luce come un’ottima scheggia impazzita dentro e fuori l’underground. Ora torna “diversamente magnetica”, perfetta in una specie di controcanto personalizzato alle forme di specie della Polly HarveyPare che fuori pioverà”, “La mappa dei punti deboli del mondo” così come  una versione isoscele che crea flash tra una Cristina Donà e una Meg sparuta e pensierosa “La saggezza è roba per giovani”, una personalità sonora vincente che l’artista rimette in piazza nel terzo disco della sua carriera, “Arriviamo tardi ovunque”, il disco che con pochi e assestati ascolti,  la conferma nuova stella alternativa di questo capovolto inferno delle emergenze soniche.

Dentro c’è una voce – la sua – che è eterea, fatata, gorgheggiante, adattabile alle fumiganti nevrosi come nelle melodiche manciate che si consolidano man mano che la tracklist sgancia brani di assoluto piacere, mai derivativi e un pochetto lontani dal pop stratificato del precedente lavoro, trame e concetti che languono avvicinandosi a brume acustiche e senza la patina del lusso, che svolazzano, piroettano, pensano e affondano  – immortalando – una interpretazione stupenda nelle sue molteplici facce. Un follow-up mediterraneo “Il finimondo”, stop & go southern acustici alla Ani DiFranco che percuotono la titletrack,  nove tracciati co-prodotti da Max Baldassarre e fissati in buona parte con l’autoharp, brani che suggestionano potentemente, tracce che nascono per stupire e struggere, a volte fragili come la poetica ovattata della Donà “Mosca cieca”, a volte che riesuma i disegni d’alito invernale di una tenera Marta Redeghieri degli UstmamòDomenica mattina”.

Valentina Gravili distilla canzoni che hanno una marcia in più della consuetudine, una forte presenza femmina che fa coerenza e suono incantevole, niente è a caso, nulla è gettato, una bella (ri)scoperta che si è modificata nel tragitto come una ventata improvvisa rimanendo saldamente ancorata alle proprie e alte qualità. Piacciono i fiori slegati e  vermigli? Allora è consigliatissimo al 1000%.

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Uno non basta – Narciso dilaga

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Una bionda a gambe aperte, truccatissima, in mutandine e canotta slabbrata, seduta su un divano di pelle, sotto la scritta “Uno non basta”, a me, che sono maliziosa, fa mal pensare. E poi storcere il naso.  Incazzare forse rende meglio l’idea. Perché è vero che tira più il proverbiale pelo di che un carro di buoi, ma se la finissimo con una certa iconografia stantia del rock alla AmbraMarie, sarebbe anche meglio. Mi riferisco alla copertina di Narciso dilaga, disco degli Uno non basta. Sul retro, per simmetria, il b-side della fanciulla. MADDAI! Sì, sono una femminista convinta e sì, la copertina sarebbe bastata a non farmi recensire questo lavoro. Ho deciso comunque di mettere da parte i miei pregiudizi vittoriani e ascoltare.  L’elettronica degli Uno non basta arriva diretta dagli anni ’90, come dimostrano le prime due tracce, Zombie e Per due.  Il cantato è sillabico e quasi parlato, il vocalist sembra non cantare: ne giova la chiarezza del testo, ma nel tripudio ritmico e sintetizzato degli arrangiamenti, non sarebbe guastata un po’ di melodia. I testi sono pregevoli: i ragazzi lavorano per immagini e spesso devono servirsi di metafore già sentite, ma risultano comunque efficaci. Succede, ad esempio, in Vi ammiro vi uccido, dove frasi come “milioni di contenitori vuoti/invece di una testa o di un cervello” o “ed un palmare nelle tasche che controlla il mondo/che neanche dio al posto suo è riuscito a fare tanto” non brillano per chissà che riferimenti o chissà che originalità, ma chiariscono subito che l’elettronica della formazione di Roma non è puro divertimento da discoteca. E come a rafforzare quest’idea, ci si allontana dalla cassa in quattro in Passi da gigante, dove il dub alla Otto Ohm la fa da padrone. Fino a qui, gli Uno non basta avrebbero potuto presentare un Ep buono e rappresentativo. La band è compatta, preparata e capace di fare emergere una certa opinione e una certa attenzione alla realtà sociale odierna. Sono tecnicamente capaci e che il genere vi piaccia o meno, hanno indubbiamente qualcosa da dire. Qualità sorprendenti se si pensa che i ragazzi lavorano insieme a questo progetto solo da due anni, che normalmente è il tempo che una band impiega per trovare un proprio criterio compositivo. Peccato che l’album prosegua per altre otto tracce. Parla sempre poco e No passano senza lasciare ricordo di sé, Fuoco nel vento brilla solo come amarcord anni ’90, La fine ricalca Discolabirinto dei Subsonica, tanto da aver risvegliato la suffragetta che c’è in me all’urlo di “Plagio!”. Grigio Islanda, fortunatamente, riequilibra il cd: a mio avviso è la traccia più efficace, più riuscita, più potente. Il testo è più semplice di quello degli altri brani, costruito per immagini che occupano sezioni intere e non singoli versi, il cantato è finalmente pieno di voce, svelando un timbro particolare che ricorda quello di Davide Autelitano dei Ministri. La title-track Narciso dilaga sembra il manifesto estetico della band, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti, strazeppi di artifici elettronici che appesantiscono un testo già pieno di anafore sulla parola “Narciso”. L’esercito degli schiavi è l’ennesima dimostrazione che questi ragazzi sanno scrivere dei gran bei testi ma non sanno renderli in musica. Il senso si perde tra la il battere della cassa e i synth. Peccato.
Ps. Sul cd, è stampata l’immagine della ragazza. Vestita. Senza faccia (tagliata) e con degli shorts giro ****, ma vestita.

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Calcutta – Forse…

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È scientificamente provato che vivere l’esperienza del viaggio nel tempo ha pesanti ripercussioni sul fisico e sulla mente. Io, ad esempio, ne ho vissuta una proprio di recente ed ora mi sento debilitato e fuori forma, faccio fatica a concentrarmi ed a portare a termine qualsiasi semplice azione quotidiana. A parte lo shock di essere catapultato ai giorni della mia adolescenza dove tutto sapeva di brufoli e marmellata, il trauma più grande è stato trovarmi faccia a faccia col me stesso di 20 anni fa che, traslucido di fronte allo stereo, mi ripeteva: “Non farlo, nooo!”. Un evidente caso di paradosso temporale, che avrà pesanti conseguenze sul mio futuro e forse anche sul mio passato. Forse prima di quell’incontro ero un ricco e lardoso figlio di puttana che se ne stava stravaccato sul suo yacht a contare soldi e prendere il sole… Ma veniamo al punto.
È successo che con estrema curiosità ho inserito nel lettore del mio stereo questo Forse… di Calcutta, un giovane cantautore di Latina che si propone forte solo della sua voce e della sua chitarra acustica, e già penso ad una di queste nuove leve dell’indipendenza nostrana tutta barba, occhiali da nerd e melodie esili esili pronte a buttarti nella malinconia e nella depressione. Invece nulla di tutto questo. Parte la prima traccia, Senza Aciugamano, che è da subito molto piacevole e ricorda lievemente i Grant Lee Buffalo per ritmica ed impatto, ma non solo… Il brano si fa ascoltare senza alcun impedimento e prosegue naturalmente fino alla fine, ma è netta una sensazione di deja-vu che ne permea l’esecuzione. Non riesco a capire cosa sia, bisogna andare avanti…
Solo al terzo brano il collegamento è ovvio. Me ne rendo conto quando davanti a me si materializza il poster di Lucio Battisti che mia cugina teneva orgogliosamente sulla parete più grande della sua camera e che ora è proprio qui, davanti a me, evocato dal timbro rauco e distante del nostro Calcutta. Mica roba da poco, direte voi. E no, rispondo io, ma ce ne sarà davvero bisogno? Vado avanti e non mi scoraggio, anche se i miei jeans sono improvvisamente diventati a vita alta. Calcutta si muove bene fra liriche accattivanti e acrobazie semantiche, ti lascia canticchiare ciò che hai appena ascoltato imprimendotelo bene in mente, a volte anche abbandonando strade già tracciate per avventurarsi in interessanti escursioni meno melodiche come in Nicole o nella spiazzante Il tempo che resta sing along, ma l’impressione che resti troppo ancorato al passato è evidente nella maggior parte dei passaggi. Intendiamoci, non che sia un plagio del buon Lucio con tanto di motocicletta e hp, ma questo Forse… ne respira appieno le arie peraltro conosciutissime e si confonde un pochino col già ascoltato. Pregevolissime sono comunque le citazioni (Arbre Magique), simpatico il tormentone dell’amico Enrico (Enrico), trascinante il non-sense (Cane) e interessanti le liriche (Pomezia, dalla quale Flavio Scutti ha tratto anche un video), ma forse non abbastanza per convincere chi ne è incuriosito ad apprezzare in toto il progetto che tuttavia si fa ascoltare ed apprezzare in quanto ad esecuzioni ed idee. Purtroppo la pesante eredità a cui si aggancia e che mi trasporta indietro nel tempo ne sminuisce la preziosità e non ne premia la bellezza anche se, ed è da rimarcare, è di certo un buon disco. È da sottolineare che il nostro si deve essere già cimentato col buon Lucio nazionale e che ne è sicuramente profondo conoscitore nonché artista che ha saputo far suo uno stile piuttosto che limitarsi ad imitare, ma per farsi conoscere ed apprezzare dal pubblico per le sue doti cantautoriali forse dovrebbe discostarsene ancora.
Comunque dal giorno in cui ho ascoltato Forse… comincio a rimpiangere i pantaloni a vita alta: controindicazioni da viaggio nel tempo.

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Nastenka Aspetta Un Altro – Un Inconsunto Tentativo Di Solidificare L’Anima (EP)

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Cosa vi aspettate da un disco, album, singolo o EP che sia? Volete ballarlo? Volete cantarne a squarciagola le melodie dei ritornelli mentre siete al volante? Volete sognare del vostro amore, sfogare la vostra rabbia correndo sul tapis-roulant in palestra con l’Ipod nelle orecchie? Insomma, cosa volete dalle canzoni di un disco che state per acquistare? Chiedetevelo prima di ascoltare il primo lavoro di Nastenka aspetta un altro (si, questo in grassetto è il nome della band, palesemente ispirato dal personaggio di Dostoevskij ne “le notti bianche”). Credo che, qualsiasi cosa desideriate o vi aspettiate, ne sarete comunque sorpresi, nel bene o nel male.
L’EP di tre brani autoprodotto dalla formazione foggiana alla fine del novembre scorso infatti, non contiene vere e proprie canzoni. Si tratta piuttosto, come gli stessi ragazzi pugliesi scrivono sul loro profilo facebook, di “un’esperienza che nasce dalla commistione di parola, suono, rumore e non detto“. Parola, si, non canto. La voce di Alfonso Errico, anche autore dei testi, non canta una melodia, bensì narra poesie, parla, recita e sfoga concetti personali, opinioni, stati d’animo e pensieri sulla società moderna e sull’essere umano in genere; e lo fa sulla musica ipnotica composta dagli apprezzabilissimi loop e synth elettronici a cura di Wadir Marchesiello, sulle chitarre molto fantasiose e sempre d’atmosfera di Leonardo Albanese e sulle linee di basso semplici ma efficaci di Mauz Cavaliere.
Difficile quindi per me analizzare questo lavoro paragonandolo alla maggior parte delle uscite musicali. Devo, per cercare il più possibile di farvi capire l’arte dei Nastenka aspetta un altro, fare l’opposto di ciò che hanno cercato di realizzare i quattro artisti della band, ossia scinderlo in due parti: quella musicale e quella lirica.
Il suono del disco è pregievole. Marchesiello, la “base” delle composizioni musicali della band, ha fatto un ottimo lavoro in fase di scelta dei suoni, dell’effettistica e degli arrangiamenti. Le chitarre di Albanesecondiscono” poi nel migliore dei modi, con parti non scontate, ripetitive nel tema ma mai nell’interpretazione e il basso di Cavaliere sigilla, dando corpo al tutto.
I testi di Errico sono dei veri e propri monologhi, quasi delle pagine di diario in cui il paroliere sfoga i suoi stati d’animo affrontando diversi temi, raccontando di società e di persone con un linguaggio abbastanza ricercato ma sempre diretto, sull’onda del suo dichiarato ispiratore Leo Ferrè secondo il quale appunto ” la poesia rinchiusa nella sola veste tipografica non è ultimata“.
Il primo brano dell’EP porta, probabilmente appunto come tributo al monegasco poeta anarchico, un titolo in lingua francese: “C’est femme l’autre nom de dieu”. Il testo della poesia narrata da Errico è però in italiano. A seguire troviamo “Non voglio essere salvato”, una lettera di protesta aperta e tristemente ironica sulla corruzione, sulla situazione economica e governativa globale, sull’ipocrisia malcelata dei “sistemi del sistema” (non solo del nostro belpaese), sulla difficoltà di credere e perseguire ideali comunemente spacciati per garantiti quali la famiglia, la casa e la realizzazione professionale.
Chiude il disco la terza e ultima traccia, “Teresa la zingara” che racconta una vita non facile attraverso una metaforica carrellata delle dita della mano.
Il genere musicale (termine un po’ restrittivo in questo caso) di questo EP non è di quelli che sono uso ascoltare. Devo ammettere che ascoltare i Nastenka aspetta un altro mi ha aperto una serie di orizzonti e acceso diverse curiosità letterarie e artistiche in genere che ora ho voglia di approfondire. Questo deve essere lo spirito giusto con il quale affrontare “Un inconsunto tentativo di solidificare l’anima” per tutti coloro che risultano vergini a questo tipo di espressioni dell’arte. Chi già ne fruisce non rimarrà deluso. Chi invece parte con poca voglia di allargare i propri orizzonti, è meglio che stia alla larga dalle fusioni di musica e parole dei quattro artisti foggiani.

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FFD – Antifa Riot

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Con un carnet di mille e più live in ogni dove Italiano ed estero e quasi vent’anni di “sonica anarchica professione”, i parmensi FFD non danno il minimo sentore di fermarsi a godere delle loro “incursioni” scatenate tra spiriti bollenti e coscienze da ripulire, e come in una sempre rinnovata energia da spendere senza risparmio spingono il loro nuovo disco “Antifa Riot”, quindici tracce più un bonus scritte in pochi giorni e con la consueta diabolica strafottente  urgenza di dire quello che hanno fisso nel cuore, ovvero l’Antifascismo, la ribellione e, in questo caso, anche poetiche urbane omaggianti le loro passioni per le Vespe e le Lambrette.
E la ribellione è la vera loro caratteristica, il loro ineccepibile orgoglio di andare contro tutto quello che è compreso e compresso nei dogmi sociali, negli ordini costituiti dell’arroganza del potere e delle angherie dall’alto verso il basso sempre più remissivo e soggiogato; tracce al fulmicotone, pogo liberatorio e stage diving da angeli maledetti, queste le “apparecchiature baldanzose” che la band diffonde tra sangue sociale e fun punk-Oi!, senza nemmeno un minuto di tregua, di calma, dritti nelle sensazioni e nelle euforie di un “Sol dell’Avvenir” sognato da tanti.
Compagni di stile e “compagni” di lotta che li porta ad essere affiancati stilosamente a Derozer, No Relax, 2Minutos ecc., il combo FFD scardina l’ascolto con una sequenza di brani fibrillanti e pieni fino all’inverosimile di linguaggi trascinanti di aggancio se si crede a certi ideali, inni e visioni che non tramontano mai (menomale)  e che riportano il calore del riaprire gli occhi e urlare a tutti quello che non va bene per un cazzo e che è da combattere con tutte le forze possibili. “Noi siamo per l’anarchia”, “We steel fight again”, “We are the soul”, “Saturday night”, due belle registrazioni corali live “Riot squad” e “ Freedom”, una ottima comparsata speed-core “Parma antifascista”, il twist sbicentrato “Lambret twist” ed il boato esaltante di “Grazie a voi” sono i gioielli rossi che vagano, tra gli altri,  in questo “salutare” disco di amore e lotta per la giustizia di tutti, poi è la sua musica epilettica che fa saltare il cuore oltre e ancora più in la delle ipocrisie organizzate.
Avanti o Popolo alla riscossa, è il nervo teso di un disco che brucia di gioia & rivoluzione.

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Starlugs – The Rite And The Technique

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C’è un paese, una città meglio, visto che conta cinquantaquattromila novecento otto abitanti ed è capoluogo di provincia, che ha generato in me contemporanee scariche d’intenso odio e amore, nel corso dell’ormai decrepito 2012. Da abruzzese, che per tutti i dodici mesi ha fatto la spola tra Pescara e l’entroterra (molto “entro”) aquilano, Teramo è stata sofferenza e diletto, tormento e soddisfazione. Ho visto una moltitudine di band emergenti nascere sotto le pendici del Gran Sasso mentre io, a Pescara, continuavo a vagabondare per locali danzanti, metallari e Dj Rock (sì, esistono i Dj rock, che cazzo credete?) cercando un gruppo che non c’è, o forse c’è ma ai pescaresi non gliene frega un cazzo. Tante manifestazioni sonore si sono tenute nel teramano, come le esibizioni live di Calibro 35, Bugo, I Cani, gli Offlaga Disco Pax. Cosi, se da un lato vedere l’esplosione di band come gli String Theory (che ho inserito nella mia top three annuale) stava facendo crescere in me l’amore e l’interesse per un territorio fino a ora quasi sconosciuto, dall’altro, vedere la facilità con la quale la gente del posto riesce a ignorare il dilagante fenomeno (il tutto si può notare con la scarsa partecipazione del pubblico ai diversi eventi programmati nella zona) mi fa una rabbia bastarda.
La mia ultima scoperta si chiama Starslugs. Ho il loro disco autoprodotto tra le mani, The Rite And The Technique e guardandolo mi rendo conto che quest’ammasso circolare di policarbonato non mi regalerà certo le dolci note di un pop cantautorale rassicurante e delizioso. Sotto il nome della band sono scritte in inglese le parole “One Straight Line -Do It Yourself” (una sorta di mini manifesto generazionale di una certa cultura punk underground nata negli anni ottanta e che mirava innanzitutto al rifiuto della major per poi diventare un vero modo di vivere) e più in basso, al centro della copertina, mi sembra di vedere un nero che con un ghigno a metà tra dolore e gioia, è intento a trapanarsi le cervella. Ancora più giù, sotto l’indicazione del nome dell’album, un altro sottotitolo nella lingua della regina d’oltremanica recita “una breve storia d’impressioni rubate da un ambiente ostile”. Diciamo che sembrano esserci tutte le premesse per non sperare di rilassarsi tranquilli durante l’ascolto.
Nella parte di dentro del libretto, a rincarare la dose, troviamo di fianco alla tracklist, l’immagine di un fucile smontato, di quelle che si trovano nei libretti d’istruzione, con tutti i numeri sopra ogni pezzo e in basso, ancora una volta in inglese, l’invito a copiare e diffondere l’opera ma non a rubare le idee contenute all’interno. Finalmente mi sento pronto a schiacciare quel pulsante e trasformare la guerra fredda della mia attesa in una pioggia di bombe soniche.
Intanto che ascolto, vi racconto chi sono gli Starslugs. Nati poco più di cinque anni fa in Abruzzo, sono semplicemente un duo (che si definisce Punk-Noise) composto da Danilo “Felix” Di Feliciantonio e Pierluigi Cacciatore, ai quali si aggiunge un batterista che viene dal passato chiamato drum machine Roland TR707 (il suo nome preciso sarà strettamente legato alla musica, come poi vedremo). Scrivono i pezzi nella lingua di Poe e Bukowski e la cosa è un bene (anche se i puristi, fascisti, nazionalisti magari, non la penseranno cosi) perché è il modo migliore di applicare la voce a questo tipo di suono in frantumi. La voce è come la tecnica e la bravura applicate a un qualsiasi strumento. Un chitarrista nel suonare mette insieme le sue capacità con la chitarra che preferisce per il tipo di suono che emette. Cosi chi canta, mette insieme le sue doti con lo strumento, rappresentato nel qual caso, dalla lingua scelta. Ogni lingua come ogni chitarra può essere più o meno adatta a un certo tipo di musica.

Ho finito di ascoltare il disco e lo riascolto ancora e ancora. Nel brano iniziale “Body Hammer” entra subito in scena la Drum Machine e lo fa in un modo che adoro. Martellate ossessive, ripetitive, lineari, quasi marziali preparano l’ingresso alle chitarre che sferragliano come motoseghe impazzite e alla voce che, per quanto possa essere lontana dal concetto platonico di bello assoluto, è perfetta nel suo trascinarsi contorta nello stile del grande Steve Albini. Ci siamo, ecco svelato il trucco. La presenza non della drum machine ma proprio di quella drum machine era un indizio troppo grande. Sull’opera degli Starslugs si staglia imponente l’ombra dei Big Black, la creatura Noise Rock, Post-Hardcore nata negli anni ottanta proprio dalla mente genialmente contorta di Steve. La sua creatura che più ho amato e apprezzato nel corso della mia vita. Aspettate, però, a giungere a conclusione. Non pensate di essere di fronte a una band di “copioni” che volevano provare a fregare un pubblico magari ignorante in materia. La storia è un’altra.
Il secondo brano “Nuke”, il mio preferito, è uno di quei pezzi che ti mette voglia di ascoltarlo ogni fottuto giorno che avresti voglia di spaccare il culo al mondo; inizia con echi vocali di stile industriale e il solito ritmo tormentato, ma quando entrano in scena le corde, ti rendi conto che questi ragazzi hanno capito come pugnalare le orecchie in modo masochisticamente piacevole. Mentre la voce si limita a urlare lamentosa, chitarra e basso creano melodie strepitose che ti entrano nel cervello come un cancro.
Se “Sad Sundays “ accelera il ritmo mantenendo intatta la natura Post-Hardcore degli Starslugs, con le successive “Sense Of Tragic” e ancor più “Betamax” e “Justice”, un sospetto diventa certezza. Dentro il tormento delle ritmiche di questo The Rite And The Technique c’è un’altra band che probabilmente, rispetto ai Big Black, saremo in meno a conoscere.  Le atmosfere tribali rievocate nel disco sono le stesse già raccontate dai Savage Republic, band Post-Punk californiana contemporanea dei Big Black, autrice di uno dei migliori lavori nel suo genere chiamato Tragic Figures (la formazione è ancora in attività e lo scorso anno ha prodotto Βαρβάκειος). La cosa che fa piacere è che, dopo aver ascoltato il disco e aver notato i chiari riferimenti ad Albini e i più nascosti alla band di Bruce Licher e Jackson Del Rey, sono andato a leggere la biografia della band teramana e questi due nomi sono gli unici inseriti nei loro riferimenti. Ciò significa due cose. Che, innanzitutto, gli Starslugs dimostrano una notevole onestà intellettuale citando in maniera schietta i loro riferimenti (calcolando che probabilmente il grande e ottuso pubblico non li avrebbe neanche riconosciuti, potevano fare i furbi e sottintendere i riferimenti). Infine, che, se volevano rifarsi a due grandi nomi del passato, l’hanno fatto in maniera egregia, riconoscibile. Il loro sound sembra la degna prosecuzione dell’operato dei due grandi gruppi degli anni ottanta e non una loro pessima copia e tutto questo è dovuto non solo alla loro bravura puramente tecnica e compositiva ma anche a tutto il lavoro di ricerca della strumentazione vintage fatta dai due. Il risultato è perfetto.
In “Uranus” sembrano riaffacciarsi (vedi “Nuke”) delle reminiscenze industriali, dark ambient proprie del movimento nato dalla mente di Genesis P-Orridge e i suoi Throbbing Gristle. Circa cinque minuti di note lente e ripetitive, quasi come una messa funebre in una chiesa sconsacrata. Non c’è nessuna parola ad accompagnare la voce. Solo corde acide e stridenti che pesano come il peccato originale nel cuore del nostro spirito.
Una voce meccanicamente in loop apre “Willie”, altro brano in classico stile Big Black che presenta una melodia nascosta tra il rumore, di quelle che non si scordano facilmente, mentre chiude l’album “Mishima”, l’ultima esplosione atomica, l’ultimo tassello della mia guerra fredda interiore, la bomba H che ha distrutto l’umanità nella mia anima.
Gli Starslugs non hanno sono preso Big Black e Savage Republic per rielaborarli e proporli con fredda imitazione. Hanno invece continuato un percorso tribale e rumoristico iniziato con Atomizer e che non poteva evidentemente concludersi nel 1992. Hanno ripreso la strada di un sound cosi semplicemente straordinario da essere fuori dal tempo, da essere talmente immediato e identificabile anche nel suo essere elementare. Sono stati capaci di creare melodie da materia tagliente e sanguinante come il Noise-Rock. È per questo che gli Starslugs mi sono piaciuti cosi tanto pur essendo probabilmente la band meno originale ascoltata negli ultimi dodici mesi. Perché la loro è una sorta di opera di recupero di sonorità che altrimenti sarebbero andate perdute nell’oblio dell’ignoranza.
Gli Starslugs hanno deciso di continuare la strada ideale di chi al mondo ha risposto con un beato vaffanculo.

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Rifugio Zena – È tempo che passa

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Il disco dei Rifugio Zena è rapido e coeso come un caricatore di fucile automatico. I pezzi scorrono rapidi, graffianti, precisi: quasi non mi rendo conto di come finiscono che già sono ricominciati, uno dopo l’altro, in rapida sequenza.

Il punto forte del trio è il groove: batteria piena e diritta, basso pieno, mobile, a tratti funky. Il tappeto sonoro è continuo, sapiente. La chitarra, sopra, ricama elettrica, ritmica, tagliente. Mi fanno pensare alla California, equidistanti tra certi richiami desert e strumentali alla Queens Of The Stone Age (e scena Palm Desert a seguire) e un impatto quasi fisico stile primi Red Hot Chili Peppers – in entrambi i casi con più pulizia, più definizione.

Non che sia un male: i virtuosismi s’incastrano bene, non stonano nel complesso (rischio che si sfiora sempre su musiche di questo tipo, sudate e muscolari). Merito anche della produzione, che è di ottimo livello, pulita, ma che non suona del tutto “finta” (mi ricordano un po’ i Fratelli Calafuria, con meno – decisamente meno – follia).

Anche il capitolo voci si presenta pulito, definito, a tratti anche orecchiabile, ma mantiene un’ambientazione prettamente rock, sia come registro che come approccio alle liriche (semplici, certo, ma che influiscono in misura marginale sul prodotto complessivo, che è fortemente “strumentale”, e si sente nella capacità di non annoiare mai l’ascoltatore nei vari momenti di “vuoto” lirico, ma, al contrario, di tenerlo appeso, trepidante, in attesa di scoprire come andrà a finire questo rocambolesco giro di basso, quell’infernale pattern di batteria).

Si vede che i ragazzi del Rifugio Zena ci sanno fare. Ad un primo ascolto, superficialissimo, mi veniva da paragonarli ai Negramaro (forse perché ho iniziato ad ascoltarli da “Musa”, la balladdel disco), ma è palese una profondità diversa, influenze numerose e distanti tra loro, una capacità di scrittura e esecuzione ammirabile e basata su fondamenta solide ed elaborate (e varie).

L’unico neo, se proprio devo trovarne uno, è la mancanza di “ganci”: non c’è un pezzo in particolare che rimanga nell’orecchio, non c’è l’effetto “tormentone” – vabbè, senza esagerare, nemmeno l’effetto “tormentino”. È un rock “puro”, nel senso che non è da canticchiare, da ripetere sotto la doccia, da fischiettare – e non credo neanche sia poi questo, l’obbiettivo dei tre Rifugio Zena.

Se vi piace il rock suonato bene, energetico, mobile, virtuoso a tratti, non troppo “fighetto”, È tempo che passa è senza dubbio il disco per voi.

 

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The Leeches – Underwater

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I comaschi The Leeches elettrificano una forte reminiscenza punkyes tale da farci volentieri (ri)afferrare dal ricordo degli eighty scapestrati come un morbo dal quale rimanerci sotto era ed è un gioco da ragazzi, una band forte,radici solide e ben piantate nelle astanterie dell’East Side americano, nelle coralità dei Misfits e nella voracità veloce dei Ramones con punte esponenziali di “sangue”  X o The Dickies; “Underwater” è il nuovo lancinante progetto della band, prodotto da Daniel Ray e interamente delegato per un ascolto istantaneo, energetico e senza nessun risparmio di velleità di riempire charts radiofoniche di settore, tanto è la baldanza e il nervo teso che la formazione lombarda innalza nel giro di tredici tracce.

Ed è una offerta sonica di gran rispetto, chitarre e ritmiche ossesse fanno la parte del leone dietro un cantato piacevolmente fuori riga e stonato ad hoc, tracce che si liberano una dietro l’altra dalla frenesia di farsi esportare oltre il mero ascolto d’orecchio per raggiungere l’impennata giusta  tale da farle appendere ad espressione artistica preziosa;  poi la forma sonica è sempre quella della semplicità e dell’approccio diretto, i famosi “tre accordi punk” che dimensionano alla grande comunicabilità, trasgressione e goliardia mentre la misura dello status sonico  – anche se di un panorama saturo – fa ancora breccia tra estimatori e salvezze dall’egocentrismo maniacale del pop dintorno.

Punk’n’roll con la smorfia contagiosa, eroico e anarchico stracolmo di vitalità e urgenza di dire/urlare, un continuo sprigionare energia grezza e vorticismi amplificati che non conoscono cosa vuol dire riprendere fiato anche per un minuto; gli anthems corali “Piranha boys”, “Feelin’ al right tonight”, il pogo invalidante “Vanilla coke”, “Stop the clock”, “Standing on my tomb” e la fantastica volontà di rimanere sempre younghers incalliti, deliquenzialmente punk fino al midollo “Into the storm” e col cuore in subbuglio con la stupenda rilettura di “Me-262” dei Blue Oyster Cult.

Tutto il resto non fa testo, il verbo dei The Leeches parla chiaro e lineare, è solo punk’n’roll ma di quello inox!

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Vetronova – Durante

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Schitarrate violente e voci stonate sono sempre un punto controverso per chi ama la musica: il pubblico si schiera apertamente tra quelli che “ma non sanno manco suonare!” e quelli che “ascoltate senza pregiudizi!”.
I nostri entrano di diritto nella seconda schiera.
Dopo due Ep e tanto lavoro di strada i Vetronova giungono al loro primo full-lenght, Durante, un’esplosiva miscela di ambientazioni post rock, taglienti passaggi noise e ispirazioni cantautorali. Il combo varesino propone un lavoro solido e graffiante con una buona produzione in grado di esaltare l’aspetto energico e viscerale della band: un disco da ascoltare e riascoltare, in cui potersi abbandonare. Durante travolge con il confronto tra opposte tendenze: da una parte acidi riff di chitarra e un cantato che ricorda una declamazione gridata con voce sognante e alienata, dall’altra preziose variazioni ambientali, accordi eterei che risvegliano incredibili paesaggi sonori. Non sono un particolarmente amante delle prime soluzioni, ma con la nuova linfa che acquistano nel confronto con le seconde riescono a convincermi più che in altre situazioni.

Il disco si apre con un’opener degna di questo nome: Vetronova, omonimo primo brano dell’album, è una potente cavalcata di cinque minuti abbondanti. Fraseggi zoppicanti di chitarra vengono raddoppiati da un basso grezzo e potente, il tutto rinvigorito di un drumming semplice ma efficace: qua e là momenti di riflessione e di pacatezza, subito graffiati da qualche sferzata sonora. È un po’ il marchio di fabbrica dei nostri: per tutto il disco, sia nelle strumentali che nelle cantate, ritorneranno in veste diversa soluzioni sperimentate in questa prima traccia. Non voglio certo dire che è un lavoro monotono e ripetitivo: dico solo che i nostri hanno saputo plasmare un loro stile e una loro sonorità, in grado di accompagnarli in ogni canzone.

Seguono tre brani cantati (Coda dell’occhio, Il muro macchiato e Non ancora) dove il tutto è impreziosito la liriche evocative, distanti e alle volte un po’ oscure: leggermente sottotono rispetto all’incipit, ma comunque convincenti.
Altri pezzi degni di nota sono indubbiamente Luce dal Basso, strumentale graffiante e delirante, I Passi del Ragno, con le sue sonorità un po’ fuori dal tempo e Corsa, forse il brano più scontato del disco. Chiude il lavoro Untitled, lunga suite in cui l’anima post rock dei nostri si fa palese più che altrove: ritornano richiami dei Mogwai e dei Mono, il tutto alla luce del trademarck sonoro dei nostri.
Un disco interessante, questo Durante: suonano più riusciti i tre brani strumentali, in cui i Vetronova sembrano trovarsi davvero a proprio agio; quelli cantati sono leggermente da meno: sempre convincenti, ma mancano di quella verve che caratterizza i loro compagni senza liriche. Indubbiamente i nostri passano la prova a pieni voti.

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Gypsy Wagon – Ep

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Ho incontrato questa band di tre giovani fanciulle circa un mese fa in un club di Torino e come sempre mi è capitato di rimanere fortemente influenzato dalla prestazioni live. Il concerto scolpisce dentro il mio cervello un’idea incorruttibile che amplifica fortemente tutto ciò che io possa provare ascoltando un disco dell’artista dopo averlo visto dal vivo. A volte un solo episodio live ha completamente sconvolto la mia visione e il significato della musica. Tu chiamale se vuoi sensazioni.
Il fatto dunque di aver visto le ragazze prima di ascoltare il loro EP ha indubbiamente condizionato la scrittura di questa recensione, anche se la band si è dimostrata a mio avviso “fedele”, riflettendo pregi e difetti del live anche nel disco.

Gypsy Wagon sono un bel power trio, giovanissimo, molto girl power, grintoso, ben assortito e diretto. Sia live che su disco colpiscono per intensità e forza, meno per tecnica, stile e composizione. Il disco è un mix bilanciato di grunge, punk e nu metal: un gelato misto che nonostante gli ingredienti rimane parzialmente insapore.
“Utopia Code” apre le danze con una marcetta metallusa e la graffiante voce di Ginny, la caratteristica più preziosa della band. Martellante, ruvida, potente, l’ugola della ragazza è da proteggere e custodire con molta cura. Per il resto la botta c’è, ci gira intorno buttandoci nel vortice nonostante le imperfezioni tecniche. Da restaurare sicuramente gli incastri ritmici e le strutture dei brani, mentre le chitarre spesso se la cavano mantenendo un profilo tetro in tutti i brani del disco. L’apice dell’oscurità viene raggiunto in “The Switch” che si presenta con un intro da paesaggio raso al suolo e una melodia vicina ai gloriosi anni dei Guano Apes. Anche “Crazy May Ann” inizia determinata ma naufraga in un noioso intermezzo pseudo stoner (troppo lungo!) che sfocia nel ritornello vicino ai Nirvana di “In Bloom”. La barca inizia a non individuare più la rotta e anche in “Superstar” cerca rifugi sicuri che suonano scontati e impersonali.

Un riparo forse non farebbe male alle Gypsy Wagon, un’isoletta tranquilla dove tirare le somme e capire dove poter limare per ottenere risultati migliori. In questi casi va comunque premiato il coraggio di essersi esposte in acque agitate senza grande esperienza alle spalle, portando sulla barca sgangherata il loro piccolo bagaglio di determinazione, compattezza e voglia di mettersi in gioco. Una valigia piena di rumore che mira giusto a far sentire la propria voce, ad alzare una bandiera nera come la pece con qualche sfumatura rosa. Avvertimento che sottolinea come queste tenere fanciulle non hanno bisogno di nessun aiuto per affrontare i mari impetuosi.

 

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Il Giunto di Cardàno – Demo

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Molto spesso è difficile giudicare la primissima demo di un gruppo. Per le esigue canzoni, per la mancanza di informazioni, per la strada non ancora ben definita… ma a quelle persone che si chiedono se sia proprio necessario per un giovane gruppo registrare una demo, beh, io credo di sì. Perché la sicurezza, la bravura e la tranquillità sul palco derivano dall’esperienza e perché no, anche da qualche errore e quindi perché non sfruttare al meglio la facilità della tecnologia odierna? Registrarsi per poi riascoltarsi è un passo fondamentale per l’autocritica. Tutta questa peregrinazione serve per presentare la prima demo (uscita nel 2012) del giovane gruppo pugliese, proveniente da Orsara di Puglia (provincia di Foggia), Il Giunto di Cardàno, formato da Giuseppe Colangelo (chitarra e voce), Andrea La Gatta (chitarra), Mariano Cericola (basso) e  Davide Tappi (batteria), che dopo parecchie esperienze sui palchi pugliesi, ha partecipato a vari concorsi musicali, vincendo il primo premio a “Talent’s hell – Capitanata in Musica”.

Partendo dal nome, il gruppo sembra avere le idee chiare. Infatti il giunto è un organo per trasferire energia cinetica da un motore agli altri elementi e loro vorrebbero trasmettere energie emozionali, attraverso la musica. Anche il genere sembra chiaro. Brit-Rock. E le influenze, che loro stessi citano (Pink Floyd, Jimi Hendrix, Eric Clapton, Oasis, Blur, Kasabian, The Beatles, The Rolling Stones, Litfiba, Marlene Kuntz, Afterhours) si sentono tutte. Infatti come si legge sulla loro pagina Facebook: il genere è rock, con l’intento di fondere sonorità british alla scena musicale italiana, strizzando anche l’occhio all’ indie-rock e alla musica underground indipendente.

Ascoltando il primo brano Senza parole, si percepisce un buon sound, un ottimo impasto tra tutti gli strumenti, una voce intonata, anche se il timbro non è dei più riconoscibili, e un linguaggio semplice e diretto, che ha l’obiettivo di permettere al pubblico di immedesimarsi nelle situazioni e nei contesti raccontati. Contesti odierni, raccontati attraverso le visioni sonore, molto orecchiabili (il che non è sempre un male), di un giovane gruppo foggiano. Troppe cose è il secondo brano, che come il primo si apre con un intro strumentale di qualche secondo per definire l’atmosfera decisamente rock, assieme al cantato molto british, in alcuni punti un po’ basso rispetto all’accompagnamento, che appare tutto uguale (assieme al testo), se non fosse per l’assolo di chitarra che questa monotonia un po’ la spezza. Tutto questo si potrebbe dire del terzo brano Non c’è dolore, che non si distingue per il testo particolarmente profondo e per le parole che spesso non vengono ben scandite, il che è un peccato, perché il canto è quasi la cosa più importante, quell’elemento che la gente percepisce per primo e imprime nella mente, quindi perché non sfruttarlo al massimo, e magari non aggiungere al brano più di un bel assolo di qualsivoglia strumento, fatto bene e un po’ più veloce, dato che la parte strumentale è il punto di maggior forza? C’è chi lo apprezzerebbe in ogni caso e dimenticherebbe tutto il resto. L’intimo e i pensieri più profondi del Giunto, si ascoltano nell’ultimo brano Mai. Abbastanza orecchiabile, simile a tutti gli altri, stessa struttura, quasi stessa intonazione della voce, ritmo sostenuto, sempre sostanzialmente rock.

Ma gli elementi buoni del Giunto di Cardàno rimangono molti: buon sound, ottimo colore e buona tecnica rock. Timbro vocale e testi che non fanno impazzire, ma che comunque hanno una buona base e che sicuramente se curati nel tempo daranno i propri frutti. Quindi il consiglio è quello di non bruciare le tappe, di pensare a qualche ballata, di diversificare l’andamento dei pezzi, di ragionare bene sulla struttura del disco (e non canzone per canzone) e di trovare prima il “voi” e il vostro significato per poi portarlo sui palchi con maggior forza e consapevolezza.

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Thee Mutandas – Son Of A Bitch

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Secco, diretto, volumi decisi ed un crescendo d’intensità destabilizzante. Sono le prime cose che ti assalgono del disco “Son Of A Bitch” dei ferraresi Thee Mutandas, duo composto da James Johnson e John Jameson, un eruttato scardinato ed elettricissimo punk’n’roll che ha proprietà di farti schizzare da qualsiasi posto sei per farti ingaggiare una lotta spasmodica con la frenesia occulta di un pogo – anche da solo – esaltante; tutto è ritmo ossessivo, tutto è terremotante come in una reincarnazione maledetta di Darby Crash dei Germs, fuzz sconvolti, ritmi drogati e speed, un cantato stonatissimo ma di gran spolvero distruttivo, anthems solidi e voglia azzeccatissima di fare un casino inimmaginabile fintanto non li si fanno passare attraverso i coni stereo per lo sfogo di prassi.

Tredici tracce che si tuffano a corpo morto nei 77’s dei più laidi e street, sentori audaci e fieri che – miscelati ad un leggero puntinaggio demenziale – avvolgono come una presa oppiata l’ascolto e abbondanti fondamentalismi di settore; i due fanno finta di essere genuini, tantomeno estremi, loro passano avanti, sarcastici, bulli e indemoniatamente sensazionalistici, vomitano senza abbellimenti tutto quello che “il settore ispirante” ha insegnato e continua a cogliere/raccogliere/diffondere a mò di spore indistruttibili e vizi immortali. L’alchimia del duo è tutta qui, dentro una baraonda sonora che fonda su questi ingredienti altisonanti quanto esistenziali il suo urlo primitivo, la sua percussione rock che con poche cose da tanto, qualitativamente tanto.

Chitarra/voce e batteria/voce fanno grancassa assoluta per una mezz’oretta di caos, un ruvido sgranchire animo e corpo che alimenta vecchie atmosfere e una sensazione malata ed ebbra di urgenza punk, una frequenza elettrificata che tramortisce; e non bisogna aspettare nulla per esserne coinvolti e penetrati totalmente, occorre prendere al volo lo screamo di “Asganaway”, il bailamme ottimamente sconclusionato “I’m not stupid”, “Burning my head”, la cassa quadrata che batte in “I don’t like you” o il surfy ubriaco che soffia dentro “My girlfriend”e “Everybody dances with his granny” e per un po’ stacchi dalla quotidianità silenziosa.

I Thee Mutandas  sono un bel cupo motore sonico, di sangue basale sludge si divertono a sovvertire quella che comunemente si chiama formula canzone, la loro è un’energia amabilmente depravata e fuori regola che si può anche permettere una ballatona storta e alcolizzata fino ai denti come “I die today” che piace da morire, che non sta dritta nemmeno per un secondo ma che da sola illumina tutto il registrato fintanto che la Tarantiniana carica amplificata di “Tokyo fuck you” arriva e manda a fare in culo tutto e tutti.

Arrivano per “infangare diabolicamente” l’underground, era ora che qualcuno lo facesse!

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