Recensioni

Johnny Freak | Tra Il Silenzio e il Sole

Written by Recensioni

Quando l’ ispirazione è grande difficilmente il prodotto è deludente e i Johnny Freak l’ hanno dimostrato. Per chi non li conoscesse la band si è formata nel 2005 a Frosinone, alle spalle ha già un disco d’ esordio intitolato “Sognigrafie” e dopo cinque anni tornano con questo nuovo “Tra il Silenzio e il Sole”. Parlavamo d’ influenza, per questo mi viene da chiedervi, chi è Johnny Freak, questo tanto rinomato personaggio di cui la band si è inspirata? Johnny Freak è il protagonista di un albo di Dylan Dog, un povero ragazzo con una vita molto sfortunata: sordomuto dalla nascita, incompreso e trattato male dai genitori, a tal punto che sono stesso loro ad amputargli gli arti ed altre parti del corpo per donarle a Douglas, il figlio minore e favorito. Insomma quella del sensibile e talentuoso Johnny, perché lui è anche un artista, è una storia triste e toccante, strappalacrime in tutto e per tutto e l’ appellativo “Freak” gli fu dato nella storia dai giornalisti per la sua diversità. Adesso vi chiederete perché questa sorta d’ introduzione per un gruppo Rock? Perché come dicevo l’ ispirazione di un gruppo è il primo biglietto da visita ed una come questa fa capire tante cose.

I Johnny Freak come il noto personaggio suscitano nella loro musica emozioni strabilianti e in più, hanno testi riflessivi, alcuni delle vere poesie. “Tra il Silenzio e il Sole”, questo il titolo del loro secondo disco, un lavoro maturo e che si fa ascoltare in ogni momento. La prima traccia, “Ho Visto”, vi farà un quadro chiaro della genialità della band: <Ho visto solo un uomo piangeva dal dolore per essere il migliore e non avere angeli perversi che sparano nel cielo convinti che la pioggia portasse via il dolore>, questa è una frase della canzone che al sottoscritto ha fatto riflettere e fare tante pippe mentali. La successiva, “Bugia”, è un altro pezzo da novanta che ha i suoi perché, una traccia a tratti calma e in altri più aggressivi. Passiamo direttamente a “Regina” che è anche il loro singolo, una canzone  sgargiante, aggressiva e si sente di più rispetto a tutte le altre lo stampo Rock dei Johnny Freak, con questa non potevano presentarsi meglio. Altra canzone da ascoltare è “Streghe”, anche questa di alto calibro e zeppa di riflessioni. L’ ultima traccia da  presentare è “Ad Annientarsi di Lei”, canzone di chiusura che mette fine a questo stupendo viaggio mentale accompagnato da un Rock di grande fascino e carisma. Come potrete notare, la scena italiana offre grandi band, i Johnny Freak potrebbero concorrere con il Teatro degli Orrori come una delle migliori  band del nostro stivale. Personalmente, non appena ascoltai “Tra il Silenzio e il Sole”, subito fui rapito dalla musica della band e dai loro testi. Ascoltarli e d’  obbligo.

 

Read More

Deathwood – Deathwood Ep

Written by Recensioni

Il punk rock è una ragione di vita alla quale ogni singolo individuo può appartenere oppure no, devi averlo dentro senza nessun preciso motivo. Una rivoluzione viscerale che investe l’intestino vomitando sopra tutto quello schifo imbarazzante che cerca di mettere ordine nelle nostre vite. I Deathwood dal centro Abruzzo e precisamente da Raiano AQ dimostrano di essere vivi nonostante la situazione socio/culturale praticamente azzerata della zona di provenienza (che conosco benissimo), praticamente una lotta continua contro il pregiudizio, soltanto la determinazione porterà ad una piccola vittoria (quasi sempre personale). Il punk rock da coraggio. Ecco che i Deathwood registrano il loro omonimo ep d’esordio mettendo subito in prima linea le loro intenzioni horrorifiche di seguaci indiscriminati di quei punkettoni americani dei Misfits, molto elastici nell’esecuzione e dottrinalmente capaci di farsi ascoltare per quello che realmente sono. Un mix ben equilibrato di (hard)rock e metal primordiale in chiave punk. Penserete, che cazzo sarebbe ciò? Avete perfettamente ragione ma la prima impressione è stata realmente quella, di un Bruce Dickinson posseduto da uno dei Ramones, roba da fattoni senza speranza, roba bella da ascoltare. Roba che trivella il pavimento ma parliamo pur sempre di un ep d’esordio e quindi sempre meglio prendere il tutto con le pinze per non rischiare delusioni future, ne abbiamo viste veramente tante in questi anni.

Il sound dei Deathwood non cerca mai di apparire corposo e carico di innovazioni ostentate, il concetto è quello di sentirsi leggeri e incondizionatamente padroni dei propri risultati, apprezzati o meno che siano. Il ritorno a quelle sonorità anni 80 (fine 70) che tanto hanno caratterizzato la scena horror punk soprattutto in America restando vicini al rockabilly più classico.
Bene, let’s go. Cinque pezzi molto tirati ma dai quali spicca notevolmente l’impatto sonoro di The Victim, pezzo simbolo dell’ep del quale (qui sotto) potete vedere anche il video, godetelo interamente nella propria semplicità e non aspettatevi fronzoli intellettuali, stiamo parlando di punk rock. Aspetta, più precisamente di Horror punk. E questa categorizzazione musicale penso non faccia una piega, i Deathwood hanno la capacità di mescolare situazioni al limite del gotico e farle esplodere in puro punk rock, un perfetto mescolare di generi che dimostrano saper fare almeno restando ai cinque pezzi presenti nel ep giunto sotto la nostra attenzione. Una concreta realtà della scena punk italiana, ancora molto piccola ma ben confezionata e dalle grandi possibilità. Bisogna lavorare e coltivare questa passione soprattutto in una terra dove di motivi per andare avanti ce ne sono ben pochi, i Deathwood sono i piccoli porta bandiera di una rivoluzione ancora da scrivere, vivere, combattere. I Deathwood portano dentro la voglia sincera di essere piccoli artisti rivoluzionari in cerca di grandi soddisfazioni.

Read More

Twiggy è Morta! – Credo Mi Citeranno Per Danni

Written by Recensioni

Prima di buttare totalmente testa e orecchie nelle nuove produzioni del nuovissimo anno duemilatredici, ho deciso di mettermi ancora a spulciare tra quanto è rimasto dell’anno vecchio, sperando di trovare qualche cosa che si faccia maledire per non essere spuntato fuori prima, fosse anche per colpa mia. Fidatevi, non è tempo perso. Solo ieri mi sono deciso, ad esempio, ad ascoltare seriamente l’omonimo esordio dei King Tears Bat Trip, band Avantgarde e Free Jazz di Seattle e cavolo, se l’avessi fatto prima… In realtà non sarebbe cambiato un cazzo. Forse avrei ascoltato solo un paio di dischi di merda in meno ma non è neanche detto e forse avrei inserito quell’album nella mia classifica di fine anno, cambiando radicalmente la vita di ogni essere umano. Avrete capito che, in realtà, l’unico motivo per cui si va alla ricerca di qualcosa di bello è semplicemente per udire qualcosa di bello (wow, che scoperta rivoluzionaria) e allora, come già detto, eccomi a rovistare tra le vecchie uscite sperando di essere colpito dal disco giusto.

Twiggy è Morta! Oddio chi era Twiggy? Quella modella inglese supermagra di qualche decennio fa, se non ricordo male. Deve essere proprio il suo, sulla copertina di Credo Mi Citeranno Per Danni, quel volto, tutto scarabocchiato, come vi capita di fare con la foto di Michele Cucuzza in prima pagina alla Settimana Enigmistica, quando seduti sul cesso, noia e stitichezza, avanzano tra le vostra budella.
Molto accattivante la cover. Ho scelto cosa ascoltare.
Sembrano fare le cose in grande questi romani, almeno all’apparenza. Hanno anche un manifesto:
“L’arte è citazione. L’artista copia, il genio ruba. Ridiamo l’arte agli artisti! Twiggy è Morta! Significa che l’arte è morta. La musica è morta, verso un decadimento apparentemente irreversibile. Twiggy è il simbolo, la musa, il feticcio utilizzato. Se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni, ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan in un periodo in cui nessuno ha più niente da comunicare. È tempo di ridare all’arte la sua collocazione.”
Direi che chiamarlo “manifesto” è un po’ eccessivo, però spiega bene il senso di quello che vogliono o forse vorrebbero fare. E poi, cazzo, hanno le palle di dire quello che sembra impossibile da far dire a qualunque artista, soprattutto emergente, del mondo Indie italiano. Lasciando stare il mio giudizio, hanno il coraggio di proferire parole come… ora è il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente: musica da quattro soldi fatta di slogan… Parole che mai, nel corso di un’intervista anche con veterani della scena, sono riuscito a cavare dai loro (dei musicisti) denti. Già solo per questo, Twiggy è Morta! mi fa simpatia. Mentre scorre il loro Ep, cerco di capire chi sia questa band. Come detto, si tratta di quattro ragazzi laziali, Paolo Amnesi (voce e chitarra), Andrea La Scala (chitarra), Valerio Cascone (basso) e Simone Macram (batteria) con già all’attivo un Ep autoprodotto e più di cinquanta esibizioni live e un bootleg, L’arte Marziale (lo trovate in download gratuito o anche su You Tube), tratto un loro live alla Festa De L’Unità. Come avrete capito, i Twiggies (pare che cosi si facciano chiamare) si sono dati un ruolo da supereroi nel mondo Indie, salvatori della musica contro il male rappresentato dalle canzonette nostrane. Assolutamente niente da dire. Anzi, magari ci fosse qualcuno a ridare linfa artistica alla nostra musica. L’unica cosa che mi viene da sostenere è: “Non è che state esagerando?”. Magari converrebbe prima scrivere, suonare, farsi sentire, costruire arte che non lo sia solo per chi la fa, ma anche per chi ascolta e poi, aspettare che qualcuno si renda conto, magari con qualche aiuto, che questa è Musica e non Lo Stato Sociale o I Cani. Non lo dico perché l’arroganza può essere antipatica ai più ma soprattutto perché si rischia di fare la figura dei coglioni.
Intanto che il primo album Le Parole Sono Un Muscolo Involontario, sempre per l’HitBit Records, sarà pronto, io continuo ad ascoltare questo Ep. Sentiamo che succede.
Succede che si parte con il Rock molto classico de “Il Parossismo Del Cuore”, brano che nella sua semplicità melodica e nelle sue esternazioni derivative è abbastanza apprezzabile anche se non proprio originale. Ma questa cosa dell’originalità, come avrete capito, non riguarda necessariamente l’arte o il genio, almeno a detta di tanti, tra cui i nostri Twiggies (vedi il manifesto). Se da un punto di vista musicale i possibili riferimenti sono tantissimi, sia italiani sia stranieri, in ambito vocale, si sfiora in maniera preoccupante non tanto la copia o il furto, ma la parodia involontaria di Giovanni Gulino (Marta Sui Tubi) e Pierpaolo Capovilla (Il Teatro Degli Orrori). Più distesa l’atmosfera di “Crepapelle”, che insegue, a differenza del brano precedente, linee soprattutto vocali più Pop, anche grazie ad armonie sonore languide e struggenti e un cantato a volte quasi solo sussurrato. Con “Legno”, la musica di Twiggy è Morta! sembra fare per un attimo un passo indietro, verso le sonorità del Rock alternativo anni ’90 stile Diaframma, fatto di riff puntuali e mai ridondanti. Il testo non si occupa più dell’amore ma guarda prima all’esterno, attraverso un pessimismo letterario che vi sfido a riconoscere e poi si fionda alla ricerca del genio presente dentro l’animo di ognuno di noi. L’ultimo brano, “A Bocca Aperta” è quello che più di tutti, specie nella sezione ritmica, richiama il sound delle nuove leve della No Wave, come Editors, Interpol, The National, ma anche dei Piano Magic ultimo periodo. Il testo invece sembra essere una specie di manifesto (anch’esso) di quello che significa Twiggy è Morta!, affrontando il tema della bulimia culturale e sociale in un metaforico parallelo con l’anoressia di una modella come Twiggy, appunto.

Nel complesso, quello che ho tra le orecchie è un buon Ep per una band in cerca del suo spazio che mostra ottime capacità esecutive ed anche una certa discreta voglia di essere diversi dalla massa, attraverso la riscoperta di una qualche forma di classicità Rock e soprattutto una scrittura lirica fortemente “arrogante” e concettualmente aggressiva. In realtà, preso come punto di riferimento quello che dovrebbe essere l’obiettivo della band palesato nel proprio manifesto, ci sono alcune cose che non vanno. Innanzitutto, in molti passaggi, non è chiaro quale sia il ruolo dell’ironia nelle loro esternazioni.  Inoltre, fermo restando e preso per buono il concetto che anche l’artista o il genio possono copiare o rubare, è anche vero che artista e genio, quando imitano, migliorano. Nel nostro caso, preso come punto di riferimento il Blues e il Rock Alternativo, la musica dei Twiggies, vi ruota attorno, schiantandosi di volta in volta contro Marlene Kuntz, Placebo, Afterhours, oltre ai già citati, senza mai riuscire, partendo dalla propria orbita, a seguire una strada diversa e comunque più efficace. In merito ai testi, certamente non possiamo negarne l’originalità e sicuramente, sotto questo punto di vista, la loro voglia di distinguersi dal gregge è ben rappresentata ma è anche vero che non ci sono molti spunti davvero poetici o affascinanti.
Credo Mi Citeranno Per Danni è quindi un Ep pieno di buona musica, stracolmo di buoni propositi ma anche una piccola delusione, visto l’obiettivo posto dai quattro laziali.
La speranza è che, con l’uscita del prossimo disco, alcuni limiti possano essere superati. Non vorrei minimamente che ridimensionassero la loro filosofia, anzi. Voglio solo che ce la mettano tutta per dimostrarci che la loro musica non è intrattenimento ma arte, voglio che ci facciano vedere che “se prima nascevano i Modena City Ramblers, i Diaframma, i Verdena, gli Afterhours, Paolo Benvegnù o Moltheni” ora non è solo il tempo de Lo Stato Sociale, I Cani, Dente ma anche di band ancora capaci di creare opere d’arte. Magari band dal nome Twiggy è Morta!.
Una cosa importante che dovrebbero comprendere i Twiggies è che la musica ha la forza di essere arte, a volte intrattenimento o anche tutte e due le cose. L’errore è di chi scambia l’una per l’altro più che di chi fa l’una o l’altro, sempre che non spacci i suoi cazzeggi per opere di valore assoluto. Non è colpa de Lo Stato Sociale, se il loro fare canzoni per divertire e divertirsi è stato scambiato da qualche idiota per il futuro della musica italiana. Prendersela con loro sarebbe come prendersela con chi fa i meme, incolpandoli di distruggere il valore artistico del fumetto. Se cercate dei nemici, cercateli tra chi si annoia a vedere Lars Von Trier e si fionda al cinema per Boldi a Natale, tra chi legge Fabio Vola e ne decanta le capacità filosofiche al bar, tra chi ascolta I Cani convinto della loro genialità e sparla del ritorno di “quel vecchiaccio” di David Bowie. Loro sono il Male. La gente è il Male. L’ignoranza è il Male.

http://www.youtube.com/watch?v=9qUIOo02COw

Read More

Operation Light/Universe – Operation Light/Universe

Written by Recensioni

Quando: un qualsiasi giorno invernale lavorativo (nota: fuori fa un freddo cane).
Dove: il bagno di casa mia, con la vasca piena.
Perché: è la fine di una giornata stressante (nota: di quelle che ti fanno incazzare).
La pratica del bagno serve a distendere i nervi e lavar via dal proprio corpo impurità e tossine varie e la eseguo con estrema dovizia, con acqua calda ma non bollente e con fare lento, ma non da bradipo. Mi immergo quindi con misurata soddisfazione, conscio che questa sarà la parte migliore della mia giornata.
Per completare il quadro serve solo un’adeguata colonna sonora, così metto su Operation Light/Universe dell’omonimo duo livornese, e subito penso che mai scelta fu più azzeccata. Quando partono le note di Signal sento i muscoli distendersi nell’acqua piena di bagnoschiuma, mentre assieme ai fumi del vapore l’arpeggio iniziale mi rapisce e mi solleva. Chiudendo gli occhi ho una sensazione di benessere che mi trasporta altrove, in alto, oltre la stratosfera, sono nell’Universe…
Ma dopo un po’ riapro gli occhi. La dose di benessere che mi faceva trasmigrare si è stemperata fino a sparire. Altrove ma a poca distanza le casse del mio stereo continuano a suonare la stessa melodia da parecchio. Ma è proprio la stessa? Esco dalla vasca. Sgocciolo. Fuori un freddo boia mi fa ritrarre tutto il retrattile, ma me ne frego. Voglio soltanto scoprire se ho mandato il disco in loop. Invece no. Il disco va come dovrebbe. Torno allora dubbioso in bagno e mi ripropongo di ascoltarlo accuratamente. L’acqua però ora è tiepida, i muscoli di nuovo in tensione: così mi asciugo rimirando la pozza  che ho creato uscendo, e sono conscio che dovrò asciugarla prima di scivolarci sù e spaccarmi qualcosa (nota: effettivamente ho rischiato di farlo, solo grazie ad un colpo di reni straordinario ed alla posizione felice del portasciugamani sono ancora qui fra voi). Ora non mi resta che ascoltare di nuovo.
Operation Light/Universe è un lavoro a quattro mani di Alessio Carli (guitar, bass, keyboards, programming, synth) e Alessandro Sebastian Morandi (guitar, soundscape, textures, loops) che esce per Inconsapevole Records, interessante etichetta livornese (anch’essa) di Ian MacKayeiana ispirazione. Il disco contiene otto brani strumentali dalle atmosfere rarefatte, dove la chitarra la fa da padrona e basi e tastiere seguono dimesse ma con stile. Il duo toscano si rifà esplicitamente a gruppi come Boards of Canada e Mogwai, reinterpretandone le direttive con sufficienti  gusto e personalità, attraverso una discreta scelta dei suoni e delle architetture, pronti talvolta anche a sorprendere con delle brusche ed inattese sterzate. Purtroppo gli Operation Light/Universe cadono nella per me troppo pretenziosa idea di trasmettere un’unica “immagine” attraverso il filo conduttore di una melodia che assomiglia troppo a se stessa in ogni brano. L’opera nella sua completezza ne risente al primo ascolto così come nei successivi, seppur l’impressione di ripetitività va progressivamente attenuandosi. Succede così che anche brani ben studiati, come il singolo Iridium Flare o la buona 88 Constellations, funzionano da soli ma non se accorpati nell’insieme dell’album che non trova la varietà in un’esposizione episodica, ma mostra per lo più la continua reinterpretazione dello stesso tema dalla prima all’ultima nota. Un peccato considerando che gli Operation Light/Universe avrebbero potuto dare ulteriore prova delle loro indiscutibili doti architettonico-sonore, ma siamo solo agli inizi (la band si è formata nel 2011) e, come si suol dire, le basi ci sono. Attendiamo speranzosi.
Ora mi tocca davvero asciugare quella pozza…

Read More

Hot Fetish Divas – Songs For A Trip EP

Written by Recensioni

Quello che mi ha incuriosito subito di questa band è il nome Hot Fetish Divas. Un richiamo forse all’ostentazione dei nostri tempi. O una presa per il culo a chi se la sente ”calla” come si dice a Roma. Fatto sta che il nome della band unita alla splendida copertina dell’EP Song For A Trip, realizzata da Antonio Boffa illustratore di libri da bambino, mi hanno subito catapultato su bandcamp per ascoltarli. Chi meglio di un illustratore di libri da bambino poteva fare da copertina a quest’album che dal nome ci porta da se all’innocenza di sognare e poterlo fare come via d’uscita a ciò che opprime la nostra esistenza. Ma non c’è nulla di triste in questo album, solo carica e sfrontatezza tipica delle band Punk. Sarà che a me il genere piace ma non trovo altri termini per definirli ai primi ascolti: Forza, Sfrontatezza, Ritmo Serrato e Spensieratezza. Tutti gli ingredienti necessari ad una band punkrock.

Quest’album è stato registrato in poco tempo ed fa da apri pista al full-lenght album “Natural Inclination For Pussy” la cui uscita è prevista per questo mese.A mio avviso hanno tutte le carte in regola. Ascoltandoli mi sembra tutto mixato al punto giusto. Voce adatta al genere, chitarra superdistorta e batteria che picchia duro.C’è poco altro da dire su questa promettente band: semplicemente fantastici a mio avviso. Non posso far altro che aspettare il nuovo album e aspettare che passino a Roma per un live. Bravi ragazzi continuate così e i risultati non si faranno attendere.

Read More

RoSyByNdY – Kapytalysty vyrtualy

Written by Recensioni

RoSyByNdY è l’alias dietro cui si cela la figura del noto produttore Luigi Piergiovanni, molto attivo nella scena indipendente laziale che ha alle spalle già diversi lavori.
Questo “Kapytalysty vyrtualy” spiazza l’ascoltatore sin dalla iniziale “Chiudete bene la porta” (un incrocio fra i Prodigy di Fat of the land e i nostrani Bluvertigo), ma soprattutto nella successiva “Due sentieri” che già dal titolo fa capire che il disco sta prendendo un’altra strada e che vede la presenza di una grande star della canzone italiana, Tiziana Rivale, che nel 1983 vinse il Festival di Sanremo con “Sarà quel che sarà”.
Dogma” si scaglia infatti contro preti pedofili ma non risparmia neanche veline, impiegati cocainomani e tifosi esauriti ed il suo testo è talmente profondo e significativo che forse la musica passa persino in secondo piano nonostante la presenza degli special guests Fausto Rossi e Flavio Giurato.
Io sono la vittima” abbassa leggermente i bpm rispetto alle note iniziali ma lo stile rimane inconfondibile nonostante una voce un po’ più effettata.
Chinacrack” (sì, scritto tutto attaccato) vede anche Roxy N alla voce a dare un tono di sensualità alla canzone (assomigliando a tratti alla grande Loredana Bertè).
Parole che sfuggono alla voce” sicuramente trae ispirazione ai C.S.I. di “Tabula rasa elettrificata” e forse con una controvoce femminile avrebbe avuto quel tocco in più che non avrebbe guastato.
In “Non votare per me”  le similitudini con Morgan appaiono molto più evidenti, mentre nella successiva “Giù dal cielo” si rifà viva Rosy N– che si sovrappone alle basi musicali.

Mai titolo fu più indovinato di “Il ventre dell’anima” poiché proprio qui forse si evince tutto il cuore e lo spirito di questo progetto.
Nabouf” scandisce invece il beat sin dalle prime note incantando con il suo riff di basso e con la voce di Jing Ru.
Non mi svegliate più” è quello che mi verrebbe da dire mentre l’ascolto perché l’atmosfera si fa talmente onirica da sembrare di essere davvero in un sogno bellissimo come se nel lettore cd ci fossero gli Enigma di Michael Cretu.
Mengele’s nightmare” ricorda vagamente i Technotronic di “Pump up the jam” e lo si potrebbe considerare quasi uno strumentale pieno di campionamenti in cui Luigi Piergiovanni si dimostra il vero guru dell’elettronica italiana.
Vorrei parlarti di me” presagisce la fine di questo piccolo capolavoro che viene chiuso con il pezzo sicuramente più riuscito e più sperimentale ed azzardato di tutti, “Waiting Cleopatra”.

 

Read More

Mud Stained Boots – Ep

Written by Recensioni

Quattro pezzi sparati a mille. Tre freaks assetati di jam. Due riff di chitarra in croce. Una sola strada per fare rock’n’roll. Ma è proprio così? Davvero oggi basta registrare un disco poco ragionato in presa diretta e con microfoni messi a caso per sperare di far tornare di moda le diaboliche danze tanto in voga a fine anni ’60?
Mud Stained Boots è un progetto che parte da tre ragazzi di Arezzo la cui principale caratteristica pare essere la foga di far sentire le allegre strimpellate partorite in sala prove. Niente di male per carità, finché ci si ferma al garage o ai club bagnati di umidità e di sudore. I ragazzi la materia la conoscono molto bene a tal punto da poter essere comodamente definiti un gran bel “power trio”. Ma forse ad oggi da un EP rock’n’roll ci si aspetta qualcosa in più. A parte la “qualità audio” che pare essere vicina al “low-fi” più per necessità e noncuranza che per scelta, la sostanza delle canzoni pare disperdersi in schitarrate stoner molto virili e ritmiche storte e insistite.

Quattro pezzi in questo EP dall’artwork pieno di stereotipi ma che nonostante ciò conserva il suo porco perché. “Knife in the eye” vuole essere l’inizio killer con riff deciso in ottave e ritornello che scimmiotta i Queens Of The Stone Age. La voce di Matteo Campriani vacilla troppo ed è spesso sottile, oscurata dalla sua stessa arrogantissima chitarra, croce e delizia di questa band.
Se lo spirito dei Black Sabbath aveva solo aleggiato attorno alla opener dell’EP, in “Better Man” l’ombra scurissima di blues si impadronisce del trio ed elabora il miglior brano del disco, un po’ imperfetto e sempliciotto ma onesto e diretto. I ragazzi dimostrano di avere i numeri per far danzare il diavolo, ma forse per troppa fretta o mancanza di risorse si presentano davanti a lui incompleti e riescono solo a strappargli un sorriso divertito, soffocato tra i suoi denti luridi.
“Low Heavy Sky” cerca di colpirci per dinamica ma cade in stupide trappole di banalità, servendo un comodo ritornello piatto e noioso. Un tappeto garage copre una canzone che pareva esprimere nelle prime note la personalità che stavamo cercando. Di nuovo belle idee di chitarra che restano fini a loro stesse, molto apprezzate ma poco versatili e utili all’economia del gruppo. Mancano il piglio pop, le melodie e i ritmi di chi sa convogliare la potenza del rock’n’roll in fenomeno di massa o di chi almeno faccia battere il piede al motociclista ubriacone.
La situazione non riesce a sollevarsi neanche con la finale “Superior Being” che chiude un cerchio scontato, privo di curve irregolari o di linee rette. Un cerchio troppo comodo, che speriamo si apra presto per far entrare dentro di se tutte le influenze possibili dal mondo che lo circonda. Intanto il diavolo aspetta sornione il momento buono per farsi una bella danzata.

 

Read More

Sula Ventrebianco – Via la faccia

Written by Recensioni

Ufficializzano la loro forma sonora nel nuovo disco “Via la faccia” i napoletani Sula Ventrebianco ed è subito da dire che il disco necessita di diversi ascolti prima di mostrarsi nella sua intera bellezza forsennata, quando quel vortice di corrente elettrica e parole deborda in tutta l’urgenza che abbisogna. La band dimensiona una sensibilità digrignante e complessamente dolceamara, una estasiante forma epilettica di suoni e riff che tra fremiti, spigoli e istinti tira fuori il meglio di sé, spurga il necessario equilibrio per stare alla larga dalle radicali omologazioni e per entrare nell’immaginario collettivo, e quello che poi rimane di questa magia distorta  è interamente in balia di una discontinua tensione viscerale che abbellisce lo spirito.

Impostato per sempre in presa diretta, il disco mette tanta sensualità di maturazione all’aria, tracce capace di trascinare gli ascolti in un limbo inafferrabile, un fumoso ed elettrico istinto Brechtiano che sguazza lungo la dorsale della tracklist, un senso morfologico di atmosfere e sperimentazioni perfette per staccare con le dinamiche sterili di certo rock stagionato e finalmente abbracciare le digressioni dell’arte amplificata; undici proiettili che non smorzano un secondo la loro potenza indirizzata, tastiere, archi e sintethismi programmati fanno da contro altare a istintività hard rock, ma sussistono anche “terre franche” di melodia che nella ZampaglionescaRun up” o nelle ondulazioni mediterranee di “Erosa” e “Via la faccia” (quest’ultima con un sussulto corale di violini fantastico) trovano esistenzialità da riguardare, ma sono, appunto, sporadiche terre franche in cui il moto elettrico dei Sula riprende fiato e cuore, poi la tensione riprende vita.

La cupezza di base – mutuata dalle drammaturgie rock d’appannaggio  Capovilla e Soci (Il Teatro degli Orrori), regge la struttura portante del registrato, intensa nelle fantasticazioni emaciate “Scheletro”, sbavante lungo la Seattle rovente “La peste”, nell’hard-rock “Oca mia” o scorrazzante negli anni Settanta italici dell’istinto aleatorio “Largo al re”, “Ragazza muta”, ed è una struttura sonica fisicamente provata,  che fa di questo disco un’espressione peculiare della ricerca e degli ingranaggi del suonare “a sangue caldo”, senza intercessioni o scorciatoie verso la monotonia imperante.

Da respirare avidamente in ogni sua nota, il disco dei Sula Ventrebianco è senza compromessi, splendidamente essenziale e carico nel contempo al pari di una diavoleria da inchino “Denti”. Immaginifico.

Read More

Capputtini ‘I Lignu / Wildmen – Drunkula Split EP

Written by Recensioni

Assai curioso questo 7” split edito da Shit Music For Shit People che vede Capputtini ‘I Lignu e Wildmen cimentarsi in un brano a otto mani (la title track) a nome Wild Lignu, oltre che a presentarsi attraverso brani propri (rispettivamente, He never tells e Born after midnight).
Il primo brano, He never tells dei Capputtini ‘I Lignu,  è uno sporco blues dalle sonorità lo-fi tendenti al noise. Il duo, formato da Cheb Samir e Kristina (francese lui, siciliana lei) ci porta in un mondo rumoroso, intenso e scuro, in cui la strofa potrebbe fare tranquillamente da sfondo ad un film di Tarantino, mentre il ritornello, armonicamente più aperto, perde un po’ di grinta e si smarrisce in un effetto canzonetta poco ispirato. Un pezzo che suona rauco, sanguinolento e caotico (volutamente, immagino), ma che, alla fine, non mi lascia granché.
Stesso discorso per Born after midnight dei Wildmen (altro duo, stavolta romano, nato, secondo biografia a me pervenuta, dopo una rissa in un bar): ritmica trascinante, voci intense e graffianti, di un rock’n’roll veloce e immediato (un minuto e quarantanove di durata totale). Un pezzo che dal vivo dev’essere molto caldo, ma che su disco lascia un po’ il tempo che trova.
Ciò che rende interessante tutta l’operazione è Drunkula, il brano inciso e scritto da una combo di cui fanno parte tutti e quattro i musicisti delle due band e battezzata per l’occasione Wild Lignu. Un brano leggero, semplice, e che porta con sé la sporcizia e la follia che abbiamo imparato a conoscere durante il brevissimo viaggio negli altri due pezzi dell’ep. Questo, però, si lascia dietro una traccia, come un graffio – sarà il giro di basso, saranno le linee vocali, saranno quelle chitarre sghembe, ma arrivato alla fine me la riascolto più che volentieri.
Per concludere: se vi piace la musica caotica, a tratti sconclusionata, ma piena d’energia e fatta col cuore e i calli sulle mani (polpastrelli e nocche…), ascoltatevi questo Drunkula Split Ep, che magari vi scappa di appassionarvi a qualcuno dei protagonisti di questa cavalcata western/blues/rock’n’roll. In ogni caso, attendo con curiosità l’uscita (a breve) del disco (intero) dei Wildmen – e, in questo senso, operazione decisamente riuscita.

Read More

La foto di Zeno – Redistance

Written by Recensioni

La foto di Zeno è Neil Halstead che quasi spoglio di ogni residuo elettrico va a ritrovarsene se stesso nei campi del modenese, lo si intuisce sin da ‘J’, epitomica apertura di questo ‘Redistance’.
Rarefazioni quindi…nebbie, sussurri, chitarre e piano zoppi, a rincorrere melodie, a perderle, a ritrovarle, qualche impennata percussiva, qualche scossa elettrica, di tanto in tanto, ma sempre destinate ad affondare in atmosfere di vapore acqueo ed elettronica analogica, come fossimo nei punti migliori del secondo Bon Iver.
Dopo l’iniziale ‘J’ che disvela anima ed umori di Zeno ‘The Ways Of Sorrow’ e ‘John, The Beard Man’, rispettivamente tracce due e tre del disco, fanno lo stesso con il repertorio di tecniche ed incastri detenuto dai nostri, dunque gli arrangiamenti si fanno notevoli, si complicano, saltano da folk a country come fosse nulla, descrivono paesaggi, foreste in chiaroscuro, che ora si rabbuiano ora lasciano passare il sole.
Il lamento che apre ‘Brown Leaves’ lascia intendere un ritorno agli umori bassi e tenui dell’apripista ‘J’, e invece no, pochi secondi e Zeno, nella sua foto, si scatena in un country quasi rubato ad un saloon di quelli cari a Terry Allen, in quel del Texas, attenzione però, ho scritto quasi.
Poi ‘Sad Spoon’ e ‘Two Books’, due storie tristi, chitarra e voce, giusto qualcos’altro qua e la, due canzoni che ti aspetti in un disco così, ma che non possono e non devono mancare all’appello, perché quella di Zeno è una foto sbiadita, scattata chissà quando.
Traccia numero sette, ‘Still I Wish’, il gioiello del disco. Si parte marciando, un basso turgido e vibrante a dettare il passo, attorcigliandosi a battiti scarni e marziali, attorno alla voce, che si fa sicura qui, abbandona le incertezze del resto del disco, come se detenesse una verità, una verità scura, condivisa con i Fleet Foxes degli esordi e perché no con lo Yorke marziale di ‘Therethere’,ha da dire poco però questa voce, lascia presto spazio a tutto il resto, ad una coda immensa, densa di elettronica sibilante, di battiti concitati, di chitarra e piano che incuranti della foresta che gli si infittisce intorno continuano per la loro strada, per la loro linea melodica senza speranze.
‘In This Garden’ calma tutto e chiude il disco come deve chiuderlo, con malinconia e armonica.

Read More

Thony – Birds

Written by Recensioni

Essere donna e musicista non è sempre un’impresa molto semplice. Generalizzando, ma neanche poi troppo, gli uomini giudicano più il tuo aspetto fisico che la tua performance e le donne giudicano più il tuo aspetto fisico – nel 90% dei casi rosicando- che la tua performance. Insomma: fuoco incrociato. Se sei troppo aggressiva, qualcuno sbava e qualcuno ti addita come ennesimo stereotipo del rock in gonnella con zebre e leopardi su vestiti, chitarre e scarpe col tacco, magari fantasticando anche sul livello di porno che suggerisci. Se sei troppo dolce, ti relegano nel panorama della canzoncine d’autore melense e strappalacrime, adatte solo a un pubblico di adolescenti che confondono l’ormone con l’amore.
Federica Victoria Caiozzo, palermitana classe 1982, si presenta al pubblico con uno pseudonimo androgino, Thony, che mette subito le cose in chiaro: è una donna – anche molto affascinante, con qualcosa della giovane Giorgia e qualcosa di Pj Harvey e della sua sosia nostrana Paola Maugeri – ma con due palle così. Femmina nel senso più puro del termine, determinata e fragile al tempo stesso, è in grado di mettere a tacere le malelingue di ambo i sessi e far parlare solo la sua musica. Intanto ha dalla sua una grande vocalità: timbro caldo, una certa quantità di quella sensualissima aria che per i puristi del belcanto è un difetto, un falsetto delicato e ben controllato. In secondo luogo, ha saputo evidentemente circondarsi di musicisti con una competenza tecnica e un gusto per gli arrangiamenti tali da creare un disco davvero molto buono. Difficile indicare Birds, realizzato come colonna sonora per l’ultimo film di Paolo Virzì, Tutti i santi giorni, semplicemente come il lavoro di un cantautore: Thony emerge come compositrice, polistrumentista, esecutrice e interprete, il tutto in armonia con l’apporto qualitativo delle collaborazioni, fondamentali e mai casuali. Esattamente come la presenza di Giuliano Dottori.
Fin dalla prima traccia, Time speaks, è chiara la direzione vocale intrapresa: echi di Emiliana Torrini, di Julia Stone, con la nasalità di Marisa Monte e la pienezza nelle note gravi di Julieta Venegas. Aria e acqua sembrano gli elementi che legano le 14 tracce: dal timbro della sega musicale su Quick steps, col suo effetto strascicato e ben poco temperato, a Birds che ricorda le sonorità di Ukulele Songs di Eddie Vedder e le doppie voci eteree degli Imogen Heap di Hide and Seek. La cura per l’arrangiamento è evidente soprattutto in Promises, costruita per intero su un passaggio continuo dalle tonalità maggiori a quelle minori, con una oscillazione di tensione sottolineata da frequenti cambi motivici e timbrici strumentali. Le dissonanze di apertura in Water e in Blue wolf tradiscono un’influenza classica quasi madrigalistica, mentre è Debussy il faro che guida Birds interlude. Nyctinasty rivela una grande attenzione anche in fase di registrazione, visto che addirittura l’attrito delle dita sulle corde, oltre a contribuire a un certo calore sonoro, diventa quasi tematico. Non manca l’alternative rock più puro, come nelle prime battute di Dim light, che richiama l’intro de L’estate degli Afterhours, e in Sam, in cui Thony si lascia andare a un canto meno contenuto e sussurrato, rivelando anche una discreta potenza alla Florence.
Nell’insieme, Birds è gradevolissimo e nostante non brilli per originalità, ha una sua elegante personalità e una certa tensione comunicativa. Thony non è LA voce, ma è una splendida voce in grado di sostenere il confronto con altre splendide voci. Si potrebbe dire che non aggiunge e non toglie nulla, soprattutto se inserita in un panorama musicale dal respiro internazionale, ma, dalle nostra parti, avercene.

Read More

Here We Go Magic – A Different Ship

Written by Recensioni

E’ praticamente come riportare le lancette dell’orologio indietro negli anni novanta nel pop alternative di quell’America sempre più distratta verso le estetiche generazionali o – per ammissione degli alternativi stessi – ancor più ora menefreghista verso le young-waves che si materializzano ovunque;  i newyorkesi di Brooklyn Here We Go Magic capitanati da Luke Temple, arrivano sugli scaffali con un nuovo disco “A Different Ship” prodotto da quel marpione di Nigel Godrich, un disco dove pop e sostanze psich si mescolano felicemente a giro di trottola, un po’ brioso, un po’ meditabondo ma con una resa finale strisciante e appetibile.
Una scaletta cangiante, brani e groove che non vanno mail in collisione, una lunatica stravaganza nei testi ed il gioco si fa sempre più  intrigante man mano che la tracklist convince l’ascolto che la miglior cosa è lasciarsi andare come in un flusso coinvolgente e convincente, tra le sue braccia aperte: il disco, prende ed assume forme sempre più simili a quel che generalmente s’intende per canzone “acida”, non prettamente riferita alle elucubrazioni alcaloidi, ma più che altro per quell’evanescenza alla Robert Wyatt allampanata e onirica che costituisce poi il bello del tutto. Splendidi tagli, ritagli e collage di atmosfere fantastiche sono la cifre consenzienti che il trio americano arrangia e varia in trame melodiche fragilissime e capaci di forza, cifre che prediligono eccellenza invece che indisciplinati sodalizi commerciali.
Agli antipodi dell’eccessività artificiosità, con quel senso tenerone tra gli AmericaI believe in action” e il Garfunkel storico “Over the ocean”, arriva la delicatezza di “Hard to be closed”, “How do I know”,  la dance robotica che tremula in “Make up your mind”, e la ricercatezza di profumi mid-ambient che svolazzano leggiadri tra le ali della stupenda “A different ship”; alla fine si ha la suggestione di un viaggio fantastico, tra amore e pacificazione, che non strattona nulla ma che può redimere gli orecchi da tanto marciume sonoro che infastidisce l’odierno. Gli HWGM da quella Brooklyn rumorosa e jungla di stilemi, portano una ventata d’altro che, se non capovolgerà sicuramente chissà cosa, di sicuro un potente   stato placentare lo procura.

Read More