La one man band Metibla è il progetto musicale di Riccardo Ponis, autore di musica e testi, che per l’uscita del suo lavoro definitivo Hell Holes(2012) si è avvalso della collaborazione di Valerio Fisike Paolo Alvano.
Un’evoluzione musicale che parte nel 2006 con la nascita di Paraphernalia (uscito anch’esso nel 2012), epche serve, probabilmente, a trovare una strada, uno stile e un modo per esprimerlo. Un lavoro poco completo e meno accessibile, rispetto a Hell Holes, dove la forma-canzone viene poco sviluppata. Una sperimentazione non solo musicale, ma anche vocale, dato il continuo cambio di colore, che però sottolinea un cercare sempre continuo.
In questo periodo natalizio è inevitabile, inoltre, citare Christmas Time, quarto brano dell’ep, che viene utilizzato da Ponis, sulla pagina facebook del progetto, per presentare così il suo esordio: <<Torna il Natale, torna “Christmas time”, ma esce per la prima volta l’E.P d’esordio di Metibla “Paraphernalia” contenente il brano. Nato ben 6 anni fa vede la luce solo oggi per semplici questioni di malattia mentale>>.
E proprio questa “malattia mentale”, questi lunghi monologhi rivolti a un “tu” che non si conosce, la paura e il senso di malinconia perenne, accomuna il linguaggio musicale di entrambi i lavori, scritti e cantati in inglese, dove l’italiano si trova solo nella seconda parte di Sint Annen Straat,quarto brano dell’ep, costruito come una sorta di suite.
Hell Holes sembrerebbe un lavoro più completo, con dieci brani ben sviluppati nel loro significato di canzone. La melodia è il centro di tutto il lavoro, infatti, come si legge sul sito:l’obbiettivo principale del progetto è quello di comporre brani in modo diverso, mescolando diversi tipi di musica(rock, elettronica, metal), ma senza mai dimenticare la parte melodica.
Tutto questo succede fin dall’inizio, nel brano Crack, con i bellissimi armonici iniziali e la voce dai colori glam, in un testo sottile e sincero. Voce che si trasforma in una sorta di growl in Fool, secondo brano dell’album, che nonostante le tinte forti, esprime desideri semplici. E la chitarra trasporta la melodia anche in Pain, attraverso sonorità e testi moderni (Ma tutti questi ricordi, sono come le melodie che mi fanno sentire blu) che procedono senza fronzoli e senza retorica, per arrivare dritti a un determinato messaggio, poche volte felice. Ma invece di parlare di felicità, Metibla forse vuole esprimere se stesso, un se stesso che è accomunabile a tutti, un sé che si trasforma, giorno per giorno, in consapevolezza e forza, interiore, come in Victory, esprimendo l’integrità come la virtù più forte (Ora mi alzo, dalle ceneri delle vostre bugie), mediante una musica forse troppo digitalizzata.
Spino, quinto brano, uno tra i più interessanti, si dipinge dei più classici colori rock, per raccontare un amore sofferto. Sofferenza che si può toccare anche nella vita giornaliera, che lascia poco spazio ai desideri e alle aspirazioni delle giovani generazioni, che amano, sognano, suonano, scrivono, interpretano ma solo dopo essersi alzati dalla loro scrivania da impiegati, come in Brand New One, costruita su una melodia quasi infantile.
La pioggia, invece, si fa portatrice di profondi significati interiori, cullati da un timbro chiaro, una buona orecchiabilità e una chitarra sostenitrice, in Grave Sweet Grave e Cross the Rain, un cantato che guarda, sospira e soffre per i comportamenti della gente, per un Dio che abbandona e una famiglia distante. Tutto questo disagio si percepisce anche in You live, I don’t!, penultimo brano particolarmente cupo, nel quale la parola suicidio appare più di una volta e l’elettronica, poi, sottolinea costantemente questi pensieri martellanti. E la strada interiore termina con il lungo ricordo malinconico di Molly, il primo vero amore, la prima paura, la prima delusione.
E per finire la musica di Metibla,oltre ad essere una sperimentazione continua tra vari stili, una valvola di sfogo e un triste mondo parallelo,sarà anche colonna sonora del film Hop-Frog, di Rosso Fiorentino. Un 2012 fortunato, con l’uscita dell’ep, dell’album e della colonna sonora, per una musica lenta, sottile, cupa, che va ascoltata più di una volta,che sicuramente crescerà nel tempo e che probabilmente troverà in futuroanche un po’ si serenità.
Recensioni
Metibla – HellHoles
Dottorconti – A Voi Ragazze
La Cabezon Records (ri)tira fuori dai cassetti degli anni “rubini sonori” che sono stati (ndr) pensati, registrati e abbandonati dai loro autori e mai resi pubblici prima d’ora, e dopo lo stupendo disco di Alessandro Longo, eccone spuntare un altro del cantautore Dottorconti, un prestigiatore di parole e concetti che nel suo “A voi ragazze”, tira fuori delicate e stranianti trame, storie del passato, momenti vissuti in pieno ed altri immaginati nel tralice della fantasia verosimile, ed è un continuo flusso raccounteur che si snoda in una tracklist fresca e improntata, una cinquina di suoni, colori e soluzioni vitali che lasciano – a fine corsa – l’ascolto appagato di buono.
La necessità – quasi intoccabile sembra – di dedicarsi a storie in solitaria, solitudine rappresa come in giornate afose d’agosto, e fare canzoni senza intrusioni di sorta, porta Dottorconti ad un buon uso della melodia autonoma e ad un bisogno di una certa “verve” gigiona che danno forma e sostanza ad un disco che è come un libro, più lo sfogli con gli orecchi e più si concede nelle sue “stanze di vita”, si confida e prende coscienza del suo spessore sempre e comunque con un’inconsolabile ma compiaciuta malinconia di fondo; dieci tracce apparentemente casuali, amori che vanno e vengono, respiri, sospiri, poetica urbana che va in giuggiole nell’incedere sausalito De Gregoriano “Valfiorita”, si copre di solarità e pensieri alla Silvestri “Primavera”, “L’attimo, l’arte”, Gazzè “Quasi giorno”, fa il broncio amorevolmente “Blues di Mitilene” e punteggia al pianoforte lo stato d’anima delicato di un addio o di arrivederci che tra le pareti vuote di “Un’ora di sereno” lascia amarezza e cerotti appiccicati al cuore.
Ci sono dischi che arrivano per passare in fretta nel passato, ci sono invece dischi che dal passato arrivano in punta di piedi per andare nel futuro, se lo si vorrebbe, e questo lavoro di ieri è nell’oggi come uno schiocco di dita a ricordarci che le cose timide sono proprio quelle che si mangiano il tempo e le età, e Dottorconti pare saperlo da sempre, ma non lo vuole dare da intendere, forse anche questo è un suo segreto inconfessabile.
Disco straordinario nella sua disarmante semplicità.
Ugo Mazzei – Adieu Shangri-La
Due capitoli uguali ma diversi, antitetici nella loro similarità: così si potrebbe definire l’operazione alquanto inedita di Ugo Mazzei di presentare in due cd i provini e il prodotto finale.
Un’idea davvero originale che permette all’ascoltare di capire come una canzone si evolve sin dalla nascita (ma occhio a non comparare il cd dei provini a dei semplici demos, le versioni sono già abbastanza mature) e di scegliere la versione che più si preferisce fra le due disponibili.
Ugo Mazzei ha uno stile che a tratti ricorda il De Gregori (il suo timbro vocale è molto simile) anche se si sentono influenze anche dei migliori cantautori della scena italiana e i grandi artisti d’oltralpe quali George Brassens e Jacques Brel.
Forse oggi proporsi in Italia con un disco così particolare sempre in bilico fra la penisola dello stivale e la Francia non è semplice ma l’augurio è che riesca a imporsi nel circuito radiofonico in maniera tale da avere quella marcia in più che Mazzei merita.
Canzoni piene di sentimento, che trapelano un’anima gentile di un rocker quieto ma a tratti anche duro sono gli elementi base di questo lavoro che tratta anche di tematiche legate al mondo della natura e al rispetto verso di essa (l’artista supporta Legambiente come si evince dal simbolo dell’associazione presente nel booklet interno e nel retro del cd).
Non manca quindi anche con “Canzone per Chico” un omaggio al grande Francisco Alves Mendes Filho in arte Chico Mendes che perse la vita proprio lottando per la difesa della foresta amazzonica (a lui sono stati titolati anche diversi parchi e campi in tutta l’Italia).
Registrato da Paolo Iafelice (che ne ha curato anche gli arrangiamenti insieme allo stesso Mazzei) nel novembre 2011 al “The Artist Recording Studio” il disco vede anche la partecipazione di Mirko Augello alla batteria, Biagio Martello al basso, Saretto Emmolo alle chitarre elettriche, Gianluca Guglielmino alle chitarre elettriche in “Sexy road”, “Armageddon” e “Canzone per Chico”, Saro Guarracino al mandolino elettrico in “Canzone per Chico” e Filippo Platania alla chitarra solista in “Cerchio di fuoco”.
Bella e sentita anche la dedica al padre dell’artista all’interno del booklet, ultimo segno di un piccolo capolavoro sonoro autentico e sincero.
Mombu | Zombi
“Zombi” dei Mombu era per il sottoscritto l’ attesissimo disco, il lavoro che più m’ incuriosiva, quello in cui non vedevo l’ ora che uscisse. Il motivo è semplice: i Mombu con il loro precedente album, nonché disco d’ esordio, hanno suscitato in me un infinità di sensazioni e piaceri. A questo punto “Zombi” era doveroso ascoltarlo, d’ obbligo anzi, e vi anticipo già da ora che ha dato conferma a diverse osservazioni. Il disco effettivamente è uguale a quello d’ esordio, con l’ aggiunta della titletrack che rende omaggio appunto al The Black President Fela Kuti. Cosa fondamentale però, è che ci sono delle finezze che hanno dato al full lenght una marcia in più: le linee di sax rifatte, l’ aggiunta delle percussioni di Mbar Ndyaie, e nella titletrack c’è la presenza di grandi ospiti come Giulio “The Bastard”, cantante dei micidiali e storici Cripple Bastards e Marco “Cinghio” Mastrobuono alla chitarra, inoltre solo questa traccia è stata mixata esclusivamente da Huskyi Hioskulds, fonico di Mike Patton, dei Fantomas e di Tom Waits. Un’altra chicca che farà piacere a molti, sono le parti di basso di Mike Watt, membro degli Stooges, altra grande band che non ha bisogno di presentazioni. “Zombi” è un lavoro veramente interessante, con questo i Mombu sono riusciti ad amalgamare ancor di più Jazz e Rock; insomma ascoltarlo è il miglior modo per comprenderlo, noterete la qualità del disco ed il valore del gruppo. La Subsound Records ha fatto davvero centro con i Mombu, il consiglio è di tenerseli stretti perché musica del genere è musica d’ élite.
King Size – Guess It
Non si sa il perchè, ma avrebbero già dovuto essere un fenomeno underground questi King Size, quartetto trevigiano che con il nuovo disco “Guess It” – dieci tracce di sano e robusto cortocircuito rock.-garage maculato di brit – ri(dimostrano) di avere tutti i full ed i jack in ordine per andare più su, a conquistare una fetta e più fette di notorietà della torta underground; pezzi elettrici di energia ed impensabili equilibri sonori che si intrecciano e si riproducono all’inverosimile, una tensione amplificata che lascia immediatamente l’impronta “pirica” delle band rock’n’roll con i contro testicoli.
Sono in quattro ma costruiscono un caos evocativo plurimo, un bailamme dove l’effetto primario è un “rock a manetta” che si ripercuote tra woofer e coni come un pungiball impazzito, quell’energia che si consuma tra i Ramones “Distortion” e i Tangerine Puppets “Wanna be yours” che sbatte di testa ed inventa soluzioni distorte da pogare senza ritegno, con la giusta strafottenza, il giusto “ghigno” d’ordinanza; ottime anche le virate verso colorazioni brit pop di primaticci Blur “Money Laundering”, “London sun”, “Gimme some talent”, ma la necessità di prendere chiare posizioni soniche sono dettate dall’impellenza di spaccare le testate degli ampli e di rimandare la botta di vita scatenante del rock alle nevrosi scoppiettanti che “I really want to fly”, lo shuffle schizzato di “Mr. Green Pie” e la bella ballatona che sprizza malinconicamente da tutti i pori possibili le rifrazioni sixsteen “ Sitting on the moon” mettono a contrasto di un ascolto passivo l’orecchio, poi si traducono in complementi essenziali per un disco che suona e fa muovere canagliescamente chiunque.
I King Size sanno il fatto loro, sfornano una list che fa scintille ed un tracciato elettrico che non ammette fiacche fisiche, tutto il resto è gioia.
Lactis Fever – Lactis Fever
“In provincia di Como fa freddo quasi tutto l’anno.
Non c’è molto da fare la sera.
Noi, da qualche anno, ci troviamo in una saletta prove,
beviamo e ci picchiamo.
Altre volte ci capita di immaginare posti in cui non viviamo,
gente che non conosciamo.
Che sia sempre estate.
Che sia sempre natale”
Lactis Fever
Ecco a voi la dimostrazione che la musica Pop non è necessariamente un rompimento di coglioni piano e voce oppure un’accozzaglia di banalità musicali e liriche ma qualcosa che stimola la nostra vita, la nostra anima, cercando di ridare con intelligenza, voglia di esistere e ridere, gioia, spensieratezza e voglia d’amare.
La band comasca che sta girando nel mio Hi-Fi nasce nel 2005 e dopo diverse esibizioni live, incide il primo Ep per l’etichetta romana Peteran Records. A due anni di distanza la loro carriera di poppettari incalliti e svergognati comincia a prendere una certa forma, con la partecipazione a Operazione Soundwave su Mtv nel 2007, la vittoria al Cer.Co Top Band e l’uscita, nel 2010, del primo Lp intitolato The Season We Met, registrato a La Sauna d Varese e prodotto dalla Tubular Records, che inizia a far conoscere la band ad un pubblico più ampio grazie alle positive recensioni di alcune webzine di settore. Come cantava Caparezza “il secondo album è sempre il più difficile” ed ecco a voi l’omonimo Lactis Fever, prodotto con Matteo Cantaluppi (Bugo, Edipo, The R’s, The Canadians), disco che si pone proprio l’obiettivo di lanciare uno sguardo al mondo e all’esistenza senza piangere troppo per le sue brutture ma piuttosto sorridendo alla bellezza, anche quando si analizzano con intelligenza aspetti bui della vita.
Le nove tracce composte da Luca Tommasoni (voce e chitarra), Giovanni Morganti (Basso e cori), Roberto Tagliabue (batteria) e Riccardo Borghi (chitarra e cori) sono un inno alla beatitudine ed alla purezza. Già sotto l’aspetto estetico, nel colore tenue e le forme rotonde dell’artwork rosa pastello curato da Valerio Bianchi, si evince la necessità di non aggredire il pubblico ma più che altro di cullarlo senza comunque spegnergli il cervello. I circa trenta minuti che vanno da “The Worst Thing You’ve Ever Done” a “Tomorrow” sono una cavalcata nel mondo dell’Indie Pop di lingua inglese, con infiniti rimandi alle grandi band moderne del genere (a un passo dal plagio la sezione ritmica di “Shadows Of Doubt”) senza le solite divagazioni (stra abusate) nel mondo Jangle Pop e Twee Pop di grandiose band come The Smiths o Belle And Sebastien, come accade costantemente più spesso nella scena popular nordeuropea sempre più in fermento e soprattutto senza pomposità Chamber Pop o Piano Pop ma piuttosto con un occhio di riguardo per lo spirito Rock che evidentemente pervade la mente dei quattro ragazzi e che trova riferimenti più validi nei nomi del Britpop e del pop/rock statunitense stile Killers, Glasvegas, Editors, ecc…. Il singolo di lancio “The Sun Is Shining” sembra invece un palese riferimento, specie nella parte vocale, alla maniera di Billie the Vision & The Dancers. Se è vero che si tratta di Pop, non troppo originale e con continui riferimenti, volenti omaggi o nolenti errori non sappiamo, a grandi artisti della scena, la cosa non deve assolutamente sminuire il lavoro bellissimo dei Lactis Fever che mostrano una capacità compositiva, esecutiva ma soprattutto di ricerca melodica che sarebbe invidiata da tanti di quei giganti di cui parlavamo sopra, spesso alle prede con carenze d’ispirazione demoralizzanti. L’aggiunta dei cori all’interno delle canzoni non fa che aumentare l’impatto emotivo dei pezzi dando loro una carica che solitamente solo un certo tipo di rock “da stadio” riesce ad avere. Anche quando il sound diventa più languido e intimo, come in “Oh Lord” o “To Be Loved” le note e le parole di Luca Tomassoni non scendono mai nel patetico, anzi danno ancora più cuore alla musica dei Lactis Fever.
Se devo cercare qualche difetto, oltre alla poca originalità che sfocia in alcuni passaggi nella apparente ingenua scopiazzatura, direi che puntare sulla accessibilità, anche se questo è il palese obiettivo della band, rischia di sfociare nella eccessiva appianamento del suono, che alla lunga potrebbe risultare noioso ma solo il tempo potrà dare risposta a questa critica. Forse qualche idea in più si poteva inserire, pur sempre senza dare troppa ampollosità ai pezzi e quindi distruggerne il cuore stesso. Inoltre non mi sembra ci sia niente di eccezionalmente interessante sotto l’aspetto stilistico dei quattro ma ovviamente non hanno neanche fatto molto per dimostrare il contrario perché tutto fila liscio senza nessun eccedenza ne nella sezione ritmica, ne nella parte vocale e cosi via. Se non avessi trovato nulla ma proprio nulla da ridire, se gli arrangiamenti fossero stati eccelsi e ricercati, se la voce fosse ai livelli di un Jeff Buckley, se…se…se…
Non ragionate con i se ma godetevi un disco assolutamente meritevole e soprattutto apprezzabile da chi non ama troppo le spigolature di un certo tipo di Rock eppure non vuole continuare ad ammorbarsi con le frociate del Pop, del tipo che piace anche a vostra mamma.
Twintera – Lines
Energia, creatività, differenzazione, estro e metallo non mancano. Saltano fuori da ogni passaggio delle songs, da ogni solco, da ogni bridge elettrico contenuti nel debutto “grande” dei veronesi Twintera, “Lines”, undici ematicità metal-melodiche che prediligono i dettagli cangianti alle ortodossie inaccessibili dell’estremo, un carattere – questo – che formalizza un ascolto su larga scala, ma che comunque insidia e mette sotto tiro chi nel metal vede e crede comunque una certa energia maldestramente evocativa di malignità qualsiasi.
Lines regala invece un bell’impatto, altro che diavolerie intermittenti, una registrazione amplificata dalla dolcezza amperica geniale, viva, delicata come una farfalla notturna, un suono totale che infiamma e lenisce anima e spirito a ondate, una marea elettrica griffata di power e progressive che arriva subdola e ti devasta con la sua forza d’urto poetica, poi se ci vogliamo inserire anche l’immancabile inossidabilità di settore, tutto assume lucentezza massima, tanto da sentire realmente l’odore forte di una versatilità senza limiti; lontanissimi The Jelly Jam, Pain Of Salvation o la salvifica orma di un Petrucci dei Dream Theater “Killing your feelings” sono le ombre che si muovono a tratti nel registrato, ma sono solo ombre che non vanno a disturbare il ricamo personale che i Twintera operano lungo tutta la tracklist, semmai la rafforzano come idea vincente.
Non ci sono i pilastri fondamentali a “cementare” forzosamente l’ossidiana metal, ma un insieme di venti fantastici che tirano urgenza e melodia, un caldo riferimento per l’unicità degli arrangiamenti e per la magia di non fermarsi allo sterile, e allora la convulsione alla Metallica “Where we land”, l’ondifrago delirio epico “Oversight”, il lavorio di corde che riporta un Vernon Reid dei Living Colour a materializzarsi tra le trame urbane di “Cool” o il sussulto della doppia pedaliera per una folle corsa trash “Bunch of motherfuckers” (che sembra uscire dalle fumigazioni di un Alice Cooper d’annata) sono componenti in filigrana elettrica che dettano legge e sentimentalità tradotte in watt di pregio ed intensità.
Tecnica quanto uno ne vuole, incarnazioni nella media, emozioni pervenute e tzunami sanguinario sventato, ora quello che resta al capolinea di questo ammasso di jack e cervello è il carico di adrenalina sparsa sul mondo, unita alla precisione di una band di cuore & acciaio che vuole lasciare un segno, e lo fa.
Grenouille – Il Mondo Libero
Il Mondo Libero dei Grenouille è un disco senza pudore, rock acido, bastardo e spregiudicatamente commerciale. Avete capito bene, l’ultimo disco dei Grenouille è decisamente rock commerciale. Lasciamo stare la loro esplosiva verve grunge d’oltreoceano, un tempo forse erano così, adesso credono di essere maturati a tal punto da poter scalare le classifiche, i chitarroni scendono di potenza per dare spazio alla melodia. Sia chiaro che per melodia teniamo sempre presente la leggerezza di una ex band grunge, per quello che si può. Chi ricorda l’esordio discografico dei Grenouille di Saltando dentro il Fuoco (2008) farà sicuramente fatica ad ascoltare il disco per l’intera durata senza imprecare violentemente contro il trio milanese, il nervosismo andrebbe controllato e l’album gustato con la giusta attenzione. Bestemmie anche nei miei confronti. Invece Il Mondo Libero inizia a scoprire pian piano le proprie carte dimostrandosi sempre più un ottimo lavoro, la metodica d’esecuzione è molto più tagliente del precedente disco e la cura dei testi (nel 2012 non potrebbero che essere di protesta) provoca un attenzione insperata.
Ma lasciamo stare il primo disco ed evitiamo stupidi quanto improbabili paragoni (anche se inevitabili) e concentriamoci sul disco attuale. Si parte subito forte con D.S.M., le intenzioni vengono subito messe sul tavolo e il Papa fresco di profilo Twitter si becca la prima frase ad effetto del disco:”E quanto il vaticano ce l’ha messo dentro l’an(o)ima?”.
Arriva una rivisitazione di Poveri Cantautori di Jannacci rinominata e modernizzata in Poveri Suonatori. Sinceramente in questo periodo non apprezzo chi suona la roba d’altri anche se completamente rivisitata, vabbè sono soltanto capricci personali.
Binario 21 rappresenta il pezzo simbolo del cambiamento stilistico dei Grenouille, molto morbido, orecchiabile ma allo stesso tempo soddisfatto di essere parte integrante del disco, come dire che soltanto gli stupidi non cambiano mai idea. Molto cantautorato e testi curatissimi, vengo ancora una volta a ribadire l’importanza dei testi nell’intero cd, quasi del tutto fondamentali oserei dire. Ma nonostante tutto questo la musica non cade mai in disgrazia, anzi, è sempre ossatura portante, immediata. Ma adesso mi sto stufando della classica analisi delle canzoni, arriviamo dritti dritti dove dobbiamo arrivare. Arriviamo al cuore del disco, al primo singolo estratto, arriviamo a La Droga più pesante. La prima volta che ho ascoltato questo brano ero indeciso se ridere o piangere, insomma, non sapevo proprio con quale spirito affrontare questo pezzo. Il secondo ascolto in macchina è stato traumatico veramente, un forte mal d’auto s’impossessava velocemente del mio corpo. Tutto si metteva per il peggio, il testo sembrava scritto da un quindicenne con problemi di seghe, la musica non sapeva di niente e il ritornello dei peggiori Sanremo.
Il terzo ascolto risulta decisivo, questa canzone è un opera d’arte del rock pop italiano, e non è assolutamente uno scherzo. Il testo diventava geniale, la musica perfetta e il ritornello addirittura emozionale. Ecco come cambiano improvvisamente le cose. I Grenouille sanno cambiare pelle velocemente, si staccano furiosamente da tutto quello che possa etichettarli, si sentono talmente liberi da far uscire Il Mondo Libero sotto un etichetta di loro creazione, la Milano Sta Bruciando Records.
Poi il disco scivola tutto via bello come dovrebbe scivolare. Il Mondo Libero dei Grenouille spacca il confine tra nicchia e popolare, la musica è prima di tutto benessere dell’anima. Chi non cura la propria anima muore stronzo e insoddisfatto.
FilmDaFuga – Canzoni per la colazione
La mattina io non riesco a fare assolutamente nulla senza prima prendere il caffè: già accendere la macchinetta è uno sforzo sovraumano che il mio cervello si concede solo in vista del premio eccitante che riceverà. Figuriamoci accendere lo stereo o addirittura infilare un cd nel lettore.
L’idea di ascoltare qualcosa appena sveglia, poi, mi riporta indietro alla convivenza universitaria (facoltà molto settoriale, Musicologia, piena di appassionati di musica rinascimentale e opere liriche): il mio coinquilino veneto, ad ogni pasto, colazione compresa, ci propinava qualche nuova esecuzione di qualcosa di Bach. Bello eh, ma innegabilmente traumatico.
Non devono averla pensata così i FilmDaFuga quando hanno scelto il titolo per il loro disco, Canzoni per la colazione. La band di Udine consta di dieci elementi totali, di cui quattro costituiscono lo zoccolo duro che ha dato vita al progetto nel 2008.
La loro ultima fatica discografica ha otto tracce e un indirizzo stilistico molto preciso, che si chiarifica fin dal primo brano, Le parole della gente: l’intenzione è quella di proporre musica allegra, spensierata, adolescenziale ed estiva, sfruttando sonorità e ritmi funky, parole semplici e rime. Su questa stessa linea è costruita Mattino estivo, che ha tutti i numeri per essere un tormentone vacanziero, comprese le tastiere che scherzosamente sembrano richiamare i temi musicali di certi videogiochi dei primi anni ’90. La resa complessiva è squisitamente pop, se vi piace il genere, e sa di boy band, di Le vibrazioni e Lùnapop. Una vera pecca sono purtroppo le rime coi participi passati e i verbi all’infinito che ossessionano il testo di Sentirsi uguale. Già nelle canzoni precedenti avevo notato questo uso (talvolta abuso) di un espediente tanto caro ai compositori italiani, quanto obsoleto e noioso per il pubblico; questo brano sembra inoltre voler avere uno spessore ben diverso da quello che di fatto viene purtroppo ad essere: poco più di una filastrocca, poco più di una cantilena. Con la cullante Se ci penserai, la gamma di ispirazioni degli udinesi si amplia andando a pescare a piene mani dalla bossa nova il modulo ritmico. Mtv Generation ha saputo vedere lungo e ha selezionato questa quasi ballata come “just discovered”. Meno felice sarà sicuramente il destino di Niente da capire. Più che “da capire”, niente e basta. Una traccia che passa senza lasciare nulla né dietro di sé, né dentro l’ascoltatore. Diverso il discorso per E poi parlerò di te, la migliore a mio avviso: fresca, assolata e con un ritornello composto di una sola frase efficace ed immediata. Anche i riferimenti sono più recenti, se si tiene conto di un incipit melodico molto indie e di una costruzione complessiva degli arrangiamenti dal sapore emo pop alla dARI. Scrivere canzoni d’amore che non risultino scontate, melense e banali è senza dubbio molto difficile e i FilmDaFuga hanno tentato di mettersi in gioco con Ritratto da lontano, mal riuscita purtroppo vista la ricchezza di luoghi comuni e le rime che rasentano il sole-cuore-amore. Si riscattano invece con l’ultima Sono qui: si fa ritorno alla bossa nova, arricchita da endogeni riferimenti jazz sviscerati piuttosto bene in un arrangiamento, il più complesso e il più accattivante secondo me, che predilige la meritevole e preparata sezione dei fiati.
I FilmDaFuga sono un prodotto facile da sentire e difficile da giudicare. Intanto sono un prodotto: si sente una patina di scarsa genuinità e una tendenza commerciale al livello medio che punta ad accontentare tutti e non soddisfare veramente nessuno. Sono, però, ed è innegabile, un buon prodotto, perché nel complesso gli arrangiamenti funzionano, la qualità dei testi non è sempre eccelsa ma è costruita secondo la logica pop che punta tutto sul ritornello e c’è una buona freschezza di base. Non hanno grandi contenuti, né grandi pretese, ma la gioia di vivere e l’allegria che vogliono trasmettere arrivano all’ascoltatore con forza. In seconda battuta, bisogna considerare il genere e i riferimenti, perché nel serioso panorama indie nostrano questa formazione verrebbe additata come superficiale e rispedita immediatamente in cantina a leggere Schopenhauer. Nell’universo emo pop delle band che passano su Mtv e canali mainstream vari, i FilmDaFuga se la possono giocare invece con una certa dignità. E quella senza dubbio è la loro strada.
Magari per colazione no, ma nel primo pomeriggio, dopo i Simpson, quando spegnete la tv perché siete troppo grandi per guardare Dragon Ball, un’ascoltatina a questo cd potete anche darla.
Adriano Modica – La Sedia
Di primissimo impatto è difficilissimo stabilire un minimo di rapporto – anche simbolico – con il nuovo e terzo disco del cantautore calabrese Adriano Modica, “La Sedia”, ma poi seguendo il percorso informale della tracklist, si è percorsi da una strana malia suggestiva che si apre progressivamente, e in pochi giri di stereo, si arriva alla consapevolezza di un lavoro discografico non male, con molta scorza, ma non male se si è pervasi dai movimenti interiori che l’artista stesso mette in mostra attraverso dieci brani.
Il disco parla ed intende espressività dentro, un cantautorato dai doppifondi d’anima rigati, una strana psichedelica che incrocia Barrett e Basile come fossero giorno e notte, poesia, struggimento, devastazione e delicatezza si amano e intrecciano le loro corporalità come serpi addomesticate, un’opera che vive e sbava di luce propria, in movimento come negli stati fermi dove tutto è contenuto e poi rilasciato come una forza viva mai artificiosa; brani come fotografia ingiallite, arrangiamenti come istantanee in bianco e nero, poetica come un fuoco a metà ma che riscalda comunque se ascoltato tra la notte e l’alba.
Modica, artista della Calabria underground, non si fa mancare nulla nell’armamentario strumentale che suona nel disco, flauti, archi, ottoni, clavicembalo, vibrafono, timpano, e poi quell’asterisco esemplare che brilla nella partecipazione dell’artista inglese Duggie Fields; dunque un lavoro che – come si diceva prima – si apre piano piano e mostra tutte le sue intercapedini sonore facendo diradare tutte le foschie che appaiono all’inizio, lasciandosi poi familiarizzare in maniera piena con i messaggi che l’opera stessa vuole consegnare agli ascolti. Ascoltato di seguito può dare anche leggeri accenni di dipendenza, una sincronizzazione di stimoli sonori che arrivano diritti all’orecchio come la De Andrèana “Il bastone e la scala”, il pizzicare di corde acustiche solitarie “Alluminio”, “Che mi dai”, “Stelle scalze” o il fantasma flebile di un Drake notturno che si muove pensieroso in “Ninnananna per Lulù”, certo non un disco per chi cerca “sound e jump”, nemmeno per chi vuole sfuggire la malinconia e darsi una tonicità impassibile, piuttosto una serie di brani ottimi per stare da soli e rischiarare le proprie nudità interiori e magari farci due “chiacchiere sincere” una volta per tutte, poi una volta ristabilito l’equilibrio, riascoltarlo come bella entità salvifica.
Fluido Ligneo – Déjàvu
Un fenomeno psichico, l’alterazione dei ricordi, un sogno familiare o la consapevolezza di un’altra vita, ma Déjà vu è anche il titolo del quarto album dei Fluido Ligneo, progetto nato nel lontano 2001 da Luca Pugliese, la cui mente associa la musica alle arti visive, molto più moderne e suggestive, rispetto alla musica stessa.
Un percorso lungo, che ha avuto davvero inizio nel 2003 con il primo lavoro Endemico, al quale succedono Flashbacks (2005),Andante (2009), importanti collaborazioni, come quella con Angelo Branduardi nel 2006, e premi, quello più importante ricevuto da Mogol nel 2004 al festival Senza Etichetta (Cirié, To). Un percorso che sfocia con l’ultimo lavoro Dèjà vu(2012) scritto, composto, arrangiato e prodotto, come le fatiche precedenti, da Luca Pugliese, che si è avvalso di vari collaboratori quali Tony Bowers, Vittorio Cosma e Giancarlo Parisi.
Un lavoro che ripercorre i dodici anni musicali di Luca Pugliese, con nove brani rivisitati e tre inediti (Déjà vu, Tarantella basta!, e Qui e Ora), dopo “anni di ricerca, di prova e riprova, di nuovi incontri, di riconoscimenti, di nuove sonorità che hanno trasformato ciò che era in ciò che è”, insomma dopo un percorso che comunque appartiene ad ogni artista.
Chi si avvicina a Dèjà vu lo fa in maniera inconsapevole e le sensazioni orecchiabili potrebbero sembrare ingenue, ma il disco inizia con un intro di sola chitarra e piccole percussioni che fanno pensare a mondi lontani come succede ad ogni inizio di questi dodici brani, sempre apparentemente diversi, ma in fondo tutti simili. Sembrerebbe un lavoro tutto strumentale, che a dire il vero sarebbe stato molto più apprezzato, a mio parere, rispetto al lavoro finito con parole e testi, date le continue improvvisazioni dell’artista. Le stesse improvvisazioni, unico elemento che mi sentirei di salvare, che lo stesso Pugliese definisce “ricerca empirica ed esistenziale che da vita suonata, diventano sperimentazione, cantiere, progetto e infine tecnica, unica, rara e originale, per suonare e trascrivere i passi della vita stessa in un linguaggio nuovo, lontano dal già visto, dal già sentito”, a suo parere.
Ma Dèjà vu è anche cantato, parole e testi abbastanza prevedibili, che raccontano la visione personale di Luca Pugliese, i viaggi (anche mentali), il mare, l’amore, i sogni, la neve, i monti e le diverse strade della vita in generale, attraverso un magma di suoni e rime semplicissime, che non aggiungono null’altro se non la loro scontata presenza.
Un album che vorrebbe tenersi lontano dalle etichettature, ma che a causa di esse o della mania degli uomini di voler raccontare la musica attraverso delle sigle, sembrerebbe fortemente neomelodico, con pochissimi colori rock, anzi proprio inesistenti, e qualchesaporeetnico, che lo rendono non eccessivamente sgradevole.
Una musica semplice e dei testi un po’scontati e datati, che però si incanalano bene nel percorso musicale dell’Italia molto più popolare e banale, lontana dalla sperimentazione, dalle tinte sonore più aggressive o dal sapore più contemporaneo, ma che magari accontenteranno un certo tipo di ascoltatori, quelli più semplici e melodici, o quelli che ascoltano questo tipo di musica a tutto volume in macchina con i finestrini abbassati… ma naturalmente tutto dipende dai gusti.
Hijack Party – Hijack Party
Quando il nome suona così cool è difficile che il sound preservi sorprese. Capita anche con Hijack Party, neonata band romana dal suond fresco, vivo e vegeto nel nostro presente: tra nervosismi e ampi respiri di aria fresca.
L’aria del loro album di debutto ha un incredibile sapore british, e la biografia della band spazza via ogni dubbio: Stefano Reali (chitarra e voce) ha vissuto e suonato 10 anni in terra inglese. La sua voce sporca e ruvida è pregna di sigarette in sudici club, lunghe passeggiate ad Hyde Park, partite a freccette e litri di bionde medie al bancone. I don’t have an answer è sbruffona e arrogante come il Liam Gallagher dei bei tempi, biascicata e un ottimo tributo al brit pop. Si, Hijack Party sono una band nostalgica di un fresco passato ma non si fermano a riprodurre su carta le perfette statue greche, come fanno gli studenti d’arte in visita al British Museum. Love Infection spazza via questo facile pregiudizio con un bel ritmo in levare che accarezza sia i Negrita multietnici che i Blur più caciaroni e festaioli.
I ragazzi (pare neanche troppo giovani a dire il vero) muovono i loro passi decisi, nonostante sia la prima uscita discografica, senza mai esagerare e rischiare nulla: 4-4-2 sicuro e provato più volte in allenamento. Quando si scende in campo i quattro giocano a memoria, senza mai uscire dal loro ruolo ben definito. E allora le ritmiche di Vincenzo Stefanini e Patrizio Placidi sono precise e sintetiche persino quando potrebbero osare di più in Insideout, l’episodio più hard del disco, forse più adatto alla voce di Skin che a quella di Stefano. Le sue corde vocali, in generale abito perfetto per il “party”, si dimostrano in questo episodio troppo sottili e strozzate dal peso dei riff.
Anche la chitarra di Damiano Caporalini pare ben indirizzata sui suoi binari e svolge un ottimo lavoro mirato a valorizzare la squadra, salvo qualche incursione spregiudicata sulle fasce (e a dire il vero molto gradita) come l’assolo in I’m not moving, altro che stare fermi questo è un inno alla frenesia. Come accennavo all’inizio, non mancano le boccate d’aria. La ballata Freefall valorizza nuovamente il numero 10 della band: l’ugola di Stefano dona colori e sfumature oltre al semplice pop inglese della canzone. Una vena melanconica su ritmiche spensierate, sfumature di vita vera, un fantastico goal di Roberto Baggio supportato da una Italia in forma U.S.A. 1994.
Soul Searching è il singolone, quello che personalmente stavo attendendo. Quattro accordi scontatissimi che racchiudono una di quelle canzoni che non vorresti mai partisse nell’autoradio quando entri in galleria.
In definitiva Hijack Party ci dimostrano che in Italia il pop rock esiste ed è pronto a sfondare tutte le barriere linguistiche, con carattere e rispetto reverenziale verso chi, ben più a Nord di Roma, vanta una storia invidiabile.
Nessun azzardo, nessuna pretesa eccessiva, tutto racchiuso in uno schema consolidato. Certo, il risultato è efficace e brillante ma (sperando di non toppare la fede calcistica dei quattro ragazzi) non sarebbe male vedere questa squadra guidata da un allenatore bello offensivo. Che ne dite di Zeman?