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Duff – Ci sono gente che non stanno bene

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La nostrana  IndieBox  per il punk e tutte le sue affiliazioni è come una casa  madre ospitante e premurosa, un porto sicuro dove le band “professanti” questa ribelle religione anarchica hanno riparo e voce per poi imperversare – col loro ruggito più o meno antagonista – lungo tutto lo stivale ed oltre, e ciò non può che farci piacere tanto da poterci fanfaroneggiare come una seconda Inghilterra di spilloni da balia, creste e urla guerriere.

Anche grandi anfitrioni punk storici e “inquilini della casa” come i calabresi Duff  tornano a riempire la scena e forsennati live con un nuovo lavoro “Ci sono gente che non stanno bene”, quindici tracce che oltre ha fornire energia high-voltage continuano con quell’impulso primordiale che è ormai logo di  “instabile garanzia” e scuola per tantissimi apprendisti di settore, praticamente un disco Duff è contemplazione elettrica e non solo più – come un tempo –  schizofrenia ad alta velocità. Forti di una linguacciuta verità e ferrei nello stare fedeli ai ritmi convulsi “contro”, i Duff escono sempre “vivi e veri” dalle valanghe di mediocrità che arrivano da ogni dove, il loro è un sound punkyes che è tra i più potenti da sempre intercettati nell’underground stizzoso e deviato.

Con gli anni Novanta nelle piastrine e  i  Nofx nel dna, la formazione di Cosenza conferma una monumentale e visionaria passione a spaccare di brutto, non con la cattiveria che è sempre attribuita – come sfogo – al genere proposto, ma con la forza della melodia storta, quella che dice, ama e combatte con le intemperanze della poesia da cortocircuito, amplificata da woofer e jack impetuosi dal cuore “mammone”; riconoscibilissimi tra la scaletta i padri putativi sonici come Anti-flag, Rise Against, Propagandhi, Diesel Boy e Lagwagon, ma anche uno stainter formidabile che si intercetta  nelle tirate elettriche “Che state facendo”, “Solo”, “Cristianità”, nella bella stonatura che fa hook “La tua storia”, nella sterzata sludge che schizza in “Finzione” o nel rock’n’roll old style che furoreggia in “Domani”, una scaletta  a perdifiato che si da una calmata (si fa per dire) nell’alcolica e slogata “A luci spente” chiusura cabarettistica – con voci di sottofondo –  che fa da gioiellino di promesse e resoconti agroamari.

Buon ritorno per i calabresi Duff, autori di musiche e logos irrequieti come sempre tra i più eccitanti in circolazione

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Tre Allegri Ragazzi Morti – Nel Giardino dei Fantasmi

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I Tre Allegri Ragazzi Morti fanno senza ombra di dubbio parte della storia indie della musica italiana. Questo è vietato metterlo in discussione, sotto il loro ombrello non piove mai. Il percorso artistico della band lascia poco spazio alle critiche cattivelle e molto molto invidiose di qualche nerd fuori controllo, un lungo cammino fatto di punk, di dub (Primitivi del Dub), di folk, di musica leggera senza speranza, di fumetti, insomma, i TARM hanno suonato di tutto in vent’anni di carriera. Certo, la loro costanza negli anni non è sicuramente frutto di botte di culo, vent’anni sono tanti e raggiungere perlomeno la decenza in tutte le uscite discografiche non lascia dubbi al talento degli scheletri di Pordenone. Passano solo due anni dall’ultimo disco ed ecco arrivare Nel Giardino dei Fantasmi, un seguito naturale ed atteso del precedente Primitivi del Futuro. Non c’è nessuna sorpresa, nel senso che personalmente mi aspettavo questo disco proprio come l’ho trovato, soddisfacente sotto ogni punto di vista, musicalmente ben suonato e visivamente confezionato ad hoc, le polemiche che riescono a creare fanno parte della loro attitudine sfrontata. I TARM sono vecchie volpi del deserto, capiscono e anticipano quello che la gente vuole ascoltare sperimentando tanto, tantissimo. Un predisposizione al punk nelle vene (e quella non riuscirà a toglierla nessuno) con una vocazione reggae ormai sempre più invadente nei loro pezzi. Nel Giardino dei Fantasmi presenta una voglia di cambiamento artistico molto più evidente rispetto ai precedenti lavori, sembrerebbe il disco della maturità ma non è così (la voglia di giocare è ancora tanta), folk rock a profusione e tanti punti ancora da metabolizzare. L’idea è quella di un castello di sabbia costruito meticolosamente. I primi ascolti danno velocemente il senso di orecchiabilità su cui è costruito il disco, poi accenni alle vecchie pellicole western sull’onda del cinismo della chitarra morriconiana. Il passato che ormai non torna più cantato in I Cacciatori e le sonorità reggae in Alle Anime Perse, poi la bellezza della semplicità nel pezzo portavoce del disco La mia Vita senza te. Tanta rabbia contro un mondo marcio e insostenibile, la speranza nei ricordi di tanti anni fa, quando tutto sembrava più facile, almeno in apparenza con uno scudo indistruttibile che era la gioventù. Nel Giardino dei Fantasmi è il primo disco dove la band inizia a guardarsi alle spalle, vent’anni di musica sono tanti, il futuro non promette niente di buono e il ricordo allarga la ferita e allo stesso tempo consola. Toffolo disegna nel vero senso della parola un mondo diverso e parallelo dove nascondersi, una corazza indistruttibile fatta di musica e fumetti, ognuno di noi è libero di perdersi in quel mondo fantasma dove l’amore conta tanto quanto la sofferenza, dove niente viene lasciato da parte, un mondo positivo quanto negativo. Un mondo ricco di sentimento. Un mondo vero.

I TARM affrontano l’uscita di questo disco consapevoli di sfidare tutto e tutti, grandi pubblicità da una parte (anche spudoratamente di parte), grandi critiche dall’altra movimentate solo da odio e intolleranza, Nel Giardino dei Fantasmi è un disco equilibrato, non farà sussultare il mio finale d’annata ma riconosco il merito e la capacità compositiva della band. I TARM dopo tanti anni consumati sulle spalle riescono sempre a rigenerarsi e a scrivere dischi inaspettati, riconosciamo il giusto e apprezziamo questo nuovo capitolo della loro strepitosa avventura.
Nel Giardino dei Fantasmi potrebbe essere la giusta soluzione a una vita musicale scontata e senza troppe soddisfazioni.
Beccatevi anche il video…

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Death By Pleasure – Wasted, Wasted Ep

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Sabato 8 Dicembre.
Da ieri Pescara è invasa dall’onda anomala dell’Indierocket. Quest’anno niente location fisse. Una grandiosa festa itinerante come un serpente striscia per la città con la sua scia di ragazzini ubriachi, dal cuore di Manthonè fino alle discoteche (se cosi si possono definire) delle zone più periferiche. Per qualcuno sarà una serata memorabile. Altri si chiederanno chi cazzo sono Delawater, Sam Mickens, New Candys, Disquieted By, ecc… Molti rimpiangeranno quei bei sabato di merda passati a sbronzarsi, scazzottare, vomitare e ballare all’ombra di quattro Dj e basta. Io mi scolo l’ultima latta al sapore di piscio caldo e mi fiondo nella mischia. Stasera si va all’Orange, uno dei pochi locali di genere, di quelli da cui gli hipster, di solito ma non sempre, stanno alla larga, pieno di metallari incalliti, con barbe incolte e capelli unti tipo nani da Fantasy Movie. Non mi sembra di aver mai visto nessuno con grossi martelli medievali ma sono sicuro che nel bagagliaio delle loro belle monovolume debbano essercene. Mi fermo a pisciare sotto a un ponte, dove quattro ragazzetti ben vestiti, con petto villoso in vista nonostante il freddo, si fanno la loro sniffatina prima di iniziare la serata a caccia di figa con i soldi di papà. Li mando a cagare quando iniziano a sbraitare come cani che difendono le loro troie dalla vista del mio cazzo e continuo la mia odissea tra le anime dei dannati che lamentosi si accalcano all’ingresso di una discoteca Reggaeton dove rumeni strafatti in mutande litigano con sbirri annoiati e pieni d’odio. Io vado all’Orange.
Stasera tocca al duo trentino (Mirko Marconi a voce e chitarra e Lorenzo Longhi, sostituto di Marco Ricci, alle percussioni) Death By Pleasure. Arrivo davanti al locale e il pubblico è esattamente quello che ti aspetti. Metallari cronici che vanno al concerto, anche se dovesse suonare una cover band dei Pooh, qualche punkettone impenitente, universitari con pochi soldi in tasca, puttanelle dark, trentenni con la fobia di crescere ed Io.
È abbastanza presto e mi isolo cercando di fumare una Pall Mall 100’s e bere una Peroni comprata da un pakistano, senza che nessuno venga come al solito a rompere le palle per una sigaretta o per vendere un cazzo di accendino che domani avrò perso. Tutti sono in fermento ma non ancora abbastanza. È presto, vi dicevo e gran parte di questi sconosciuti compagni di sbronze è ancora troppo serio perché abbandoni le proprie timidezze disadattate. Un tossico (almeno cosi mi sembra) comincia a fare il gradasso, urlando e ridendo, sbraitando verso i deboli sobri convinto della propria essenza di unico essere libero della terra e della serata. Entra ed esce dal locale come il cazzo di un eiaculatore precoce e alla fine, proprio quando do i soldi al negro per l’accendino con un culo sopra (il mio l’ho perso, puttana Eva) quel cazzo di tossico mingherlino fionda un cazzotto a braccio teso sul volto di una tipa, di quelle stile universitaria che ce l’ha solo lei, la figa alla francese. È talmente moribondo e scheletrico che il dolore fisico non è niente. Deve averla ferita dentro però e lo manda a fare in culo in maniera molto stravolta. Lui si dilegua, ridendo, il coglione mentre spengo la centos e bevo un altro sorso di birra gustandomi la scena del ragazzo frocio di lei che non fa assolutamente nulla, finendo per farla incazzare ancora di più. In realtà nessuno ha fatto niente, non solo il frocio (che comunque probabilmente se la scopa, quando lei vuole e quindi avrebbe avuto motivi migliori per non farla incazzare). Voglia di sopravvivere, menefreghismo, la tipa sarà stata sul cazzo a tutti? Chi può dirlo. In fondo neanche io faccio niente, oltre che accendermene un’altra e stappare sessantasei. Bella serata di merda la loro. Stasera niente pelle per il frocetto.
Faccio un’ultima pisciata dietro al vicolo e sono pronto a entrare. I Death By Pleasure hanno appena iniziato. Una bomba; una cazzo di fottuta figata, porco il nostro grande signore delle tenebre Satana. Lo dico ad alta voce e sono costretto a scusarmi con gran parte dei suoi adoratori presenti. Il locale puzza di testosterone. Anche le fighe puzzano di testosterone e capisci perché il Rock non è roba da checche. Qui anche le donne sembrano avere le palle. Inizia un lento pogo violento e mentre cerco di prendere un bicchiere di vino a buon mercato (altro che prezzi da Milano da bere come per il corso) mi arriva un pugno dritto sugli occhi e ciao ciao.
Domenica 9 Dicembre.
Mi sveglio alle dodici nel letto di casa a sessanta chilometri dall’Orange e da Pescara. Che cazzo è successo? Non ricordo niente e non ho nessun livido se non allo stomaco. Forse al concerto non sono mai andato? Sono mai uscito da qui? Mi alzo dalla culla e vado direttamente in cerca di cibo. Prendo Wasted, Wasted, l’Ep dei Death By Pleasure e comincio a ingozzarmi di Garage, Lo-Fi, Punk, Shoegaze, Psichedelia Sixties che non ci metto più di quindici minuti a divorare tutto. Il mio corpo non regge ed esplode in un sound da paura, come se le budella mi fossero uscite dal deretano e si fossero infilate in un tritacarne. Wasted, Wasted è una cazzo di fottuta figata. Ho sentimenti discordanti verso le accoppiate solo chitarra/voce e batteria. Mi sono rotto le palle di cloni che scimmiottano White Stripes o Black Keys per fare poi la fine dei Bud Spencer Blues Explotion.
Ma loro sono di un’altra pasta.
Già l’inizio di “Spontaneous Combustion”, il suo intro Hard Rock acido, il proseguimento punk garage che sembra uscito da una vecchia cassetta anni settanta, la potenza della sezione ritmica minimale e devastante, mi aprono il cervello. Il cantato di Mirko per quanto tecnicamente non sia niente di eccezionale è perfetto nel suo essere volutamente anarchico. Le note si trascinano violentate dal fragore, ricalcando la nuova ondata rumoristica alla No Age o Clockcleaner senza dimenticare le influenze del buon vecchio shoegaze britannico, specie nella fantastica “Points Of View”.  Se tutta la componente data dall’influenza dei suddetti generi è rimescolata con violenza nella prima parte dell’Ep, con “Shy, Shine”, i trentini riescono quasi a dare una struttura melodica al loro garage multicolore, partendo da un intro di scuola barrettiana per finire proprio rielaborando armonie tipiche stile The Piper At The Gates Of Dawn (il primo album proprio dei Pink Floyd) chiudendo in una valanga sonora devastante.
Con “Find A Fire That Burns” un sospetto precedente trova la sua conferma. Dentro questo Ep ci sono tanti ascolti dei grandissimi Nirvana. Più di quelli che chiunque abbia ascoltato l’Ep potesse immaginarsi. Come se quel Grunge primordiale fosse riproposto con ancor più grinta, mescolato allo Shoegaze e al Noise. Anche nella voce c’è una sorta d’involontario omaggio al modo di cantare di Kurt Cobain e all’esplosione del suo cervello.  Le sperimentazioni sonore di “Waiting, Wasting” anticipano alla perfezione LBMB che, se non convince pienamente nella parte iniziale, poi diventa un ordigno vero e proprio nel finale.  Nel complesso qualche assonanza con il Blues di White Stripes e Black Keys c’è ma non è mai egemonico rispetto al resto che è pura adrenalina!
Lunedì  10 Dicembre (forse)
Mi sveglio con un mal di testa da paura. Che cazzo. Accendo la luce e mi guardo intorno. Dove cazzo sono? Non è la mia camera, anche se la forma è la stessa. Fa un caldo infernale. Lo stereo non c’è più, non c’è il giradischi, nessun vinile, nessun libro, nessuna bandiera dei Sex Pistols, non c’è niente. Apro la porta della mia camera e mi accorgo che tutto sta bruciando. La casa è in fiamme ed io sono in trappola. Ed ho anche un cazzo di occhio nero.

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Hesitant Ballad – Seasons

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Esordio discografico per i partenopei Hesitant Ballad, band con già alle spalle un discreto successo nelle realtà web (myspace etc…) che ormai da alcuni anni stanno sostituendo, nel bene e nel male,  formati d’ascolto e modalità di usufruire del tanto amato mondo delle sette note. L’attitudine della band, che già ha all’attivo tournèe in Europa e tanto di video lancia-singolo, è perfettamente in linea con queste alternative possibilità di comunicazione raccogliendone in pieno sia i frutti positivi e, inevitabilmente, cadendo in pieno nei limiti delle produzioni create “ad hoc” con il solo scopo di ottenere il consenso e la visibilità più larghi possibili. Nonostante, come detto, si tratti di un disco d’esordio la band si è già avvalsa in fase di mastering e produzione di collaborazioni di tutto rispetto e, ad un primo ascolto, appare come l’opera di una band collaudata con alle spalle già parecchi anni di gavetta. L’effetto “presa diretta” è inevitabile e canzoni come “Once” o “Rockstar Portrait” ti entrano in testa dopo venti secondi dandoti la rassicurante sensazione di qualcosa di conosciuto (stra-conosciuto, iper-conosciuto) e precisa per finire dritta in pasto a radio, sigle video e quanto altro. “Music for the Masses” dicevano i Depeche negli anni’80. Gli Hesitant Ballad non si scostano di un millimetro da qualsiasi clichè tipico del pop rock anglosassone che da una decina d’anni ha sfornato una quantità mostruosa di video, canzoni, canzonette, album e Mp3 vari tutti somiglianti e tutti riconducibili alla stessa classic rock school che parte con i Pearl Jam e arriva fino a Creed e Him. Gli arrangiamenti sono decisamente scontati e mai lasciano il segno in termini di originalità così come i riff, ripetitivi e davvero poco intriganti. Fosse uscito nel ’92 questo disco staremmo saltando sulle sedie ballando e consacrando la band all’interno della sua era naturale. Ma, purtroppo, siamo nel 2013 quasi e brani come “Australia” hanno davvero poco da dire e suonano davvero anacronistici e fuori luogo. Insomma se l’originalità e l’eccitazione delle novità è quello che cercate…lasciate perdere quest’album, che, al contrario, si adatta perfettamente a chi adora cullarsi con quel pop rock che Mtv & Co. hanno contribuito a distribuire in lungo e in largo nella fascia adolescenziale d’ascolto. Da salvare nell’album c’è senza dubbio la voce del cantante e chitarrista Stefano Esposito che non sbaglia una nota e possiede un timbro graffiante perfetto per il genere trattato (“Seal of my soul” a nostro giudizio il brano migliore dell’album, ne è un esempio lampante). Sarebbe bello vederli dal vivo per scoprire che magari sanno esprimere meglio quell’attitudine rock che questo “Seasons” lascia solo intuire. E magari per scoprire se siano o meno in grado di partorire un impatto sonoro che non sia figlio legittimo del più scontato rock d’autore ma che magari possegga una vena creativa più autorevole e un’identità meglio definita.

 

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X-Ray Life – X-Ray Life

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Che dire, benvenuti nella alcaloide Seattle ’90 e arrondissements,  con tutto lo scoramento possibile del grunge con la G maiuscola, benvenuti tra le undici infuocate tracce che i veneziani X-Ray Life – nell’omonimo lavoro discografico – fanno girare con la concupiscenza riottosa della ribellione delle ribellioni sonore, e onestamente il sound che esala dal cerchietto di plastica è di quella evidenziata tendenza a scalmanare pogo e ricordo in una sequenza di eccellenze marcate.

Ma non solo grunge, anche sangue caldo da grandi occasioni, una necessità espressiva che va oltre lo scimmiottamento di tanti altri epigoni, un disco pieno di riffing e pelli violentate, un cantato messianico che fa riferimento agli immensi doloranti eroi come NirvanaSad”,  AINC, Eddie Vedder e Layne Staley  “Lay on you”, “Everyone is a star”, “665 Inside”, Stone Temple Pilot e altri, tracce che vivono di struggenza propria, sulfuree e nere come i peccati più inconfessabili e di conseguenza di una stratosferica carica di maledizioni elettriche che progressivamente ti entrano sottopelle e ti ungono della loro bellezza diabolica; un lavoro questo dei nostri veneziani che nonostante lo stile ultra consumato da milioni di “seguaci alternativi grungers” riesce davvero ad evolversi in un motus proprio di tutto rispetto, agitandosi in un equilibrio duro e morbido che a fine ascolto lascia contusioni dentro e fuori l’anima di chi lo ha ascoltato fino in fondo.

Dopo lo sludge di “Suzie Q”, rivisitazione dell’hit dei Creedence Clearwater Revival, il corpo d’ascolto rimane allucinato dalle impronte Iguanesche che “Coma like a dream” lascia su una Detroit immaginata, plagiato dai sintomi malati di un Mike Patton che urla roco in “Devil on heart” e divinamente impossessato dal rullo compressore col jack che “The last song” ci fa passare sopra le orecchie, lasciando come scia il laido olezzo di street rock alla G’N’R.

Dimenticate di avere molto più di vent’anni perché qui ci si (ri)avventura in territori giovanili rebel, qui non ci si fa mancare nulla, dalle giunture salde alle scoppiettanti idee allo scoperto, dai woofer epilettici alle giugulari gonfie di malessere sociale, e se cercate la dolcezza di bonarie soluzioni indie siete col culo in aria. Credetemi!

Ottimo per sfogare rabbia e saltare come tappi infiammati.

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Whiu Whiu – Whiu Whiu Ep

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L’onomatopea, loro ce l’hanno già nel nome: Whiu Whiu!! Come il fischiettio di belle canzoni sotto la doccia o alla vista di una bella ragazza. Ma i cinque cagliaritani assicurano: << il fischio si può regolare a vostro piacimento>>.
E senza porre limiti alla fantasia inizia il viaggio attraverso il loro primo Ep (in circolazione da Gennaio 2012). Un viaggio di sette brani e una ventina di minuti.
Tutto ha inizio con vari colpi di batteria (Gianni Dearca), un oh-oh che riecheggia pinkfloydiane sonorità e lick quasi cantautorali. Nella prima frase (lavoro tutto il giorno ma penso non basterà / guardo il futuro e te presente qui non ho), infatti,si scorge il pensiero e la preoccupazione giovanile della nostra epoca, del presente e del futuro precario; ma tutto viene smorzato dall’immagine di un oggettoa cui non viene data molta importanza (esco un po’/ insieme all’Abatjour), che qui è quasi utile a illuminare la via.
Sempre la batteria apre il secondo brano Per un’altra strada. Nei primi secondi la voce (Emanuele Pintus) dialoga con le chitarre (Daniele Mereu Alessandro Macis ), sempre chiare e ritmiche e un nome femminile irrompe, allo scoccare del primo minuto: Annalisa, forse la figura da cui si potrebbe cambiare percorso…
Invece, si dovrebbe imboccare un’altra via per evitare le atmosfere del terzo brano L’amo in due, fatto di sangue, uccisioni e stravolgimenti, ma anche di un bel riff batteria e basso (Massimiliano Macis), ritmo sostenuto, giochi di parole (lama=l’ama) che accumunano la musica alla poesia e un assolo finale di chitarra, molto caldo nel tocco. Che i Whiu Whiu!! abbiano una visione poco allegra dell’amore o della vita? Si scoprirà lungo il cammino, fatto apparentemente di nonsense nel quarto brano Orticaria, dove si mescolano varie immagini del nostro tempo, ospitando verso la fine il fischiettio primordiale, che ricorda il nome del gruppo.
Un ritmo cavalcante caratterizza l’Olimpiade(quinto brano dell’ep), simile quasi a una satira politica, per esorcizzare la crisi che imperversa (meglio senza leggi, senza soldi solo i Greci) e la figura del politico arraffone si presenta quasi come a voler chiudere il cerchio della verità. Un altro fischio, questa volta un po’ più malizioso, apre il penultimo brano Una e neanche una, dove protagonista è la vita, vissuta sempre al massimo ma, forse, senza tanta profondità (come puoi pensare di vivere 80-90 anni in salute/senza mai parlarmi fino in fondo) e senza troppi valori (come la chiesa non ho più valori/purificami con un occhiolino). Una vita che però ne è consapevole.
E per finire un lungo silenzio e una traccia fantasma, un lungo arpeggio di chitarra dissonante e qualche effetto psichedelico. Niente parole, niente testo, niente batteria per la fine di questo ep, attraverso le visioni del gruppo cagliaritano.
Visioni importanti con forti tinte sia politiche che sociali. Il che è apprezzabile, data la giovane età del gruppo, che non si sofferma solo a parlare dell’amore e di quanto è difficile la vita, ma va affondo, tacciando la politica e la chiesa di aver perso credibilità e valori. Sonorità e ritmi sempre veloci e ben amalgamati nell’armonizzazione degli strumenti, che però, spesso, coprono il cantato, mettendolo quasi in secondo piano.La voce che dialoga con le chitarre e che è portatrice di così importanti argomentazioni, dovrebbe emergere, scandirsi bene ed essere chiara, per far arrivare il messaggio. E non sarebbe male aggiungere nell’ep qualche ballata o qualche brano un po’ più lento, sia per diversificarne l’andamento e sia soprattutto per fare emergere le doti musicali (tocco, pulizia del suono, profondità della voce) di ogni singolo componente dei Whiu Whiu!!
Un ep pieno di buoni elementi musicali, che sviluppandosi col tempo e con la costanza ci auguriamo che possano dare ottimi frutti.

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Penti – Isdiri Misti Sini

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Spesso gli ascolti dei cd che stazionano nelle tasche dell’underground cominciano per gioco, senza uno scopo preciso; poi ci si trova a che fare nelle situazioni giuste e allora si comincia ad ascoltare sul serio, con interesse. Questo preambolo per dire che l’esordio solista “Isdiri Misti Sini” di Marco Porcelli in arte Penti (già chitarrista dei Gardenya), da a presa rapida un reale valore musicale se si cercano cose sonore “out borders”, alla larga dalla consuetudine e per infine farsi un bel trip legale alla faccia della staticità.
Tracce con una propria e originale lingua fonetica, astratta e spiritata che non fa altro che allargare l’immaginario lirico/emotivo/evocativo che l’artista Penti tratta impalpabilmente; una psichedelia caldo/fredda che si ispira ai tratteggi nordici degli The Album Leaf, Amina come alle verticalità Floydiane che una volta insieme, interagiscono per tutta la durata del disco come a delineare una aurora boreale a tempo indeterminato. Che dire, un disco di metamorfosi, grazia e una certa spiritualità ancestrale che merita incondizionatamente un ascolto profondo e deciso, e  lasciarsi galleggiare dal suo flusso fantastico e rimanerci su, come a bordo di un qualcosa che gravita leggiadro, fino al capolinea del suo percorso, del suo magnetismo soffice.
Non mancano momenti agitati se ci si avventura nelle ritmiche sincopate di “Tarm”, la titletrack, sullo spacey tarantolato Tarantiniano che sballa in “Ium”, ma poi il resto è un “dulcimer acido” di bello e senza peso che ha i suoi culmini nella melodia ancient di “Esta” in cui interviene la stupenda vocalità di Francesca Copertino, tra gli arpeggi acustici di Drakeana memoria “Blar” e nelle atmosfere Donoviane che “Across the sea” distribuisce copiosamente tra un sentimento dolciastro e lontani profumi di Vetiver; in totale sembra di essere davanti di lato e di sbieco ad un crescendo armonico soavemente vertiginoso, porto franco artistico di chi sa colpire la sensibilità e gli stati emotivi di orecchie oramai a “rota” di copia incolla sonori a catena di montaggio, e  se questo può anche significare che Penti ci abbia stupito senza ricorrere a tanti effetti speciali in più, ebbene si lo ha fatto e con strike!

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Vedova Virgo – Meccanica della Morte

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Eccoli tornare in scena i Vedova Virgo, un quintetto fiorentino che propone una sorta di Gothic con richiami alla New Wave, etichettandosi però, come una forma di Death Rock. I Vedova Virgo diedero un cenno di vita già alcuni anni fa, precisamente nel 2009, mostrandosi con un primo disco intitolato “EctrasAnemos”; adesso sono pronti a confermare la loro voglia di  suonare e di affermarsi con un disco che la dice davvero lunga, ovvero, “Meccanica della Morte”. Questo lavoro rispecchia a tutti gli effetti i canoni e  lo stile di Patrick, Furyo, Aliosha, Luca e Silvia; il tetro suono presente nel disco che ricorda un po’ i Paradise Lost, un po’ i Depeche Mode e un po’ i Christian Death (questi ultimi maggiormente), ha la capacità d’ incantarti al primo ascolto. Neanche a farlo apposta ho ascoltato per la prima volta il disco in un atmosfera degna dei migliori film di Dario Argento e John Carpenter: nel letto alle tre del mattino (dunque notte fonda) con un temporale in cui tuoni e lampi facevano da padroni.  L’ effetto è stato immediato e suggestivo, il cupo e sinistro momento ha aggiunto una sensazione in più all’ ascolto del disco. Le tracce che subito si sono fatte notare sono state: “Crisalide”, “Rosa di Sabbia” e la titletrack. L’ unica delusione è stata “Megera”, il loro primo singolo appunto. Attenzione, con questo non voglio dire che la canzone è brutta o appellativi simili solo che non è all’ altezza delle altre tracce presenti nel disco, che credetemi hanno un loro fascino. Detto questo non resta altro da fare che gustarsi “Meccanica della Morte” e riporre speranza nei Vedova Virgo.

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Talk To Me – A Long Time Waiting EP

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Album d’esordio per i Talk To Me questo A Long Time Waiting. Il duo si compone di Stefania alla voce, chitarra e synth e Andrea con chitarra, synth e drum machine. Il risultato è un suono morbido che si diffonde nell’ambiente attraverso le note sostenute del synth che fa da preludio alla voce di Stefania e a quello che ha da raccontare. I sensi si accomodano e la milza comincia a pompare bile che porta a galla ricordi e sensazioni di attimi giacciati, immersioni in un lago ghiacciato, scrivono loro, che stanno lì e non riescono a spostarsi. Quest’album è uno Spleen. Fatto di situazioni immobili, soprattutto d’amore, che girano intorno a se stesse. Ingarbugli mentali. Incomprensioni. Parole non dette. Apatia. La sensazione di essere in un vicolo cieco e volerne uscire assolutamente.

Un concept album con al centro l’amore e gli stalli che genera è qualcosa di notevole, un ottimo lavoro, una buona intesa tra i due artisti. L’intensità del timbro di voce e il synth creano il fondo necessario a questa comunicazione. Ho apprezzato molto anche i tempi dispari della drum machine in alcuni pezzi, in particolare My Wall. Nel complesso un ottimo lavoro anche se rimane, per la poca orecchiabilità, sicuramente un prodotto di nicchia che non punta ad un pubblico vasto. Ascoltando mi vengono in mente i Múm, noto gruppo islandese che esordì qualche anno fa. Tra tutte le traccie quella che più ho apprezzato per composizione e ritmo è Red Cross che inizia con questa frase, ”You don’t love yourself”. L’album vola via tutto d’un fiato senza inerruzioni di sorta. Alla fine mi sentivo immerso non nei ricordi andati ma nelle sensazioni andate. Quelle emozioni scure dell’animo dove la tua capacità di uscirne è legata all’altro e l’altro è legato a te in un intreccio inestricabile che sono le parole e le incoprensioni che generano.

Questo miscuglio di testi profondi, musica elettronica minimale e strumenti classici fanno di questo album un album che, per gli amanti del genere, va sicuramente ascoltato. Vi consiglio un’atmosfera soft e 28 min del vostro tempo e se volete iniziare subito potete ascolatre un estratto, Miles, nella home page di rockambula nella sezione ASCOLTA.

 

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I Dottori – Canzone perfetta

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La scena musicale romana è da sempre prolifica e ben connotata. Da Max Gazzè a Nicolò Fabi, passando per l’Alex Britti del blues e della chitarra sanguigna (non certo quello de La Vasca), i musicisti romani hanno sempre saputo crea una formula di cantautorato elegante e pop al tempo stesso, profondo e leggero, tecnicamente piuttosto elaborato e contemporaneamente immediato.

La  nuova generazione, quella che sta cercando, con esiti anche piuttosto felici, di uscire dalla cantina, sembra aver imparato la lezione. Mi riferisco soprattutto all’esperienza dei Cappello a Cilindro e del progetto nato dalle loro ceneri, gli Eva Mon Amour, così come alla decennale attività  dei Kardia (che la settimana scorsa hanno lanciato in rete il video della loro Settembre).
I Dottori si insinuano in questo panorama florido con il loro Canzone perfetta, album che consta di 13 tracce, tutte cantate in italiano, con influenze che vanno dal folk all’hardcore americano.
Il disco si apre con Christine, che vanta un ritornello molto potente, quasi urlato, stile primi Afterhours, a dispetto di un arrangiamento che forse è il più debole di tutto il cd. Simile, ma ancora più rock è la costruzione di Belladonna. La pastiglia ha una strofa folk sincopata e un cantato piuttosto sillabico che si lascia andare in un ritornello molto pop, col testo in rima (quelle orrende rime tronche a cui ci piega la nostra lingua italiana – “ho sempre quel problema lì/prendi una pastiglia sì”): ottimo espediente per l’orecchiabilità, un po’ meno per l’originalità. Nero gioca, quasi teatralmente, con una risata sardonica in sottofondo, che dialoga cinicamente col testo, commentandolo con forza e indicando  l’interpretazione. Il ritornello lento e lirico ricorda vagamente i Negramaro di 000577, soprattutto per la melodia vocale. I Dottori, fin da queste prime quattro tracce sono riusciti a dare uno spaccato della loro produzione: si sente l’eredità di Gaber, con tanto di ironia sociale, inserita in un contesto profondamente rock nostrano e non solo, che strizza l’occhio spesso e volentieri alla canzone popolare, con le sue sonorità acustiche e i ritmi in levare. E proprio questi ultimi sono il fondamento portante di L’artista, non troppo velata critica alla massificazione della produzione d’arte e al ruolo del musicista che si riduce a “pezzi da classifica”: il vero tema del brano, più che nel ritornello, sembra ritrovarsi in quel hi-hat aperto sui tempi pari. La title-track, La canzone perfetta, è la più cantautorale di tutto l’album e ha una costruzione più complessa di altri brani: l’andamento iniziale, da ballata folk, sporcata dalle dissonanze dei cori (molto Alice in chains), lascia spazio a distorsioni e ritmi in levare con back voices non-sense dal sapore un po’ jazz. E ancora il cantautorato, ma più pop questa volta, la fa da padrone in Fosse per me, con una salita progressiva della voce che ha un gusto molto belcantistico nazionale. L’anonimo è forse la traccia più furiosa di tutto l’album: distorta, potente, calda, con sonorità che sembrano fondere i Sonic Youth e i Faith No More. Dio c’è è un momento invece riflessivo, con le parole ammiccano a De André e Bubola (mi riferisco soprattutto alla reiterazione di “quello che”) un andamento cullante e l’orchestrazione ridotta all’osso con pochi, sporadici, interventi delle chitarre quasi pulite. I Dottori hanno saputo dare sfoggio di una professionalità veramente invidiabile, sia per quanto riguarda la composizione dei brani, sia la registrazione del cd. Non è facile fondere tante ispirazioni diverse mantenendo una certa omogeneità stilistica. Il livello artistico è sicuramente alto così come la maturità e i contenuti da comunicare (cosa non da poco), anche se manca, almeno da disco, quella verve necessaria a catturare e mantenere l’attenzione dell’ascoltatore. Non è tutto veramente già sentito, ma la band sembra camminare sempre su quel filo sottile tra banalità e personalità. Molto apprezzabile è la scelta di cantare in italiano, ad esempio, purché non emerga l’altra faccia della medaglia con certe cadute di stile italiote da canzonetta sanremese. I ragazzi dovranno fare molta attenzione a saper scegliere le loro mosse future per non cadere nell’oblio degli stilemi della già stra-sentita composizione nostrana: auguro loro di azzeccare le prossime decisioni, soprattutto quelle da prendere in sala prove.

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Mastercock – Mastercock

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I Mastercock sono un gruppo rock di Firenze che consiste in Giovanni Camerini (chitarra e voce), Nicola Bianchi (basso), Riccardo Cartei (chitarra) e Daria Cozzani (batteria)che si ispirano ai Foo Fighters e da loro hanno ripreso anima, classe, eleganza ed energia.
Arrangiamenti perfetti sin dalla opener (che porta anche il loro nome) con riff incalzanti e accattivanti sin dalla prima nota sono il tratto distintivo della band.
“13 Tir” invece inizia con una batteria che sembra ricorda la “We’re not gonna take it” dei Twisted Sister che divento nella prima metà degli anni ottanta un inno generazionale per tutti i metallari dell’epoca.
“Bunga bunga (rock ‘n roll)” ovviamente invece prende il titolo dall’episodio / scandalo che coinvolse il nostro premier e tanti altri e pare esser uscito direttamente dai Vibrators.
Anche “Arlecchino” sembra avere qualcosa di già sentito (soprattutto nella parte iniziale) e forse qui ci sarebbe stato da apportare alcune piccole modifiche nei passaggi e nella qualità della registrazione (la voce è troppo sommersa dalle chitarre).
“Non è un paese per vecchi” è una canzone di polemica dal testo coraggioso ed è l’atto migliore di questo album che se fosse pubblicato negli Usa avrebbe un sicuro successo planetario, credetemi!
“Flash! Bang” è una “Fly away” (Lenny Kravitz” più accelerata e metallara dai tempi alternati che si contrappone nettamente alla successiva “Quore di bullo” (sì il titolo si scrive proprio così, non è un mio errore!).
“Le tue labbra” fa presagire che la fine sta per arrivare (rimangono solo due canzoni) e qui è la batteria a far da padrona comandando egregiamente i ritmi e dettando legge agli altri strumenti.
“Arido deserto” più che i Foo Fighters fa tornare alla mente i migliori Alice in Chains (quelli del mai dimenticato Layne Stanley) e se si chiudessero gli occhi sarebbe facile pensare di stare ascoltando una band di Seattle.
“La terra degli dei” conclude questo lavoro affascinante che pur essendo autoprodotti ha davvero pochissimi difetti e tantissimi pregi.
Insomma questi Mastercock sono un gruppo da tenere d’occhio nel futuro e,perché no, anche nel presente che appare roseo.

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Leaves & Stone – The Dancer

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Il progetto di Giacomo Manfredi denominato Leaves  & Stone (letteralmente Foglie e Pietra), nato nel 2011, parte dall’idea di fare musica essenzialmente per emozionare, in maniera languida e sentimentale, senza esasperazioni, esagerazioni o voglia di stupire. Si parte, a detta dell’autore, da influenze che vanno dai Coldplay ai Sigur Ros, passando per The Cinematic Orchestra fino a Damien Rice. A essere sinceri, delle atmosfere gelide e sognanti, dei muri di chitarra Post Rock e del cantato incantevole degli islandesi non c’è quasi traccia. Qualche similitudine con la banda Bassotti altrimenti detta Coldplay ci sarebbe anche. Solo che gli inglesi, a differenza del nostro compatriota Leaves & Stones, riescono ogni tanto a indovinare qualche melodia orecchiabile (per ora lasciamo perdere il fatto che, di solito, tali melodie, Chris Martin e soci le copiano spudoratamente da altri. Sapete la storia di “Speed Of Sound”, di “Computer Love” e del fatto che i Kraftwerk dovettero essere aggiunti  tra gli autori? Andate ad ascoltare, è da ridere). Anche il paragone con il Nu Jazz e Downtempo dei The Cinematic Orchestra non è facile da reggere mentre forse la maggiore vicinanza è proprio con l’irlandese Damien Rice, il quale però punta su elementi Folk qui totalmente assenti.
Non basta a Giacomo il circondarsi di validi elementi, come Enzo Fornione a piano e chitarra, Andrea Scano a chitarra e basso, Marco Ricotti alla batteria, Daniele Valentini a chitarra ed electronic set ed Elena Bonanata e Deborah De Pasquale alla voce. E non sappiamo quanto gli apporti di Ruggero Frasson al piano e Emanuele Fiammetti al violoncello possano bastare nelle esibizioni live. Bastare a cosa, vi chiederete.
Io parto sempre dal presupposto che, il primo elemento critico da prendere in considerazione per valutare l’opera di un artista, sia il capire quello che è l’obiettivo e individuare quanto vicino a quell’obiettivo si sia andati. Nel nostro caso, è evidente che la scelta sia quella di colpire al cuore, commuovere, appassionare, far piangere l’anima. Per farlo si punta essenzialmente su due elementi, piano e voce, lasciando al resto solo sprazzi inutili (le chitarre convincono solo in “Summer Sky”, il cui intro è l’unico momento che può far tornare alla mente la band di Jonsi). Puntare su piano e voce non è scelta facile. Ancor più quando il primo è suonato in maniera tanto semplice ed elementare. Tutto il compito finisce per appesantirsi sulla voce, sia di Giacomo Manfredi che delle due donne che lo accompagnano in “Untitled”. L’unica via d’uscita per salvarsi dalla catastrofe sarebbe il possesso di due corde vocali con le palle quadrate. Non è il nostro caso. La voce non regge il peso, non presenta capacità straordinarie, non è abbastanza profonda ne espone ampiezza buckleyana. Non ha un timbro memorabile, non ha lacuna particolarità che possa tirarla fuori dal calderone del “già sentito”. Non c’è nulla che possa  distinguere Leaves & Stone da tutto il resto. Semplicemente una voce discreta e poco altro. Non ho mai dato troppo peso a gente come Elton John o Tori Amos e questo The Dancer espone in modo preoccupante la stessa attitudine, la stessa impostazione, lo stesso stile, pur se in maniera meno pregiata. Non è il classico disco brutto, fatto male, mal registrato, con parole senza senso, stonature, melodie inascoltabili, scopiazzature senza vergogna. Non lo è. Eppure non mi piace perché non riesce ad accompagnare la mia mente e tenerla per mano attraverso la nostalgia dei miei ricordi. Sul mio volto, non c’è nessun “malinconico sorriso”. Provate voi e mandatemi una foto.

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