Inizialmente Mia Wallace sono: Alessandra Annibali (voce e chitarra), Valentina Carta (chitarra) e Micol Del Pozzo (basso). Con l’arrivo del nuovo batterista Pasquale Montesano nel Novembre 2012 la band pubblica il primo disco completamente autoprodotto VA MEGLIO.
Non è il primo lavoro in studio della band attiva dal 2005 con alle spalle tanti concorsi ed un ep. Si sente subito che il gruppo è navigato. Anche se il batterista è carne fresca il sound del disco risulta compatto e potente. Otto tracce originali più una rivisitazione di JUST CAN’T GET YOU OUT OF MY HEAD di Kylie Minogue_con citazioni ai Black Sabbath.
Lo stampo generale è quello dell’indie rock statunitense. Non hanno perso l’anima punk che si sentiva nel loro primo ep: SIX SHOOTER ad esempio ha forti influenze grunge.
PUSSYCAT ha sapore orientale: alternano sonorità psichedeliche ad un ritornello pop. Il brano che forse spicca di più nel disco non a caso è quello che da nome all’album. VA MEGLIO raccoglie in se tutte le caratteristiche del progetto.
Fortunatamente le influenze statunitensi non han traviato la band che sceglie di cantare da sempre in italiano. Una potente voce femminile che racconta situazioni e sensazioni in prima persona e senza troppi giri di parole.
Nel complesso però il disco risulta monotono. Prese singolarmente le canzoni sono interessanti ma mettendo tutto insieme rischia di annoiare. Tanti elementi tornano a riproporsi: gli intro sincopati, un martellante basso distorto e le linee melodiche della voce spesso risultano ridondanti.
Vagando sul tubo ho visto che la band si difende molto bene anche sul palco. In live viene fuori anche meglio l’anima rock di Mia Wallace.
Non resta che andarle a vedere.
Recensioni
Mia Wallace – Va Meglio
Naked Truth – Ouroboros
Da migliaia di chilometri più in alto della sfera musicale che strombazza elettrificate ossessioni d’infinito e replicanti in fondo a sé stesse e che di solito maneggiamo spesso con reticenza o passionalità accesa, arriva l’intensità e l’estetica immateriale e onirica dei Naked Truth del sessionmen Lorenzo Feliciati (qui per la seconda opera “Ouroboros”) in formazione riformulata che vede Past Mastellotto batteria, Roy Powell tastiere e Graham Haynes che prende il posto vacante di Cuong Vu alle pelli, e quello che ci aspetta all’orecchio non è un disco di suoni o effetti, ma uno stato mentale e un trip neuronale senza limiti, nessun attracco alla gravità terrestre.
Una specie di epifania cosmica che vede il fiato rappreso di Miles Davis impresso ovunque “Garden ghost”, “Orange”, un livello qualitativo che si fa antologia alternativa per un ascolto lussuoso e prelibato: fluidità, espressioni umide e una suggestiva ampietà di fiati che tracciano percorsi, piroette e tatticismi intersecati da trasformarsi nelle visioni Newyorkesi – o meglio – di Manhattan dell’ensamble degli Animation di Bob Belden o – per stendere l’ascolto ancor più in la – nelle sensazioni epidermiche di un progressive Crimsoniano “Dancing with the demons of reality”, passando poi sulla sequenza di incursioni, scatti, raid funkeggianti di un basso che singulta anima nera “Right of nightly passage”, “Yang Ming has passed” disegnando una panoramica fitta di intricati passaggi tecnici e liberatori che del free-jazz succhiano midollo e libertà espressiva di gamma.
In questa musica spalmata su quarantanove minuti di maschere timbriche, le vibrazioni emotive e il susseguirsi instancabile di onde in equilibrio su di una stasi contemplativa prendono movimento insieme a fiati incontrollabili, tastiere sistematiche ed effettate, florilegi di inquietudini e stati di agitazione “In dead end with Joe” fino ad arrivare al capolinea di un journey sonoro in 3D che in “Neither I” – autentica simbologia di creatività manipolata – ti spiazza talmente che il delicato equilibrio tra ascolto ed elaborazione di esso va letteralmente il tilt per lasciarti a piedi tra percussioni ossessive, armonici stridenti e tasti di piano degni di un delirio Kafkiano.
Senza il minimo dubbio ancora un bel lavoro per i Naked Truth, e senza nemmeno il minimo, ancora un bel viaggio per noi.
Kitsch – All You Can Eat
Prendiamo subito atto di quanto stiano bene insieme musica & cartoon, un modo tutt’altro che scontato per rendere ulteriormente fruibile la musica e le sensazioni visive, un tutt’uno vivace, dolce e a suo modo poetico di estrapolare tutti quei qualcosa che vanno a colorare d’ottimismo una buona parte dell’esistenza.
Tutto questo per presentare “All You Can Eat”, secondo lavoro dei comaschi Kitsch, un cinque tracce abbinato ad un Comic Book che ne “disegna” le tracce e le “arie” come un sottotitolato fumettato che da fisicità e forme ai suoni, ed è subito una cosa vincente che non fa altro che aumentare le buone aspettative alle quali questa band – ricordando già l’ottimale avvio artistico di Mentre Tutto Collassa dell’anno scorso – ci sta abituando velocemente; cinque tracce che prendono una strada leggermente più “hard” degli esordi, mentre la “lingua contro” seguita a colpire tutto e tutti, la società e tutte le maialate di contorno, una scaletta che si fa sentire, graffiante nell’elettricità, immediata nelle percussioni e sudaticcia nel move-it forsennato, tutte credenziali in accumulo che esplodono una volta inserito il disco tra lo stereo e la voglia di sound.
Indie rock di pregio questo dei nostri comaschi, un bordello organizzato di armonie e sbalzi umorali che arrivano per restare a lungo negli orecchi, robuste strutture e soluzioni amplificate che – a differenza di tanti altri – non scomodano quasi nessuno dei piani alti dell’ispirazione, forse il misto Negrita/Afterhours che tinteggia la bella chiusura di “Melma”, ma il resto è pura energia autoctona, bollente “Social network”, “Mondo indie”, come lo shuffle pedalato di “Zero sbatti” e lo stupendo episodio sincopato che mette tutti sull’attenti “Denise”, olimpo di pogo per anime scavezzacollo.
Un ritorno questo dei Kitsch a spalle larghe e con la temperatura più che giusta per “lessare” tante banderuole che agitano il niente ed il nulla. Dalla zona di Como in arrivo una turbolenza di tutto rispetto, prendere le dovute precauzioni grazie.
Bloody Hammers | Bloody Hammers
Eccolo il disco che mi ha fatto rabbrividire, l’ omonimo dei Bloody Hammers, un eccezionale gruppo del Nord Caroline scoperto dall’ attenta Soulseller Records, dedito allo Sludge e allo Stoner con sfumature Doom. Esce spontaneo dirlo: chi poteva tenere con se una band del genere se non la label citata prima? I Bloody Hammers esordiscono con questo cupo e psichedelico disco che già dall’ artwork fa il suo fottuto effetto. Le tematiche sono sinistre, inquietanti, si fa riferimento all’ occultismo dunque a streghe, magia nera e oscurità, un classico del genere insomma, ma lasciatevelo dire, il disco musicalmente ha i suoi perché. Al sottoscritto è piaciuto al primo ascolto già dalla prima traccia, “Witch Of Endor”, i riff e i giri di chitarra sono strepitosi e comunque si tratta di un lavoro dinamico in cui ogni traccia ha qualcosa d’ interessante da mostrare come la successiva “Fear No Evil”, che intona una melodia capace di farti scuotere. Oppure c’è “Say Goodbye To The Sun”, dai tetri ma nel frattempo graffianti giri di chitarra; invece gli amanti del Doom apprezzeranno con disinvoltura la successiva “The Witching Hour”, questa song farà eccitare pilastri come i Candlemass e i Doomraiser. “Bloody Hammers” è un lavoro eccezionale, la Soulseller Records ancora una volta ci ha visto giusto e sono convinto che i Bloody Hammers sono un grandissimo investimento. Ascoltateli e mi darete ragione.
Black Flowers Cafè – Black Flowers Cafè Ep
La musica è espressione di emozioni attraverso testi e melodia. Almeno per me.A volte complicate, a volte più semplici. C’è tutto dentro! Vita di strada, vissuta, libri, desideri, persone, gesti, droghe, alcool, sesso, odio, amore e tutto quello che ci fa drizzar la pelle e salire il sangue.
Perché questo stupido preambolo?! Perché avrei dovuto scrivere roba del genere?! Ovviamnte la risposta è semplice. Perché i Black Flowers Cafè mi incuriosiscono! Si presentano così,leggete cosa scrivono di loro: “l’album racchiude, nello spazio di nove pezzi, quello che è un ideale viaggio immaginario, che parte dalla base missilistica di Baykonur, trampolino di lancio di quelle che erano le operazioni spazialisovietiche, per arrivare fino alla lucentezza astrale di Vega.”
Capisco che dalla base missilistica di Baykonur fu lanciato, per la prima volta nella storia, un uomo,Yuri Gagarin che fu anche il primo dei russi impiegato in una missione spaziale a tornare vivo. Grande risultato per quei tempi. E che Vega sia una delle stelle più brillanti e riferimento per i viaggiatori spaziali. Aaa sono la prima e l’ultima traccia!!! Ok, allora prendo posizione e allaccio le cinture, meglio iniziare il viaggio, che più che immaginariosembra più un viaggio intergalattico. Un viaggio stellare visto che i nomi delle tracce, fatta eccezione per la prima, sono tutti nomi di stelle.
Inizio l’ascolto, prima traccia Baykonour, sul fondo uno speaker che annuncia il lancio di un missile e il basso che attacca e mi chiedo: chi cazzo sono questi Black Flowers Café?! Intanto la chitarra con un arpeggio incalza il synth creando un’atmosfera che più che ad un lancio da l’idea di un viaggio senza una meta precisa con lente progressioni che stentano a partire. Infatti non partono e attacca con grinta la seconda traccia Ophir Chasma.Si susseguono così, una dopo l’altra, le tracce di questo EP, con alti e bassi, un lavoro curato nei particolari con animo. Un album che scorre e ti ingabbia. Un viaggio scusate. Niente di troppo sperimentale, tutto perimetrato con cura a sonorità di questo millennioe ritmiche da missione spaziale. Ehehe. In certi pezzi nel modo in cui cantano e attaccano sento un proselito a Thom Yorke dei Radiohead. E’ un album ben fatto. Ogni pezzo è un passaggio, un passaggio del viaggio. Anche se qualche arpeggio a volte mi ha lasciato un po’ deluso. Ora sono curioso di vederli dal vivo, se capitano qui a Roma. Grazie del viaggio ragazzi!!!
Caffiero – Moscagrande
Ho un rapporto controverso con l’elettronica. Tutta quella cassa ribattuta, i riferimenti alla dance, quei suoni liquidi ed eterei, quelle tastiere che girala come vuoi ma un po’ fanno sempre tanto maledettissimi anni ’80, quelle parole praticamente sempre inesistenti… Paradossalmente mi piacciono più certe sperimentazioni cacofoniche seriamente insentibili alla Stockhausen.
Almeno la piacevolezza si perde sì, ma prostituita alla nobile causa della ricerca.
Se mi chiedete di andare a un evento dedicato all’elettronica, storco il naso.
Se mi chiedete cosa ne penso, mi travesto da snob e sostengo che non sia veramente musica.
Sono una di quelle insomma, che non maschera una certa disapprovazione retrograda, come se ci fosse qualche differenza, poi, lo riconosco, tra girare delle manopole e mettere in vibrazione delle corde. L’altra grande verità su me e l’elettronica è che nel 90% dei casi non mi trasmette nulla, neanche sul piano corporeo. Non mi emoziona, non mi commuove, non mi fa incazzare -se non consideriamo incazzatura l’istantaneo “Ma dove diamine sono gli strumenti veri?”- non mi fa pensare, non mi rilassa, non mi accende. È un mio grande limite.
Quindi è da snob consapevolmente limitata che mi sono avvicinata ai Caffiero e al loro Moscagrande. Una sfida per me e per loro.
Tre ragazzi di Fano (basso, synth e batteria – serve altro, in fondo, per fare dell’elettronica?), 10 tracce autoprodotte e un cd edito con gusto, con una copertina essenziale e tutte le informazioni necessarie sul retro – e sembra cosa da poco, invece è pregevole sapere essere efficaci e sintetici.
Le prime tre canzoni sono esattamente come pensavo: A Damn fine cupe of coffee, per esempio, è un tappetone ritmico insistente, ossessivo e compulsivo, con sopra tanto noise cupo, dal sapore decisamente Eighties. Chinaboy ha i presupposti per essere un pezzo un po’ più distante dagli stilemi del genere, ha un sapore più acid-rock, su cui si muove una voce profonda, ma viene trascinato dall’ossessività ritmica nella banalità. Violence in the kitchen però, mi prende con grande stupore. È energica, stranamente calda e in grado di trasmettere tanta passione. La voce declamata ricorda certe canzoni di indignazione e protesta e un momentaneo sapore italiano un po’ alla Teatro degli orrori (non c’entrano nulla, lo so, ma vi assicuro, il timbro è quello!) e il brano aqcuista subito un tono serio e impegnato.
Da qui ascolto tutto l’album con una curiosità e un’attenzione insospettabili.
Questi tre sono bravi e spezzano per il resto del disco le mie convinzioni classiste sui generi musicali. Sanno il fatto loro sulla scelta della strumentazione, La tecnica è ineccepibile, il gusto no. Sono solo in tre ma riescono a costruire un buon muro sonoro, ma spesso le canzoni mancano di un tiro costante e sono tanti i momenti in cui sembrano proprio mancare le idee. Spesso i Caffiero danno l’impressione di sparare le cartucce migliori all’inizio del pezzo e manca una dinamica crescente nella costruzione del brano: tutto viene detto in pochi secondi, il resto è solo una ripetizione. Sicuramente il potenziale della band è nel live e non certo nell’ascolto da cd, ma il trio, stando a quanto viene fuori da Moscagrande, deve ancora capire bene come investire la più che buona competenza tecnica che ha, ricercare un’estetica più omogenea e personale, riuscire a trovare una soluzione nella stesura del brano che, pur sposando la ripetizione danzereccia, non cada (e scada) nella noia.
Luigi Tuttobene – Dramas & Knees
Luigi Tuttobene era il cantante di un gruppo noise/post-rock Pierrot Le Fou che ora si cimenta in questa prova solista, “Dramas & Knees”, tanto breve quanto intenso nella sua natura. Sempre in bilico fra il folk rock del compianto Nick Drake (che delle accordature aperte fece il suo manifesto) e il post rock dei più recenti e psichedelici Sigur Ros questo disco non manca certo di originalità. “Cantautore anomalo” dalle atmosfere che a volte traggono molto dal nostrano Francesco De Gregori e dagli statunitensi Alice in Chains (però quelli più acustici e malinconici di “Jar of flies”), questo ragazzo ha anche qualità vocali spiccateper il suo tono che lo caratterizza in ogni singola parola pronunciata. In questo ep di cui cura anche testi e musiche prodotto da Marco Palmizio e registrato nei Delirium Absinthe Studios Luigi riesce a tirare fuori sempre il meglio di sé. Già nella iniziale “My soul” riecheggia quel Damien Rice che tutti quanti col tempo abbiamo imparato ad apprezzare. Nella successiva “Your wet eyes” poi i riferimenti al cantautore irlandese originario di Celbridge sono ancora più evidenti. “These strange times” invece sembra uscita dalla penna e dal genio di Chris Martin, istrionico cantante dei Coldplay, che con l’ultimo disco Mylo Xyloto hanno stupito il mondo intero. Si vede che adora le canzoni con una serie di accordi, decine di variazioni e linee vocali sempre varie (senza mai esagerare però). In “Angel follow me” invece c’è la presenza costante dello spirito del già citato Nick Drake e di Bert Jansch che dal paradiso dei chitarristi benedicono questo artista. La successiva “Some might say” (da non confondersi con l’omonimo capolavoro degli ormai disciolti Oasis dei fratelli Gallagher) chiude con grande classe ed eleganza questo ep dai ritmi alternati e dai cambi frenetici di accordi di chitarra.
Niente male, davvero!
Milkshake 103 – What Comes Next
“Che bravi.”
Anonimo emo
“Se loro sono punk, io sono jazz.”
Anonimo punk
“Ma che ooooooooooooooh!”
Germano Mosconi
“Vero old school punk.”
Poser
(cit. Nonciclopedia sui Blink 182)
L’unica cosa ben fatta di questo What Comes Next dei cinque di Pontevico (settemila abitanti, nei pressi di Brescia) è la scelta dell’artwork che punta sulle multicolori pinzette per i vestiti da stendere al sole. Mette allegria, non c’è dubbio. Potrei troncare qui, penso di essere stato chiaro su quanto abbia apprezzato il loro lavoro. Qualche altra frase posso dirvela però.
La storia dei Milkshake 103 incomincia nel 2001, proprio nel paesino lombardo dove, il tredici gennaio dello stesso anno, fu smascherato il primo caso di encefalopatia spongiforme bovina sull’animale numero 103. Dalla “mucca pazza” alla scelta “originale” del nome il passo è brevissimo. Oltretutto l’opzione di termine english e numero diventa anche il pretesto per prendere spudoratamente spunto da una band di coglioni che fa finta di essere punk, distruggendo ormai da anni, anche all’inferno (terreno e non), la vita di Joey Ramone, Sid Vicious e Joe Strummer. Mi fa schifo anche nominarveli, ma devo. Blink 182. Se i Green Day sono la colica renale del Punk, i Blink sono Aids. Ovviamente, facendo musica Pop e spacciandosi per alternativi, molti giovani ci cascano (spesso sono gli stessi che poi vanno al concerto di Cesare Cremonini) ed è anche il caso dei nostri Milkshake 103. Almeno dovrebbe esserlo. Perché c’è anche peggio dell’Aids.
Undici anni dopo quel fatidico giorno, Andrea Pirazzoli (voce, chitarra), Luca Gennari (voce, synth), Angelo Nava (basso) Mirco Posenato (chitarra) e Davide Gennari (batteria) scelgono di estremizzare e mettere in luce, invece che sottintendere, come nel caso dei sopracitati, l’animo Pop di band di questo tipo. Scelgono ritmi e armonie semplici, il meno possibile disturbanti, si fanno la fotina da nerd un po’ Weezer (Buddy Holly) e cercano di accaparrarsi quel pubblico di adolescenti che si rispecchiano negli sfigati alla riscossa tipici dei college movie estivi statunitensi (avete presente quei film, dove c’è il perdente intelligente innamorato della ragazza pon pon, fidanzata col quarterback, che alla fine diventa una storia d’amore?).
Già dal primo giro di basso e chitarra di “Without Your Smile” l’influenza degli innominabili è palese e si sente anche una certa vena Flower Punk, ormai ricordo di tanti anni fa. La melodia è discreta, niente di eccezionale ma almeno non è cacofonica o, al contrario, melensa e quindi disturbante. Con “Our Simple Life” entra risolutamente in scena il synth, nel tentativo di attualizzare un sound che davvero non ha più niente da dire. Il suono non ci guadagna granché e soffre anche per la scarsa vene inventiva dei componenti e per la voce, a tratti strozzata e sofferente. Il terzo brano “Epicuro Dice” è il primo della coppia cantata in italiano. Ancora una volta il synth prova a dare corpo alla musica ma la melodia è assolutamente antipatica. La lingua tricolore diventa un’arma a doppio taglio che si rivolge contro gli stessi. Oltre a suonare male nell’insieme con la parte strumentale, parla anche come un inutile testo da bimbominkia.
La situazione è critica.
“My Music” cerca di dare una sferzata Indie Pop-Rock al disco ma ogni tentativo di variazione sul tema è comunque un superfluo ripetersi, l’inutile sforzo vitale di un’animale morente. Anche nella parte introduttiva di “Maybe Will Be Yes” lo impegno è volto a distaccarsi dal finto punk di cui sopra, o quantomeno di non somigliargli troppo. Finisce invece per strimpellare come un pezzo brutto e lento dei Meganoidi (dopo i trenta secondi) ma già dieci attimi dopo, soprattutto col cambio di tonalità vocale, si torna a scimmiottare Mark Hoppus e soci. “Trattenere Il Fiato” è, ovviamente, l’altro, inutile, brano in lingua madre mentre “Goodbye”, per un attimo, ci illude che il quintetto lombardo abbia deciso di mettersi a suonare sul serio. Mera utopia. L’album si chiude con “Still Again”, traducete il titolo e pregate per un no.
È finita. Rilassatevi.
Ripeto un concetto.
Già copiare una band come i Blink UaneitiTU! significa farsi del male e volere male a un genere che io invece amo e desidererei fosse maggiormente rispettato. Riuscire anche a fare peggio di loro non era facile, specie quando si parla di giovani ovviamente vogliosi di suonare ed esprimersi.
I Milkshake 103 invece riescono non solo a copiare e imitare il loro agnello d’oro. Riescono a fare musica in maniera scialba, mettendoci ancora meno carica. Riescono a eseguire i loro pezzi come un insieme di strumenti e non come una sola anima. Riescono a essere ripetitivi anche in relazione a loro stessi, tant’è che in alcuni brani paiono auto plagiarsi. E riescono anche a non trovare alcuna melodia orecchiabile e accattivante che possa infilarsi nella mente dei ragazzini, cosa che invece ai Blink è riuscita bene, in più di una circostanza. Mi dispiace essere duro, ma questa cosa non mi piace e credo che possa deliziare veramente pochi. Già ci stanno sulle palle i Blink, ci mancavano i cloni sintetici.
Saturn And Melancholy – Sum Over Histories
Con le radici ben salde – diciamo saldate – in quella che si suole dire post-wave, i veneti Saturn And Melancholy approdano e debuttano all’orecchio con “Sum over histories”, un Ep quattro tracce che spende la sua forza sonica nel fulcro del buio sofferto, tormentato, in balia di un agrodolce amaro che scivola nella centralità di spirito come un’anima in pena in un sogno interrotto, tracce che lentamente si trasformano in un impulso emotivo che pare generato – e lo è in fondo – dalle suggestioni di marca Muse e il pathos combattuto di Buckley “Invisible”, di quella propensione al drammatico che piacciono come possono disturbare, ma che alla resa dei conti prevalgono nell’interesse e nella visionarietà delle sfumature del nero.
Il trio dei SAM ha una forte familiarità per la melodica depressa, per la caratteristica funzionale degli anni Ottanta tesa a non far vedere mai un sorriso ma solamente tutta l’inquietudine interiore, malata, incompresa, disillusa e desertica nel futuro, quei tocchi all’ingiù e poeticamente imbronciati che dopo vari giri di lettore cominciano a piacere e a far parte della tua giornata e del tuo pensiero momentaneo; ascoltare questi pezzi è come leggere una lettera di simboli e parole, ci si smarrisce nella perdizione elettrica e distonica “Sum over histories”, si muore e rinasce tra le volte ondifraghe che agitano sommessamente “The wild” come ci si trova sbattuti ed incantati al centro di un orgoglio romanzato, epico, ai margini di un bagliore crepuscolare che fa trait d’union con l’infinito, con l’esistenziale fuzzato “Howl”.
Nino Angelillis voce/chitarra, Sandro Moro chitarra e Francesco Moro alla batteria e percussioni sono arrivati al primo passo ufficiale per la loro intenzione di musica, sono solo quattro tracce ma che sanno precisamente cosa dire e cosa dare all’ascolto notturno di un retrofuturismo già in odore di un qualcosa di più grande.
I Morgana – Ancora Qua
Ecco “Ancora Qua” il primo EP dei Morgana, una band proveniente da Monte di Procida in provincia di Napoli e dedita ad un Rock che trova forti influenze in Bob Dylan, Bruce Springsteen, gli Oautlaws e i Lynyrd Skynyrd. I membri principali del gruppo sono effettivamente Luca Lubrano e Nunzio Ambrosino, entrambi con alle spalle una certa esperienza. “Ancora Qua” abbiamo accennato che è la loro prima fatica, il mini disco, forte di arpeggi, riff e melodie ha la capacità di coinvolgere l’ ascoltatore, ciò dovuto anche ai testi che fanno riferimento all’ attuale società nostrana. Anche se l’ EP contiene soltanto quattro tracce, non molte quindi, queste sono sufficienti per trarre conclusioni positive verso la band, d’altronde comunque, quando la voglia di suonare, di fare buona musica e mettere insieme in maniera democratica diverse idee, il tutto sempre condito con la sofferenza della gavetta, il risultato non può che essere gratificante. Le tracce che più si mettono in mostra sono sicuramente “Amico Mio Cubano” e “Paghiamo Noi”, i riff e i giri di chitarra di queste due canzoni sono da prestare un’ attenzione di quelle inimmaginabili. Alla fine questo primo EP dei Morgana è un ottima partenza, spero e mi auguro per la band che continuino con questo passo, perché credetemi hanno stoffa da vendere.
Underdog – Keep Calm
Miglior band emergente in circolazione in Italia: atto secondo. Fine della recensione. Qualsiasi chiacchiera fatta riguardo a musica meglio definibile come “seria” è solo superficiale retorica o insignificante parere personale…ballare di architettura come direbbe quel tale. La prassi impone altro però. Andrebbero sviscerate e raccontate le note e le sensazioni percorse lungo queste nuove dodici tracce che gli Underdog hanno partorito tre anni dopo l’album di debutto “Keine Psichotherapie“. E’ da lì che il gruppo riparte. Le idee sono le stesse, molteplici e originali. Perchè quando la creatività è a mille e quando le doti tecniche sono 4 o forse 5 o magari 6 piani al di sopra della media, non esistono schemi preconcetti o peggio ancora generi a cui attenersi. Esiste solo la musica e la voglia di suonare. Ed è rinchiusi in sala prova per parecchi mesi che gli Underdog hanno sfogato la loro voglia di riassumere e fagocitare tutto ciò che ha pervaso i loro ascolti e le loro ambizioni. Ne esce un caos organizzato di strumenti che si inseguono in continuazione, mille stili amalgamati per creare un suono lontano anni luce da tutto quanto mainstream sia circolato in Italia e distante, parecchio distante, anche dalle varie forme di cantautorato o pseudo-alternative in voga nel nostro territorio. Come Les Claypool totalmente ispirato dai Residents creò qualcosa totalmente distante da loro, così Diego Pandiscia ed il suo ensemble, ispirato dal genio bassista di Richmond, crea una mescola che mantiene la forma e la struttura dei Primus e se ne allontana nei contenuti arricchendoli a piacimento in un non sense logico che attinge ora al jazz, ora alla folkloristica, ora ai maestri Waits e Zorn. Il tutto spazia a destra e sinistra ed è reso significante e coeso dalla voce a tratti stucchevole di Barbara “Basia” Wisniewska, talento di dimensioni clamorose, in grado di indirizzare e “piegare” gli strumenti verso atmosfere straniate e accenti inusitati.
Commentare le dodici tracce, ripeto, insisto, è pura idiozia al cospetto di un album e di un gruppo che semplicemente fa quello che vuole e come lo vuole svincolandosi da qualsiasi idea standard di forma canzone. Unica menzione forse la merita il balzo dalla sedia e relativo sguardo sconvolto verso le casse fatti all’ascolto delle due cover presenti: Berlin e…Un Cuore Matto. Il rischio di sfociare nel kitsch piuttosto che in un’opera poliedrica sarebbe alto, altissimo per chiunque, ma ascoltate la versione del classicone del Piccolo Toni rifatta dagli Underdog e magari vi convincerete che i modi di essere di un contenuto musicale possono davvero essere infiniti quando chi vi strimpella uno strumento davanti conosce alla perfezione e ama sinceramente la propria arte.
Sangue di Rapa – Sangue di Rapa
Da bravo brianzolo a volte mi dimentico che l’Italia è uno stivalone bello grosso. La musica non inizia e manco finisce a Milano.
Sarà che dopo l’effetto Ministri tutte le band del Nord si son convinte che il rock ministrico sia l’unico degno di esser suonato e tutti i gruppi emergenti suonano un po’ troppo uguali. E infatti il sound dei Sangue di Rapa arriva da Firenze.
Il trio è composto da Mattia Biagiotti (voce, chitarra), Giordano Faltoni (basso, cori) e Riccardo Pinchu Melani (batteria, cori). Finalmente un bel disco variopinto, pieno di influenze diverse, dove ogni traccia è da scoprire. Fa partire il disco e lo senti subito che il progetto è di qualità. Ottima registrazione, i ragazzi san suonare i loro strumenti, gli arrangiamenti sono accattivanti e in più cantano in italiano.
La fretta è un brano incalzante dominato dal riff di chitarra country-blues, nelle righe dei Bud Spencer Blues Explosion, che fa da sottofondo alla storia di un abbiocco post cena seguito dall’ansia della fuga da un ipotetico ambiente familiare. Poche parole ma efficaci. Lo scenario è chiaro (e condivisibile da chiunque) già al primo ascolto.
L’Uomo Arancia! con sonorità che rimandano all’indie in stile The Hives. Chiave centrale del testo è il mantra “seguo la curva di lettura” in risposta ai consigli per gli acquisti gridati dal metaforico Uomo Arancia. Un ironico scenario della tristezza del mondo del marketing.
A Caccia conferma la mutevolezza stilistica del cd. Musicalmente si tranquillizzano sebbene la voce racconti una storia di totale tensione cantando delle dinamiche tra vincitori e vinti.
Il giorno dell’audizione: alternative in stile primi Ministri. Tratta il tema tanto caro (purtroppo) a tanti gruppi emergenti di questi tempi che si ritrovano ad ammirare un sotto-palco vuoto. Naturalmente anche qui la situazione è paradossale: ascoltare per credere.
Il Naufragio è un altro bel lento. Questa volta sotto ai riflettori l’ultima sera di una coppia prima di separarsi.
Ultima ma non ultima La Morte del Re. Si chiude il circolo della track list, ritorna lo stile blueseggiante del primo brano alternandosi a schitarrate hard rock (rimandano a qualcosa dei Wolfmother). Il tema si spiega dal titolo.
Un disco che ha tutte le carte in regola per avere un futuro. Suona da dio, scorrevole, trascinante, con tematiche mai banali raccontate da testi aspri, ironici e sferzanti. Vista la scena alternativa italiana odierna assolutamente originali e meritevoli di essere ascoltati.
Speriamo che il giorno dell’audizione non arrivi mai per i Sangue di Rapa