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Plan De Fuga – Love ° PDF

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La prima vibrazione che ci regala “Love°Pdf”, il nuovo disco dei bresciani Plan De Fuga, è la certezza – allegata ad una conferma – di quanto su per giu sapevamo da tempo se non addirittura da sempre, vale a dire che il punto centrale della poetica della band è quell’agrodolce malinconico e melodico che non lascia scampo e che da una lezione sonora a tanti simulacri e “succedanei” dell’emergenza sonora; lo si avverte nitidamente in questo disco, c’è tutta la sensualità di una crescita ed una cura che delinea subito un’atmosfera canagliescamente avvolgente e che è sintomo di un mondo sonoro che riparte, che rimette in moto quella perfezione attitudinale del rock autorale.

Una confezione di classe che racchiude da una parte un dvd con quattro videoclip già editi più tre ancora inediti, e dall’altra il disco con le undici tracce, le undici suggestioni che accompagnano l’ascolto di questo lavoro edito dalla Carosello come un brillante da sfoggiare tra gli scaffali sempre più impoveriti di bello; tracce che parlano, vantano, struggono, piangono e anelano l’amore in tutte le sue gradazioni, intensità e strappi sonori fanno la loro controparte, si amalgamano e dividono nelle sfaccettature del pop,  rock, funk. sprizzi  soul e tenerumi scuri per restituire interamente e a tratti solennemente la dimensione di un disco che non si rivolge solamente ai parterre di casa nostra, ma pronto per il grande pubblico internazionale, alle grandi platee d’ascolto allargate a dismisura.

Cantata in inglese per intero, la tracklist snocciola canzoni una più bella dell’altra, difficile fare una scelta per difetto, irrequietezze ben definite, punti d’appoggio briosi e rabbie circoscritte sono il comune denominatore di tanti passaggi, come nella stupenda e RadioheadianaTouchè”, nella fantasticheria Stinghiana che rutila “Make it”, tra le ombre doppie evanescenti BuckleyaneOn your own”, “This was your bad”; notte e giorni si alternano per l’intoccabile diametro del registrato, animosità delicate ti scompigliano delicatamente tra i tasti di pianoforte “The jump” o ti legano le vene con gli arpeggi cromatici di “All that stands around” per segarti le gambe definitivamente nel momento preciso in cui l’intimità roca di “Violence” passa chiudendo il disco, come un paravento soul loner che fa a brandelli quel poco di cuore che è rimasto a fare tunf tunf dentro la gabbia toracica.

Il loro è un piano di fuga dannatamente architettato ma che nessuno prende sul serio, nessuno vuole scappare dal loro ammaliante trappola poetica, proprio nessuno. Disco Dop.

 

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Morod – 20

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È bello quando capitano album come questo 20 dei Morod, perché puoi smontare tutti i preconcetti sulla nascita di un giudizio in seguito all’ascolto. Perché non è vero che se un genere non ti piace di sicuro casserai il disco che hai ricevuto e, viceversa, se ti arriva un prodotto perfettamente congruo coi tuoi gusti musicali non è scontato che tu ne abbia un’opinione positiva.

I Morod, pochissime, ma bastevoli, informazioni sulla loro pagina web, sono un trio sardo che muove i primi passi alla fine degli anni ’90. Non proprio dei ragazzini e non proprio dei musicisti di primo pelo. 20, pubblicato ad agosto di quest’anno, è degno figlio di quegli anni: un grunge sanguigno e spontaneo, che sembra non aver conosciuto niente delle varie famiglie di post-qualcosa anni 2000 che hanno riempito le riviste di nuovi termini assurdi e ambigui per definire generi ibridi.
My heart ha le atmosfere di Jar of flies degli Alice in chains, mentre Sickness richiama molto di più i Nirvana. Sei acceso è la mosca bianca dell’album: non ha un testo in inglese come tutte le altre tracce, tanto per iniziare, e la voce è impostata in una maniera differente, molto meno grunge americano e molto più alternative rock nostrano (un po’ alla Valvonauta dei Verdena, per capirci); in generale si porta dietro una sensazione ambivalente di adeguatezza al contesto e completa estraneità. La title-track, 20, sembra arrivata direttamente dall’MTV Unplugged in New York dei Nirvana, come fosse un’improvvisazione derivata da Jesus don’t want me for a sunbeam dei The Vaselines. Il grunge è una faccenda serissima per la sottoscritta. È il mio genere preferito (c’è tutto lì dentro, dalla rabbia alla melodia, dai riff graffianti e sanguigni ai power chords con la loro buona dose di istintiva ignoranza armonica).

Il trio sardo avrebbe potuto godere di un occhio di riguardo per questo.

E invece no.
I Morod potevano fermarsi qui, alla loro quarta traccia, marcare a grandi linee ispirazioni e sonorità e lasciare che l’ascoltatore fosse incuriosito e speranzoso di vederli suonare dal vivo.
Preferiscono, di contro, incidere altrettanti brani, uno più già sentito dell’altro, ognuno più copia delle copie delle copie. Il sound è sempre lo stesso (si sentono anche i primi Soundgarden, soprattutto in certe schitarrate quasi in palm muting), la verve si indebolisce, la gamma di emozioni si infiacchisce e l’album perde completamente di energia. Dopo i primi secondi di Shattered myself, la quinta canzone, mi sono resa conto che non stavo più ascoltando. D’istinto avrei tolto il cd dal lettore e basta, ma mi sono forzata di andare fino in fondo. E va bene Tired guarda un po’ più agli Stone Temple Pilots forse, ma non per questo i Morod sembrano metterci qualcosa di loro. Così come The truth e I’m losing in Uk strizzano l’occhio ai Nirvana, più quelli di In utero, ok, ma pur sempre loro, con qualche spruzzatina nello stile di quell’anima bella di Layne Staley e soci.
I Morod, insomma, hanno imparato così bene la lezione anni ’90 del sound di Seattle che farebbero scintille come tribute band.

 

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Jason Lytle – Dept. Of Disappearance

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Con lo straordinario ricordo fresco dei gloriosi Grandaddy che tanto hanno scritto e ricamato per l’indie a stelle e strisce e che ben sei anni fa decisero di “sparpagliarsi” per dare corso alle proprie idealità e percorsi personali, Jason Lytle, il leader della gloriosa band decide di vivere da orso nel freddo Montana, si isola per creare il suo primo bel disco in solitaria Yours Truly, The Commuter nel quale circola ancora tanta di quella buona aria alla Grandaddy ma che riscuote un egregio successo; e pensa che ti ripensa, a tre anni da quella prova discografica, Lytle torna sugli scaffali con un nuovo lavoro, “Dept. Of  Disappearance”, il disco che inspira aria e la rimette in circolo sottoforma di grazia, undici tracce che sanno di pini, umanità e dimensioni inappagate di libertà, libertà per tutto quello che è naturale, pastorale senza dimenticare il leggero nervo teso delle emozioni che, si sa, da queste parti geografiche sono dettagli non trascurabili.

Proprio una tracklist “ecologica” quella disegnata dall’artista californiano, una canzone più dolce dell’altra, musica che ci fa afferrare volentieri la paesaggistica interiore della pace dentro, della ricerca quasi spirituale che boschi, pinete senza fondo e prati verdi ci offrono senza pretendere nulla in cambio; il titolo l’ha dice lunga “Il dipartimento della scomparsa”, quasi un avvertimento e una volontà di Lytle di sparire nel nulla per rigenerarsi o ricrearsi una anima di scorta, una voglia di fondersi col nulla e con la natura, e con queste belle canzoni pare aver  raggiunto lo scopo, la sua dimensione giusta, la sua maturità di uomo.

Pianoforti malinconici “Somewere there’s a someone”, i colori marroni di Young Hangtown”, una strana quanto stupenda deriva Floydiana Young saint”, un guizzo psichedelico del Notturno di ChopinChopin, drives truck to the dump” e, se proprio vogliamo andare sul lusso e non farci mancare nulla, un saltino nel soft-brit che tira in “Get up and go”, ballata talmente friabile che è pericoloso maneggiarla troppo; ascolti dopo ascolti la cosa che sta alla larga da questo disco è la noia o la sovraesposizione alla retorica, tutto fila liscio e “nature” e Lytle è in gran forma, una poetica rarefatta e solida che si concentra nei punti precisi dell’ascolto e una musica che non fa nulla per rendersi antipatica.

L’onda Grandaddy sarà anche dura a morire o perlomeno ad  affievolirsi, ma intanto uno dei suoi rappresentanti ha intrapreso un discorso intimo e pacifico che testimonia quanto in fondo sia bello  – fino a prova contraria – essere a tu per tu con te stesso.

 

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Pino Scotto – Codici Kappaò

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Avviso importante!!! Questa recensione non parla di musica, Pino Scotto non parla di musica, nessuno parla di musica perché della musica non frega un cazzo a nessuno!
Pino Scotto è un enorme generatore di luoghi comuni, questa è la prova. Provate a tirare fuori il suo nome e tre saranno le attente valutazioni che verranno fuori. Non una di più. “È un pagliaccio buono a nulla”, oppure “è un mostro televisivo” o ancora “in passato è stato un grande rocker”.

Quale sia la realtà dei fatti lo sa, forse, solo lui stesso. Io posso unicamente dirvi come la penso.  Non lo trovo un clown bravo in nonnulla. In fondo, per suonare, strimpella meglio di tanti sbarbatelli che mi è capitato di sentire, di quelli che si prendono troppo sul serio, non sanno accettare le critiche e sono convinti che la loro sia la migliore robaccia partorita dal culo dell’Italia negli ultimi ottomila anni. Forse è piuttosto un burlone che è stato molto bravo a vendere in tivù una macchietta che con la musica ha meno a che fare di quello che vuol farci credere. Pino Scotto se la prende con tutto un universo mediatico che in realtà è il suo cosmo (almeno in piccola parte, visto che quando ha provato a fare passaggi più complessi, come da Chiambretti, la sua figura di “big crazy” è risultata non solo ridimensionata ma addirittura compassionevole. Totalmente a disagio, senza capacità di esprimere concetti pregevoli e sagaci e senza l’attitudine ad essere spassoso come invece accade a casa sua). Da un punto di vista sociologico (sottolineo la parola sociologico) non vedo molta discrepanza tra lui, Sgarbi, Er Mutanda, Richard Benson, Tiziano Crudeli, Pappalardo, Paola e Chiara e via dicendo. Tutti non fanno altro che dare alla gente quello che la folla sembra volere. Il problema della tv è che quando parla alla moltitudine di zombie non parla a individui, che magari la Tv la vedrebbero anche, se come critici (d’arte o musica), esperti del cazzocheglipare o musicisti, ci fossero propriamente le migliori menti di un paese che non voglio credere cosi stupido. Ma la tv, che ormai si è arrogata il diritto supremo di demolire la nostra bella patria dall’interno delle sue cervella, parla alla moltitudine come mero dato auditel e sa bene che una rissa tra Sgarbi, Er Mutanda, Richard Benson, Tiziano Crudeli, Pappalardo, Paola e Chiara e magari anche Pino Scotto, raggiungerebbe un picco di pubblico che mai si sarebbe potuto avere, non so, con Gottardo Ortelli che ci parla di Concetto Pozzati, con Carmelo Bene, con Lester Bangs, con Gli Area, Con Carlo Emilio Gadda, con una qualunque delle menti più brillanti che abbiano calpestato la nostra terra.
Plausibilmente Pino Scotto sa quanto la moltitudine sia stupida e sa quanto poco lui possa dare ancora alla musica, sia in ambito compositivo che in ambito critico. È per questo che decide di non fare assolutamente il minimo sforzo per dire o almeno pensare qualcosa di perspicace. Si limita a offendere tutti, si limita a vomitare luoghi comuni, si limita ad apparire (male oltretutto) invece che essere.
Il suo disco, Codici Kappao più il Live…Rock For Belize, non fa nient’altro che mettere in musica il personaggio che, costruito o meno, non è niente di più di ogni altra merdata vi caghi quel cubo del cazzo chiamato Tv.
Ora ti starai mangiando le mani perché so che vuoi dirmi. “Ma Pino ha fatto la storia del Rock italiano”.
Ma cerca di essere serio. Ha cantato con i Vanadium e poi ha intrapreso una carriera solista i cui apici sono al livello di un Vasco Rossi da ”come porti bene quei Jeans” (non ricordo il titolo di quella stronzata). Questa è la nostra storia?  E Pfm, CCCP, Banco Del Mutuo Soccorso, Battiato, Picchio Dal Pozzo, Area, Csi, Massimo Volume, Faust’o, erano solo dei poveri coglioni, giusto?
Adesso prova a chiedermi che cazzo di recensione è questa, visto che non parla di musica. Ti rispondo velocemente. Primo, ti avevo avvisato. Secondo, il tuo caro Pino parla veramente di musica nei suoi inutili monologhi? Ho semplicemente dato a lui quello che lui dà agli altri. Il nulla. Per una volta faccio io lo stronzo. Scrivo il suo nome e la prima cosa che vedo è il link “Pino Scotto Sbrocca di brutto!! da nn perdere!”. Se scrivo Demetrio Stratos mi compare “cantare la voce”  (vi consiglio di dargli uno sguardo). Capite dove è la differenza?

Per la cronaca, non mi si dica che non ho ascoltato gli album. L’ho fatto quattro volte, e, anche se il live riporta sulla retta via il niente del lavoro in studio, siamo ad un livello di banalità sconcertante. Classico Hard Rock con una spruzzata di southern comfort e qualche collaborazione inutile (con Bennato e i Modena City Ramblers) che quantomeno non è fastidiosa come quella con J-Ax.
Se mai Pino Scotto dovesse leggere queste mie parole, so già cosa direbbe. “Chi cazzo è questo”,” Sei una merda”, “Ti devi vergognare, coglione”, “vai a fare in culo, stronzo” e altre eleganze simili. E la cosa confermerebbe solo tutto quello che ho detto. Lui deve essere cosi perché voi lo volete cosi.
Io però me lo voglio immaginare sorridente, mentre a labbra socchiuse biascica un “cazzo, mi ha sgamato” e intanto ascolta Moving Pictures dei Rush e si gratta le palle. E forse allora potrei anche essere felice di aver sbagliato, almeno un po’, perché di cervello e coglioni ne ha più di quello che vuole farci credere.

 

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Motorhead | The World Is Our Vol II: Anyplace Crazy As Anywhere Else

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Potremmo stare ore e ore a parlare dei Motorhead, a raccontare delle loro gesta, del loro leggendario Rock’n’Roll e della magia che creano in un loro live. Sappiamo della loro carriera, del loro carisma, dei loro dischi e delle loro canzoni, insomma ci vorrebbe un manuale di storia per Lemmy e soci. La band però oramai una vera istituzione, e Lemmy una vera e propria icona, tanto che qualcuno lo considera anche il Dio del Metal, non ha più nulla da dimostrare e in un certo senso dopo tante prove superate e riconoscimenti ottenuti i tre Rockers possono darsi ad uscite un po’ più a scopo di lucro. Questa volta prendiamo in analisi un DVD che mostra ancora una volta la mastodontica bravura del trio inglese, ovvero “The World Is Our Vol II: Anyplace Crazy As Anywhere Else”. Da come possiamo intuire dal titolo notiamo che questa è una seconda uscita per quanto riguarda questo formato e sfornato anche a distanza di poco tempo; il primo era indubbiamente eccezionali e con tracce probabilmente più interessanti, ma la qualità di questo è migliore, sicuramente grazie alle tecnologie di oggigiorno. Il DVD contiene l’ intero concerto del Wacken Open Air 2011, parte del Sonisphere 2010 e del Rock In Rio del 2011, più una bonus track che riguarda uno speciale sul Wacken. Il concerto a Wacken è il top: ottimo volume, video girato alla grande ma soprattutto grande la prestazione dei Motorhead. Chiaramente le tracce che fanno il solito effetto sono le classiche:”Metropolis”, “Rock Out”, “In The Name Of Tragedy”, “Bomber”, “Ace Of Spades” e la conclusiva “Overkill”. E’ vero che ascoltare questi pezzi in un contesto del genere è un qualcosa di eccezionale. E lo stesso discorso vale per gli estratti degli altri due festival che seppur di una qualità più bassa rispetto alla parte del Wacken fa comunque il suo effetto. Personalmente, l’ unica cosa che mi è un po’ dispiaciuta è stato il non trovare tracce come “Trigger”, “We Are The Road Crew”, “The Wolf”, “All For You” oppure una “Runaround Man”, questo sia per quanto riguarda questo DVD che per il precedente. Ad ogni modo questa uscita dei Motorhead è piacevole: Fan di vecchia data e nuovi adepti saranno soddisfatti in tutto è per tutto, alla fine non ci resta che urlare a squarciagola la grandiosa frase di Lemmy, Phil e Mikkey: “We Are Motorhead And We Play Fuckin Rock’n’Roll”.

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Corin Tucker Band – Kill My Blues

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Quando “militavano” nella band delle Sleater-Kinney, Corin Tucker e Carrie Brownstein si guardavano sempre in cagnesco, non proprio per odio o malaffare, solamente una malsana rivalità per comparire titolari unici di un marchio sonoro che non prevedeva “teste pensanti e creative” al potere ma solo una prestanza tutta sesso e ambiguità e lei – la Tucker – forse la più intelligente del reame si è messa da parte, ricominciando in salita la sua strada artistica personale cominciata già con 1.000 Years  che qualche buon consenso l’ottenne, ed ora l’artista americana tenta il bis, padrona anche di un carattere fortificato non male, con “Kill my blues” un tutto sommato tosto dodici tracce che si discostano di una buona spanna dal cantautorato forgiato nell’esordio solista, la fa da padrone un sagace rock-indie gridato, con tutta la messaggistica femminista come febbre indomabile.

Dentro  le voci, parole, cenni e movimenti che hanno a che fare con la ribellione dallo status “femmina casalinga”, una nevrastenica tenuta elettrica di chitarre taglienti, bassi infuriati, grunge e scatti famelici che a tratti mettono soggezione, non tanto per le bordate amplificate, ma per la tensione generale che questo disco trasmette anche attraverso fuzzate psichedeliche che inglobano il pensiero della maternità come cosa divina e altrettanto ingombrante mentre i punti interrogativi si affollano a dismisura; dondolando tra le indimenticabili prominenze di marca Sleater-Kinney e i calibri sconnessi delle Hole, il disco avanza a grandi passi, si spaccia per distonia grunge “Constance”, “I don’t wanna go”, sguinzaglia il capriccio punkyes “Neskowin”, torna alle origini dell’imprevedibilità elettrica “Tiptoe” o passeggia ai borders anfetaminici e tossici di una Courtney Love in grande stile “Summer Jams”.

Si effettivamente il cantautorato ha fatto posto o si è piegato alla nuova Tucker, forse un nuovo o modernizzato modo di vedere e suonare la passione, la vivacità e l’orgoglio di essere donna libera, e questo trasporto l’artista non lo nasconde affatto, anzi, lo dilata in una impressione sonora che se perlomeno non si traduce in mega novità, almeno fa giustizia ad un percorso discografico intimo e allargato in cui il rock fa da angolo retto senza ipocrisia.

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Pharm – Pharm

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I Pharm sono un collettivo audio-video attualmente formato da Fabio ‘Reeks’ Recchia (percussioni, live electronics e programmazione video), Cristiano ‘Defa’ De Fabritiis (batteria e live electronics), Claudio Mosconi (basso), Matteo d’Incà (chitarra) e Alessandro ‘Byruzz’ Rebecchi (videomanipolazioni) che propongono un interessante post-rock intriso di sperimentazioni jazz, funk, math, noise e kraut rock i cui membri hanno alle spalle numerose collaborazioni con artisti quali quali Filippo Gatti, Alessandro Baricco, Fabrizio Bosso, Joe Lally, Okapi, Tristan Honsinger, Mike Cooper, Niccolò Fabi, Katia Labèque, Nohaybandatrio, Zu, Damo Suzuki, Germanotta Youth e Israel Varela.
Questo loro lavoro omonimo che raccoglie registrazioni effettuate fra il 2009 e il 2010 si apre con l’ottima “Mrs Runciter” in cui l’ensemble dà massimo sfogo alla fantasia sonora.
“Sorbetto” invece ha linee di basso sovrapposte che ricordano molto da vicino quelle dei conterranei Zu o degli americani Tortoise e forse può persino spiazzare l’ascoltatore la prima volta anche più del successivo “L’africano”, che ha un titolo che farebbe supporre incroci con la musica etno, ma che in realtà è un brano avantgard jazz.
“Buone cose a lei” soffre tantissimo delle influenze dei Primus di Les Claypool anche se per oltre 4/5 del brano ha atmosfere molto differenti (a testimonianza della genialità e dell’eclettismo dei Pharm).
“Western machines” ha una chitarra che in effetti invece sembra essere uscita da uno di quei film spaghetti western che hanno fatto la fortuna di registi quali Sergio Leone e di attori quali Bud Spencer e Terence Hill.
“Joe Chip” e “Q” smorzano poi il tutto fornendo però spunti fra i migliori di questo disco che pur apparendo abbastanza complesso e coraggioso negli arrangiamenti sicuramente non mancherà di emozionarvi sin dal primo ascolto.
Per gli amanti del post rock e non solo!

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AllCost – Punto di Raccolta

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Fra  le innumerevoli potenzialità capacità sonore che potrebbe avere in più questo “Punto di raccolta” – esordio degli abruzzesi AllCost –  ce n’è una che però è inspiegabile e che invalida per tre quarti il lotto, vale a dire quella di suonare di tutto e tanto, stilisticamente parlando, meno che un proprio percorso personale, un qualcosa o almeno un dettaglio di “una strada d’appartenenza” che lo faccia uscire dal prodotto seriale riempi tutto, dal destino di quei dischi che non hanno personalità e amor proprio e che una volta scartati dal cellophane, ascoltati i trenta secondi  a random di prassi vengono immediatamente lanciati senza ritegno nella raccolta differenziata sezione plastica dura.

Eppure l’insieme di gruppo funziona divinamente, gli strumenti fanno la loro parte e con stupefacente professionalità, le dodici tracce sono accessibilissime a più di un ascolto aperto, ma appunto è troppo questo ascolto aperto che si profila una volta dato in pasto al lettore stereo, la band – sarà forse ancora la titubanza che attanaglia un esordio ufficiale? – mette in piazza un “troppo che struppia” senza capo ne coda, favorendo un ascolto disinteressato e preda di confusione totale; ricreare un incanto sonoro dentro un disco non è sempre cosa facile, ma se un artista o una formazione emergente vuole arrancare quel minimo di gradino per fare cucù sulla scena del “da oggi ci sono anche io” ben altro deve fare e pensare, ma la cosa importante all’inverosimile è avere una caratterialità ben precisa, sapere in fondo quello che si vuole e come lo si vuole, perche il mare nostrum della musica è un gigantesco innesco di selezioni, poche gratificazioni e molte delusioni specialmente per chi ha in testa il perfetto disegno del suo progetto, figuriamoci se uno si presenta con un insieme di sonorità prese in prestito al netto, al minimo sindacale di creatività.

Lo zompettio finto reggae di “Mondo marrone”, la giostrina popolare che gira in “L’occasione”, l’arpeggio field che fa tanto Nomadi “Amami”, ricordi astrali di Floyd italianizzati “Rumori di catene” o il running-rock cavalcato alla maniera di un Massimo Priviero imbizzarrito “Dark kiss”, anche dopo un ascolto volenteroso e a doppio giro, dimostrano tutta la sintomatologia di una carenza massima di indirizzo, ma credo che la band in questione sappia in futuro trovare la proprio sfera musicale, il potere non manca, aspettiamo il volere al prossimo appuntamento.

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The Van Houtens – Flop!

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The Van Houtens: già il nome è curioso, anche per l’insolita presenza dell’articolo “The” davanti a “Van” (oltre tutto Van Houten è una azienda dolciaria olandese ma anche il cognome di Leslie della Family di Charles Manson e dello sfigatissimo Millhouse, amico di Bart Simpson). In ogni caso vi garantisco che se andate a spulciare nel loro Facebook i personaggi sono molto più curiosi del nome che portano. Due fratelli italo-britannici Alan e Karen Ramon Rossi, che diciamoci la verità fratelli non sembrano proprio. Il primo pare un Ramone dandy che suona in Oasis autoironici mentre la fanciulla è vicina ad essere una bellissima e spensierata cantautrice americana persa tra ritornelli sospirati e innocenza. Insomma l’atmosfera è a dir poco surreale già dalle foto e dal nome della band. Non potete immaginare quanto sia spiazzante sentire il loro sound: imprevedibile ma semplicissimo, stupendamente pop e ballabile, giusto per sprigionare il teenager nerd che c’è dentro di noi.

L’impressione che accarezzo appena parte l’esordio discografico di questa insolita band milanese è di presa per il culo. La voce di Alan nel reggae londinese di “Automatic Girl” è diretta e convincente ma altrettanto sbruffona verso l’ascoltatore e verso se stesso. Ci mette 30 secondi e questo pop ruffianissimo mi conquista senza mezze misure. Ora sono pronto a credere a qualsiasi cazzata, anche a cercare un significato nella delirante storia di “John Ferrara & Betty Karnoff” narrata a mezz’aria tra italiano e inglese (“sono già finite le holidays, magari ci sentiamo su myspace”), le minchiate si incastrano alla perfezione. Ma il mio piede non le ascolta, coglie al balzo il beat e inizia a battere sempre più deciso.
Su “I want to tell you” capisco che questa band è definitivamente l’invidia per tutti coloro che si credono fichetti a fare musica d’oltremanica. Non solo surclassa tutti gli italiani che studiano a memoria ogni passaggio di “Revolver” e “Parklife”, ma li deride pure inserendo un bel “balbettio elettronico”, sicuramente più vicino a Super Mario Bros che ai Kasabian. The Van Houtens sono “unicamente british”, mantengono stretto il trash italiano sotto la giacca sciancrata. Più Alvaro Vitali che James Bond, più Rimini e ombrelloni appiccicati che Londra e i suoi ombrellini snob a braccetto. Il mio corpo però se ne fotte della geografia, il ritmo sale dal piede e arriva a invadere tutta la gamba.

A smaltire un po’ le mie voglie da teenager sfigato ci pensano pezzi come la fiaba di “Paper plane” e “Waiting for the sun”, George Harrison se la ghigna insieme ai suoi amici indiani in qualche paradiso. I brani in questione sono più sommessi ma non meno efficienti, ironici e comunque perfetti per rendere eclettico il prodotto, che visti i due fricchettoni che lo rappresentano, non potrebbe certo essere preconfezionato. La gamba razionalizza, si calma, ma il piede tiene duro i quattro quarti e la testa penzola un po’ al coro di voci bianche in “Matala”.
Il ritmo ritorna e “Tosa come back” è disco demenziale sullo stile “Pippero” di Elio e Le Storie Tese. Ci racconta la melanconica dipartita della chitarrista Tosa, che a quanto pare però non è mai esistita. Ma chissene frega di tutte queste prese per il culo, tutti in pista: piede, una riconquistata gamba, mani, spalle e testa ondulante. Tengo giusto le chiappe ancorate alla sedia, per quel briciolo di dignità che mi rimane.

Spensieratezza ‘60s e campi fioriti di primavera frivola in “Baby don’t lie”: cani che abbaiano a tempo, giusto per far sentire la loro voce insieme alla natura. Natura che diventa sintetica e veniamo proiettati 20 anni dopo con “1987 Souvenir”, forse la canzone che oggi avrebbe potuto far tornare di moda Alberto Camerini. Con questo sound così pacchiano, vintage e così elettronicamente primordiale la sedia viene scaraventata via e mi lancio in folli danze a ridosso della mia scrivania.
Questo disco è veloce, usa e getta (non in senso dispregiativo, ma è volutamente fotografia di un preciso istante, poco epico e disinteressato a perdurare) e pieno di tormentoni. The Van Houtens sono come un weekend al mare ad Alassio, come mascherarsi da arricchito e bere un cocktail in centro a Milano, come l’Inghilterra vista da noi ignoranti provinciali, superficiali e peccaminosi come addentare con gusto un panino in un fast food. Il surreale sbrana qualsiasi certezza: “It’s a beautiful day” è stata qualche anno fa colonna sonora delle ali di pollo di McDonald’s…

 

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Dobermann – Dobermann

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La crisi socioeconomica che stiamo attraversando ci sta rendendo sempre più perplessi nei confronti del futuro che ci attende. Ci si prospetta ancora un annetto, come minimo, di “cinghie tirate” e “braccine supercorte”..
Dando uno sguardo d’insieme a questi ultimi anni, sembra che non possa uscire niente di buono da un periodo così nero.. E’ qui che ci sbagliamo!
In quest’ultimo anno, il panorama musicale indipendente italiano ha partorito numerosi artisti degni di farci ben sperare, tra questi ci sono anche i Dobermann.

Una band formata da tre ragazzi con dei curriculum vitae invidiabili: Dario Orlando (Chitarre), Boe (Batteria) e Paul Del Bello (Basso e voce), accomunati da una grande passione per il punk rock che ci faranno saltare, sudare e dimenarci “come se non ci fosse un domani”.
Il loro primo, omonimo, album, Dobermann, è un lavoro che conta di undici tracce tutte ben registrate dalle quali emerge chiaramente l’energia e la passione che questi ragazzi hanno per la loro musica. Undici tracce, appunto, di rock italiano, la cui esecuzione ricorda i Punkreas degli ultimi anni ’90, facendo, inoltre, un connubio tra AC\DC, Sex Pistols e il punk più puro degli, oramai onnipresenti, anni ’70.

Credo che tra tutte, la traccia numero otto di questo album, Shoryuken, rappresenti al meglio l’abilità musicale del gruppo, due minuti di giri di basso degni dei Guns ‘n Roses che esaltano, e non poco!
Tra le undici, poi, sono solo due le tracce non in lingua madre: Night Rider (numero nove) e Fear Of The UK (numero 11), entrambe suonate con un’abilità che si trova di rado nelle nuove band che suonano il loro genere musicale. Non solo bravura, quindi, ma anche maturità, quella giusta per suonare del punk rock fatto bene: sarebbe troppo facile buttar giù due accordi accompagnati dai soliti testi di denuncia sociale che troppo spesso si sentono quando si parla di questo filone musicale.

Non solo il loro lavoro, ma anche la “filosofia” della band è degna di un punto stima da parte del sottoscritto: si danno come obiettivo quello di “togliere il rock ‘n roll da protools e social networks e a riportarlo live, cazzuto e on the road”. Una cosa non da poco visti gli ultimi tempi che, con l’avvento dei “social networks”, si dà sempre meno rilevanza ad uno degli aspetti fondamentali della musica: il live. E il loro, di live, ha il sapore di salti, pogo e sudore: il meglio, insomma! Mi sento di dire con certezza che il loro obiettivo non è lontano, e sono certo che li vedremo nei migliori festival di musica rock in giro per il nostro paese, perché se lo meritano, eccome!

I Dobermann sono “nati dalle ceneri della recessione economica del 2012” e sono il simbolo che, il “periodo nero” che stiamo attraversando, può esser meno pesante solo se riusciamo a fare delle nostre passioni un punto di svolta e, con grinta determinazione, portare avanti quel progetto che abbiamo lasciato impolverarsi nel cassetto del comodino.

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De Curtis – Belli con gusto

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Da Platone a questa mattina, la questione insolubile della supremazia semantica tra musica pura e  quella con un testo letterario ha riempito pagine e pagine di critica del settore.
Nel Settecento si credeva che la musica avesse senso solo ed esclusivamente se il suo significato venisse esplicitato in un testo che ne chiarificasse il contenuto e incanalasse ragionevolmente l’oscurità pulsionale in cui altrimenti avrebbe trascinato l’ascoltatore. Viceversa accade durante il Romanticismo, che infatti genera i più alti esiti sinfonici della storia. E noi, due secoli dopo, pur filtrando ancora praticamente tutto attraverso quei canoni ottocenteschi di grandi sentimenti ed epico sublime, non siamo in grado di concepire una canzone senza testo.
Poi arrivano i De Curtis.

Veronesi, attivi dal 2009, padri di due album da un inconfondibile retaggio classico – se non per formazione accademica quanto meno per abitudine dell’orecchio – e tanto groove funky e jazz.
Belli con gusto, seconda e recente fatica discografica, si compone di 9 tracce, tutte strumentali tranne l’ultima. Paragonati, per l’uso dei soli strumenti, addirittura a Ennio Morricone (esagerazione campanilistica, trattandosi de L’Arena, quotidiano veronese), la band ha invece tanto dei Calibro 35 ed è profondamente in debito con il rock progressivo nostrano e internazionale. Gugol bordello (una citazione? Un tributo?) marca subito i punti di forza della formazione: dialoghi melodici, cambi di tempo, cura per la dinamica, sonorità rock alternate ad atmosfere jazz. Più fusion sono Il mio Natale secco e la title track, Belli con gusto. I De Curtis sono ironici: potrebbero tranquillamente contornarsi di un’aura seriosa e sofisticata, invece scelgono dei titoli suggestivi seppur scherzosi, come nel caso di Vota Antonio, una bella ballata pianistica puntellata dal sax, con intermezzo di applausi. Novantesimo minuto ha un’introduzione meditativa che ricorda per atmosfera A wolf at the door dei Radiohead, da cui si discosta bruscamente a circa metà brano, per riconformarsi alle sonorità tipiche del quintetto veronese. L’assolo di chitarra in un contesto aleatorio arpeggiato dal pianoforte, e ancor più il riff, con cui lo strumento sembra farsi carico di impersonare il ritornello, ricordano tanto, nella costruzione, Impressioni di Settembre della PFM. Il principe parlante sa di Blues Brothers in chiave reggae, mentre Senza Ombra e Sacro Cuore si caratterizzano per sonorità più rock-pop. Plastic Island è la traccia di chiusura e, a sorpresa, c’è la voce. E’ Mae Starr dei Rollerball, quintetto jazz-rock di Portland: un testo in un inglese semplice, con delle rime e nessuna verità particolare da raccontare, ma un risultato piuttosto gradevole, con qualche avvicinamento timbrico ai Beatles. Forse i De Curtis hanno voluto lasciare una porta aperta alla ricerca di nuove future soluzioni musicali? Lo vedremo.

Belli con gusto è ricco di ispirazioni disparate, scelta vincente sia per la pienezza estetica del progetto, sia perché riesce ad accontentare un po’ i gusti di tutti. E’ un disco suonato bene, curato e mai pesante. L’unico difetto, proprio a volerne trovare, è che ogni tanto la carica emotiva cala un po’, lasciando il passo a una sensazione di “questo l’ho già sentito”: è tutto molto veloce però perché, immediatamente dopo, un cambio di tempo, una nota lunga del sax o un arpeggio al piano richiamano l’attenzione, pronti a sorprenderci con un nuovo riferimento inaspettato.

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La Visione, L’Ombra e le Forme – La Ricostruzione delle Forme

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Potremmo definire il lavoro del duo umbro, La visone, l’ombra e le forme, una sperimentateque in cui tutto viene inglobato, divorato, rielaborato e poi “eccentricizzato” in una produzione pregevole, stranita al cubo e parente di primo grado con la psichedelica di stampo progressive – non quella teutonica pompata per la massa – ma tuttavia quella con lo sguardo allucinato, liquido e arrossato degli anni 60/70.

La ricostruzione delle forme” è il debutto della coppia artistica Luigi Benedetti e Federico Gioacchino Uccellani che, con l’apporto prezioso al mastering di Walter Lanzara (ospite nella tracklist con le parti di theremin) accellera un ascolto contaminato e a suo modo sintetico, undici schegge formidabilmente pazzoidi che vanno a completare “La ricostruzione delle forme” – questo il disco – una lente d’ingrandimento sonica che, tra suggestioni meccaniche “La collisione”, “Conduzione” disinvolte svolte nel prog floreale “La fioritura dei profumi”, “Il guanto spoglio”,  alambicchi eighties sottovetro “Controluce”, “Irrinunciabili piaceri” ed una molecolare intuizione di tramutarla poi in una materia incendiaria, acquisisce il potere espressivo già patrimonio del Museo Rosembach, un proto BMS e Cervello, conquista il controllo necessario per rendere efficace questo ascolto, questo turbinio  di metafore, percorsi e raffinatezze smaliziate.

Un disco in cui la memoria vola a ritroso tra controtempi, azzardi Crimsoniani, flauti alla Focus, sperimentazioni classiche, gli Osanna che scorrazzano indisturbati per la tracklist e tutto quel dolceamaro pandemonium dalle movenze compassate che rende questo esordio umbro come una delle migliori cose ascoltate in questo 2012; c’è una grande ricerca, un disco in grado di muoversi tra suoni caldi e freddi, gravi e acuti con una scrittura ed un’idea espansa micidiale, uno ieri ed un oggi che fregandosene dei percorsi obbligati rinasce alla grande nei circuiti alternativi della fantastica fantasia self-made.

Maneggiare con cura, psichedelica certificata.

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