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Lowlands – Beyond

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Pavia e l’America polverosa dei sogni senza confini sono ad un tiro di schioppo se uno ha  voglia e passione di fare autostop e  sintonizzarsi sulle coordinate di questo nuovo bel disco dei Lowlands, la rock’n’folk band tutta italiana che in questo “Beyond” sorpassano loro stessi, allungano la mira e le visioni oltre gli skylines e le già illuminate strade che incrociano Est ed Ovest per una tracklist che incolla letteralmente l’udito come un bostik dispettoso.

Con la produzione dall’ex tastierista dei Soul Asylum, Joey Huffman, e con la partecipazione memorabile di Mike “Slo Mo” Brenner e dell’armonicista Richard Hunter, il disco corre, suda, si intenerisce, asseconda intemperanze visionarie con sing-along e melodie nostalgiche per entrare direttamente – dopo aver incantato coi suoi giri diabolici – tra testa e cervello come un sogno che ha imparato il giochetto della fascinazione a corto raggio e pertanto infallibile nei torvi sentimenti di bellezza; dieci tracce, dieci gemme cangianti, dieci sentimenti che lavorano  il tempo, l’amore e gli sterminati cieli d’America come dentro un destino  memorabile dal quale non si può scendere se non volendo, ma questo “volendo” è un aggettivo che man mano che il disco avanza, si è portati ad odiare con tutta l’anima.

Con una forte stimolazione Springsteeniana tra le righe e Mister Petty tra gli incensi devozionali, la band (molto più attaccata ora alla spina della corrente elettrica che in precedenza) e con un rutilante ricambio nella line-up, è in un grado di maturazione ottimo, pronta a marciare sulle strade tortuose degli ascolti multipli, perfetta per declamare il running e l’istinto di una terra, l’America, come meta per chiunque ami le magie e le evanescenze dei suoni che mettono in moto una fantasticheria unica ed inossidabile, la libertà. Un disco con un sacco di aspettative sulle spalle e davanti alla sua lungimiranza, ballate, epicità amplificata “Waltz in time”, pezzi di cielo “Ashes”, la Titletrack,  la pozzangherina di una lacrimuccia slideata “Homeward bound”, il Waitsiano passo oscuro in una notte piovosa e triste “Fragile man”, dedicata allo scrittore scomparso Luciano Comida o la fuga verso  la linea solare dei landscapes di tramonti e amori da raggiungere e forse riconquistare “Keep on flowing” sono le ricette di un felice sentire che porta lontano, uno schiaffo di vento che scompiglia i capelli e fa dimenticare – per un tot di minuti – l’integrità imbalsamata di ogni giorno.

Lowlands in arrivo sul primo binario, pronti alla partenza.

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Tablo – Il Circolo Vizioso

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Ormai, da qualche settimana, è ufficialmente partita la nuova caccia alle streghe collezione autunno/inverno duemiladodici. Questa volte le fattucchiere designate allo scomodo trono in fiamme, hanno i volti di giovani e meno giovani che hanno fatto l’errore di suonare qualcosa che qualcuno ha deciso, un maledetto venerdì di tanti anni fa, di chiamare “Indie”. Tutto ha avuto inizio con la proclamazione dei vincitori del premio Tenco (per la cronaca sono Afterhours, Zibba, Enzo Avitabile, Francesco Baccini e Colapesce. Se volete i dettagli, andate su www.da un’altra parte.it) e di ulteriori premi come Le Targhe Mei (nuovamente Afterhours, Luca Sapio e Teatro Degli Orrori) e altri ancora, meno noti, venuti alla luce come Gremlins sotto la pioggia di polemiche.

È cosi che Umberto Palazzo comincia a prendersela con l’Indie su Facebook, Federico Gugliemi (Il Mucchio) se la prende con Lo Stato Sociale su Facebook, mezza Italia odia gli Afterhours su Facebook, l’altra mezza li incorona come il più grande gruppo italiano vivente su Facebook, chiunque, tranne qualche sfigato, si chiede “chi cazz è Colapesce?” su Facebook, tutti bestemmiano, urlano e si strappano i link su Facebook, Thegiornalisti se la prendono con tutti, da tempo, non solo su Facebook (qualche estratto: “I Verdena a scuola sono andati allo zoo di bergamo e il loro insegnante scimpanzè li ha cacciati via” o anche “Nessuno può ricordarsi una canzone dei tre allegri ragazzi morti. Ti puoi immaginare uno che mentre fa la doccia fischietta una canzone dei tre allegri?? E’ impossibile” altrimenti “Le luci della centrale elettrica ha creato una generazione di mostri analfabeti, ha spinto gruppi di tredicenni a scrivere musica senza che sappiano prima parlare, le luci sono il male”), nessuno, tranne me e qualche altro coglione, se la prende con pubblico e critica del cazzo che scambiano merda per nutella e, ancor più spesso, una scopata in culo per l’amore eterno su Facebook.

Insomma, il mondo è definitivamente alla fine. E Vasco è ancora vivo. Ormai anche le polemiche creano hype e ci si dimentica di una cosa tanto semplice, quando parliamo di musica. I dischi. E già!, verrebbe da dire, citando una delle massime espressioni filosofico esistenziali vascorossiane. Spengo Facebook e faccio la cosa più bella che ci sia. Tolgo la pellicola, apro un pezzo di cartoncino e metto su un album di un nuovo artista semisconosciuto.

Si fa chiamare Tablo (ma non è un furgone da lavoro FIAT) e qualcuno lo avrà forse già provato tre anni fa quando, sempre per Mizar Records, pubblicò Non Mi Senti, album che decantava il tragicomico amore in declino. Il passo successivo alla fine dell’affezione è il nuovo innamoramento, che diventa il fulcro di questo Il Circolo Vizioso, raccontato come un dialogo con la propria esistenza. Citando lo stesso autore “Il titolo nasce dal concetto di disco come punto cardine di un circolo vizioso a cui le canzoni disilluse e serene si abbandonano. Perché è bello poter vedere un disco principalmente come investimento emotivo”. Tutto molto bello. L’album, inoltre, è stato registrato in una piccola casa di legno, sulle rive del lago d’Idro chiamata “La Miopismo Studio” solo con strumenti pre anni ottanta. E ancora Tablo, mi fa sapere che “durante le pause tra una take e l’altra si guardava il lago. Molto spesso ci accompagnava un calice di vino rosso. Non si ascoltava quasi mai musica ma quando succedeva era Nick Drake a farci compagnia”. Lo so che starete pensando “figa niente, è?” oppure un più maicbongiorniano “Allegria!!!” ma cerchiamo di essere seri.

L’album è particolarmente incentrato sugli aspetti emotivi della musicalità e carca di unire la nostalgia di un sound retrò che scava nella vita precedente del Pop italiano, con un approccio moderno, semplice e non troppo ridondante. Il brano d’apertura “Prologo”, tutto strumentale, richiama le atmosfere Slow/Sadcore dei Red House Painters con l’aggiunta di un violino tanto U.S.A. Post Rock stile Clogs. Solo con “Sei Stata Gentile” entra in campo la voce di Nicola Tabellini, che di primo impatto può ricordare quella del più famoso Max Gazzé. Un brano delicatissimo, con un testo infantile come l’amore, che si arricchisce con un eccelso arrangiamento Jazz. In “Tentazioni” la musica prende tutta un’altra strada. L’atmosfera si fa più languida e le parole di Tablo, si avvicinano per profondità e metodo a quelle di un altro grande del nuovo cantautorato italiano e cioè Fabio De Min dei Non Voglio Che Clara, di certo la band che meglio s’accosta alla proposta di questo Il Circolo Vizioso. In “Tu”, voce e chitarra sembrano intonare una ninnananna ma presto il brano si risolve in un classico pezzo Pop, molto diretto, senza eccessi dove niente urla ma tutto è soffice come una carezza. “Un Viaggio”, “Il Matrimonio Di Aurora” e “Stella” rafforzano lo stile di Tablo, ne rendono l’impronta indelebile, marchiano a fuoco, insieme ai brani precedenti e grazie all’aiuto del pianoforte a muro di Claudio Gurra, il contrabbasso di Osman Meyredi, il violoncello di Anna Ziliani e le percussioni di Simone Gelmini, uno stile forse non unico ma di certo intrigante. Pop cantautorale con arrangiamenti mai intemperanti, che a tratti si confonde con lo Slowcore più profondo ed empatico. Gli ultimi tre brani, “La Scala Morale”, “Parlami” e “L’Arrivista”, utilizzando la stessa formula, raccontano il contrasto quotidiano tra la determinazione dell’uomo e del suo volere e le irruzioni del caso che l’esistenza ci serba. Tablo ci ha confezionato un bel disco. Niente di nuovo, niente di alternativo. Sono solo canzoni Pop che parlano d’amore. È quello che fanno tutti, no? Parlare d’amore, per non parlare di sesso. La cosa bella è che Tablo lo fa meglio di tanta gente più nota, che per dire niente è pagata tanto.

 

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Epsilon Indi – Wherein we are Water

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Bene, ci sono voluti tredici lunghissimi e stressantissimi anni prima di arrivare all’ottavo album per gli Epsilon Indi, ci arrivano con la giusta maturità registrando per l’etichetta BitBazarWherein we are Water”. Poche sorprese da una delle ex migliori band del panorama alternativo italiano, tutti aspettavano un disco di buon livello e così è stato, un opera da seguire con attenzione per non perdere i vari cambi direzionali delle sonorità. Tutto improvvisamente diventa cupo quando il disco inizia con “Dawn”, il pezzo nettamente più importante, dalla finestra entra timido qualche raggio di sole che non trova giustizia. Le mie percezioni portano a conclusioni chiaro/scuro, l’invernata alle porte accende l’irrefrenabile voglia di consumare il disco nel lettore, forse non sarà dark wave ma poco ci manca. L’acqua è elemento fondamentale per la riuscita dei pezzi, l’acqua è libertà di azione in quanto (parole loro) prende la forma del contenitore lasciando intatta la propria fisionomia. Gli Epsilon Indi cercano di spaziare il più possibile in “Wherein we are Water” cercando di non catalogarsi per non spegnere la voglia di sperimentazione continua pur mantenendo i loro caratteri iniziali, sempre la stessa tela dove si buttano colori scuri in continuazione.

Poi ballate romantiche come “We are Water” brano che dà il titolo all’album e pezzi strumentali come “Ocean Lullaby” rendono variegato l’intero complesso artistico. La novità è che questa volta si decide di cantare in inglese per armonizzare meglio la voce con la musica, di questo si potrebbe discutere ma le scelte personali sono personali e il risultato di certo non porta loro nell’errore, la scelta sembra essere molto valida, il suono di questo disco richiede anche questo. Accostati nelle sonorità ad artisti/band come Cure, Brian Eno e Divine Comedy gli Epsilon Indi sanno di avere grande forza sulle loro spalle ma soprattutto hanno la consapevolezza di essere tornati più vivi che mai e di avere registrato un grande disco. Perché “Wherein we are Water” è senza ombra di dubbio un grande disco da procurarsi il prima possibile, bentornati Epsilon Indi la musica italiana ha un grande bisogno di voi.

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Addiction For Destruction – Neon Light Resurrection

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Da buon vecchio adulatore dell’hard rock tamarro e (perché no) frivolo e fricchettone, non ho mai rinnegato i capelloni tutto alcool e facili donzelle. Ho passato gli anni del liceo da vero outsider, cresciuto con il grande sogno della villa a L.A., festini in piscina e camperos anche in spiaggia. Insomma ho adorato questo stile grezzo ma ben patinato, chitarroso, sporco, violento con la foga del punk e del metal primordiale. Oggi nel 2012 a mio avviso l’hair metal (lo chiamiamo così?) risulta abbastanza anacronistico. Un rugoso cimelio, a volte ben rispolverato con lacca applicata su una parrucca posticcia e un bel kilo di cerone in faccia. Gran parte delle volte viene solamente alzata una voluminosa nuvola di polvere. Tanto fumo insomma.

Mettendo da parte il risultato, c’è da dire però che in varie parti del mondo c’è ancora chi da una bella spolverata all’arruginita statuetta, perseguitando questo sogno a sorsi di Jack Daniels e credendo in uno stile di vita che pare essere sempre al limite del modaiolo soprattutto in determinate aree geografiche (il fatto che io lo trovi anacronistico è un’altra storia). La strada in tutte le sue forme affascina sempre. Tra questi inguaribili sognatori sicuramente spiccano quattro ragazzi russi, con una band che porta un nome che è a dir poco un fardello: Addiction For Destruction. Il rimando al capolavoro dei Guns’N’Roses è immediato.

Il loro esordio è “Neon Light Resurrection”, il titolo ha il sapore di rinascita del sintetico, della bieca superficialità, di violenza e sudicia indecenza. E il sound dei AFD racchiude tutto questo in una voce sigarettosa, chitarre taglienti e sezione ritmica pungente, con un bel basso metallico, come si usava ai bei tempi. Sonorità in bilico tra Sunset Strip e Svezia (casa di questa new generation di rockers maledetti) vengono subito sputate fuori dai primi brani: “My Resistance” e “Rock’N’Roll To You” amalgamo punk e metal con ammiccante furbizia. I compagni di gelo Hardcore Superstar e Crashdiet sono santini nella sala prove del gruppo moscovita.

Gli anni 80 sbucano invece subito dopo con “On My Needle”, il coretto iniziale non lascia molto scapo all’immaginazione. E certo la creatività e l’originalità non sono le doti migliori della band, che però in ogni episodio taglia e sprigiona la sua violenza senza fare sconti e guardare in faccia nessuno. Il mondo del pop non viene solo ignorato, gli si sputa contro e gli si volta le spalle. Disprezzo totale verso qualsiasi melodia memorabile, che fa scorrere il disco un po’ pesantemente fino all’attesissimo ballatone. “Jaded Heart” acustica e low-fi non è di certo una perla di classic rock, ma è una gemma in mezzo all’organizzato marasma. Si, perché il gran furore e il maligno bordello risultano sempre ben bilanciati. Per fortuna i quattro ragazzacci russi non giocano a chi è più tamarro, lasciando da parte l’ego e inutili virtuosismi. Il lavoro di squadra si sente.

Dopo la piccola deviazione della ballata strappamutande, si ritorna sulla strada più dura e polverosa con il boato della Harley che apre “Feeling Fine”: il pop ora è più vicino con un bel ritornello ruffiano senza ammorbidire troppo la lama. Per ritrovare un altro episodio degno di nota si vola dritti all’ultimo pezzo: “(I don’t care) You are nothing” è un acustico che non smorza i toni, molto vicino ai brani di “Lies” dei  Guns’N’Roses. La voce di Tom Spice patisce un po’ in alcuni frangenti e a sistemare tutto ci pensa Henning Nielsen, che distribuisce blues con dimestichezza. Per fortuna nel finale la musica del diavolo, madre di tutti i capelloni, viene onorata nella sua forma più onesta.

Il sipario si chiude e gli AFD ci laciano un album viscerale e onesto, poco altro da aggiungere. Ma certo è che questo fumo necessita di maggiore densità e colore per estendere la sua pericolosa nube oltre il confine, per superare il limite e arrivare a concretizzare i sogni di rock’n’roll.

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Dee Lei – S/T

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E’ prodotto da Paolo Benvegnù, che partecipa anche in alcune partiture (e ne imprime il soffio vitale), l’esordio dei Dee Lei (ex Malaparte), band  di Prato che comincia da questo album senza titolo il proprio cammino discografico, e a ragion sentita il risultato non è male, un disco che poggia la sua forza sulle pieghe di un rock melodico, rivolto all’indentro, come a cercare il segno di una bella pacca sulla spalla da parte di  intimità, accenti e sguardi che negli oscuri taschini della vita spesso non si percepiscono, ma ci sono se si guarda bene fino in fondo, e quel fondo i Dee Lei lo stanno già riempiendo con pochi giri di stereo e  con un suono dolce, sofferto e liberatorio che dà loro ampiamente ragione.

L’introspezione, il calmo dolore, sono posti centro della scena, dove la musica è ascoltata dal suo interno, mentre si riproduce in un macramè di sensazioni delineate da un pathos caldo che sublima il contesto, il suo dintorno, in un crescente e costante emozionale; dieci pezzi mutevoli che hanno “materia” e soluzioni per farsi piacere in un battito di ciglia, tracce senza la minima divagazione che possa portare l’ascolto in derive o intoppi stilistici che di solito si sommano o perlomeno fanno tara alla fine del giro, nulla di tutto questo, un disco che è un ottimo rimedio per caricarsi di bella poesia amara dopo una giornata così cosi, di quelle senza capo né coda, magari con un amore da ricostruire nella sua interezza figurativa.

Una tracklist con pagine dense di emozioni e distanze intimiste da ricamare col senso della melodia, silenzi, respiri, rumore che i Dee Lei ricercano accuratamente come sintesi di ricordi e speranze da tramutare in canzoni, e questa ricerca confluisce in questo lavoro, dentro il magnetismo di un cerchio di plastica che riproduce suono, nella nebbiose e stupende ballate MolthenianeSogno di volare”, “E’ finita l’estate”, l’evanescenza mantrica e solitaria di “Mare blu”, le gentili distonie elettriche che impregnano “Nuvole dentro” o il calice amaro che disseta il pads de “Il testimone”, traccia a cerniera lampo che chiude il flusso incoraggiante di un disco e di una nuova band che da frescura  e aggira il pericolo dei  “confezionamenti ex novo” non con mera musica e poesia ad effetto, ma con vera poesia incastonata in brividi sonanti.

Della serie il buon giorno si vede e “sente” dal mattino.

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Preti Pedofili | Faust

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I Preti Pedofili non conoscono proprio limiti ed hanno coraggio da vendere, vanno sopra ogni riga, senza peli sulla lingua e senza nessun timore si scagliano tra noi con la voglia di affermare le proprie idee. Il nome della band è la prova più evidente e il contesto che condannano è di quelli che potrebbero portarti grandi rogne, soprattutto poi se canti in italiano come fanno loro e se vivi in Italia. “Faust”, uscito a Luglio, è il loro secondo EP autoprodotto e la band propone uno Stoner Rock dalle sfumature tetre e grottesche, insomma una miscela interessante in cui il grintoso trio è riuscito a dare un pizzico di personalità anche nei testi. Il cantato di Andrea tra un growl ed uno screaming assume tonalità sinistre che ti coinvolgono in tutto e per tutto e la simmetria che c’è tra basso e chitarra è un qualcosa di eccezionale, mentre la batteria ritmica e precisa crea una base degna di nota. “Faust” è un dischetto che si lascia ascoltare con gran piacere, con le casse a palla proverete una goduria che in pochi riescono a trasmettere, almeno questa è l’ impressione del sottoscritto. Se questi sono i presupposti dei Preti Pedofili non possiamo che aspettarci un grande disco d’ esordio. Spero vivamente che riescano a trovare una buona etichetta che li riesca a portare lontani, perché sono band come queste che riescono a creare vera Arte, intesa come quella senza compromessi.

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The Three Blind Mice – Early Morning Scum

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Che cosa vi aspettereste da una band che si presenta con una copertina cosi elegante (una donna che bacia, nutre o è imboccata da un corvo) patinata di rosso quasi nello stile The Smiths con un certo senso d’inquietudine in più, ma nello stesso tempo si manifesta con una foto all’interno tutto sommato abbastanza coatta, con i membri vestiti come Piero Pelù e compagni appena usciti da una quadriglia western? E cosa vi aspettereste da una band che pone tra le proprie influenze gente del tipo Elvis Presley, The Birthday Party, Lee Hazlewood, Nancy Sinatra, Nick Cave & The Bad Seeds, Einsturzende Neubauten, Tom Waits, Leonard Cohen, Johnny Cash, The Velvet Underground, The Sex Pistols, The Clash, Joy Division, The Jesus & Mary Chain, The Cramps e Gun Club? Forse qualcosa di brillantemente strampalato. Magari un mix di Rock’n Roll, Punk, Industrial, Country, New Wave, Post Punk, Voodoobilly e Dark. Vi piacerebbe vero?
Cosa vi aspettereste da tre topolini cecati?

Mi spiace deludervi ma quello che vi aspetta è molto più ordinario delle premesse ma attenti, la cosa non sminuisce certo il valore dei milanesi.
The Three Blind Mice nascono a Milano appunto, solo tre anni fa e cominciano il loro viaggio producendo un Ep in solo vinile distribuito in Europa dalla berlinese Pale Music. Nel 2010 muore Rowland S. Howard, storico chitarrista membro degli Young Charlatans, Boys Next Door, Tuff Monks, Crime & the City Solution, These Immortal Souls e soprattutto The Birthday Party, leggendaria band postpunkrockblues australiana che fu il trampolino di lancio del grande Nick Cave, e loro, da bravi e dinamici appassionati di musica, organizzano il primo concerto tributo proprio a Rowland S. Howard. Nello stesso anno, su invito di Phil Shoenfelt (Fatal Shore, Nikki Sudden (tra l’altro quest’ultimo ha anche lavorato nel Punk Blues di Kiss You Kidnapped Charabanc proprio con Rowland S. Howard) si esibiscono nell’esotica e affascinante capitale ceca e proprio nella repubblica di Praga, insieme ai Kill The Dandies! Inizieranno un tour che li porterà fino a Berlino. Le loro scorazzate per l’Europa insieme a Big Sexy Noise di Lydia Lunch e Gallon Drunk, passeranno per Lubecca prima di portarli nella nostra Italia. La sosta è breve e presto inizia un nuovo tour, stavolta con Dim Locator, proprio di Schoenfelt, sempre nell’amata Germania. In Italia riusciranno ad aprire i live di Hugo Race And The Fatalist e dei Woman, ma la loro dimensione europea si fortificherà l’anno successivo, con un nuovo tour in Repubblica Ceca, stavolta come supporto agli Slim Cessna’s Auto Club.

È ancora lo stesso quello che vi aspettate? Non vi saranno diventati odiosi? Non vi sembreranno mica dei tipi da “Io suono in giro per l’Europa, che cazzo ne sai tu”?
Lasciate stare tutte queste cazzate. Lasciate stare quel cuore cafonal chic trafitto da una spada, prendete il disco e ficcatevelo in dentro lo stereo. Lo Schaltraum Studio di Berlino e Pale Music presentano, Early Morning Scum. Ve lo presento io.
“Asphalt Jungle” parte carico a mille, in un Alt Rock stile Marlene Kuntz, senza però digressioni noise e soprattutto senza quel cantato alla Godano del tipo “oddio non ce la faccio, mi sono appena sparato una pera” ma anzi con una vocalità profonda, intensa e calda (quasi Dark Post Punk), che accresce l’atmosfera desertica (come nel caso dei primi Litfiba) della musica. Atmosfera che diventa ancor più accentuata nella successiva “Bug Under Glass” dove, anche grazie all’organo di Manuele Scalia (autore praticamente di tutti i testi e le musiche), si evidenzia l’influenza di Nick Cave, che nella testa dei quattro (per la cronaca Manuele Scalia voce e chitarra, Daniele De Santis chitarra, Matteo Gullotta basso e Matteo Quaranta batteria) deve aver piantato dei semi più cattivi che mai. Con “Devastation Town” fa il suo ingresso Chris Huges con i suoi piatti e le sue percussioni. Ancora un Alt Rock eccezionale dal sapore vagamente Tex-Mex ma soprattutto una somiglianza evidente, anche se i milanesi sembrano più veloci e meno tetri e gotici, con la creatura di Peter Murphy chiamata Bauhaus. Una sorta d’incontro tra il Southern Blues Rock statunitense e la Darkwave britannica. La ballata “Dust Devil” invece, tra i cactus e il deserto ci si fionda senza voltarsi indietro, in perfetto stile Calexico. In “Three Story Girl” cambia ancora il batterista. Stavolta tocca a Enrico Berton. Con “Knuckles”, altro brano a metà tra la follia australiana e il Post Punk della regina con un risultato tanto 16 Horsepower (vedi Clogger) il ritmo è cadenzato, ossessivo, senza vie di fuga, con quel cazzo di giro di basso (che so che vi ricorderà qualcosa che già conoscete) da brividi e le coltellate delle corde di Daniele De Santis a lacerarci pelle e ossa, Skin and Bones. Eccezionale “Golden Spiral Kill” (con l’ingresso di Tom Schwoll alle percussioni insieme a Hughes) che lascia trasparire le influenze Punk seventies. Tornano le atmosfere fagioli e coyote in “Little Animals” mentre “Slow Motion” parte con una sezione ritmica da Joy Division per poi regalarci un pezzo di puro, sano, splendido Pop stile Pulp che quasi diventa Shoegaze nelle sfuriate di chitarra che stravolgono la mente e le orecchie dell’ascoltatore per risolversi in una No Wave di nuova generazione come i migliori e più vivi Interpol, Editors o The National. Un pezzo che non ti aspetti piazzato proprio dove serve, per non annoiare, per mantenere vivo il pulsare del cuore, per aiutare a innamorarti. È proprio alla nuova onda Interpol – The National è dedicata anche “Half Seas Over” sempre con quel tocco particolare al sapore di Tequila, che caratterizza tutto l’album e soprattutto sotto la guida di un angelo vivo chiamato Nick. “Jesus” chiude l’album come un amen una preghiera, come una preghiera la vostra vita. Anche nel suo essere religious rivela la passione della band per un posto e un uomo forse troppo lontani ma le parole toccano l’anima come poche e più di tanti altri pseudo grandi nuovi cantautori italiani.
Forse non era quello che mi aspettavo, quello che vi aspettavate ma l’esordio dei The Three Blind Mice è qualcosa che ha superato le aspettative sorte dopo il primo veloce ascolto. Non mi frega un cazzo di come si vestono, non mi frega con chi o dove hanno suonato. Visto come suonano, mi frega solo quello e ditemi quel cazzo che vi pare, l’idea di accostare il Post Punk al Tex-Mex è una figata ben fatta, originale o no sticazzi. Le canzoni sono splendide, le melodie anche, la voce è come deve essere e tutto va come deve andare. Se ve lo dice un rompicoglioni come me, fidatevi. E poi…l’avete vista la copertina?

Ah, non vi ho detto che c’è una sorpresa…mi viene da piangere, non mi succedeva da tempo con un disco che non conoscessi.

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Riccardo Bellini – La gentilezza nelle cose

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Recita il vocabolario Treccani: gentilézza s. f. [der. di gentile]. – La qualità propria di chi è gentile, nei varî sign. dell’aggettivo:g.d’aspetto, g. di modi; e in senso morale: g. d’animo, di costumi,di sentimenti. Più com., amabilità, garbo, cortesia nel trattare con altri: persona di squisita g.; la sua innata g.; è di una g. rara, incomparabile; per g., formula di cortesia nel chiedere un favore, un’informazione e sim.
Ecco: io non credo di essere un recensore gentile per indole e questo è un elemento importante da tenere in considerazione per valutare il mio approccio a La gentilezza nelle cose, prima fatica discografica di Riccardo Bellini. Milanese, portavoce di quella generazione over30 ancora legata ai propri ruggenti vent’anni ma costretta a scontrarsi con una realtà per la quale è già ora di farsi una famiglia e invecchiare tra routine e responsabilità, Riccardo realizza questa demo di 5 tracce e la suona in giro per il nord Italia, al momento accompagnato da Paolo Perego, Riki Testorini e Maurizio Fusco, tutti strumentisti che hanno già militato in altre formazioni e che possono vantare una certa esperienza. Di per sé il prodotto è impeccabile. Un bel packaging fresco, una copertina finalmente chiara in un panorama di indie-produzioni dalle diverse tonalità di depressione che fanno un baffo alle celeberrime cinquanta sfumature di grigio.

Sono partita ben predisposta insomma, ma dai primi secondi di La tribù, traccia di apertura, ho dovuto ricredermi. Intanto la melodia vocale si muove su un tappeto ritmico elettro-dance che invece di esplodere in un ritornello incalzante semplicemente sparisce e lascia spazio a chitarre acustiche e dita schioccate. Ah. In secondo luogo: si scrivono davvero ancora i testi in rima? Con le sillabe tronche? O con i verbi all’infinito come nel secondo brano, I tuoi diari? Davvero? Un cantautore dovrebbe avere dei testi incredibili prima di arrangiamenti accattivanti. Ma Riccardo non è uno dalla voce fumosa e l’istigazione reazionaria. Vocalmente ricorda Niccolò Fabi con un certo tocco anni ’80 più alla Samuele Bersani. Non è uno Zibba, per intenderci. Bellini ha una vocalità leggera tutta italiana ma non belcantistica, pop ma non virtuosa e una scrittura letteraria quasi infantile, che giova a quella primaria sensazione di leggerezza che avevo provato alla vista del demo, ma che lo priva bruscamente dello spessore estetico di cui dovrebbe alimentarsi un artista degno d’essere chiamato cantautore. Costruzioni articolate o semplici, lessico quotidiano o ricercato, non ha importanza: deve riuscire ad arrivare un messaggio prepotente, che catturi l’ascoltatore e che releghi in secondo piano l’abilità dei musicisti. Riccardo non ci riesce. Ci prova, seriamente, in Lettera per lui, costruita a grandi sezioni (accompagnamento pianistico, andamento più folk per il ritornello, sezione parlata e sussurrata), come a voler dare sfoggio di una certa attenzione che indubbiamente c’è: l’impressione però è che sia proprio sbagliato l’investimento emotivo, come se non si centrasse il punto della questione. Parafrasando gli Afterhous, Riccardo ha tutto in testa, ma non riesce a dirlo.
La gentilezza nelle cose, insomma, va bene, ma non basta a farsi largo nel panorama emergente.

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Luca Bassanese – La Rivoluzione

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Il cantastorie vicentino, Luca Bassanese è di nuovo in circolazione col quarto album “La Rivoluzione”, e dunque è un rafforzare l’idea che questo affabulatore di realtà, teatrante con un vero cuore incorporato, faccia già parte memorabile e a buona ragione del nuovo e grande cantautorato a venire, per intenderci quello che può dare lezioni e sentimenti senza improvvisazioni intrattenitrici di sorta, fuori dai camuffamenti e diretto negli entusiasmi pur conservando, con la golosità rubiconda dei poeti, il tratto inconfondibile delle storie di traverso.

E la sua è una rivoluzione accorata, fantastica tra avanspettacolo, feste di piazza e polverosi prosceni di vita amara in costante odor di riscossa sociale, temi da contrattempo e maturità che vengono sgolati, bisbigliati e recriminati con quel senso “beatamente guascone” che trascina le ombre rumorose di CaposselaQui si fa l’Italia o si muore”, i dilemmi di un lontano teatro di Dario FòMa cos’è questa crisi”, “Vogliamo la testa del re!” e le svergolate RiondinoaneLa casta” in un racconto infinito visto dalla parte degli ultimi, di chi s’incazza al cospetto di un Re padrone che in fondo – in nessuna piega della storia – è stato mai cacciato; marcette, mazurche, bande popolari, zumpappà e ottoni lucidati a nuovo sono la portante struttura sonora che regge tutto il “vapourissements” di storie e accadimenti che l’artista Bassanese mette in piazza come un almanacco d’altri tempi, al pari d’ una dimostrazione o uno slancio circense che dice, parla, interpreta e “sbocca” verità e sputi con fare magnificamente strapazzato.

La sua maturità artistica – riferita a Bassanese – è equivalente ad una “bottega d’autore” che non si fa mancare nulla, l’eleganza nella verve, il fascino nell’ironia, la burattinaggine colta, una espressività intelligentemente guitta che non nasconde anche di cedere alla tentazione del pop sociale “L’Aquila far west”, “L’essere umano” o  agli istinti afrikaner che dondolano in “Signora speranza”; con l’amico Stefano Florio agli arrangiamenti, Luca Bassanese ci regala un quarto e fortificante atto della sua vita/performance indissolubile e tenacemente attaccata al manifesto delle cose ben dette in faccia e orecchio, una vita artistica di vecchie marsine e antiche favole d’oggi  che scintillano sempre di più nella circolazione moderna del buio di fatto. Stupendo!

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De Grinpipol – Earworms

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Ultimamente la Sardegna in fatto di musica alternative sta dando buoni numeri, tante le proposte sonore che sbarcano nel “continente” con l’intima intensità di scardinare finalmente le porte degli ascolti ad di la del mare, certamente non per svernare i vecchi simulacri delle cose ritrovate, ma per una eventuale presa di storia, illuminazione e terra tanto da far si che si possa uscire da una routine oramai logora e lisa che castra enormemente l’underground tutto.

I sassaresi De Grinpipol  – qui al secondo lavoro della loro corta carriera con “Earworms” –  fanno da apripista ad un gusto alternativo che chiazza di colori vivaci  un pop-psichedelico e una wave vestita di indie che una volta attaccato bottone con gli orecchi, difficilmente poi scende a patti col silenzio; una scaletta che si muove nei territori cari a Modest Mouse e più in la alle fibrillazioni degli Arcade Fire, ma anche una scaletta che afferma e dona la piacevolezza brillante di un lotto sonante mai scontato, dalla dimensione dichiarata e allargata senza nessun compromesso facile, una formazione fiera del loro senso variegato, ibrido di suonare e cantare frivolezze e tosti profili d’avanguardia, senza dubbio fuori dagli schemi per quello che siamo portati a sentire dalla mattina alla sera.

Tastiere 80’s, refrain vagamente radiofonici, corde elettriche shuffle, pimpanti ed epilettiche dal piglio punk “Minoli”, la ballata beatnik che smuove “Keep up prices”, “We try together” e le onde Bowieane che in ordine sparso abbracciano “A fur on summer”, “Mellow led”  caratterizzano i sentimenti e i desideri di una evoluzione prodiga a far si che si stia ascoltando una autentica emozione dalle tinte forti, e non un mero banco di prova per misurare a freddo “il secondo parto” di una band, e su questo i De Grinpipol non hanno bisogno di puntualizzare nulla che sia in più, la loro è una estensione estetica che apporta nella nuova scena rock quel tocco preciso di “innaturalità organizzata” che attraversa la filiera come una immaginaria fiorettata; cori e melodie fanno il resto, mischiando gioiosità e punte di amarezza poetica, punte di quella sostanza tenera e regolare che va ad intubare le prospettive aeree della lontananza “The reckless”.

Nove tracce di razza, una band indissolubilmente legata ad un futuro.

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Alanis Morissette – Havoc and Bright Lights

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Probabilmente quell’incantesimo che negli anni Novanta l’aveva innalzata ad icona assoluta del pop agguerrito di denti e dolcezza è finito, ancor più probabilmente quel suo impero colonizzatore di palinsesti radiofonici mondiali aveva stufato ad oltranza, fatto sta che la cantautrice canadese Alanis Morissette si pone fuori mercato massimo, non attira più quelle folle di ragazzi ribelli ma di buona famiglia ed educazione –  magari anche timorati di dio e attivisti la domenica mattina in qualche movimento di Avventisti del Settimo Giorno –  che con le sue hits riuscivano ad uscire perlomeno da quella parvenza buonista per rivendicare una libertà più che fisica di linguaggio; ora a quattro anni dal deludente Flavors of Entanglement, riappare con un nuovo disco “Havoc and Bright Lights”, disco che nelle ambizioni di molti doveva essere il rilancio categorico della verve Morissettiana, ma nulla da fare, tutto è tragicamente identico al precedente, tracce piene dell’indubbio pregio di “non distinguersi” in nulla, e non basta inserire qualche afflato elettronico per tirare su quotazioni che non esistono se non in difetto, rimane in sottofondo quella colorazione (sempre più sbiadita) espressiva dei dollarosi esordi ma niente che faccia gridare ad un miracolo in odor di replica.

L’artista come sempre non lesina testi che grondano di umanità da salvare, ambienti da conservare, cuori e anime da tenere stretti e quegli abbracci enormi che virtualmente cingono tutto quello che è sociale “Celebrity”, “Woman down” o “Edge of evolution”, i voli iper amplificati e a coralità aperta “Guardian”, reminiscenze rock torbide attraverso un violino in depressione “Numb”, uno zuccheroso beat a prova di diabete “Win and win” e la debacle finale di “Magical child”, quasi cinque minuti di fraseggi eterei che alla lunga innescano l’idraulica naturale di un sonoro sbadiglio.

Un rientro in scena che non segna nessuna importanza, la Morissette (neo mamma) è troppo presa in un gioco di morbido abbandono, confusa ed incerta, lontana ere geologiche da quella fantasmagorica magia chiamata Jagged Little Pill che ci fece venire la febbre, o meglio, il febbrone a contrasto degli spasimi del grunge.

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Asaru – The Chasms Of Oblivion

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Striduli riff, freddi giri di chitarra e forse anche un pò ancestrali (inteso come  suono da garage) e uno cantato che molto probabilmente sarà approvato dagli Emperor, questa è la miscela che compone “From The Chasms Of Oblivion” il secondo disco dei blackster  Asaru. Registrato presso i Rohlekeller Studio e prodotto dallo stesso Frank Nordmann, cantante e chitarrista del gruppo, “From The Chasms Of Oblivion” ha sicuramente il suo impatto forte al primo ascolto, ma ad esser sinceri, è un lavoro che a lungo andare stanca. Potremo cominciare dalla lunghezza delle tracce: la più corta, “Blind Obedience”, dura cinque minuti e 16 secondi mentre la più lunga è “World On Fire”,ovvero  la traccia di chiusura dalla durata di sette minuti e quarantanove secondi, insomma, una  bella mazzata finale per essere franchi. Il difetto di questo disco sta nell’ andazzo monotono e ripetitivo, come dicevo all’ inizio può incuriosire e magari piacere anche un po’, ma dopo un paio di ascolti il disco inizia a diventare pesante. Mostra indubbiamente la tecnica e le capacità dei membri del gruppo, ma se dobbiamo essere sinceri  tutto il resto non fa impazzire.  E’ chiaro che gli Asaru hanno capacità strabilianti e questa piccola steccata non influenzerà affatto, questo perché la band è più che attendibile ed il loro primo disco, “Dead Eyes Still See” lo può provare. In ogni caso spero si rifaranno con il prossimo lavoro.

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