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The Abi – Song of Trail

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Dopo aver passato sei anni dal 2001 a comporre demos con varie bands locali Andrea Braina, musicista di Sassari, decise di fermarsi per poi intraprendere nel 2010 la carriera solista.
Song of trail” è il suo primo mini cd che vede la luce, totalmente autoprodotto e distribuito.
Una voce cupa e roca che potrebbe essere una sorta di incrocio fra Peter Murphy dei Bauhaus e dei Love and Rockets e Tom Waits scandisce le cinque tracce di questo mini ep.
E sicuramente è proprio la voce che colpisce di più in questo lavoro sebbene sia spesso e volentieri coperta dagli altri strumenti.
L’unico difetto (forse e se si può chiamare così) di questo viaggio sonoro è una batteria troppo statica che fatica a imporsi benchè scandisca alla perfezione il tempo.

Interessante poi la copertina rigorosamente in tonalità di grigio contornate di bianco in perfetto stile Ecm records (anche se col genere musicale dell’etichetta non c’è proprio nulla in comune).
Battlefields” è una freccia che colpisce al cuore direttamente, degna di esser paragonata alle prime opere dei The Cure grazie alle sue infinite sfumature sonore.
Ascoltando “You were” riecheggia invece nell’aria invece l’anima dei Joy Division e quella dei loro “pronipoti” Diaframma, che dal 1981 al 1983 si ispirarono profondamente al gruppo.
By memories” è invece un po’ più movimentata sin dalle prime note (sempre rigorosamente arpeggiate) e dà un po’ più di vivacità al tutto.
In “No Thrill” a far da padrone è invece (in mia opinione) per la prima volta il basso che altissimo si eleva per dar spazio alla chitarra durante il ritornello.
The beats” è invece il brano più psicotico, caotico e confusionario (ma in senso buono sia ben chiaro) mai sentito.
E se non mi credete tutto ciò che dovete fare è procurarvi “Song of trail” che viene venduto a prezzi modici in formato mp3 su internet.
Non posso quindi che esprimere un giudizio più che positivo per questo minicd a cui seguiranno presto altri lavori già preparati e in attesa di pubblicazione da parte di Andrea Braina che si spera possano mantenersi sullo stesso livello di qualità o, perché no, anche migliorarsi.

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Aeternal Seprium – Against Oblivion’s Shade

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Provenienti da un piccolo paesino ricco di storia a Nord della Lombardia, gli Aeternal Seprium manifestano la loro presenza con un disco d’ esordio veramente grintoso. La band che di gavetta ne ha fatta, è riuscita con la propria audacia e voglia di fare a sfornare un lavoro di ottima fattura. Parlando del gruppo, nacque  come cover band con il nome Black Shadow nel 1999, poco dopo i ragazzi si resero conto che volevano qualcosa di più e cominciarono a comporre e a proporre pezzi inediti. Con il tempo produssero due demo, “A Wishper From Shadow” il primo e datato 2007, qui con l’ inizio e dunque la  benedizione degli Aeternal Seprium, e nel 2009 “The Divine Breath Of Our Land”.  Nel frattempo gli Aeternal Seprium suonano in alcune date di supporto a gruppi come Phantom X, Omen e Tokyo Blade. Nel 2011 producono il disco d’ esordio “Against Obliovion’s Shade”. Questo disco, protagonista della recensione spazia dal Power  al Progressive , il tutto con sfumature Epic. I riferimenti sono i classici: Iron Maiden, Helloween, Grave Digger e Gamma Ray, perciò chi è appassionato di queste band sicuramente apprezzerà questa fatica  degli Aeternal Seprium. Ad ogni modo “Against Obliovion’s Shade” è un disco ben suonato, il lavoro delle chitarre è eccezionale ed il cantato  di Stefano Silvestrini è veramente impressionante, mettiamola cosi: le sue doti canore sono un ottima garanzia anche per il futuro. E’ difficile indicare una traccia precisa, perché ognuna di  esse ha qualcosa di particolare nonostante la loro struttura lineare. Insomma “Against Obliovion’s Shade” è un album apprezzabile,  ha tanti punti a favore come del resto gli Aeternal Seprium. Non resta altro da fare che godersi il disco.

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Propagandhi – Failed States

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Molto  probabilmente hanno fatto un patto col diavolo, sicuramente, altrimenti non si può giustificare l’eterna giovinezza sonica che i canadesi di Winnipeg, i  Propagandhi,  si tirano dietro, tutto è come – quasi – agli esordi del combo capitanato da Chris Hannah, anzi, mettiamoci in più anche una ulteriore spanna di incazzatura, perché a loro piace, a loro serve per denunciare – come sempre –  la politica corrotta, i poteri forti dell’economia e le diseguaglianze sociali dentro, fuori e di lato del Canada e del mondo circostante.

Failed States” è il sesto disco di questa formazione velenosa, la nuova ventata di rabbia, ribellione e denti aguzzi che in dodici scudisciate sonore mette in riga ed incute rispetto l’ascolto, fa salire la pressione sanguigna fino agli attici dello stordimento fisico; chiaramente e da immemori tempi figli adottivi dell’onda americana dei Nofx, la formazione – che ricordiamo essere dopo un’ultima rivisitazione della line-up  formata dal già citato Hannah voce e chitarra insieme a David Guillas chitarra, Jordy Samolesky batteria e Tod Kowalski al basso – riconosce degnamente anche certe limitazioni che il loro sound va ponendo man mano che i tempi corrono, ma la fustigazione del loro istinto giustiziero è più forte e rapida di un verdetto, di una condanna.

Con ancora in testa un loro fulminante album del 93, How to clean everything, la summa artistica di questa band è pressappoco la stessa, anche perchè il genere sonoro espresso non concede variazioni di sorta ma che continua a rappresentare la coscienza etica di una è più generazioni in fallimento; chitarre, fuzz, corse elettriche, funambolismi melodici e urla, rabbia, saliva e dolcezze lampo picchiano la tracklist come una pena da scontare, non mancano lancinanti metallismi a tergo di rimebranze di Iron Maiden, Judas PriestDevil’s creek”, lo speed doom acre che sfiata dai woofer di “Rattan cane”, le pedaliere doppie che sanguinano tra le macerie di “Cognitive suicide”, “Dark matters” e le esalazioni potenti alle quali nuove roccaforti dell’HC  – vedi International Noise Conspiracy, Subhumans e altri – ne fanno fede “Lotus gait”.

Sono in piedi da anni (1986), e da anni sparano da matti, inutile bloccarli, sono della vecchia generazione e alla pensione non ci pensano affatto, preferiscono la guerriglia amplificata che la becera bontà di facciata. Come dargli torto?

Comunque da avere.

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Gli Ultimi – Storie Da Un Posto Qualunque

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Avete presente quando, da bambini, aspettavate un anno intero che arrivasse Natale perché sapevate bene che vostra nonna vi avrebbe regalato il Voltron gigante? Poi succedeva che arrivava il giorno del compleanno di vostro signore Gesù Cristo e vedere la scatola avvolta nella carta del negozio di giocattoli più figo del paese vi riempiva gli occhi di lacrime sorridenti e i muscoli d’una frenesia epilettica. Poi strappavi quella carta a morsi e il tuo volto diventava un misto tra verde melma, grigio catarro e arancio vomito. La carta era solo un riciclo, ormai era chiaro e ti ritrovavi a fare i conti con la verità dei pizzicotti della vecchia rincoglionita, col suo Alzheimer e con l’ennesimo pigiama con gli orsetti.

Oggi, la stessa situazione di merda sopraggiunge ogni volta che ricevo un nuovo disco di (, spero sempre buon) Punk tricolore e lo infilo nello stereo. Non è tanto la qualità della registrazione, le melodie o la bellezza pura della musica. È solo che non ne posso più di ascoltare band che fanno la stessa identica roba di decenni fa, quella del Flower Punk da musicassetta, dei Derozer o degli Impossibili. Che cazzo: hanno ibernato tutti i punk di questa fottuta penisola? La cosa mi mette in seria difficoltà, giacché ho sempre più l’impressione, a questo punto, che potrei scrivere un bel pezzo standard da copincollare di volta in volta.
Ora, è vero che il fratello cattivo Hardcore ha margini di variazione sul tema abbastanza ampi e che invece, il Punk, per essere considerato tale, deve rispecchiare schemi precisi ma è impossibile che nessuno abbia la voglia e la capacità di plasmare la materia per forgiare qualcosa che abbia anche solo un minimo d’inventiva al suo interno; non ci credo.
Detto questo, vediamo di darci una calmata e facciamo un passo indietro. Perché Gli Ultimi, in realtà, non sono niente male ad ascoltarli bene. Quattro ragazzi di Roma o giù di lì, Roberto “Berna alla batteria, Simone “Pat” al basso e voce, Maurizio “Bardo” alla voce e Alessandro “Palmiro” a chitarra e voce, che cercano di incarnare, già dal nome, lo spirito della nuova generazione del “No Future” cacio e pepe, quella dei ragazzi senza un lavoro, senza il paparino con i soldi che mette sempre pezza a ogni stronzata, quella senza prospettive e senza aspettative e soprattutto senza l’I-Phone. Simbolizzano la rabbia di tutti quei ragazzi che ogni giorno incontri al bar a giocare a carte o a biliardo per far scivolare via il tempo sulla pelle, quelli che bevono birra e non Spritz, che ti scroccano una sigaretta e si fanno qualche canna. Forse parlo proprio di te, di quello che sei o di quello che eri. Proprio tu che hai smesso di sognare, ma è solo quello che vorrebbe, quello che crede, la “nuova società dei magnaccioni S.P.A.” chiamata Italia. Gli Ultimi, nati nel 2008 da qualche costola di Automatica Aggregazione, Charlie e Desperate Living, ricordano che ci sono posti qualunque, pieni di storie dove gli ultimi sono i primi. Un concerto, gli amici, la curva di uno stadio, i sogni e le fantasie. Tutti questi luoghi e momenti e quelli raccontati dentro Storie Di Un Posto Qualunque.

Si parte con l’inno Street punk (questa è una cosa che solo i punkers oggi sanno fare bene, creare inni) “Gli Ultimi”, sorta di manifesto del proprio essere, della propria vita ed esistenza, fatta di campi da calcio, sala prove, emarginazione e vita di provincia. Tutto quello che segue, suggerisce in maniera dettagliata i temi accennati nel pezzo iniziale e di cui vi ho parlato sopra e si manifesta in quel tipico Punk Rock che ha fatto la fortuna, per modo di dire, dei già citati Derozer, Gli Impossibili o Le Pornoriviste, tanto per fare qualche nome, senza disdegnare incursioni nel mondo U.S.A. West Coast e nelle distorsioni sociali blues.  Di certo non possiamo che essere felici per la qualità audio assolutamente degna, nonostante le probabili difficoltà affrontate. Ottima anche l’esecuzione dei quattro ed ho trovato estremamente imbroccata la voce di Alessandro e Simone, sia nelle parti cantate sia negli immancabili coretti. Melodie quasi inappuntabili e sempre ben ricercate. Curioso l’inserto della tastiera al pezzo cinque, “Laida, Bastarda e Sporca” che forse poteva anche essere più incisivo e lo stesso si può dire della successiva, bellissima, “Canto Del Carcerato” che vede la presenza del mandolino di Andrea Rossi. Non mancano le ballatone alla Mike Ness tipo “Longness” e non mancano le compartecipazioni, con Massimo Il Sardo in “Morfina” e con Damiano, Falla e Teschio in “Ancora Qui”. Molto piacevole inoltre la copertina, ben rappresentativa di quello che è il punk oggi, nel suo sentirsi sempre più in gabbia con la sola compagnia di quello che è il punk di tanti anni fa, coi capelli bianchi ma sempre più vigoroso di quello che il mondo fuori dalle mura non immagini. Infine, non mancano i pezzi carichi, impetuosi, come “Terra Bruciata” nello stile Crummy Stuff di “Con Noi Non Duri Molto”.  L’album si chiude con “Ancora Qui”, il pezzo più “yankee”, più Hardcore e più sparato a mille, ma l’impressione è che Gli Ultimi riescano con migliori risultati utilizzando la formula melodica proposta nei brani antecedenti.
Un disco che trova proprio nelle melodie e nell’anima i sui punti di energia. Un bel disco e presumibilmente una bella band da vedere dal vivo. Resta quel dilemma del cazzo. Mi aspetto sempre la band che faccia virare il Punk verso una nuova meta vergine ma mi ritrovo incessantemente con la faccia nella pura convenzionalità musicale fatta da chi predica l’anticonvenzionalità per eccellenza. Per ora mi accontento e mi tengo stretto almeno questa band che sa essere sincera, sa suonare e scrivere bei testi.  Intanto aspetto con ansia il prossimo Natale. Non si sa mai che a mia nonna passi l’Alzheimer.

P.s. Grazie dell’adesivo Street – punk in natura Peroni. Salute! Vado a berne un paio.

 

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The Killers – Battle Born

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Dopo la partenza scalpitante con Hot Fuss,  dopo le sconclusionate avventure di Sam’s Town e Day & Age, i The Killers ci riprovano con “Battle Born” il disco che li dovrebbe riportare all’adulazione a cui erano stati abituati in precedenza e che potrebbe ancora giustificare la presenza della band di Las Vegas tra i cornicioni di quello che è rimasto dell’alternative americano; e con uno sforzo considerevole, l’ascolto delle dodici tracce si rivela come una riga tirata su di una resa dei conti virtuale, come a dire che la band abbia sentito il bisogno di “valutarsi” prima di andare avanti nella musica e quello che ne viene fuori – senza troppe manfrine – è un disco che fa fatica a prendere la strada maestra, ma che comunque rimane sulle traiettorie normali di un ascolto  che passa e va, senza fermate intermedie.

E prima di decretare il classico “nulla di nuovo all’orizzonte” c’è da evidenziare che la passione castrante per lo Springsteen sverniciato e lustrato per l’occasione, “Runaways” su tutte, non fa altro che aumentare il distacco tra opera e ascolto in quanto la formazione pare non fare nulla per incentivare la mancanza di creatività che li affossa inesorabilmente tra il nulla ed il niente; c’è solo da ascoltare senza godere, una tracklist che suona senza gioire, Prefab Sprout e U2 che si contengono lontani anni Ottanta “Deadlines and commitments”, epici attacchi di immensità limitata “The way it was”, “Here with me”, il vuoto a non rendere che incastra la trama sonora di “Be still” o di quella che la titletrack sventola in un cielo senza vento e senza colore.

Prova fallita per la formazione del Nevada, non tutte le ciambelle possono riuscire col buco, ad ogni modo i The Killers possono ancora sterzare su terreni propizi, basta trovare un nuovo sentiero che non li faccia smarrire di nuovo, e lasciare in pace una volta tanto il Boss tra i suoi spasimi e le sue avventure morbose.

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Etnia Supersantos – L’Abominevole uomo delle fogne

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Il mondo era bello e le caprette facevano ciao! Il modo adesso è brutto e le pantegane fanno ciao! Gli Etnia Supersantos arrivano al secondo disco L’Abominevole uomo delle fogne in forma smagliante e senza pensieri martellanti nella testa, come sentirsi non condizionati da tutto quello che quotidianamente ci percuote la testa. Un disco leggero nei contenuti e pesante nei significati, si “offende” con ironia, si suona tanto e decisamente bene. Se la voglia è quella di danzare, bere e lasciarsi andare questo è il disco giusto, se volete arrovellarvi il cervello con sentimenti nascosti e lacrimucce forzate lasciate perdere questo lavoro, non è roba dal cuore tenero. E’ roba per guasconi scaccia pensieri in cerca di divertimento.

Si balla dall’inizio alla fine respirando melodie esotiche (La Jungla, le Scimmie, le Liane), si fanno escursioni improbabili alla ricerca della componente ritmica (L’Escursione sul Monte Sinai) e tutto sommato perdo il filo della ragione quando (Soffro) il calo del desiderio è politico e non sessuale. Un Varietà a tutti gli effetti, una rappresentazione sciocca della vita, un modo simpatico per ingoiare bocconi amari ai quali siamo ormai costretti a fare la bocca. Bene, L’Abominevole uomo delle fogne rilassa la mia nervatura e prepara le labbra ad incontrare un sorriso ben voluto, certe cose sono fatte per questo. Non un disco simbolo della discografia italiana ma un momentaneo anti dolorifico e un calcio nelle palle alle sofferenze (almeno per qualche minuto). Un cast ricco di musicisti quadrati che danno spessore all’intero album, un disco da prendere nudo e crudo senza farsi troppe domande. Fondamentalmente un buon lavoro. Gli Etnia Supersantos sanno come fare per sentirsi importanti, sanno far ballare e soprattutto sanno far sorridere. Vi sembra poco? L’Abominevole uomo delle fogne bisognerebbe ascoltarlo in mutande sul balcone di casa sorseggiando un cuba libre e fregandosene altamente della merda che ci cade sulla faccia.

 

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King Tuff – King Tuff

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Al primo giro può sembrare un disco “disarmato”, senza forze da misurare o ancora peggio privato dei “classici testicoli” atti a gareggiare con le voglie smorfiose di un lettore ottico viziato al meglio, e la cantonata e proprio qui che si prende, questo disco omonimo degli inglesi King Tuff è un piccolo tesoretto di suoni garage-pop “Anthem” contaminati da psichedelica,  easy-folk e ballads neo-freak che si fanno voler bene nel tempo necessario d’un battito di ciglia.

Indagando a fondo si scopre che dietro King Tuff si cela l’artista americano Kyle Thomas, musicista “zingaro” già conosciuto in vari progetti sonori  quali Happy Birthday, Flamin’ Groovies, Feathers ed in quello splendido disegno stoner-metal chiamato Witch insieme al grande J.Mascis dei Dinosaur Jr., ed ora – in un guizzo ulteriore d’energia pirica – arriva a questo registrato, un caleidoscopico mix di Fleetwood Mac, Sweet, Marc Bolan e chi più ne ha più ne metta che si integra perfettamente con la voglia di ascoltare un disco che tiene su come un’iniezione di adrenalina pura, un disco che sicuramente colora di varie nuances una qualsiasi giornata che capiti a tiro.

Una marea di chitarre elettriche, stiloso rock’n’roll, quei passi old school che si fondono con il linguaggio lo-fi e indie e quelle bellissime infiltrazioni glammy circoscrivono un disco di immenso attaccamento al vintage come nessun altro, hooks radiofonici a profusione, del resto basta accostare l’orecchio al beat che scorre in “Alone & stoned”, “Keep on movin’” con i T-Rex nel cuore, “Bad thing”, disfare i muscoli nelle sferragliate rockenrollate “Stranger”, tuffarsi nel folkly Dylaniano “Baby just break” fino ad innamorarsi di un qualcuno che sta al di la dei sogni irrealizzabile “Swamp of love”, per consacrare questo disco come una partenza a tempo indeterminato verso un altro senso di ascolto; insomma un lotto di bellissime canzoni che una volta ascoltate non vi daranno pace di silenzio. Non sfuggitegli, non serve a niente.

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Muse – The 2ND Law

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Sei album all’attivo, un Grammy in tasca, pienoni in ogni angolo del mondo paiono non sembrare nulla agli occhi dell’eterno bad boy di Teignmouth nel Devon Inglese, tal Matt Bellamy, leader incontrastato dei Muse, niente che possa perforare l’armatura acciaiosa che si è costruito intorno per non far trapelare un milligrammo di emozione o stupore; tira dritto nella sua ecumenica discografia che con “The 2ND Law” – il nuovo album – scruta impietosamente e con ossessione la natura, il globo, i principi energetici dell’universo e, non ultimo, il grido di rabbia verso gli speculatori della società, di chi ammazza, affama e prostituisce i basilari diritti della razza umana che bazzica questa strana società.

Matt, insieme a Chris Wolstenholme e Dom Howard, si fa paladino della discrepanza tra crescita demografica incontrollabile e la vera portata della natura, un disco che morde banchieri e petrolieri, un j’accuse elettrificato al massimo più che altro per esorcizzare una presunta fine del mondo, e punta il dito nel mezzo di un mix di rock, fremiti Mercuryani, schegge di Caikovskij nella “seconda legge della termodinamica” e tutto il bailamme distorto e incandescente che solo lui, il profeta del nu-epic, può mettere in campo e negli orecchi di chi gli presta  udienza; una tracklist che prende su tutto, mastica e risputa leggi della fisica e distorsioni ammattite, un caleidoscopio di canzoni che vanno dall’omaggio dedicato al figlio da poco nato “Follow me” al rammarico per quegli speculatori che sono ancora e per sempre in libera circolazione “Animals”, da “Survival” – che è poi divenuto l’inno delle Olimpiadi di Londra e che vede tra gli altri la partecipazione di Daniela Salvoldi e il violino di Rodrigo d’Erasmo degli Afterhours – al triste pensiero per la disoccupazione giovanile “Explorers”, un universo di rabbia e sangue amaro che i Muse hanno voluto rimarcare con un sovradosaggio di neo-psichedelia che non consente vie d’uscita secondarie, o ci si sottomette al suo impeto o è meglio cambiare strada, alternative non ve ne sono.

Tredici traccianti per un disco con la spoletta disinserita, pronto a macellare chi ha la coscienza lurida e a far rodere il fegato a chi pensava che con Showbitz, nel 99, la loro storia si fermasse lì.  Idioti!

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Gian Paolo Oggiano – Railroad Obsession

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Sfido chiunque a dirmi che non ha mai sognato di farsi un interrail in giro per l’Europa.
“I-n-t-e-r-r-a-i-l”. Sale alla bocca il gusto di avventura, soltanto pronunciandolo.
Per i fortunati che hanno potuto raccontare, nella loro agendina, il viaggio più desiderato dei tempi delle superiori, l’album di cui andrò a parlare potrà diventare una scusa per organizzare una rimpatriata con i compagni d’avventura. Per chi, come me, non ha potuto godere di quest’esperienza, questo album potrà farci assaporare il gusto di treno, coincidenze, zaino in spalla e birra.
Railroad Obsession”, è questo il lavoro di cui parlo. Primo album da solista di Gian Paolo Oggiano, Sassarese, classe 1981, di cui sono sia le musiche sia i testi.
Già il titolo fa presagire le emozioni a cui ho accennato prima, quell’“Ossessione Della Ferrovia” che accomuna tutti coloro che decidono di spostarsi, per dovere o per piacere, con il mezzo di locomozione per eccellenza: il treno.

Ascoltando, poi, le otto tracce di cui si compone il lavoro (tra l’altro ottimamente registrate) si capisce che quest’”ossessione” è quella che accompagna il viaggio di chi si sposta per piacere, più che per dovere: la musica suonata, infatti, è il risultato di una combinazione di voce, chitarra e batteria, da cui risulta quel rock acustico con influenze blues, che lascia chi ascolta in uno stato di spensieratezza, il quale non può che accompagnare il viaggiatore-turista, piuttosto che il viaggiatore-lavoratore.
Non a caso, l’intero album è il risultato derivante dai numerosi spostamenti che Gian Paolo ha fatto in giro per l’Europa.
“I’m weating for the train coz’ just before I’ve quit my work. I pick up finally my money and now I’m free”.
Sono queste le parole con cui l’artista ha deciso di aprire il suo lavoro e che possono riassumere tutto lo spirito dello stesso: la libertà che si assapora quando si viaggia senza meta, lasciando che la vita decida per te e che le esperienze ti formino per diventare una persona nuova, migliore. Non tralascia nessuna delle emozioni che una persona e la sua chitarra possono vivere lasciandosi tutto alle spalle per iniziare ad “essere”: parla d’amore, di esperienza e di solitudine, ricordando che il pensiero potrà anche andare alle persone di cui si sente nostalgia, ma è necessario farsi forza, salire sul treno e raggiungere la prossima tappa. Perché  solo quando sei “a thousand miles from your home, you can ride really free” (Lost My Way – traccia numero otto).

 

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Luciano Chessa – Peyrano

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Che Luciano Chessa sia un grande lo dimostra prima di tutto il suo curriculum: due pagine fitte di attività, collaborazioni, progetti, e riconoscimenti.
Se poi si aggiunge che, all’estero, è uno dei “prodotti” italiani più apprezzati da chi l’arte la fa e la promuove, allora non posso che aspettarmi il meglio.
Andiamo con ordine.
La sua carriera ha all’attivo circa quindici anni di attività, che spaziano dalla composizione, per arrivare alla direzione d’orchestra; ha, inoltre, collaborato con alcuni dei più importanti musei, uno su tutti il Museum of Modern Art di San Francisco, e posso con certezza definirlo una delle eccellenze nostrane nel mondo.
Mi trovo davanti al suo ultimo lavoro “Peyrano”, ventuno tracce di impronta futurista.
Occhio, però, a non fraintendere il mio “futurista” con il concetto di “futurismo” professato da Marinetti. Non mi riferisco a quello. Per “futurista” intendo, più banalmente, “volto al futuro”, proteso verso una dimensione incerta e, sicuramente, non attuale.

Vent’un tracce, dicevo, alcune delle quali che ricordano la psichedelia di alcuni brani degli anni Settanta. Tutte, comunque, composte a partire dagli anni ’90 e rimaste chiuse da tempo dentro un armadio di Chessa , tant’è che una prima versione di Peyrano era già uscita tempo fa ad opera della Strawberry Records, etichetta di San Francisco. Ad oggi, la sfida di produrre questo eccentrico cantautore, se l’è presa la novella label Svizzera “Skank Bloc Records”.
Questo album è un lavoro complesso, nel quale la voce di Luciano ne è la protagonista incontrastata. Anche se a volte sembra dia più importanza alle parole dette piuttosto che all’armoniosità del tutto, questa rimane soltanto un’impressione che viene spazzata via proseguendo con l’ascolto.
Oltre alla voce, anche la musica di Chessa a volte può sembrare discrepante e poco fluida tra una traccia e l’altra, basti pensare alla traccia numero otto “Ulisse Coperto Di Sale” (remake di un vecchio pezzo di Dalla e che sembra essere un omaggio al cantautore da poco scomparso), di matrice pop-punk, che cozza indubbiamente con le ballate folk e psichedeliche che costellano l’intero Peyrano.

Altra impressione, che svanisce una volta abbandonata la razionalità con la quale, magari, si ascolta la prima volta un lavoro diverso dai soliti.
Alla luce di ciò, il lavoro appare, nonostante le prime impressioni, molto equilibrato e bilanciato, volto comunque a stupire chiunque decida di ascoltarlo.
Se dovessi riassumere “Peyrano” in tre parole, sarebbero sicuramente “futurismo”, “eccentricità” e “psichedelia”, tutti concetti che saranno, probabilmente, ignoti alla maggioranza delle persone, ma che racchiudono un mondo parallelo che si prospetta essere quello che magari ci aspetterà. Forse è per questo che, nel nostro Paese, Chessa è pressoché uno sconosciuto, perché ci hanno istruito a vivere giorno per giorno, non facendoci badare a tutto quello che potrà essere il domani.

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Cadaveria – Horror Metal

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Quando la tecnica, la bravura, l’ esperienza e l’ altruismo si uniscono il risultato non può essere che un lavoro di ottima qualità. Questo è successo con “Horror Metal”, il nuovo ed attesissimo disco di Cadaveria, icona femminile del metallo pesante nostrano. Partendo dalla tecnica e la bravura, è chiaro che il gruppo con alle spalle diversi dischi e diverse date live hanno con il tempo affinato delle doti strabilianti, riempiendo anche il loro bagaglio musicale e da qui l’ esperienza che ha chiaramente contribuito a renderli ciò che sono. Il disco predispone di fasi che in certi momenti si rifanno al Thrash, in altri al Goth ed altre volte si avvicinano al Death. Insomma riff sgargianti a volte grezzi, quasi da scantinato con una batteria coordinata e ritmica al massimo e la voce di Cadaveria che è un tocco d’ eleganza. Veniamo adesso all’ altruismo che ce ne vuole tanto per intitolare un disco “Horror Metal”. Mi viene da pensare ai Motorhead con il loro “Rock’n’Roll”, agli HIM con “Love Metal” oppure ai Paradise Lost con “Gothic”; queste band e ognuna di loro con una storia ed un percorso a se, sono riusciti a ritagliarsi un proprio spazio e chi più e chi meno ha avuto il risultato sperato dando non solo il titolo ad un disco ma addirittura ad un genere. Io personalmente mai e poi mai avrei pensato che Cadaveria sfornasse un disco di questo calibro con questo titolo anche perché parlando di Horror Metal i primi che mi vengono in mente e neanche a farlo apposta oltre ad essere delle pietre miliari sono anche italiani sono per l’ appunto i Goblin e i Death SS. I primi che spaziano dal Gothic, al Dark al Progressive, i Death SS invece che sono di stampo Heavy Metal. Adesso e vi confiderò che ne sono felice e compiaciuto ho ascoltato anche l’ aspetto più grezzo ed aggressivo dell’ Horror Metal ed è proprio quello di Cadaveria. Insomma al filone dei Goblin e dei Death SS io ci aggiungerei anche quello di Cadaveria, e vi dirò, insieme a loro voglio essere altruista ed egoista anche io, questo per il semplice fatto che la nostra Dark Queen di strada ne ha fatta, lei è un artista con la testa sulle spalle che sa a ciò che va incontro e per questo penso che sia una delle poche artiste che possa permettersi il lusso di fare un passo del genere, oltretutto e qui chiudo ben riuscito.

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Todd Snider – Agnostic Hymns and stoner fables

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A volte funzionano questi rientri sulla scena americana e non solo;  rispolverando i “motori creativi” di un tempo – Jimmy Buffett e Jon Prine –  Todd Snider, il cantautore scomodo per le sue prese di posizione politiche, non poteva esimersi di agganciare l’onda di forte malcontento che gira negli States (la Borsa, la disoccupazione, Occupy Wall Street, la depressione economica) per piazzarci nel mezzo il suo sporco ed elettrico blues di stampo “southista”, quella bella rappresaglia di suoni storti e sovversivi che poi fanno la goduria dell’artista.

Agnostic hymns and stoner fables” è il disco da battaglia, grezzo e squinternato che riflette l’animo dolente e  – nello stesso tempo – sarcastico  di tanti americani periferici, di quelli che lottano con il quotidiano ed il futuro, ma anche un disco che mette all’aria lo spirito, in qualche modo fragile dell’artista, un animo visitato da fantasmi familiari, disillusioni e accenti non propriamente facili nel loro percorso umano e artistico, ad ogni modo in queste canzoni ci si può perdere in un oscillare di piacere e – per essere solidali – incazzati dentro per i temi trattati.

Una svolta “politica” del rockers che gia nei precedenti The Excitement Plan e Peace Queer aveva dato da pensare a certi produttori, ma Snider è sempre stato coerente con le sue testardaggini e da il via a queste dieci bellissime tracce che si snodano – attraverso la produzione di Eric McConnell – in un coscienziale e sincero mood orgoglioso delle sue origini, di difesa dell’uomo indifeso, specie nelle confessioni di speranza “In between job”, “The very last time”, “Precious little miracle”; con lui l’amico di sempre Jason Isbel, e tutto confluisce al centro delle emozioni di rivalsa, un perfetto stato confusionario che mescola rock’n’roll a country blues zigrinati, a volte con il violino della bella Amanda ShiresNew Yorker bunker”, “Brenda”, altre volte attraverso la parola di denuncia “In the beginnings”, nella murder ballad “Digger Dave’s crazy woman blues” o  – e non poteva certo mancare – dentro il gospel acustico nella rielaborazione di “West Nashville Grand Ballroom gown”.

Il cantautore dell’Oregon coinvolge squisitamente, forti e dolci le sue invettive anti-tutto e piace moltissimo quella sua frenesia sporca di dire la verità attraverso una sei corde snaturata e speciale; un disco che non si discute, si ama subito.

 

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