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Emiliano Mazzoni – Ballo sul posto

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Certo che percorriamo periodi grigi. E’ oramai un dato di fatto che la speranza sia offuscata da uno fitto strato di nubi sempre più attaccato alle nostre superfici. Ma chi vive a più di 1000 metri d’altezza, un poco lontano dalla marcia “società”, potrebbe forse ancora godere di pura luce e di sani respiri a pieni polmoni. E regalarci magari uno spruzzo di ingenuo ottimismo (anche un po’ superbo, perché no?), sprigionato da chi ha il coraggio o la pura attitudine di stare più in alto. Non è dello stesso avviso Emiliano Mazzoni, che già dalla copertina ci presenta nubi ben più alte della soglia dei 1000 metri.
Il cantautore di Piandelagotti (paesotto montanaro del modenese a 1200 metri) inverte il processo. Invece di schiacciare le nubi verso il basso, facendosi un’egoistica risata verso chi crede ancora nello shopping e nelle apericene, piglia tutto il grigiore e se le porta verso di sé, in una incontaminata e genuina realtà rurale. Per poter “godere” in pieno anche lui della catastrofe, mettendosi “seduto in riva al fosso” e guardando l’orizzonte. Lo scontro culturale è violento e per mantenere caldo il contrasto Emiliano non aspetta che i bernoccoli tra le due parti si riassorbano. “Ballo sul posto” (il suo primo album, prodotto insieme all’ex-Ustmamò Luca Rossi) è così un mix letale di canzone popolare, ballate naif, noia metropolitana, rabbia repressa in goffe maschere, ritmi lenti e gelidi.
“Vorrei dimenticare di essere un eroe con le sue noie”: Emiliano apre il disco con la profetica “Mentre piangono le grondaie”, una straziante marcetta che ricorda Samuele Bersani avvolto in un nebbione di disillusione. Andando avanti si trovano addirittura frasi come “meglio sparire che imparare ad amarsi” e “come un pugnale in un sorriso”, che non fanno intravedere un solo spiraglio oltre la muraglia nebulosa. “Il dissoluto” è un brano privo di alcun ritmo, ma allo stesso tempo violento, antisociale. Sprigiona la sua ossessiva crudeltà in un freddo fermo, senza vento, ma così umido che affonda il suo gelido coltello fino a graffiarci le ossa.

Per strappare un sorriso bisogna aspettare “Buon per te luna”, che porta con sé l’allegria di un pagliaccio demotivato in un circo semivuoto la domenica pomeriggio. “Stronzi tutti“ ha la metrica del maestro De Andrè e, sebbene non abbia la nemmeno la pretesa di arrivare alle sue opere, si presenta con dismessa eleganza.
“Oppure gli hanno sparato” è un altro piccolo siparietto di amara spensieratezza ben cosciente della piccolezza dell’essere umano, canzone genuina e rustica con il suo folkloristico fischiettio: “cadendo tra le foglie spariranno le ansie e le battaglie”.
“L’esperto” è invece tutto ciò che ci aspettavamo, umile ma cinica critica verso la “nostra” società, quella che abita li sotto i suoi piedi. Qui il cantautore aggiunge un po’ di groove a melodia e accompagnamento, spesso sotterrati anche loro dalla fitta distesa di nubi.
Nel finale spicca un titolo epico come “Canzone di speranza”, melodia ubriaca a cercare la luce ormai troppo rara anche in alta quota. “Se sarò vivo anche domani, impedirò che questa luna ci abbandoni”: non è solo il titolo ad essere epico.
Emiliano ci lascia un disco duro e doloroso, ma che non fa rumore, non smuove maree e non suscita ribellioni. E’ dolore grigio e frustrante, proprio come la noia. Come passare un giorno a non fare altro che guardare le nubi che ci avvolgono.

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Radio Mosquito – Empire of Failure

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Premessa (che abbiate o meno seguito la vicenda nata dalla mia recensione della scorsa settimana, imprecisa, discutibile, sicuramente fin troppo discussa): quando scrivo di un cd di cui mi si è proposto l’ascolto, scrivo le mie impressioni, da essere umano dotato di emozioni prima, da musicista, musicologa e appasionata poi. Non ritengo di avere la facoltà di poter giudicare in modo oggettivo un prodotto in cui qualcuno ha cercato di esprimere se stesso e la sua visione del mondo e meno che mai sto seduta alla scrivania credendomi divina e gongolando se mi accingo a dare una brutta valutazione. Se mi capitano dischi noiosi, pesanti, poco interessanti sono la prima a storcere il naso. Anzitutto perchè un disco brutto abbisogna di più attenzioni e più lavoro di uno che invece ci coinvolge, sia perchè l’ascolto è faticoso, sia perchè si cerca di capire se veramente la prima impressione negativa è veritiera, sia perchè si prova a trovare comunque qualcosa di buono. Vi assicuro che preferirei passare una mattina a sentire e risentire un progetto di perfetti sconosciuti, pensando che sto spendendo proprio bene il mio tempo. E’ raro, però, ed è normale sia così. La quantità di band emergenti è davvero alta, ma non si può dire lo stesso della qualità, soprattutto quando non basta essere bravi, ma bisogna anche essere comunicativi, personali, freschi, innovativi, orginali.

Ecco. Veniamo allora ai Radio Mosquito, cinque ragazzi di Livorno che suonano insieme dal 2003 e che, prodotti da Inconsapevole Records, hanno tirato fuori 10 tracce racchiuse in Empire of failure. Fin dai primi minuti dell’album è chiaro che la formazione ha delle ispirazioni prepotenti e ben connotate: D.O.A., Fugazi, NOFX, System of a down, ma soprattutto Hardcore Superstar. La costruzione del brano e certi accenti, poi, mi hanno ricordato immediatamente Slipknot e Rage Against the Machine. Insomma: voce urlata, distorsioni prepotenti con un’equalizzazione che preferisce basse e medie frequenze, ritmo rapidissimo, incalzante, segato da interruzioni nette e riprese incalzanti. Hardcore, post-punk e qualche sfumatura crossover.
Se vi piace il genere, li troverete grandi: stacchi puliti, cantanto grind in un inglese anche ben pronunciato, testi impegnati (più esistenziali e autoreferenziali come Radio Mosquito, Empire of Failure e HC Attitude, politici come Victims of American frenzy e Start rioting now, sociali nel caso di Knowledge is redemption, Black leather gloves ed Emancipate from consumption, con Typhon ed Earthquake che richiamano metaforicamente eventi catastrofici per marcare in generale un panorama socio-individuale scosso e degradato). Chitarre e basso fanno il loro dovere, la rabbia c’è. Compito svolto alla perfezione.

Ma se vi piace il genere (e, peggio ancora se l’hardcore, il punk-core e tutte le sottofamiglie non vi attirano, come nel mio caso), alla seconda traccia vi starete chiedendo “Ok. Quindi?”. Alla quarta sarete disorientati perchè vi sembrerà di essere ancora alla prima. Il cantante ancora urla, la chitarra ancora è distortissima, la batteria pesta sempre, pulita e precisa eh, per carità, ma praticamente sempre con lo stesso pattern. Quante tracce sono passate? Sono passate davvero o è sempre la stessa? Emozioni: zero. I Radio Mosquito hanno velocità. pulizia, capacità tecnica, esperienza. Si giostrano benissimo con tutti gli stilemi del genere da cui traggono spunto a piene mani. Questo viene fuori, va riconosciuto.
Fin troppo però: non c’è originalità, non c’è quel quid che mi spinga a pensare che questi ragazzi stiano aggiungendo qualcosa all’hardcore, che ci stiano mettendo del loro. Non c’è personalità e non c’è neppure verve.
Empire of failure affronta rabbia e violenza ma non è arrabbiato, si parla di indignazione, ma non la sento, mi viene detto di ribellarmi, sì, ma da chi non riesce a togliersi di dosso stereotipi e convenzioni di una forma musicale ed è intrappolato in un certo modo di cantare, che deve per forza muoversi su un certo tappeto armonico, che deve per forza essere scandito da un certo ritmo, con un certo metro e una certa velocità. Stereotipi per altro che hanno esiti qualitativamente e quantitativamente alti nel panorama musicale dei “già affermati”, dove si trova anche tutta la gamma emozionale ed emozionante da cui non si può prescindere né quando si fa né quando si ascolta della musica.

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Davide Carrozza – Il Cammino Evolutivo delle Palindrome In Gaelico

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Che il sipario si alzi!

Ed è appunto “Sipario” la prima traccia che apre questo fantastico lavoro intriso di sperimentazioni sonore ai limiti del noise e dell’avantgarde. Se “Danza rituale sulle ceneri del Chihuahua” fosse stata inclusa in un film post apocalittico non ci sarebbe stato nulla di cui stupirsi…le atmosfere alla Vangelis mescolate al rumorismo tipico di Thurston Moore ne fanno un pezzo che vi si stamperà nella mente in maniera indelebile! “ Passo a due John von Neumann e la Madonna di Chernobyl” sembra invece uscita da uno dei dischi prog anni 70 di Battiato o Alan Sorrenti (di cui vi consiglio vivamente di riscoprire i primi album). “Breve riassunto delle puttane precedenti” contiene invece campionamenti sparsi di mr Marshall Bruce Mathers III in arte Eminem (conosciuto anche con il nome stilizzato EMINƎM o con il suo alter ego Slim Shady), ma non preoccupatevi, a parte la base vocale non ha più nulla di rap anzi da 2:29 è addirittura ballabile!

“Interludio (Il pezzo trance può venirmi meglio)” è invece uno spartiacque presentando un po’ tutti gli elementi   caratteristici di questo disco. “La passerella dei feti cianotici” (che titolo!) è invece la canzone probabilmente più complessa, alternando basso, vocalizzi e schitarrate alla Husker Du. Che dire invece delle chitarre hard che aprono “Una rosa sboccia nel Giardino del Giàsentito ” i unendosi a uno scratch da vinile degno del miglior dj del mondo lasciando poi spazio ad atmosfere molto più leggere? Certamente una suite di quasi tredici minuti non è facile da gestire tuttavia l’impresa sembra davvero ben riuscita! Insomma siamo di fronte a un prodotto geniale tanto nella sua complessità quanto nella sua semplicità. “Crocefiggono un’escort a nero”e “L’escort si confessa al panda accanto” non fanno altro poi che continuare il discorso già appreso nella precedente traccia, lasciando il passo al gran finale, “Un’ultima nuotata e poi Sipario”. Occhio tuttavia a non abusare quindi de “Il Cammino Evolutivo delle Palindrome In Gaelico”, dà assuefazione all’ascoltatore! In assoluto i cinquantaquattro minuti migliori di post rock che io abbia mai sentito! Provocatore? Genio del copia e incolla? Di certo Davide Carrozza è un grande artista che ormai non deve più dimostrare nulla a nessuno e che attende solo di affermarsi al grande pubblico (e chissà che non porti una ventata di novità in quest’Italia musicale massacrata dalle tv e dalle radio).

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Mystery Jets – Radlands

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Gli  inglesi Mystery Jets preferiscono un week end postmoderno per andare in cerca in qualche modo di un pò di memorabilia anni sessanta e pezzetti di quella strepitosa nigthlife americana un tantino nostalgica, insomma qualsiasi cosa che riporti l’eleganza a perline colorate di quei tempi, ed allora tutti in viaggio verso Austin nel Texas per incidere “Radlands” e per cambiare aria e abitudini, ma anche per crescere un tantino di una spanna.

Tutto poggia su un imbastito 70s folk-rock con glitterama dance accennato, sogni arrampicati come una vite rigogliosa e con Sir McCartney che, come un fantasmino birichino, compare virtualmente in più di un anfratto della tracklist: ma la piacevolezza di queste undici tracce è enorme, con risultati eccellenti insperabili ad una prima “sbircitata d’orecchi”, tracce che suonano di vintage/fresco e alla moda della summerset che la band mantiene senza cedere di una strofa; undici tracce molto a stelle e strisce, assai influenzate – ma del resto lo si voleva – della cultura appena post-freak, forte e tenera insieme e che non disdegna leggere incursioni nella west-coast corale, quella dei CSN&YYou had me at hello” dirimpetto ai F.lli Gibb  “The hale bop”e alle loro surfaggini spumeggianti.

La varietà sonora qui è di casa, una list che si spartisce modi e moduli anti-noia, si è sempre sul filo di una frizzante andatura che si pronuncia nel pop di “Randlands”, “The ballad of Emmerson Lonestar”, nel beat BeatlesianoGreatest hits”, si lucida delle labbra pronunciate di Jagger e dello sviso chitarristico RichardsianoSister Everett” come nelle immagine solitarie di un Neil Young ringiovanito che in “Lost in Austin” alza la voce e si guarda dentro; se i Mystery Jets volevano stupirci con poco, ebbene ci sono riusciti, hanno richiamato lo spirito di quel decennio e ne hanno riassunto “carnalmente” il sonic operandi alla perfezione.

Che dire, la speranza di catturarli dal vivo in qualche paraggio italico è forte, ma intanto seguirli su disco è altrettanto forte.

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De Rapage – Sberle

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Avviso i lettori che questa recensione è scritta di merda per rendere il livello accettabile dal classico pubblico dei De Rapage (del quale tu presto, diventerai parte infima).

È mattina presto, saranno le dodici/dodici e trenta, di un inutile venerdì del fantasmagorico mese di settembre. Mentre mi rilasso cercando di capire che cazzo vuole William Burroughs da me, staccandomi tarzanelli seduto sul bidet, continuo a struggermi nel mio dilemma. Vado alla festa del Pd al Porto Turistico, a vedere ancora una volta Appino e tutta la banda Zen fingere entusiasmo per una serata patetica, dove lardoni sudati s’ingozzano e vomitano il loro inferno sulla carcassa decomposta del comunismo italiano, oppure vado a sciacquarmi le palpebre, le cervella e i timpani con i De Rapage, in quella splendida piazzetta in cima a Chieti? Nonostante abbia correttamente valutato l’elevato rischio per la mia patente, l’ultima loffa del mattino mi fornisce la risposta giusta. Mi tuffo in una fossa di Campari e Pecorino e mi ritrovo nel sorprendente mondo del Bon Bon Café, tra pasticcini piccini piccini e birra grande, eleganza da Louis Vuitton nigeriana e rutto libero. Strano posto per una band che segue l’unico e trino Verbo Scureggiare, nelle sue diverse varianti, come un dogma divino.

Aspettiamo che arrivi un po’ di gente e il concerto avrà inizio. Appunto. Cinque strani tipi si presentano sul palco. Francesco El Fiku Fikurilli, il cantante. Vestito come uno studente di Bologna che si è perso in un labirinto di libri e fighette frigide con la Reflex e ritrovatosi in un festino un po’ sadomaso, strafatto di etere e cocaina. Maurizio Sreafea Skill Aces Schillaci, chitarra effetti e tastiere. Un vero idolo. Immaginate Rowan Atkinson appena uscito dal coma che vestito da barbone si mette a suonare la zappa come una Gibson in campagna, muovendo la lingua come un forsennato, al ritmo della sua chitarra con gli occhi al cielo, in una miriade di mistici assoli. Marco Zappagrunge Zappacoast, seconda chitarra. Una specie di Red Skin violento e pure abbastanza amante del bicchiere, sul punto di pestare chiunque rompa troppo i coglioni. Lu Nterteng, il bassista. Un tipo talmente sereno e gentile da sembrare, a occhi poco consumati, uno squilibrato, il classico serial killer della porta accanto. Jimmy, il batterista. Quello che fa sul serio o almeno cosi sembra, visto che piazzato là dietro può fare quel cazzo che vuole, chi cazzo lo sgamerà mai.

Inizia lo spettacolo. Uno spettacolo.

Derivativi come diarrea al primo appuntamento, come una sfuriata di Sgarbi a Domenica In, dimostrano tuttavia di non essere cinque cazzoni che, tanto per rovinarvi la serata, si sono messi a far casino sotto il balcone di vostra nonna morente che sorvegliate mentre la vostra stronza vi succhia le palle. Suonano alla grande invece, fluendo dal Crossover al Rock più leggero, dall’Hard Rock a passaggi di sperimentazione quasi Prog. Ma c’è qualcosa in più a rendere la serata pazzesca. Il loro live non è solo esecuzione ma puro teatro partecipato col pubblico. El Fiku regge il palco come una rockstar, manda tutti a cagare, offende e incita a offendere e il pubblico si sfoga, tra un “Fikurilli sei una merda” e un “tua sorella è una troia” e, sempre in tono estremamente sarcastico e boccaccesco, tra un pezzo e l’altro, si apre una sfida all’offesa più originale. I brani divertono e si fanno ascoltare anche da chi non ha voglia di scherzare. Sono eseguiti in maniera egregia e la voglia di fare buona musica si nota quando Schillaci s’incazza come una bestia e smette di suonare. Come a dire che si fa i coglioni, ma la musica è pur sempre musica. Gli altri lo prendono un po’ per il culo, anche perché indossa una t-shirt con su scritto con un pennarello “Odio Schillaci” e quindi, prenderlo sul serio, non è agevole, ma il risultato del concerto diventa qualcosa assolutamente da non perdere, compreso il poco pogo loco finale. Tutti si dimostrano ottimi musicisti, pur con qualche ovvia sbavatura, e anche Fikurilli, nonostante non abbia proprio la voce di Tim Buckley, riesce a sopperire con una presenza scenica sbalorditiva. La serata è finita ed io sono morto dal ridere, cosi come chi, con qualche titubanza, mi ha seguito fino a Chieti. I De Rapage, alla faccia del lucro, ci regalano i loro dischi. Dietro c’è scritto: “Il disco che avrete tra le mani è totalmente autoprodotto, auto registrato, auto distribuito, automatico, ed è totalmente vostro, masterizzatelo e regalatelo agli amici o condividetelo come più preferite. Il disco è completamente gratuito. Se qualcuno sta cercando di vendervelo è un figlio di puttana, uccidetelo.” Altro che Indie.

Me ne torno a casa, senza non prima qualche altra birretta, e mi ritrovo in mano questo Sberle! La copertina è una figata Hardcore. In bianco e nero con sfumature e scritte tra il viola e il fucsia. La faccia del disco segue la stessa cromatura, con una mano che sorregge un teschio e da non perdere è l’avviso in fondo, Strong Language, Sexuality e l’invito “for violent reasons”, ad andare sul sito www.fanguloperfavore.com. Vi prego, non fatelo. La grafica all’interno del libretto, curata dallo stesso frontman, è da non perdere, cosi come il mini poster collage che nasconde un misto di psichedelia e follia. Faccio partire il disco. “Noi siamo i De Rapage e diciamo quello che cazzo ci pare”. Inizia cosi. “Il Disgusto” parte a mille in stile “Sheets Of Easter” degli Oneida, per poi trasformarsi in un pezzo Hard Rock carico e potente, che ci parla di merda e carta igienica finita, sangue, ciclo, vomito e sborra in un tripudio pulp. Il brano che dà il titolo al disco è una dissacrante rivisitazione del Rap e del Cross Over di Rage Against The Machine e Beastie Boys, che ci racconta dell’umiliazione di un idiota giustamente incompreso, che va in giro con le “mutande sui pantaloni”. Quindi “Il Grande Rock In Edicola”, il primo brano che presenti una melodia davvero interessante, (oltre al testo da lacrime) anche se l’evidente contaminazione del background musicale dei componenti (palesemente notevole) è ancora forte. “Cannone Assoluto” parte come un Garage Grunge Rock alla Nirvana che si trasforma dopo pochi secondi acquistando una veste tutta nuova che somiglia, soprattutto nella melodia vocale, ai primi lavori di Pelù/ Renzulli. Ok, anch’io sparo cazzate a profusione. Andiamo “Nel Bidet”, nel suo trascinante ritmo Funky, sexy quanto basta, se non fosse per il testo assurdo (…e per sicurezza ci puliamo con la carta vetrata…). Arriviamo al mio momento prediletto. “Ngul Freket Auà” tipica espressione pescarese che non voglio tradurvi. Musicalmente il pezzo ficca la testa in “Creep” dei Radiohead fino al culo ma il testo, anche se difficile per chi non vive la zona del pescarese, è tra i migliori in assoluto della loro proposta.  Si continua con “Cosplayer” dedicato a tutti gli amanti dei fumetti, sfigati e segaioli, “Condoglianze, Allegria!, come avrete intuito, dedicata alla salma di Mike Bongiorno, “Reverendo Terrore” e la sua martellante batteria un po’ Post Punk un po’ Exploited. Quindi “Inquilino Sexy”, un’altra delle perle del disco, e “Gabizze Prog”, il momento più punkettone a dispetto del nome, che ricorda tantissimo lo stile dei grandissimi Skiantos. La chiusura è composta dal duo “Abraham Kadabram” che riprende palesemente il Funky già sentito all’inizio e “Stornello Tarzanello” geniale filastrocca folk, gemella sfigata de “L’Inno Del Corpo Sciolto” di Roberto Benigni.

Insomma testi a volte intelligentissimi, a volte un po’ troppo dispersivi o limitativi, ottima musica ed esecuzioni. Forse eccessivi i rimandi a pezzi, famosi o meno, di altri grandi del Rock e poca originalità musicale ma del resto rientra tutto nello spirito dell’irriverente band chietina. Tanta qualità e soprattutto poca similitudine con tutte le altre proposte definite dalla critica Rock Demenziale. Un album squisito come trovare un pelo di cazzo nel letto della vostra ex tipa (considerando che tanto voi ci ridete su, non vi frega una minchia. Volevate solo scroccare un tetto e un materasso, visto che fuori piove e in giro ci sono solo un paio di puttane rumene generose d’herpes genitale). Mi raccomando, non comprate il disco, tanto una copia ve la regalerà qualcuno come la regala una vecchia zoccola in crisi d’astinenza di batocchio. Ma se capitate loro vicino, non potete assolutamente evitare di andare a sentirli e mandarli a cagare.

Se volete di più, questa è la loro biografia, per il resto, girate per il web, cercateli e divertitevi.

“I De Rapage vengono assemblati in diversi momenti degli anni ’70 da carrozzieri psicopatici e muratori stupidi. Già negli anni ’80 si fanno notare con il loro primo lavoro, quello del barbiere, ma siccome con le forbici proprio non ci sanno fare vengono espulsi con disonore dall’ordine mondiale degli acconciatori ed usati per alimentare autobus elettrici grazie ad una serie elettrodi agganciati alle palle. Licenziati in tronco per insufficienza celebrale, si ricoverano in massa in un centro di riparazione caldaie e ne riescono solo due anni dopo, completamente strafatti di metano. È proprio in quel periodo che i De Rapage compongono quello che diverrà solo dopo qualche mese il loro primo capolavoro, quel Mannaggia al Pudore che diventa campione d’incassi in Giappone, India e Mongolia. Rivalutati all’uscita dell’euro ai quattro viene chiesto di rappresentare l’Italia al G8 di Genova ma rimangono senza benzina all’altezza di Ancona perché se l’erano sniffata tutta. Dopo una breve apparizione al Cantagiro dove tirano sacchi di merda sulle prime file di un atterrito Teatro Elettrolux, i quattro fuggono in Norvegia dove affinano le loro tecniche nelle arti marziali. Tornati alla carica con “Uno Qualunque”, viaggio psichedelico nella tundra dei loro cervelli, i quattro inaugurano una serie di concerti che culminano con il famigerato Live @ Macellaio di Filippone, quartiere rock di Chieti, dove ottengono la consacrazione per mano di un drogatissimo Iggy Pop che li definisce “la feccia assoluta”. Scomparsi per anni dalle scene in seguito ad una forte diarrea, i De Rapage si dichiarano vinti e si ritirano in Grecia dove perfezionano il loro francese fino al 2009, anno in cui incontrano il ramingo Malou Reexio Squincaci, un fachiro girovago che aveva appena perduto la sua dolce scimmietta e che viene accolto dal gruppo a braccia aperte. Assieme a Squincaci i De Rapage tornano sulla scena ed incidono Vergine Da poco, loro terzo Lp, sacrificando il loro testosterone e inventando quella che gli appassionati di tutto il mondo ricorderanno come “musica emozionante suonata male”.”.

 

 

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Gossip – A Joyfull Noise

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La pingue e belloccia Beth Ditto ha sempre amato ed invidiato Madonna, se ne è fatta una ossessione, e di girare ancora con i suoi Gossip nei dance-floor di seconda non ne vuole più sapere, aggancia il produttore Brian Higgins (Minogue, Pet Shop Boys) una ripulita generale dalla provincialità underground e via di corsa verso un ipotetico sogno mainstream con il terzo album della carriera “A Joyfull Noise”, e a dire la verità l’avvicinamento ad un suono mainstream è forte, ma da qui ad arrivare alla corte laica di Lady Ciccone ce ne vuole, e molto.

Gli arrangiamenti tutti in recording 24 piste d’ordinanza, rendono grande il suono, l’espressione, le timbriche pop e gli hook derivati da un dance frenetica compresi quei sinthetismi house che fanno smuovere e aggraziano passi e atmosfere disco, ma è un giro fisso che poi – sulla lunga distanza – risulta sterile, puri esercizi di stile che prendono qui e la da refrain modaioli e da derive compulsive che paiono arrivare da quei dischi remix orgoglio plastificato di house-clubbing di mezzo mondo; la band americana perde lo smalto degli esordi, e si sente benissimo che la loro ricerca di cose più alte ancora non è maturata del tutto, e di conseguenza risultare un “copia incolla” delle grandi muse ispiratrici poi viene  facile e ritornare indietro suona ostico.

Un disco che gira bene ma a vuoto, le canzoni no ci sono, solo canticchiabilità d’approccio e nulla di più, i Gossip non riescono a mantenere e  – possiamo anche dire –  gestire la propria fisionomia creativa che ce li ha fatti conoscere, vogliono vivere dentro una estetica patinata che ancora non gli compete, e sfruttare clichè che non gli appartengono invece che “ricrearsi la facciata” li sposta immediatamente nei gironi  limbo delle cose non azzeccate; la parsimonia non abita queste tracce, la logica del passo secondo la gamba nemmeno e allora tanto vale ascoltare un mixed-up di Gui Borratto che tra gli sculettamenti di “Get a job”, “Get lost” o “Love in a foreign place” rivive una seconda giovinezza.

Per trovare un qualcosa che possa farci ricordare già tra un mese questo lavoro discografico forse dobbiamo andare alla traccia d’apertura “Melody Emergency” ma forse è pura illusione, anche li la ex Material Girl è stata depredata a dovere.

A Joyfull Noise, bello fuori, vuoto dentro, ed è questo il vero gossip.

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Normal Insane – Sedici

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Ogni volta che si aspetta un dico nuovo da recensire, quello che piacerebbe sentire non sono i marchi stordenti che rinascono sputando visceralità senza scrupoli, ma almeno un minimo di “creativitudine” decente che possa far distinguere una band in carne ed ossa da una carta calcante spudoratamente in azione.

Quello che la formazione dei Normal Insane propongono nel loro official “Sedici” è un qualcosa che rappresenta la controparte della creatività, e non lo si dice e afferma tanto per fare tocco di rimando, solamente che l’evidenza d’ascolto è alla portata di tutti, o almeno, di quelli che potrebbero avere la curiosità di ficcare gli orecchi qui dentro, allora si che il giudizio d’insieme si presterebbe ad una solidificazione tremenda; una tracklist composta da tredici farneticazioni intime, rock’n’roll dissalato e ballate fuori squadra in cui i Nirvana (specie nella voce del cantante) preferirebbero fare la fine del Kurt mondiale pur di non essere citati virtualmente qui dentro, circa cinquanta minuti di nulla che rimbalzano qua e la senza un riscontro, un punto fermo o un momento di chiarezza.

Un disco da consumare in pochi secondi, una creazione sonora già abortita in partenza dalla quale possiamo salvare la ballatona acustica di”Ufo” per quel senso di delirio riuscito che può dare una via di uscita insperata da questa tracklist e per fare tornare in libertà  l’ascolto e dargli l’opportunità di mettersi in cerca d’altro, in cerca di un disco lungimirante; un consiglio spassionato al “cantante” di questa formazione, “suvvia o giovine, e magari vedere di trovare qualcosina  da fare come roadies?”

Per tutto il resto, avanti un altro grazie!!

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Slash – Apocalyptic Love

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Axl  Rose lo ha mandato a fare in culo perche si è rifiutato di riunirsi col resto dei Guns in occasione della Hall Of  Fame, ha glissato magnificamente gli esperimenti penosi di Snakepit prima e Velvet Revolver dopo, ha stretto l’anima con Myle Kennedy (Alter Bridge) con un patto sonoro fenomenale, ed ora il mitico chitarrista Slash può alzare la testa ed il volume del suo mitra a sei corde, e lo fa in questo “amplificatissimo” nuovo disco “Apocalyptic love”, il segno e la virtù di un mito vivente con la perenne sigaretta in bocca che suona da dio e che lascia il suo tocco ovunque, come un compito in classe per milioni di chitarristi in erba.

Certo che l’alchimia hard imbastita insieme a Kennedy ed i suoi The Conspirators è una forza della natura, il tratto e il gancio di Slash è rimasto intatto, sporco e preciso come un tiro di fucile col mirino, una classe senza età e senza mode, tutto riporta comunque allo stimolo G’N’Roseano, sembra di sentire un vecchio disco della band eccellenza di un allora street-rock senza rivali dissolta poi nel nulla e nella cupidigia di un leader convulso e preda del successo mondiale, ma della storia solo lui, Saul Hudson detto Slash  l’inglese con la tuba – che la rivista Rolling Stone lo ha voluto tra i cento chitarristi della storia del rock – è ancora qui sulla strada elettrica a tramandare una favola che non conosce fine o bollette d’energia, ancora qui a farci balzare ogni volta che la sua penna tocca le corde possedute della sua fiammante e insostituibile B.C Rich Mokinbird .

Per essere sinceri fino in fondo “è la musica di Slash” e nient’altro, non ci sono novità eclatanti solo i riffoni estatici, l’hard blues lancinate che sposa magnificamente la voce di Kennedy “No more heroes”, “Halo”, “Bad rain”, le ballatone da cardiopalma “Far and away”, “Not for me” e chiudendo gli occhi ricompaiono gli ectoplasmi dei citati GNR che comunque non se ne vogliono andare dai bei ricordi di questo eroe, specialmente nella quadriga “We will roam”, “On last thrill”, “You’re a lie” e “Anastasia”;  molto degli anni Ottanta gira dentro ancora come una meteora impazzita, ancor più le sensazione che la maledizione di Axl non sia stata lanciata a caso, ma al momento tutto questo è da accantonare, abbiamo una chitarra in ottima forma ed un chitarrista che la sa domare come sempre, cercare di più mi sembra fuori luogo e fuori di testa.

Per voi un bel disco che sfida il tempo.

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Thank you for smoking – Dopo la quiete

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Io concetto di “nuovo” in musica è relativo in sé (dipende per forza di cose dai nostri ascolti pregressi, dall’ordine cronologico con cui ci siamo avvicinati a un genere o a una band, dalle nostre conoscenze armoniche, melodiche e ritmiche che ci permettono di riconoscere come più maturo qualcosa rispetto a qualcos’altro e così via) e relativo sul piano estetico, perchè non è necessario che un brano sia originale, mai sentito, per riuscire ad emozionare e trasmettere un messaggio. E fin qui siamo tutti d’accordo. Fermo restando che la qualità tecnica dev’essere buona e asservita alla comunicazione di emozioni, sentimenti, idee, perchè il “nuovo” in musica è anche maledettamente difficile da creare e la concorrenza, specie nel panorama musicale emergente e indipendente è numerosa e spietata.

Ecco: i Thank You For Smoking, cagliaritani, attivi dal 2009 con tanta esperienza live, non hanno niente di nuovo. Niente. Dopo la tempesta, album interamente autoprodotto e in distribuzione da maggio, si apre con quasi due minuti di Preludio, gradevole, arioso, altamente melodico, dal sapore anche un po’ etnico. Ci si aspetta decisamente qualcosa di molto diverso da Al risveglio com’è reale l’iride, che è invece una velocissima traccia dal carattere quasi metal, atmosfera che a dire il vero pervade praticamente tutte le nove canzoni dell’album, con la voce di Aurora Atzeni decisamente impostata su quel genere (stile Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, per intenderci), polmoni pieni, diaframma ben teso e tanta energia, che viene spesa però per melodie monocordi che si lasciano andare solo in qualche vocalizzo che comunque viene reiterato troppo e finisce per appesantire il tutto. E nelle tracce successive non c’è nessun ritorno a quelle atmosfere pulite e fresche della prima traccia: c’è qualche virata più new wave come nella quasi title-track Dopo la quiete, il nulla, o post rock, come in Delitto e Il ponte di Einsten-Rosen (la più riuscita, a mio avviso, perchè rivela un tentativo di fuga dai binari dello stile consolidato della band, la migliore se si fa finta di non notare che stacchi, timbri delle chitarre e impiego delle tastiere ricalcano esattamente le tracce precedenti). Particolare per la scelta timbrica ma purtroppo sempre poco comunicativo sul piano emozionale è Corrotto mistico complice, da segnalare solo per l’intervento di un mandolino, il cui utilizzo però dà il via uno sfogo strumentale rotondo e caldo, il momento più intenso, o meglio l’unico, di tutto il disco. Duhkha e Fantasmi passano lasciando qualche sentore post-grunge, così come Dedica in lacrime che richiama particolarmente i primi Verdena.
Gli arrangiamenti dei Thank you for smoking sono pieni, tanto da risultare quasi manieristici, indubbiamente curati, ma mancano di verve.
Onore al merito, invece, per le liriche: i testi sono tutti in italiano, con una scelta lessicale che fa trasparire grande attenzione nella stesura e la volontà di fare e dire qualcosa di impegnato. Peccato, però, che si perdano in una versificazione pesante che distende le frasi eccessivamente e ne fa perdere l’intelligibilità e l’immediatezza.
C’è del talento, è indubbio, ma questi tre ragazzi a mio avviso dovrebbero trovare qualcosa da dire più che concentrarsi su come dirla.

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Io e i Gomma Gommas – Quanto Ti Voglio Bene

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Cari miei punkettoni di Rockambula, ricordate i tempi in cui Fat Mike (Nofx), Joey Cape (Lagwagon) e qualche altro pazzo (in tutto avranno suonato almeno una volta nella band una ventina di musicisti) misero in piedi quello strano progetto chiamato Me First and the Gimme Gimmes?

L’idea era semplice. Prendere pezzi più o meno famosi dei favolosi anni sessanta, settanta e ottanta a stelle e strisce e non solo e ripresentarli con la carica del Punk Rock. Buona idea. Perché non fare lo stesso con la musica tricolore? Questo devono aver pensato i nostri Io e i Gomma Gommas (come mai questo nome strano? Se non siete idioti, l’avrete capito) in un ormai lontano 2002, quando la loro vita artistica si trovò al bivio dovuto allo scioglimento delle loro band di provenienza.
Certo che scegliere i pezzi da proporre non doveva essere facile. L’Italia non è L’America di Johnny Cash, di Neil Diamond o di Jerry Reed. Non era semplice andare a scavare nelle montagne di musicassette dei genitori, nelle pile di vinili e nei ricordi per scovare perle tanto belle, quanto conosciute e adatte a un progetto del genere.
Senza farsi troppe pippe mentali, decidono allora di buttarla sul drastico. Scelgono pezzi come “Guarda Come Dondolo”, “Stasera Mi Butto”, “Sono Bugiardo”, “I Watussi”, “Marina” (tutti contenuti nell’album del 2005 Honkey-Donkey!) oppure “Ma che freddo fa”, “Una bambolina che fa no, no, no” o “24 mila baci” (presenti in 50s morti, 60s feriti di tre anni dopo). Brani famosissimi, spesso snobbati dal pubblico più fighetto ma che fanno parte inevitabilmente del bagaglio culturale musicale di ogni artista nato tra le Alpi e il Mediterraneo. Una scelta che oggi suona ingenua (essere veri paga meno che mai) ma che dimostra la voglia della band di suonare, divertirsi e divertire senza la paura del giudizio dei “colti” e soprattutto senza alcuna puzza sotto il naso. Quando nel 2010 esce …Canto quel motivetto che mi piace tanto!!! I ragazzi sembrano ancora più spavaldi. Una formazione nuova, nuove idee (cantato a tre voci ad esempio) e pezzi sempre più sfrontati. “Pippo non lo sa”, “Il pinguino innamorato”, “Voglio vivere così”, “O mamma mi ci vuol la fidanzata”. Ci vuole coraggio a fare una cosa del genere.

Capite che per un punk mettersi a pogare su un pezzo di Cash coverizzato dal grasso Mike, non è poi cosi improbabile. Farlo su un pezzo di Nada o Celentano non deve essere proprio la stessa cosa. Cosi; a intuito. Forse è per questo che le frange estreme del movimento con la cresta sembrano non aver mai preso troppo sul serio questo gruppo che in realtà, con un po’ d’intelletto, potete capire non molto diverso dai gemelli U.S.A. Me First and the Gimme Gimmes. La lingua italiana purtroppo è bomba con la miccia troppo corta, che volete farci. A me non frega un cazzo di fare il punk duro e questo nuovo Ep intitolato molto sdolcinatamente “Quanto Ti Voglio Bene”, lo ascolto più che volentieri, senza pregiudizi e senza nostalgia.
Uscito in occasione della festa della mamma, i tre pezzi sono proprio dedicati a loro, che ci mettono la pezzolina sulla fronte quando abbiamo la febbre, ci dicono di fare piano, ci fanno la lasagna quando torniamo a casa, ci aspettano in piedi e ci cazziano se siamo ubriachi. Lele, Ricca, Gio e Fila ci sparano addosso tre perle del calibro di “Mamma son tanto felice”, “Tu che mi hai preso il cuor” e “Con te partirò”. Tre brani divenuti strafamosi nel loro modello operistico, qui riproposti a mille all’ora, come non ti aspetteresti mai, a meno che tu non conosca già i nostri quattro ragazzoni marchigiani. Chitarre feroci ma non aggressive, distorsioni, ritmi sostenuti e voci bonariamente cattive e cariche (in un caso breve, appare addirittura la lingua teutonica). Tutto è cosi come lo avevano lasciato. Nulla di trascendentale. Solo tanta voglia di svagarsi e cantare, ballare e fare quello che ci pare.

Per i loro dieci anni questi piccoli grandi della scena Punk italiana fanno un regalo a noi. In cambio ci chiedono solo di andare alla festa. Converse, jeans stretti, cresta, tanta batteria nelle spalle ma mi raccomando, venite accompagnati dalla mamma.

 

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Le Carte – 100

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Formalmente “100”, il nuovo disco della band Le Carte, è un disco impeccabile, tutto giocato sul filo di lana di un rock dinamico, asciutto dai colori bronzati, scuri, sgolato a giugulare gonfia, ma che anche dopo svariati laps d’ascolto convince a metà, troppo ancora legato ad un suono e ad una movenza di vecchio stampo, vengono a mancare le emozioni fresche, in poche parole e senza girarci intorno, quasi un porridge riscaldato che può salvarsi in qualche circostanza annidata nella tracklist, ma sostanzialmente sì, un insieme di rock già sentito milioni di volte e che quindi scorre sotto il lettore ottico come una ventata in cerca di uno sfogo qualunque.

Il trio pugliese, Lorenzo Forte voce/basso, Eleonora De Luca voci/batteria e Roberto Mangialardo alla chitarra, nel corto giro di undici tracce, ci da sensazioni epiche e melodiche che scrutano nel buio di una umanità alla frutta, dei baratri sociali e di rapporto logori, sfilacciati, a tratti paranoici, uno scroscio costante di elettricità e vigore che si aggrappa a dolori e domande “L’ultimo giorno sulla terra”, strappa pelle agli anni Settanta tricolori della Formula Tre nell’ottima “100”, fa shuffle convulso e molto shaker’s “Vinili e dischi”, si avvicina pericolosamente ai Marlene tanto da farne una collisione vera e propria “L’aria qui intorno” mentre – e può sembrare un caso? – la traccia che porta al top questo disco de Le Carte è proprio una traccia non scritta da loro, una traccia stupendamente rivisitata che è poi “Mio fratello è figlio unico” del divino Rino Gaetano, traccia che accoppiata alla intimità agrodolce e bella di “Periferia” fanno urlare Peccato, si poteva fare di più, veramente fare di più e uscire dall’impasse – dal momento che le armi soniche la band ne ha e molte – che li incastra a cose che, distaccatamente testate, oramai fanno ricordo al quadrato.

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Zoas – Babykilla EP

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Non esiste niente al mondo che possa competere con l’irriverenza artistica della musica punk, si possono trovare mille modi di suonare punk, anche l’orrendo flauto delle medie che allontana i ragazzi dalla musica può tirare fuori musica punk, il punk è una predisposizione naturale al rifiuto delle regole. Gli Zoas al loro primo debutto ufficiale con Babykilla EP suonano punk nelle intenzioni. Erano già stati presi in considerazione da Rockambula quando il loro primo singolo in video aveva iniziato a farsi conoscere su You Tube, abbiamo subito capito il qualcosa in più e ci faceva piacere pubblicizzarlo senza timore. Babykilla EP con cinque canzoni registrate in live session vuole subito entrare nella gente senza chiedere permesso e senza usare buone maniere, musicisti guasconi e scanzonati che non hanno bisogno certo di mandarle a dire, non vi aspettate un disco punk hc o roba del genere, pensate ad un mix di sonorità che gli Zoas cercano di modellare a loro immagine per poi dargli soltanto l’attitudine punk. Vi capiterà di ascoltare coretti Sex Pistoliani, chitarre crossover e testi al limite della demenzialità ma tutto fatto in maniera impertinente e bonariamente contraddittoria.

Un bagaglio artistico capace di spaziare a trecentosessanta gradi in solo cinque pezzi, generazione di post post post punk alle prese con l’attuale scena musicale e la forza di volersi ritagliare un proprio spazio. Gli Zoas rimangono una bella espressione di musica fuori dagli schemi, oggetti  non identificati del panorama indie italiano, una frustata sulla faccia al perbenismo finto e razionale. Ognuno di noi vorrebbe sentirsi libero senza condizione, Babykilla è un buon motivo per essere padroni del proprio destino. Sorry, punk’s not dead! Anche se gli Zoas tutto saranno tranne che punk.

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