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Quiet In The Cave – Tell Him He’s Dead

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Arrivano dalla provincia di Grosseto, sono all’album ufficiale e meritano molta attenzione, specialmodo riferito agli addetti al settore. Sono i Quiet In The Cave con il loro “”Tell Him He’s Dead”, una vera e propria istigazione alla demolizione totale di ogni forma di pace, armonia e buonismo, e se l’Inferno vi è sempre sembrato essere una cosa astratta, un pensiero che non vi avrebbe mai interessato come forma fisica, dovete ricredervi, ci siete dentro con orecchi, corpo ed anima fino al collo.

Certo il black – e affini –  non sarà più quello di una volta, troppe le orde barbariche a flagellarne il suono, ma con gli QITC non ci si può mai abituare a questo Ade composito, la loro è una micidiale esplosione nello stereo che imprime uno stupendo impatto, un turbinoso sound che fagocita – senza mai annoiare – tutto quello che sta appunto tra il confine di black e death, dunque industrial, post-core, doom, sludge, stoner cancrenoso e chi più ne ha più ne metta, una miscela che in cinque lamettate martella giù tutta la propria rabbia, il proprio istinto e la sua personalissima filosofia del nero, ma non aspettatevi il solito ruggito di un trio satanasso qualsiasi, qui c’è gamma e originalità aliena alla paccottaglia che gira indisturbata; la loro bella ossessione è una “grazia” in crescendo, una mandala ipnotico che ti aggancia e trascina in un deliro interiore e psichico, tra growl e stati disturbanti di Nile, Neurosis, un album intelligente, impressionista e monolitico che è difficile trovare nei gironi infernali dal metal all’ingiù.

Atmosfere minate di calma apparente frantumati da viscere sacrificali in collisione con la tranquillità “The dark passenger”, il deliro liquido e graffiante “Run out”, ombre di doom gotich “Measure”, i Neurosis che si affacciano ghignando e sputando vendette ematiche e convulse “Monstro” oppure le visioni drogate di lontanissimi Alice In Chains  fuse con ectoplasmi di Morbid Angel e Soilwork tra le navate nordiche darkone di “Lose”; tutto questo è Tell Him He’s Dead, un disco significativo e minaccioso che si aggira  tra gli scaffali impolverati dell’underground nero pece, preda agognata per chi di queste belle ed inconsuete novità buie non vuole farsi sfuggire nulla.

Dopo questo ascolto, molti di voi baratteranno il fresco paradiso per il caldo inferno proposto, mentre questo quartetto toscano sta già salendo alla cronaca come occhiello di “quattro indiavolati in odor di santità”.

Provare per credere!

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Fangoraro – Danzieri

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Sono tre e sono toscani, i Fangoraro.E lo si avverte già dalle prime note del loro nuovo album, Danzieri, otto tracce nelle quali si respira aria di colli etruschi.La band nasce nel 2006 nel pisano, e si porta dietro il bagaglio di esperienze musicali passate (Blackmail, Salamndhertz e Over) che pesa, indubbiamente, nel lavoro di questi tre ragazzi e riesce a renderlo maturo e ben eseguito.Danzieri è, infatti, un album introspettivo e profondo, a tratti pare quasi un inno al cantautorato italiano, che trasporta l’ascoltatore in atmosfere passate dal sapore di sconquassato e brillante al contempo, mai lasciando le parole dei testi al caso e studiando ogni singola interazione vocale delle voci dei tre (si noti per esempio la traccia numero sette “Fango De Luna”), riuscendo ad incasellare perfettamente tutto ciò con la melodia ben eseguita dei brani.

I testi sono i protagonisti indiscussi di tutte le otto tracce di questo lavoro e non sono mai ordinari, presentandoci davanti diverse realtà di paese (dalla più classica balera con “diavoli da liscio in cerchio a danzar” di Danzieri; alla storica festa in borgo che “sono vent’anni oramai che inizia alle tre” di Vesti Una Rosa) ed esternando un senso di malcontento derivante da pene affettive, mai banalizzato.

Il tutto condito da melodie che rispecchiano in pieno il filone logico di tutto il lavoro di questi ragazzi, nelle quali il pianoforte è uno dei protagonisti principali (si veda, ad esempio, Giro Di Note, traccia numero sei).La loro è una musica che sa di borgata senza le pretese di diventare metropoli.È quella musica che sa di “’poco’ ma fatto bene”.È una musica che fa trasparire umiltà, quella qualità che molto spesso manca alle persone per farle diventare davvero Grandi…

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Il Vaso di Pandora – Psicosi di una donna curiosa

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La curiosità è donna e i greci con Pandora ce l’hanno insegnato. Sicuramente ce l’hanno insegnato con un pizzico di misoginia e di diffidenza. Ma occhio, c’è chi millenni dopo riesce finalmente a rivoltare la situazione. Prendendo in mano il vizio e rendendolo una virtù da sbandierare. Dalla sommessa vergogna ad un fucile rosa, pronto a sparare. Tutto senza retorica e femminismo spinto, che ormai si sa, da quando le Spice Girls sono invecchiate non va più tanto di moda.
“Il Vaso di Pandora” è innanzitutto un progetto misto da Bologna. Tre ometti bendati (guardate la cover!) comandati a bacchetta dalla virtuosa voce di Antonella, a metà tra Skin e Antonella Ruggero. Detto questo la virilità non può che starsene in disparte.

Il ruggito è prepotente, lo si assapora dall’intro di chitarra di “Fuori”. Così tanto Skunk Anansie che fa quasi rimpiangere l’italianità del mix, un po’ morbido e sottile. Però la morbidezza dona personalità e classe al prodotto, conferisce pesante sfogo alle contraddizioni insediate nell’ugola di Antonella, fulcro centrale dell’universo dei “Pandora”.
La curiosità porta Il Vaso ad altalenarsi tra varie sfaccettature: i ritmi forsennati di “Tempo latitante” e le immense e dilatate distese de “Il re servo”, raccontate da soffici archi e chitarroni (troppo?) moderni. Ma che c’è di male? Tutto questo mi fa storcere un poco il naso al primo ascolto, ma questa accozzaglia finisce pure per suonare gustosa al palato e con buona dose di personalità.

Le dinamiche “fredde” e i silenzi in “Alice(1)” danno grinta, metodo e solidità ad un’azzeccata interpretazione del personaggio di Lewis Carroll. Alice è sfuggente, determinata, “mangiatrice di nuvole”, quasi spaventosa e, senza ombra di dubbio, curiosissima. Alice è la dimostrazione che il rosa si mischia bene sia al nero delle tenebre che al bianco candore.
“Pandora” ha atmosfere orientaleggianti, ma rimane diretta e per fortuna non ha tempo da perdere in sentieri arzigogolati. Il femminismo vince con prepotenza in “Libero arbitrio”, la voce di Antonella esagera un pelo, scadendo nel freddo tecnicismo. Ma poi le si perdona tutto quando dal cilindro sbuca un brano come “Lu”, inaspettato e calzato a pennello sull’ugola articolata della fanciulla. E allora un bell’applauso scrosciante per l’assist fornito dai tre ometti, relegati ad una sottomessa ma produttiva “vita da mediano”. Si volteggia ancora tra paesaggi interminabili, dominati da neve e un sole tenue che rassicura, quel pizzico di serenità incastonata nel ghiaccio.

Il ghiaccio infatti non si scioglie neanche nell’ultimo brano. “Maredinverno” è un crescendo sofferto che non arriva a destinazione, ci lascia in piena quota a guardare sotto questa distesa di ghiaccio. Ci lascia quella femminea curiosità, mentre osserviamo che tutto è così serenamente imperfetto. La speranza è che al prossimo giro il vaso possa presentarsi più determinato, senza rinunciare all’imprevedibilità del suo fumo rosa.

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Guignol – Addio Cane!

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Un basso alla Fugazi o alla Mike Watt (Minuteman / The stooges) apre questo delizioso “Addio cane!” dei Guignol in “Quello che vi dirò”, pezzo che entra in testa già dal primo ascolto (forse per le sue melodie ripetitive e per la voce di Pierfrancesco Adduce, che è anche autore di tutti i testi e suona la chitarra).
Del gruppo fanno parte anche Alberto De Marinis alle chitarre, Giulio Sagone al basso e Stefano Caldonazzo alla batteria coadiuvati nella title track da Francesco Campanozzi (Le gros ballon, Fabrizio Coppola, Alessandro Fiori) e da Paolo Perego degli Amor Fou in “Blues del buco”, brano blues malinconico nella sua semplicità che però si movimenta nel ritornello.
Come avrete capito quindi questo disco, realizzato tra febbraio e marzo 2012 nello Studio Casa Medusa di Milano e masterizzato da Tommaso Bianchi al White Studio di Scandicci (Firenze), è dall’aspetto molto variegato in ogni suo aspetto.
Del resto questo è ormai il quarto lavoro del gruppo e quindi sappiamo già a cosa andiamo incontro.
Tuttavia c’è da riscontrare una certa maturità artistica soprattutto in “Un giorno fra i tanti” e ne “Il torto”, brano dai contorni anche un po’ politici, il tutto in chiave pop con qualche piccolo inserimento alla Sonic Youth (senza però esagerazioni nei rumorismi).
“Addio cane!” è però anche una sorta di commiato, la fine di un ciclo, attraverso anche alcune memorie personali, storiche e di gioventù, di fronte a un fragile presente e a una miope o strabica visione futura, come già avevate potuto sentire forse nel precedente “Una risata…ci seppellirà”.
“Padri e madri” è la perfetta fotografia della situazione del mondo di oggi dove i genitori delle famiglie borghesi spesso si scontrano fra loro seminando rancori e conti da saldare.
Un disco da non lasciarsi sfuggire assolutamente!

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The Sickle – Get Bigger Last Longer

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Riecco a rodere le orecchie e l’underground quelle simpatiche canaglie dei padovani The Sickle con il nuovo lavoro “Get Bigger Last Longe”, distillato punk-rock che, per l’energia sprigionata e anche per dargli una plausibile classificazione, supera sulla distanza quel già straordinario esordio che fu Hung upto dry del 2011, un “frastuono sonante” che li pose all’attenzione allargata tanto che ora sono di nuovo in giro con un ghigno raddoppiato, laidi, dolci e velenosi e al timone di  una nuova marea di bordate elettriche che lasciano il segno.

Il trio non smette di frequentare le zone caratteristiche dei Novanta del punk’n’roll californiano, riprende l’espressionismo distorto e melodico come un accasamento sicuro e già rifugio dei toni ferrati ma mai violenti di Offspring, Blink 182, Sum 41, ma anche una tracklist che fa intravedere inserti e zeppe blues, hard rock e l’ingresso di una “spiritualità” rokkettara alla Foo Fighters, quella sentimentalità col jack innestato nel cuore “Electricity”, “If I were humble” che li americanizza ancora di più, che ce li strappa virtualmente dal patrio suolo (eufemismo patriottico?); si perché per loro la dimensione nostrana gli va stretta, il loro sound è concepito per  grandi spazi, grandi folle e continenti “incontinenti” di vederli in live forsennati e in preda del sacro fuoco del rock, una di quelle cosi dette “band emergenti” che non avrebbero nulla a che vedere con l’emergenza, nati già grandi e maturi da spaccare il culo a pletore di banderuole armate di cazzate e masturbazioni amplificate.

Dopo aver consumato giri su giri “At a time”, ballata agrodolce che sonorizza il video in circolazione scelto personalmente da Alex Zanardi e che ne racconta le gesta poi si fanno i conti con l’hard rock che invade “C’mon”, con il vacuum di un Billie Joe Armstrong che solfeggia indifferente tra la partiture di “Wake me up break me down” e “My own doom” , uno stupendo sguardo oltre confine sulle orme ritrovate di piacevoli Go Go DollsConfused”, immaginifica ballad strappalacrime per poi stordirsi definitivamente nella bonus track (rilettura acustica della traccia sopra) che senza tanti panegirici, solo un giro mid-acustico, qualche cembalo ad arbitrarne il tempo easy-freak, e la sensazione netta di un mondo che momentaneamente ha staccato la spina da qualsiasi cosa che possa rompere i coglioni “Wake me up break me down acoustic”.

Grandi questi The Sickle, sono di nuovo in giro a suonare ancor più grandi numeri, e magari non sanno interamente che queste undici tracce sono i sintomi reali di un altro piccolo capolavoro del suo genere. Consigliatissimo a tutti.

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Counting Crows – Underwater Sunshine

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Adam Duritz ed i suoi sodali Counting Crows non smentiscono la loro infinita fama di raccounteurs, commissionano solitudini, piccole gioie e trame nascoste al loro modo semplice di essere band eternamente di provincia, senza fronzoli da agitare né urla da espettorare, raccontano i personaggi interiori della strada intesa come mezzo di vita, come tracciato da seguire per viaggiare sui bordi  anche stando fermi.

La loro arte ce l’hanno confermata in splendidi album, ma ora vogliono cantare canzoni d’altri, non come un banale coveraggio di transizione, ma per dare voce a pezzi sconosciuti di altre band o minori di qualche grande discografia, per dare vita ad altri spiritelli interiori che agitano e si aggirano implacabili su differenti stati appassionati, tra dolcezza e passione; “Underwater Sunshine” è il lavoro che i californiani estraggono dal loro cilindro magico, diciassette rivisitazioni che, con movimenti di sapienza e autenticità sonora confondono circa la realtà esecutiva, tanto è forte e personalizzata la memorabilia esposta sul piatto stereo.

Disco bello e soprattutto a sole pieno in fronte, felice e giuggiolone come un gatto sornione, tutto porta ad un ascolto incontenibile, vibrante che – tolta qualche song del loro repertorio –  si avvicina al Dylan disilluso “You ain’t going nowhere”, la ballatina dubbiosa dei FacesOoh La la”, il plettro di mandolino che il grande David Immergluck che fa grandi numeri su “Return of the grevious angel” di Gram Parson, il rock nebbioso di “Hospital” o il country.field da accendino acceso che accarezza le visioni di un Duritz sempre più poeta dal versante intimo “The ballad of El Goodo”; i Counting Crows vogliono tornare giovani, vogliono reinserirsi in quei filoni libertari dove suonare e cantare non faccia parte dei tentacoli calcolati del mainstream, ma sia parte integrante di un contenuto che valorizzi, dia fiato e cuore ad un qualcosa che suoni per suonare, e con amore.

In questi frangenti sociali e di polifoniche drammaturgie Kafkiane, questo ottimo registrato arriva con la temporalità di un rapporto uditivo con la bellezza.

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Luca Loizzi – Luca Loizzi

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Luca Loizzi è un cantautore che per anni è stato insegnante di lettere a Milano e che nel 2011 chiede ed ottiene il trasferimento al Sud, ora vive e lavora in Puglia (migrazione inversa?) che trae ispirazione dal vecchio e nuovo cantautorato francese, da Brel a Brassens, da Benabàr a Vincent Delem fino alla scoperta di Giorgio Gaber e di Nanni Svampa.
Il suo stile eclettico lo fa passare attraverso generi diversi riuscendo nell’impresa di essere sempre originale nel risultato.

Il primo singolo estratto, “Quando Meno Te Lo Aspetti”, in rotazione radiofonica proprio in questi giorni, lancia e promuove un disco che porta semplicemente il suo nome e che contiene nove tracce davvero interessanti e ben suonate  in cui è accompagnato da Nico Acquaviva alle chitarre, Alessio Campanozzi.al contrabbasso e al basso elettrico e da Walter Forestiere alla batteria e ale percussioni.
Lontano anni luce dai “colleghi” indie Bruno S.a.s. e Dente, “Luca Loizzi” è stato registrato tra gennaio ed aprile del 2012 presso gli Studios LaVilla24 (Bisceglie/Trani) dal produttore Beppe Massara ed arrangiato dal chitarrista Nico Acquaviva (già menzionato precedentemente).

Un lavoro semplice (ben rappresentato anche dall’artwork ad opera di Dario Agrimi con il progetto grafico di Stefano Ciannamea e Giovanni Albore) che non taglia le radici con le sue origini, con la dichiarazione finale d’amore “Milano” che descrive la normale vita monotona della grande metropoli e che si contrappone a “Taglio La Corda”. fotografia dell’Italia irreale contemporanea “priva di ogni scrupolo e dignità”.
Tutti quelli” è un brano a metà fra lo swing e il jazz con un testo scherzoso ma gradevole, mentre “Che Fastidio” è sicuramente la traccia più “dance” (passatemi la definizione!) con i suoi riff accattivanti di basso che ricordano un po’ quelli di Bernard Edwards degli Chic (senza però fare uso esagerato del thumb slap).

Bello anche il booklet incluso all’interno del digipack rigorosamente bianco in cui troverete appunti sull’esecuzione e sulla registrazione delle canzoni (idea davvero insolita in una produzione tutta italiana!).
Da segnalare che l’album è promosso con il sostegno del P.O. Fesr Puglia 2007/2013 Asse IV – Puglia Sounds.
E citando “Via Ripamonti”, quarta traccia del cd, “non ci rimane che affidarci a del buon vino” (senza ubriacarsi mi raccomando!) e goderci l’ascolto!

 

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Dan Sartain – Too tough to live

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Il pazzo allampanato d’Alabama, Dan Sartain,  non riesce a stare un minuto fermo dentro le quadrature di un suono che lo faccia riconoscere al primo istante, una ne fa cento ne pensa, un artista schizzato d’argento vivo che odia i vuoti pneumatici della musica, e appena può (sempre) s’inerpica come un muflone in cerca di compagnia sulle carreggiate impervie d’altri suoni e tensioni.

In questo giro si ripulisce la faccina vissuta canagliescamente dentro i suoni laceri del rockabilly a zonzo nei far west Morriconiani e abbraccia la dottrina del taglione garage-punk, comprime in un quarto d’ora tredici urli lamettati in un cd, gli mette un titolo “Too tough to live” e via, nemmeno il tempo di renderci conto, che la nuova creatura di Sartain ha già colpito con velocità inaudita il lettore stereo.

Il Ramones thing  e gli anni Settanta – inconfessati amori tenuti stretti dentro ma forse già captati nel 2006 con l’album Join – esplodono come un bubbone elettrico inarrestabile, un caotico bailamme punk.garage, fragore, pogo e sangue caldo che fa festa e nervi tesi, un disco secco, nevrastenico e diretto come tradizione Dee Dee and brothers vuole; la chitarra elettrica di Sartain s’infervora nei tre accordi chiave in maggiore che hanno rivoluzionato una porzione di storia rock che fu, la giugulare gonfia d’invettive e la velocità dell’urgenza fanno il resto a partire dalla traccia 2 “Now now now”che vede al fianco dell’artista americano Jane Wiedlin delle Go Go’s, poi il pulse totale degli anni Settanta prende tutto il corpo sonoro dell’album, senza distinzione di toni e timbriche, un sabbath indiavolato d’ampere e diavoli crestati che a dispetto delle tantissime mode che arrivano a ripetizione, rimane unico e inconfondibile.

Disco non basilare se si vuole, ma importante per  tenere viva la fiamma di un momento dove tutti noi, almeno una volta, abbiamo sputato contro qualcosa che ci voleva in silenzio e sottomessi “Rona”, “Fuck friday”.

 

 

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The Lemonheads – Hotel Session

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Un bel momento per ricapitalizzare l’anima, specie in questi tempi stracciati dall’ansia – ci vuole proprio, e allora non rimane altro che sedersi e amplificare il suono di questo stupendo Lo-Fi contenuto in “Hotel Session” del nucleo vitale dei The Lemonheads, Mister Evan Dando, quattordici tracce registrate in un assoluto acustico dentro una camera di hotel di Bondi Beach in Australia, takes e sfiziosità senza prezzo per ingordi di sopraffino.

Voce e chitarra acustica per raccontare il già tutto raccontato, ma anche per viaggiare stabilmente ancorati al divano del salotto, e andare via con queste canzoni prese qua e la dal precedente “It’s a shame about ray” e da altro e rielaborate in solitaria  tristezza, ma rigate di una dolce intensità che t’incolla l’orecchio al centro di uno stato di calma e riflessioni; non c’è da stupirsi, Dando è abituato a fare come gli pare e piace, fa e disfa le sue cose con un amore interiorizzato, solo un mese e mezzo fa era uscito con un greatest hits “Laughing all the way the cleaners”, ed ora con questo disco di diamantini grezzi in cui parla, canta e sogna alto cercando di saziarsi con quel qualcosa in più, lo fa con “Into your arms”, “Paid to smile”, appende le disillusioni al filo della notte “Great big no”, sorride all’ottimismo “I’ll do it anyway”, prende in mano decisioni sulla strada da percorrere “Down about it”, sorride schitarrando “Superhero” per poi ritornare ad imbronciarsi delicatamente in “And so the story goes”.

Un “piccolo” disco che lambisce i territori mai segnati dell’emozione, che cita con ballate e momenti sospesi la reinterpretazione di pezzi già interpretati, quei b-sides che messi sotto questo cono d’ombra rinascono e ritornano a vivere nel loro grezzo respiro. 

Mister Dando colpisce di nuovo.   

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Soundscape – Star Things Up

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Ci voleva proprio un disco cosi. Grottesco. Parlare bene di tutti è parlare bene di nessuno, parlare male di tutti è farsi una sega sorridenti davanti allo specchio. Io, ultimamente di seghe me ne stavo facendo ben poche e con le mie palle gonfie che rischiavano di esplodere non facevo altro che sputare miele a destra e a manca, in un tripudio di tre e mezzo e quattro. Cominciavo ad aver paura di essermi un po’ inchecchito. Che cazzo. Dov’ero finito io che non ci pensavo due volte a dirvi se un disco mi faceva cagare? Mi stavo forse facendo fregare dal sistema? Vi dico una cosa, se non vi è mai capitato di fare i “recensori” per qualche webzine o rivista o altro. Esagerate con gli elogi e avrete amici, conoscenze, contatti, visite moltiplicate sul vostro blog, il sito web, la vostra pagina Facebook. Provate a dirne male e avrete la casella di posta piena d’insulti e offese alle vostre conoscenze musicali e alla vostra scrittura, se non alle vostre donne, mamme, nonne, sorelle e via dicendo. Che cazzo. Possibile che si riesca a scrivere bene solo quando la recensione è positiva? Possibile che il nostro cervello sia capace di lavorare meglio quando deve esprimersi positivamente? Forse sì o forse è tutta una cazzata. Ora, se qualcuno mi conosce un po’, dovrebbe sapere che non ritengo mai di avere la verità assoluta tra le mani (o forse sono io che credo di essere cosi? Devo appuntarmi di ricordarmi di chiedere in giro). Io parlo a voi semplicemente come farei a un mio amico meno esperto, consigliando o no l’ascolto di un disco, anzi dicendo la mia nella speranza che lui (lui, lei o il mio amico immaginario, fate voi) s’incuriosisca, ascolti e poi corregga i miei possibili errori di giudizio o viceversa rafforzi le mie critiche. Questo disco mi ha fatto di certo capire che non mi sono rinfrocito ma anzi riesco ancora a dire quando qualcosa mi fa repulsione, senza credermi troppo saputello. Capita, no? Non devo spiegarvi sempre perché non mi è gradito qualcosa. Se vi dico che mi da disgusto il cibo cinese, lo capite il perché anche se c’è chi lo mangia. Diversi palati, probabilmente. Non è un giudizio assoluto il mio ma a volte si ha troppa paura di esprimersi perché chi legge ritiene sempre che il nostro parere sia posto come una realtà suprema. Nessuna offesa verso chi ha sudato per fare un disco ma se non mi conquista che diavolo volete? Pagatemi e vi farò tutta la pubblicità che desiderate. E poi è cosi importante? Potrei dirvi che mi fa schifo la voce di Billy Corgan, la musica di Elton John, i balletti Michal Jackson. Chiedete a loro quanto gliene frega? Non chiedete a Michael. Dovreste suicidarvi per farlo. Quindi state tutti molto calmi. Sto per dirvi una cosa che non vi sembrerà opportuna, forse.

Il promo dei Soundscape ci propone un mix di Alternative Rock, Pop/Rock e Symphonic Rock che solo vagamente può ricordare la musica dei noti Muse ma che in realtà manca della stessa grandezza non solo esecutiva ma anche espositiva. Tutto sembra appena abbozzato, quando la voce cerca acuti che non trova, quando ti aspetti la melodia che non c’è, quando le chitarre dovrebbero spazzarti via e invece, sono risucchiate dalle tue bestemmie a mezza bocca e neanche basso e batteria che provano a pompare un po’, ci riescono mai pienamente. Il disco si apre col brano che dà il titolo all’album. L’inizio ricorda il sound dei Guns N’ Roses ma solo per una ventina di secondi. Appena voce e chitarre cominciano ad andare a braccetto, tutto è già chiaro. Il brevissimo attacco del piano sembra piazzato in quel punto cosi, a caso, mentre la voce propone una melodia assolutamente fastidiosa. Anche il timbro non è proprio memorabile e la voce, nel suo incedere un po’ acidula, sfiancata, senza mai azzardare nulla si limita a seguire lo stesso percorso all’infinito.

Il secondo brano “Under Attack” ha il pregio di promuovere quantomeno una variazione sul tema. Parte con un ritmo Martial Folk interessante, addolcito dalle note del piano. Prima che scadano sessanta secondi però, tutto torna esattamente dove ci aspettiamo e non bramavamo. La musica è sempre la stessa, priva di energia e nello stesso tempo, di melodia, incapace di emozionare cosi come di stupire.

Il terzo brano, “Die For One Day”, è invece una ballatona di quelle che non possono mancare in un disco del genere. Sinfonici arrangiamenti accompagnano le parole, intervallati da momenti più energici.

“Gave Ya All” si ricollega alla precedente per l’atmosfera particolarmente intima che prova a suscitare e forse, anche perché si discosta parecchio da quanto ascoltato fino ad’ora, è il momento migliore dell’album.

L’inizio Neofolk di ”Try Again” fa ben sperare e cosi l’attacco pieno di metallo, ma, come ormai ho imparato, tutto dura davvero troppo poco. Parole cantate e sussurrate si alternano alla ricerca di un’enfasi che neanche il pigiare di tasti riesce a creare.

Con “Girl” arriviamo a metà del promo. Bell’intro pazzoide e vagamente esotico e poi il nulla. Una cosa è chiara. Su di un elemento hanno fatto un discreto lavoro. Sanno come iniziare i pezzi. Poi, ovviamente, non basta ripresentare quegli intro dentro le canzoni per creare belle canzoni, ma questa è un’altra storia. Nelle tracce restanti, in concreto, nulla è aggiunto. Momenti lenti alternati a episodi più energici. Poche idee, poca voce, poche melodie.

Che posso dirvi ancora. Non ho neanche troppa voglia di continuare a parlare in questi termini. Non è una musica che mi piace questa, Pop Rock che finge di travestirsi da Alternative Metal. Puah. Eppure solitamente qualche cosa riesco anche ad apprezzarla, nel genere. Mi dispiace dirlo ma non è questo il caso. Non c’è in sostanza niente che mi piace escluso qualche passaggio nei testi. Non m’interessa la musica, le melodie, l’esecuzione, la voce, ecc.. Io ci ho provato ma…

Sorry, Try Again.

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IDavoli – Greatest hits

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Dalla Pistoia del grande blues, il progetto “fuori dalle righe” della band IDavoli, quartetto che muore dalla voglia di aprire il proprio cuore ad una fucina amplificata che ingloba psichedelica quadrata, robotismi dance e una funkadelica agitata che non fa star fermi un attimo chi presta loro orecchio, tracce con gli anni Ottanta dietro l’angolo cariche dei virtuosismi elettro di Talking Heads, Devo, Television per dirne alcuni ma pure con quell’immediatezza dilatata nel tempo fragile all’apparenza solida invece nelle radici.

Greatest Hits” è il sunto della loro frequentazione nella discografia indipendente, dopo due Ep il disco della “ragione di gruppo” e punto fermo da dove partire alla grande per quel cosmo ben più alto dell’underground, una fedeltà tradotta in tredici episodi intensi e allucinati che fantasticano e producono sensazioni a livello industriale, melodie a raggiera e sconnesse che fanno ascolto e trip mentali di gamma; il ritmo è convulso, l’elettronica di echi, riverberi, feedback si sdoppiano con i richiami funk che imperversano come argento vivo e con lontanissimi pulviscoli di Sly & Family Stone, ma sono appunto lontanissimi assemblamenti di ricordi che passano nei limits atmosferici del disco, il resto è tutto un “ballo di San Vito” dal quale non puoi far finta di nulla e tantomeno ritenerti esonerato dai suoi stimoli effervescenti.

Richard Davoli voce e chitarra, Frank Davoli chitarra e tastiere, Tom Davoli basso e Jonny Davoli alle pelli sono una forza della musica, e anche se mettono ancora più a fuoco il punto “ricordano altri”, perlomeno hanno carattere e stile personalizzato, certo i riferimenti ci sono ma chi è che non li ha, tuttavia Greatest Hits è un album che lascia molto spazio a germogli creativi di tutto rispetto ed il quartetto toscano “le suona a molti” senza lasciarsi doppiare nella loro rutilante avventura sonica; una piccola abbuffata di groove che si riassume nei frenetismi dance di “Switch on pleasure”, “White tape”, attraverso le pulsioni kraut alla DevoSomething else”, “Show me”, dietro strani epilettismi latin “Saturday night”, con il funk alla BeckJojo rulez” per arrivare a sentori Motown nel corpo madido di “Purple pills”. A fine estate Greatest Hits ci fa ballare alla grande, ci fa muovere senza titubanze, ce n’era bisogno tra tanto abbiocco sonoro, e con un grazie collettivo salutiamo questi frastornanti musici che per tenere fede ai proverbi d’un tempo fanno proprio “ IDavoli a quattro”.

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Radioclone -Velia

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Come non notare in questo power trio (si autodefiniscono così e ci azzeccano alla grande) lo spirito di Kurt. Ennesima dimostrazione che il biondino maledetto ha lasciato un segno indelebile dagli anni 90 ad oggi. In miriadi di band italiche spara ancora le sue cartucce, esplodendo come una bomba nello stomaco di ragazzi pronti a sfoderare gli strumenti con la sua faccia stampata negli occhi. Ci sono ancora nelle sale prove e nei concorsi regionali i sintomi di quella ribellione angosciante che ci ha insegnato il maestro del grunge? Pare proprio di si, anche se questa volta i musicanti in questione non sono proprio dei pischelli. L’esempio che vi riporto non è forse dei più “freschi”, perché a vedere le facce del trio in questione è possibile che Kurt se lo siano visto negli anni d’oro in diretta su MTV.Radioclone è un progetto che parte da Biella nel 2004 ed è al terzo episodio: “Velia”, un EP dal carattere altalenante, instabile come l’icona bionda e decadente che rivive dentro il “clone” a vent’anni di distanza. La sua ombra pare onnipresente. Si guadagna subito il suo spazio nelle chitarre dilatate della title track, e tramite i feedback sfumati a fine canzone imposta la data 1992 sulla macchina del tempo.

Il disco è protetto dalle sante chitarre taglienti (ottimo Stefano Buttiglieri alla 6 corde), che sebbene siano “sicure” non sono mai scontate, registrate magistralmente e ben intersecate con la sezione ritmica in cui spicca la rocciosa presenza di un basso Rickenbacker da schiaffi in faccia.

In bilico tra buoni spunti e banali linee è invece la melodia, in “Valle dei no” la ricerca della semplicità anni 60 (la chitarra ululante e slabbrata fa scempio di un esile beat-spensierato) vince sui contorti e scontati biascichi alla Manuel Agnelli di “Terre emerse”, salvata solo dalla solita chitarra sufficientemente fuori dagli schemi e da un buon testo incazzoso.Le sonorità poi prendono una sbandata oltre oceano e le ombre grunge vengono offuscate dalla nebbia di Sheffield. Ma tutto rimane nei binari, quando parte “La Falce” il frenetismo Artic Monkeys si sposa bene con l’attitudine da maglione sgualcito dei ragazzi. Attenzione però, questo non è il brano più deviato, “Batta” è un po’ Tiromancino un po’ Radiohead e le parole strisciate e solitarie accompagnano una struggente ballata acustica cadenzata da un riff di chitarra (di nuovo lei?) sensuale. Gran contrasto e miglior brano del disco. I ragazzi avessero rischiato un po’ di più in questa direzione invece di insistere in polverosi feedback avrebbero tirato fuori un bel gioiellino. Il resto è invece pura scuola, prendere appunti, riportare in bella copia e con nuova calligrafia preziosi insegnamenti. L’ombra riprende la sua forma madre e il clone ritorna più simile all’originale fino all’ultimo goccio: “III” ricorda tanto i Verdena ed elogia la maestria dei ragazzi in incastri ritmici e dinamica.Come in copertina, il bicchiere rimane un po’ mezzo vuoto. Una buona metà è già stata bevuta 20 anni fa dall’ombra e da tutti i suoi soci.

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