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Viper Venom – In Venom Veritas

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“In Venom Veritas”, questo il titolo del secondo disco dei pugliesi Viper Venom, band che si rifà a sonorità Thrash e Nu Metal, attiva dal 2005 e con alle spalle un EP ed un disco intitolato “Reborn From Lies”. Vi dirò subito che non appena ho inserito il loro disco nel lettore, la voglia di scuotersi e pogare è stata istintiva. Questo loro secondo disco è energetico, casinista e c’è un certo equilibrio tra melodia e aggressività. Potrete constatarlo con la traccia d’ apertura “Dirt In Veins”, che a parer di chi scrive è la migliore di tutti. Vi direte che vi ho rovinato la sorpresa, invece no, perché al di fuori dei gusti personali, c’è da dire che il disco viaggia tutto sulla stessa lunghezza d’ onda, nel senso che a tratti è un po’ ripetitivo. Ma è un problema che in questo caso passa in secondo piano in quanto la band ha dimostrato doti tecniche non indifferenti. E’ anche vero che il fiore all’ occhiello è la cantante, Miriam In Chains, che riesce a passare da uno Screaming ad una voce pulita con una facilità invidiabile, ascoltate “Distress” e “Veneral Disease” per avere conferma. Il resto della band anche ha svolto uno straordinario lavoro, tutti i riff presenti in “IN Venom Veritas” sono di una limpidezza e di una tecnica impressionabile, insomma, il seguito di “Reborn From Lies” non è affatto deludente, anzi ha mantenuto le aspettative se non superate. Il consiglio è di dare un opportunità ai Viper Venom, sono ragazzi talentuosi e di sacrifici ne hanno fatti tanti e “In Venom Veritas” è il loro risultato.

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Bob Dylan – Tempest

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Ogni volta che Dylan esce con un nuovo disco, un altro pezzo di storia si va a congiungere con le nostre memorie, di ieri, vicine e lontane, punti di riferimento che possono soggiogarci oppure lasciarci indifferenti ma che comunque non possiamo ignorare nemmeno se ci mettiamo di punta ad ignorarle; con Tempest non siamo al fianco di un capolavoro, ma di un nuovo cambiamento del Sommo Poeta, un disco dalle tinte fosche, magari non chiare come cromatismo ma che prende distanze dal rock’n’roll e dalle sue forme consuete, ora è il jazz e la memoria, il folk ed il blues nel pensiero per amici scomparsi, vita e morte tra timbri rochi e rabbiosi.

L’eterno menestrello di Duluth nel Minnesota si guarda intorno e nella storia, toglie dal sottovetro appannato la storia del TitanicTempest” con i suoi eroi ed i suoi angeli, e la traduce in tredici minuti dove non esiste un ritornello, tredici minuti filati di racconto amaro e descrittivo o come la bella pray “Roll on” interamente dedicata al suo migliore amico di sempre John Lennon, assassinato negli anni Ottanta; con questo lavoro in studio, precisamente il trentacinquesimo di una carriera infinita, Dylan mette a nudo una parte di sé mai data alla musica, quell’amore spassionato per la profondità di una umanità semplice e vecchia maniera, e la musica di questo album rispecchia questa facciata, ne mette alla luce tutti i pregi e i difetti, curiosità e grazie, sussurri e cuori aperti tanto che l’ascolto viene agganciato da un vero stupore.

Se da un lato viene mostrato il sentimento oscurato per via di certe rimembranze, dall’altro un bagliore di solarità (ricordiamo sempre rara nel Dylan che conosciamo da sempre) viene diffusa e mantenuta, come “Soon after midnight” piena di amori per donne dai lati enigmatici, nel blues dilatato che passa in rassegna usanze e modi degli antichi romani “Early roman kings”, un ritaglio customerizzato per una donna prosperosa di seni che occupa la tramatura del country-blues “Narrow way” o un piccolo rientro nelle visoni vintage con il fischio di un treno a vapore, si proprio quello dei primi pionieri, che appunto fischia e sbuffa nella bella “Duquesne whistle”;  non vi sono i suoni sporchi e farinosi di certe ricercatezze old mood, ma una sostanziale ripulita e stirata come non mai, e con l’ingresso nella tracklist della fisarmonica e violino di David Hidalgo dei Los Lobos, tutto assume, in plus valore, un’altra inquadratura dettagliata.

Ma poi possiamo fare, disfare, dire, contraddire o farci le seghe mentali, un poeta come Bob Dylan potrà sempre pisciarci in testa, come e quando vuole.

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Insooner – Caimani

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Come rompere le barriere del suono e sentirsi liberi di esprimere sentimenti in totale naturalezza, l’indie rock duro ma dal cuore tenero. Esce per Forears con la produzione artistica di Daniele Landi il nuovo disco “Caimani” degli Insooner . In poco tempo si capisce che “Caimani” non ha niente a che vedere con tutto quello cotto e ri-cotto nel calderone della musica (maledettamente)italiana, una personalità indossata con estremo carattere e tanta violenza strutturale da balzare dritti dalla sedia, un lavoro deciso e degno di farsi spazio nella mischia. Gli Insooner suonano in tre ma hanno la potenza di venti, ospitate mirate come quella dell’onnipresente Nicola Manzan al violino, un tocco di dolcezza che diventa veemenza senza scampo. Sono otto le canzoni, alternative e insolite come non avete mai sperato di ascoltare, “Alluvioni” il primo pezzo mette subito le cose in chiaro dimostrando le intenzioni affatto banali della band di Varese. Poi continuiamo citando in modalità casuale pezzi come “Giuda”, “Icaro nel fango” e “Istantanea della fine”, sorprese belle che voglio conservare fiero nel magazzino musicale della mia mente tenendo conto che anche i brani non citati non sono assolutamente da meno. Un modo diverso di suonare rock italiano, alternativo e comunque innovativo in un mondo “italiano” statico e legato al palo ormai da troppo tempo per reagire con la giusta reattività.

Quei chitarroni psichedelici poi caricano di adrenalina e lasciano sospesi tra sonorità post rock e musica d’autore, un bacio e subito dopo un pugno, amore che evolve in dolore. Cercavo un disco pieno di emozioni e finalmente riesco a trovarlo, ci entro a capofitto nella speranza di provare ancora qualcosa di emozionante, la musica serve a rendere vive quelle sensazioni appannate dall’indifferenza della normalità quotidiana. Gli Insooner suonano per la gente, “Caimani” suona come un atto di risveglio dei sensi, ogni tanto arriva qualcosa che mi ricorda di essere vivo in un contesto troppo scialbo e schematizzato per essere vero. Eppure sono vivo.

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Dope Body – Natural History

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Impegno senza compromesso su pazzie incontrollate, e tutto in salsa psicotropa come solo la migliore scena del Copycat Building di Baltimora sa dare e diffondere; Dope Body, quattro sciamani dell’industrial noise si agitano a dismisura tra le dieci pugnalate che costituiscono il secondo album, Natural History, disco successore di quel dannato Nupping che li fece conoscere lungo i marciapiedi di quell’America sozza e ruvida che prova a trinciare ogni forma di melodia per poterla riassembrarla in una stordente fusione di arty-punk e nichilismo, roba scottante per chi cerca – sui border del rock urbano di nuova generazione – i latrati, i sanguinamenti o le epilettiche vicissitudini di un Dan Deacon ed i suoi Wham City.

Ribellioni chitarristiche e posture alla Henry Rollins, abrasioni Pissed Jeans style e squadrature che prese ed ascoltate da lontano in certi frangenti riportano in ballo Talking Heads di primo pelo, sono le crude e fragorose credenziali che il quartetto americano colora di noise a rotta di collo, quel noise casinaro e ben architettato che mantiene fede all’understatement di una poliedria immacolata di peccati lirici; dieci tracce dal trattamento shock in ogni secondo della loro durata, che oltre che ha farsi belle sulla corta distanza di ascolto, riescono poi a primeggiare nella realizzazione di un sottofondo “musicale” che inquieta di piacere come una casalinga violenza psicologica che uno fa a sé stesso, quella dolce e onesta dose di masochismo, che ognuno di noi nasconde e caldeggia nell’intimo.

Loro definiscono il loro sound “industriabalismo”, e non hanno torto credete, fatevi smangiucchiare le dita della mano dagli ingranaggi rettili di “Shook”, “Beat” o  “Out  of my mind”, fatevi venire un attacco epilettico per montare il ritmo che “Road dog” vi lancia, ed una trinciatina d’orecchi? “Weird mirror” vi soddisferà, e se poi siete ancora idonei per un altro un altro “piacevole supplizio” iniettatevi “Lazy slave” nelle vene e tutti i vizi dei bassifondi del Maryland saranno vostri per un bel pezzo.

Suono radicale e prestazioni aliene eccellenti, cosa si può chiedere di più da un disco?

 

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High Frequency – S/T

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Se uno volesse essere cinico e cattivo, basterebbe dire, signori e signori ecco a voi i marchigiani High Frequency, una delle migliori cover band dei Pearl Jam, e  Eddie Vedder ringrazia di cuore e STOP!  Ma poi, presi un po’ dal cuore, dalla tenerezza ma anche da un senso di giustizia di dire le cose in faccia in serietà e per non illudere la band di turno o verso chi ci “vuol provare” ad andare una tacca più su dell’anonimato totale, lasciamo correre queste dieci tracce senza troncarle di botto ed archiviarle nell’oblio ancor più totale di quell’anonimato, anche perché scavando a fondo in questa tracklist molto ingegno d’insieme, professionalità e verso acuminato, non di creatività certamente, ma di una crescita ed intelligenza musicale “purtroppo” non trasferita in un qualcosa di personale, di propria mano o perlomeno, di un senso collimante, ma mai come è dato sentire a quattro orecchi spalmato su un copia ed incolla spudorato della band di Seattle “Sunny Rain” su tutte, fatto bene ci mancherebbe, ma sempre copia in colla è, e quello che viene da dire immediatamente, ma perché perdere tempo poi ad ascoltare queste tracce quando ci sono gli splendidi originali ovunque?

Ora con il massimo rispetto per la formazione marchigiana, ma forse stavano solo scherzando, è un disco di vere cover, tracce da worm-up prima di buttare giù l’ordito per il disco quello vero, quello che li farà stare in piedi davanti alla critica musicale per una ricerca sonora personale, uno scandagliare testi e liriche appropriate alle loro sensazioni, anche perché non si capisce il senso di spendere soldi e soldoni più il tempo impiegato  per una registrazione che rifà il verso a  cose “d’altri” sentite e risentite attraverso la storia del rock.

Nell’attesa del disco “veritiero” riponiamo queste tracce nei cassetti delle “miscellanee. Della serie, quando la forza e la potenza c’è ma viene sprecata per nulla.

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Davide Matrisciano – Traffico di pulsazioni (9 modi di intendere il frastuono)

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Davide Matrisciano è un polistrumentista campano che viene definito e si autodefinisce “paroliere ermetico”.
Fresco della sua collaborazione con la casa di produzione cinematografica indipendente tedesca Brandl Pictures il musicista ha sfornato ad aprile di quest’anno “Traffico di pulsazioni (9 modi di intendere il frastuono)”.
Un disco ambient degno di essere accomunato ai lavori del grande Patrick O’Hearn (famoso bassista che militò prima nella Frank Zappa Band e poi nei Missing Persons con il futuro Duran Duran Warren Cuccurullo) o al progetto “Spectrum pursuit vehicle” che uscì firmato da Vincent Clarke (ex Depeche Mode e Yazoo e ora negli Erasure) e Martyn Ware (membro fondatore di Heaven 17 e Human League).

Facile poi sconfinare mentre si ascolta “Passeggio tra luci psichedeliche” in piene atmosfere kraftwerkiane dense di kraut rock o magari, se volete sentirvi più vicini alla nostra Italia, ai Bluvertigo del loro periodo più new wave.
Incredibili visioni” vi aprirà poi la mente immergendovi in paesaggi incontaminati dandovi l’impressione alla fine della canzone di trovarvi in un mondo post olocausto nucleare…
In “Noia e affanno” invece grande spazio viene dato alla tecnica degli armonici in un raffinato background scandito da una deliziosa rhythm machine.
L’impressione ascoltando queste nove tracce è che il confine fra suono e silenzio non sia mai troppo netto, l’autore lascia infatti decidere all’ascoltatore quando è il caso di alzare o abbassare il volume.
Semplicemente geniali poi le accelerazioni e i frequenti cambi di tempo in “Spine inermi” secondo singolo estratto dall’album…
Avete presente i primi dischi di Franco Battiato, quelli più sperimentali?

Ecco, qualcosa di simile!

A breve Davide si metterà già al lavoro sul secondo album che invece verterà sull’indie pop ed electropop e che uscirà verso la fine del 2013, inaugurando cosí ufficialmente la susa carriera di cantautore (del resto nasce tale).
Da questo disco invece è stato appena estratto il terzo singolo “Gente in piazza” a cui è stato abbinato anche un video che sta riscuotendo un discreto successo su Youtube.
Io lo vedrei perfetto come sottofondo musicale di un cortometraggio (da appassionato del genere invito anzi Matrisciano a pensarci concretamente).

Se vi invece vi piace semplicemente la musica strumentale questo è proprio il disco che fa per voi…

 

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Melatti – Quando le ore e i minuti sono uguali Ep

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A chi si arrovella il cervello per cercare di scovare in qualche anfratto di un qualcosa che non sia oscurità, confusione, insicurezza e delusione da far circuitare tra l’aria da respirare e un sogno che sia una vera via d’uscita dal tutto, consiglio caldamente questo Ep del quartetto romano dei Melatti,  “Quando le ore e i minuti sono uguali”, e credo sia quella insperata salvezza che può fare molto, ma anche la chiara dimostrazione che dal basso può arrivare – per stazionarsi in un alto senza limite –  musica, concetto e poesia come fossero finalizzate al racconto magico di quello che si ha dentro.

Quello che gira in queste cinque tracce è una creatività di penna che va a braccetto con lo stupore pronunciato, un’idea di base che non rimane mai immutata ma incontra una serie di espedienti intimi che la ibridano all’altezza del cuore e nella profondità degli spazi narrati, ed è proprio da qui, da questi luoghi sonori visitati e vissuti,  imbastiti da questa formazione, che prende il via la liberazione interiore, quella via d’uscita di cui sopra; cinque pezzi, cinque inganni sonori concepiti con un senso retrò coinvolgente, una piccola opera che fa efficacia con percorsi apparentemente velati dalla spiritualità di Zampaglione, SinigalliaE così è l’amore”, “Sono davanti a te”, eccelsa traccia dedicata all’Annunciata del pittore Antonello da Messina,  un alito leggiadro e malinconico di Fossati L’uomo più fortunato”, poi una strizzata di cuore nel ricordo del giornalista Giuseppe D’Avanzo, le sue indagini, le sue occhiate le sua parola ferma contro la mafia che sono rimesse in gioco nella appassionante “Io avanzo”, traccia che vede la partecipazione del chitarrista di Peter Gabriel David Rhodes, e che già da sola regge tutto l’Ep.

Alberto Fiori voce, Menotti Minervini basso, Giorgio Amendolara tastiere, pianoforte e Andy Bartolucci alla batteria non hanno dubbi sull’elettroacustica pop che caratterizza la loro anima musicante, il loro modo di muovere sentimenti, storie e chili di note soffuse, la loro poetica sonorizzata non ha angoli, solo curve addomesticate e atmosfere da abbracciare come un amore che non si rivede da tempo, come un rapporto da ricostruire dopo un temporale della vita; e lasciarsi rapire dal tremore emozionale di “Empatia” è solo un dettaglio sospeso, un momento sottolineato all’infinito, curioso di capire se poi queste ore e quei minuti sono veramente uguali.

Sommessamente fantastico.

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Pat Metheny – Unity Band

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Questo stupendo disco “Unity Band”, ha riportato il grande chitarrista Pat  Metheny in studio dopo trentuno anni  (< 80/81>) di sperimentazioni e perlustrazioni nello sconfinato e variegato mondo free jazz, e lo fa in quartetto che vede,  oltre la sua fulminante chitarra,  il sassofonista Chris Potter, Ben Williams al contrabbasso e Antonio Sanchez alla batteria; è come un ritornare a casa, al jazz dell’origine, con partiture melodiche sempre messe in primo piano, orditi molto più protesi nell’armonizzazione e una valanga di improvvisazione, insomma nuovo materiale che l’artista americano del Missouri, rivolta e stila in nove tracce che pigiano forte sulle emozioni, sulle redenzioni stilistiche e delle reinvenzioni al sapore forte di Freddie Hubbard e Shorter.

Con l’arrivo del sax tenore nella formazione dell’artista, il perno architettonico è spostato decisamente sul versante jazz sofistico, si lasciano leggermente le asimmetrie fusion per accostarsi più al dettame misto, ma poi da qualsiasi punto lo si ascolta, il disco reinventa il jazz e lo spara nel futuro futuribile, lo evidenzia in maniera talmente autentica che segna la profondità come influenza progressiva di riferimento per generazioni a venire; la spiritualità libera di Metheny è percepibile in ogni centimetro sonoro del disco, tutto riporta a quella straordinaria iridescenza in cui il musicista gioca, parla, svisa, inventa sulle sonorità del suo istinto perennemente oscillante, vivo e mai statico e sempre al centro di una fulminante sequenza di cose meravigliose come le arcate zigrinate di “Roofdogs”, il contrappunto chitarristico slow dal profumo East-sideInterval Waltz”, l’algebra soft latin che ricama “New year”, il gattonare free di “Come and see” per arrivare alla fusion delle fusion di “Signal (Orchestrion Sketch)” splendido “incrocio” tra suoni, un robot e la perizia musicale di “esseri umani” al servizio della magnificenza.

Ogni suono è una goccia di concretezza senza legami, una goccia di virtù esemplare che coinvolge e disarciona anche i più barricati nel purismo o nell’ortodossia, una goccia che ti disseta l’animo e ti da la certezza che nella vita qualcosa di magico – anche se sei con i piedi a terra – può succedere, non spesso, ma può succedere davvero.

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Area 765 – Volume Uno

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Sarà un retaggio della scuola, ma per me settembre è mese di bilanci, di nuovi progetti, di buoni propositi da non realizzare mai (fortuna che ho smesso di ripromettermi di smettere di fumare).E forse è anche colpa di tutta la pioggia che sta cadendo in questi giorni, che rende un po’ pigri e un po’ più malinconici, ma, insomma, a settembre ci si guarda dentro un po’ prima di ricominciare col solito tran tran che a mala pena ci dà il tempo di incrociare noi stessi nello specchio la mattina.

Gli Area 765 potrebbero essere un buon sottofondo ai nostri pensieri.
Nati dalle ceneri dei Ratti della Sabina, formazione storica laziale con alle spalle una carriera live esaltante e promettente, gli Area 765 nascono nel 2011 e a maggio di quest’anno si presentano al pubblico con una nuova fatica discografica, questo Volume Uno che già dal nome sembra garantire un seguito. Sette tracce finemente arrangiate (la band si compone di sette elementi che con equilibrio cooperano alla realizzazione dei pezzi), caratterizzate soprattutto dalla forza dei testi, mai banali per la scelta lessicale, intonati con voce calda, su un tappeto musicale a tratti rock, a tratti folk, ma sempre dal sapore leggero italiano.

E “leggero” va bene giusto per definire il debito con la tradizione pop nostrana, perché tutt’altro spessore e tutt’altro peso caratterizza le liriche. Gli Area 765 si guardano dentro e indietro (come dicono in Kant vs Dylan Dog, che tratta della spensieratezza della gioventù con una certa nostalgia, “delle risa incontrollate davanti al professore / […] / il motorino è un’astronave per portarci fino al mare”) e proiettano lo sguardo avanti e si interrogano su ciò che sarà (come in Galleggiare “Tra le cose che potrei e quelle che posso”), talvolta con una punta di disillusione (“Tra il dire e il fare spesso piove”, come recita Nonostante) . Il tempo la fa da padrone e scandisce ogni riflessione (“E in tutto questo io mi perdo spesso / Ancora adesso io mi perdo spesso” dice Spesso piove e “come ti va la vita / come vanno le tue scarpe” in Scarpe ) ed è tema centrale dell’ep, quasi una fissazione.
Tanto che c’è da chiedersi se non si potesse fare anche qualcosa di meno.
Non fraintendetemi: questi ragazzi sono bravi e non hanno nulla da invidiare a musicisti affermati e popolarmente acclamati, ogni singolo brano è costruito con attenzione e dedizione, due qualità che non sono facili né da investire né da trasmettere attraverso una canzone. L’intero ascolto però è faticoso e pesante, anche in una giornata di pioggia di settembre col tè caldo in una mano e la testa piena di pensieri. C’è troppa malinconia, troppa delusione e disillusione – che si traducono anche in una resa quasi monocorde della linea melodica vocale, che alla lunga annoia- tanto smarrimento da essere veramente difficile l’identificazione, abbastanza da averne il rifiuto. Non sono, per farla breve, il tipico gruppo adolescenziale depresso, anzi: è proprio la consapevolezza di quanto detto, l’esperienza accusata, sofferta, raccontata, traccia dopo traccia, a schiacciare l’ascoltatore.
Gli Area 765 non inducono solo alla riflessione, ma lasciano l’amaro in bocca.
Che comunque significa aver saputo, con tanta forza, esprimere qualcosa.

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Niccolò Bossini – QBNB

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Si canta ai tempi della crisi economica e gli argomenti certamente non possono mancare, si parla di quanto possa essere pesante questo mondo, comunque sia si scrivono canzoni. Niccolò Bossini è un musicista chitarrista con un curriculum estremamente rilevante, a cominciare dai suoi primi passi nel circuito hardcore per finire al fianco del Liga nazionale in concerti come quello delle 220.000 persone di Campovolo per poi registrare sempre con Ligabue l’album in studio “Arrivederci, Mostro”. Ebbene si, un musicista vero, niente hobby ma lavoro, studio e dedizione.

 

Ecco che decide di essere cantautore portando finito il suo personalissimo disco “QBNB” cercando di lasciarsi alle spalle ombre troppo opprimenti salendo dritto sul gradino più alto della musica, assumendo una propria identità che nessuno può intaccare. Il lavoro in questione dimostra alte capacità compositive, l’esperienza è tanta e il talento con gli strumenti assolutamente non manca, ma vogliamo parlare di emozioni? Già, dove sono finite quelle cose semplici o complesse che fanno arrivare brividi, lacrime o sorrisi? Rimango attento nell’ascolto e scopro anche brani orecchiabili e di semplice impatto, apprezzo ma qualcosa maledettamente manca, il sound è il più classico del rock leggero made in Italy. “QBNB” rimane in mostra per parecchio tempo, cerco angoli inesplorati, lo rivolto in tutte le direzioni ma qualcosa manca. Forse era intenzione rimanere lineari senza osare, forse qualcuno avrà meglio capito le intenzioni, io rimango contento ma senza un pezzo. Quel pezzo che avrei voluto cucirmi volentieri sulla pelle, quella finezza che distingue un fuori classe da un importantissimo e indispensabile gregario. Niccolò vale e tanto come musicista, la musica ha bisogno di gente con le sue stesse capacità ma fare il botto forte è comunque roba da pochi, fare il cantautore è roba da poeti.  “QBNB” rimane nella mia memoria come un buon disco da ascoltare quando la mente è libera e le sensazioni sono quasi del tutto azzerate. Questo lo prendiamo come un provino per affilare le idee e tornare in pista con un disco decisamente migliore, lo voglio io, lo vogliamo tutti, lo vuole innanzitutto Niccolò Bossini.

 

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Michael Kiwanuka – Home Again

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Ne  parlano oramai tutti di questo ventiseienne ugandese ma trapiantato a Londra, e ne parlano come la nuova stella ascendente della piazza inglese e non solo; Michael Kiwanuka cresciuto a pane e Otis Redding, Marving Gaye, Curtis Mayfield per citarni alcuni, mette nella sua musica tutto il calore della spiritualità, valori, umanità e una sfilza di emozioni che non nascondono l’essenzialità di suoni vintage come forza e stile delle perle che la storia della musica ci ha donato; “Home again” è il passo ufficiale di questo giovane cantante e polistrumentista, uno stupendo viaggio attraverso la delicatezza e la passione contenute nel gospel e soul, poesie doloranti e maestose che ascoltarle ti trafiggono l’anima e felicemente ti colorano la faccia di nero.

Dieci tracce, dieci gemme di vissuto al 100%, una tracklist morbida e setosa che gira nello stereo come una carezza scottante, l’ombra di Sam Cooke che avviluppa tutto e tutti ed una onestà di fondo che fa di questo “emergente” un artista già con le doti dei grandi crooner, un ragazzo che con le sue armonie già parla al mondo allargato degli ascolti, agli orecchi delle moltitudini; per lui non valgono tecniche o geometrie di note, ma il modo, il sentimento con cui queste canzoni devono raggiungere gli ascoltatori, perché come dice lui stesso “.. la musica non deve essere ferma nella canzone, ma fermarsi nell’animo per poi guardarci dentro..”.

Non servono tante parole per descrivere un ritaglio di cielo come questo disco, occorre donarsi e arrivare al centro focale di queste musiche e lasciare momentaneamente il mondo ed i suoi carichi assurdi fuori dalla porta, poi in silenzio rivalutare parole come speranza “Home again”, accarezzare la fratellanza “I wan’t  lie”, ritrovare il senso giusto del dove camminare “Tell me a tale” oppure tra le tante, scandagliare nel profondo la tua interpretazione di un dio “I’m getting ready”, e credetemi, ascoltare cose cosi nei tempi bui che corriamo, oltre che un sollievo, suona come una strana ma stupenda benedizione.

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Staggerman – Don’t Be Afraid And Trust Me

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L’uomo che barcolla è tornato. Non abbiate paura e fidatevi di lui. Non è più il tempo di essere piccoli, “Tiny, Tiny, Tiny” (album d’esordio datato 2010), non è il tempo dei campi verdi ma Staggerman è comunque lo stesso vecchio diavolo di sempre. Il lombardo Matteo Crema germoglia col mito della musica e dei Nirvana e scopre i sui superpoteri da Staggerman nel 2009. Nello stesso anno esce autoprodotto l’album “Tiny, Tiny, Tiny” e critica e pubblico, anche grazie a diversi passaggi radiofonici (Radio Rai su tutti) e tv (trailer Mediaset) dimostrano di apprezzare oltre ogni auspicato desiderio. Due anni dopo, un’altra congiuntura decisiva nella carriera del giovane cantautore lombardo, si ha con la compartecipazione alla compilation “OndaDrops Vol. 4”, realizzata in collaborazione con una nota webzine del settore. La raccolta, realizzata da diversi songwriter e folkster contemporanei, si propone di rimaneggiare il sound outlaw country statunitense dei padri del sogno, come Hank Williams, Kinky Friedman, Johnny Cash o Guy Clark. Di fianco al nostro, troviamo nomi importantissimi della scena, quali i grandi Great Lake Swimmers di Tony Dekker, Pwolf And Avi, Caleb Coy, West Of The Shore, Buster Blue e tanti altri delinquenti e cowboy in viaggio tra la polvere del Texas nella strada per Los Angeles. Insieme con Laura “Lalla” Domeneghini, Staggerman presenta il duetto Lee Hazlewwod e Nancy Sinatra di “Summer Wine”, proposta in versione Wilco. Da qui l’avventura inizia a divenire cosa seria. Altri brani sono inseriti in note compilation Indie Rock e nel 2012 arriva finalmente il secondo, difficile lavoro, Don’t Be Afraid And Trust Me. E il bello è che è tutto ancora più bello di quello che è stato. Più spirituale. A partire dai disegni minimali di Matteo, del bellissimo artwork.

Il disco si apre con “Maybe I Won’t”, e la chitarra e la voce di Staggerman ci regalano momenti di solitudine e malinconia in perfetto stile The Black Heart Procession (il brano sembra assolutamente uscito dalla penna di Pall Jenkins e soci). Pare di ascoltare le ultime parole di Staggerman che seduto a una sedia davanti ad una bottiglia di vino attende l’ingresso della Morte che ogni minuto, scalcia ballando alla porta, pronta a fare il suo nero ingresso trionfale. Un brano bellissimo che ha la pecca di essere davvero troppo somigliante al sound dei suddetti americani di San Diego. Poco importa alle nostre orecchie, tuttavia.

Con “(Not) The Man I Used To Be” la musica prende tutta un’altra piega. Una via di mezzo tra il solito genio di Wilco e il Neil Young più spensierato. Un pezzo dall’armonia fenomenale e arrangiamenti eccelsi, tanto che sembra di spiare il nostro Neil (esclusa la voce non molto affine) accompagnato, invece che da un’armonica, da fiati, corni (Marco Romele, Emanuele Guizzetti e Diego Filippi) che esaltano la potenza melodica del pezzo. In “Morning Walk” si vola nella più classiche e segrete atmosfere Folk d’oltreoceano, tra parole d’amore guidate con delicatezza dal piano di Guglielmo Scarsi (che con Lorenzo Colosio alla batteria e Salvatore Lentini al basso formano la struttura portante della band di Staggerman nelle esibizioni live).  “Can’t Stand Up” è il primo momento Indie Rock del disco. La batteria pulsa come un cuore impazzito mentre il basso scandisce un ritmo ossessivo in contrapposizione alla melodia Pop. Una miscela di Arcade Fire e Okkerville River con una spruzzata di sano santo Folk e motivo quasi jangle alla Belle & Sebastien. È la volta del Blues. “The Night I Saw You Stripping” è la manifestazione acida di Staggerman che abbraccia I moderni idoli della musica del diavolo, The Black Keys, con una mano, mentre con l’altra stringe i favolosi e psichedelici anni sessanta di The Doors e Jimi Hendrix. “Skinny Pretty Freak” vi rapirà già dall’intro che sembra lo spiraglio di una porta socchiusa di una dance hall anni ottanta. Poi il basso diventa il protagonista esclusivo prima che la voce di Staggerman si riveli in quella che era una delle sue manie dei lavori precedenti (Sour Times è l’esempio perfetto) ovvero l’omaggio, l’imitazione, il sacrificio a, l’atto di riverenza a. Insomma, chiamatelo come volete, ma quello che ascoltate è quanto di più analogo possa fare un ragazzo dal nord dell’Italia al mitico Mister E, in altre parole Mark Oliver Everett e alla sua creatura Eels.

La parte terminale del disco inizia con la bellissima ballata “Everything Is Nothing”. Poi torna la carica di “Too Hot To Die” prima di “Turtles”, tutta dedicata al solo piano di Scarsi. Il finale è invece assegnato alla nenia “If I Could Only Live My Life Twice” che si scioglie come neve al sole, come sangue tra le mani bagnate di lacrime. Parole che si disgregano in un tripudio di distorsioni che chiudono il brano e l’album, ricordandoci che “Days and years are passing by sooner than we would expect /i giorni e gli anni passano prima di quanto ci si aspetterebbe”. Oltre alle canzoni, il disco contiene una traccia video, che si apre con le parole Diesel 24062. È lo studio di registrazione di (in parte) Don’t Be Afraid And Trust Me. Il video, presenta le immagini dei musicisti e dei luoghi che hanno reso possibile questo lavoro (il disco è stato registrato oltre che con tre diversi batteristi, anche in tre diverse sessioni di registrazione, in tre punti diversi), con sottofondo la loro musica e alcune parole che compaiono di tanto in tanto a dare indizi su come sia nato l’album. Da un punto di vista prettamente musicale non ha assolutamente rilievo ma ne ha tantissimo per aiutarci ad apprezzare le persone che si nascondono dietro le note e le parole, per apprezzarne lo spirito e i sacrifici, la passione. Un bellissimo regalo per chi ha amato le canzoni di Matteo Crema e per chi ancora non l’ha fatto.

Un disco seducente ,nato dal cuore di chi ama la musica oltre ogni cosa e fatto per chi ama la musica, specie quando è capace di portarci a sognare in luoghi troppo spesso divorati dall’avanzata del progresso. This is Folk, this is Country, this is Staggerman.

 

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