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Dustman – Sad Baby Home

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Quanto peso diamo al packaging di un disco? E dai video promozionali? E agli abiti a puntino dei musicanti? Quanto il nostro orecchio al giorno d’oggi è influenzato dalla pagina Facebook e dal relativo spam che un gruppo spara in continuazione? Forse troppo, e forse stiamo perdendo il contatto fisico con la musica nuda, spogliata di ogni contorno. Come se tra noi e il suo corpo ci fosse una barriera che non ce la fa assaporare in pieno. Un preservativo che ci impedisce di godere della bellezza e semplicità di suoni che vivono da soli anche senza la giacca giusta e tanti finti amici digitali. Stiamo perdendo il contatto? Forse però non è mai esistita questa primordiale naturalezza nella musica pop. Ed non è proprio un controsenso dare del “pop” ad un uomo privato del suo vestito patinato?

L’uomo in questione ha una maglietta sgualcita in foto, ma si mostra in questo album più nudo che mai. Solo 71 amici su Facebook, un disco Verbatim con il titolo scritto a pennarello e una copertina ritagliata a mano e incollata posticcia. Il “naturalista” in questione si chiama Dustman, viene da Brescia e suona tutto lui in questo “Sad baby home”. Ad accompagnarlo (e a dare grande qualità) la voce celestiale, perforante e nebulosa di Elise.

Detto questo io altre informazioni nel web su questo personaggio non ne ho trovate, quindi mi limito a parlare di ciò che sento. Mi lascio trasportare dal lento flusso dell’album e annego la stupida foga di chi ascolta per giudicare.

“Mystic rain” apre le danze e ci porta lentamente sulle nuvole, da cui non scendiamo più fino alla fine. La voce di Elise ben si incastra agli onirici arrangiamenti del misterioso Dustman, e anche la title track rimane soffice nonostante accarezzi superfici più ruvide e patinate. La voce del compositore prende invece piede in alcuni episodi, più diretti e terreni (anche forse per la sua non perfetta intonazione) come la dilatatissima e inglesissima “Anything is lazy” che mi sarei immaginato però un pelo più chitarrosa. Quando poi i due uniscono le forze vocali nel blusaccio marcio ma (stranamente) trendy di “Little Mary” i White Stripes sono dietro l’angolo, ma rimandi celestiali vanno anche al (meraviglioso) disco sfornato dall’insolito duo Robert Plant e Alison Krauss. E poco importa se “Color TV” è imprecisa nell’esecuzione e naif per la poca pericolosità tra strofa e ritornello, tutto questo ci rimanda un po’ a terra e rende tutto meno fluttuante e più vero e carnale.

“Sad baby home” si barcamena nella sua totalità tra mura sconnesse e vento leggiadro, tra blues soffocato e la possenza della più facile musica leggera, tra ritmiche e atmosfere ipnotiche per esplodere nel finale con due gemme. “Black Sand” è orientaleggiante e sensuale, una passeggiata notturna nel deserto contornato da miraggi. “A horse in the sun” è poesia per le orecchie, tra Florence and The Machine e il miglior rock da cameretta dei Counting Crows (ah perché no, anche dei Perturbazione), il suo ritornello perfora tutte le barriere e la carne si mischia al fluire delle note.

Altro che precauzioni e rivestimenti farlocchi, questo è un disco intimo senza barriere o sorprese particolari. Un fiume di sonorità nude e allo stesso tempo incredibilmente pop. Che magnifico controsenso!

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Martinicca Boison – Marianne

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L’11 agosto mi è capitato casualmente mentre ero in vacanza di assistere a un live dei Martinicca Boison a Lama dei Peligni (Ch) durante una rassegna intitolata semplicemente “Festa della musica” che ogni anno ospita nomi di spicco del panorama musicale italiano quali Gang ed Extra.
La curiosità verso questo gruppo di cui avevo solo sentito parlare è stata pienamente appagata e non ho saputo resistere alla tentazione di comprare il loro ep “Marianne” ed una loro tshirt al banchetto del merchandising.
Questo compact disc, datato 2010, contiene purtroppo solo quattro brani (per giunta di brevissima durata) ma di certo non vi deluderà durante l’ascolto.
L’opening title track è una ballata melodica intrisa di atmosfere delicate che sfocia in un rock piacevole poco prima di un ritornello durante il quale la voce di Lucia Sergenti si intreccia con quella di Lorenzo Ugolini.
“Dumpalumpa” è una minisuite formata dal brano omonimo, da “Da da un pa” (scritta da B. Canfora / D. Verde) e da “Oompa loompa” (scritta da L. Bricusse e A. Newly); davvero un curioso esperimento insolito nel panorama musicale italiano.
“Pensieri di un pattinatore notturno (versione 2010)” è caratterizzata da bellissimi assoli dei fiati dopo un’apertura davvero particolare con la chitarra acustica.

Chiude il lavoro “L’invitato non è felice” registrata dal vivo presso l’Auditorium “Le Fornaci” a Terranuova Bracciolini in provincia di Arezzo il 23 Aprile 2010 in occasione dello spettacolo teatrale “LA vita è come un dente – musica, vita e parole da Boris Vian” che li ha visti esibirsi con Pierfrancesco Bigazzi.
Curiosamente il lavoro è stato interamente masterizzato da Dan Findley a Hong Kong presso il “Disuye”.
Erriquez Greppi della Bandabardò ha invece prodotto artisticamente i primi tre brani di questo ep che si presenta in una carina edizione in gatefold cardsleeve.
Se avete quindi la possibilità cercate di procuravi questo compact disc e magari cercate di andare a vedere questa band dal vivo, in una dimensione in cui offre sicuramente il meglio di sè.
Una piccola annotazione: il voto è dovuto solo alla breve durata del supporto e potrà apparire quindi fuorviante poiché questo è un lavoro davvero da non farsi sfuggire.
Qualche brano in più (magari almeno un paio) avrebbero giovato sicuramente ad accrescere il valore di questo già prezioso ep.

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Cursive – I Am Gemini

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Non cambia nemmeno una virgola nella storia sonante degli americani Cursive, nello shoegazer sono nati e con lo  shoegazer vogliono arrivare alla pensione, Tim Kasher non ne vuole sentire di “rifare il trucco” a questa band che dal 1997 non ha mai abbandonato l’estetica – oramai abbastanza datata – di un emo-core che ha dato tutto e che poteva funzionare appunto negli anni novanta, quello che è cambiata è la line-up della formazione del Nebraska e l’apparizione di Kasher stesso in alcune esperienze parallele ma nulla da certificare se non queste tredici tracce che fanno companatico dentro “I am Gemini” il nuovo e settimo disco in studio, ma che non fanno altro che eco e riassunto “delle puntate precedenti”, ovvero nulla di nuovo all’orizzonte.

Sempre perfetti nella coesione d’insieme e nell’impatto circostanziato, non hanno mai ceduto nulla, mai aderito ai dettami dell’industria discografica e dei media del settore, ma purtroppo ostinati a perseguire – in maniera poi ortodossa – i riferimenti della loro genesi sonica, come se non si sapesse che poi fossilizzarsi su di una formula super collaudata anche dai santi porta alla fine, all’oblio; loro intendono questo disco un concept in quanto, tra i solchi vive la storia di Cassius e Pollok gemelli divisi e abbandonati e che si ritrovano, anni dopo, al centro di una strana storia familiare, ma la parola concept è troppo grossa, e quello che rimugina sotto è un disco  – ovviamente con livelli e picchi professionali indiscutibili – di stanca, come se la band avesse finito la linfa creativa e sciolto i muscoli anchilosati.

La tracklist scorre quasi nell’indifferenza, Interpol e Bloc Party scorrazzano liberamente come spiritelli ispirativi “Gemini”, “Drunken birds” e “The sun and the moon”, mentre la tribalità esaurita di “Double dead”, l’isteria emo a giugulare espansa “Wowowow” e la catarsi mid-jazzata da un pianoforte “This house a lie” portano in evidenza un manifesto di leggerissima novità, un tentativo d’altro che invece si rivela aleatorio all’arrivo di “A birthday Bash” e “Eulogy for No Name”, ambedue elegie Lou Reediane che non fanno altro che puntare la loro antenna sonora verso il passato più che remoto.

I Cursive sono tosti, sono come le capre, o così o niente, e a pensare che tendenzialmente in tutto il mondo le pensioni le porteranno molto più in la col tempo fintanto che taglieranno pure l’emo e lasceranno solo il core. Forse in quel momento topico i nostri cambieranno strada. Forse.

 

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Disquieted By – Lords Of Tagadà

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Di ritorno da una delle tante sagre che colorano l’estate toscana, dopo qualche birra di troppo, mi vedo attratto da uno scintillio di luci, mi avvicino e mi ritrovo in uno di quei lunapark itineranti che cercano di alleviare il lavoro dei genitori “badando” ai bambini per qualche minuto, giusto il tempo di un giro in giostra.Camminando tra gli anfratti di quel “paese dei balocchi”, mi ritrovo davanti alla sua più classica giostra: il tagadà (quella nella quale ci si siede su divanetti posti nel perimetro di un cerchio e questo inizia a girare) e scopro, con abbastanza stupore, che i ragazzini di oggi, invece di occupare i posti sui seggiolini, partecipano ad una sorta di gara che decreterà il più macho tra tutti, consistente nel riuscire a restare in piedi al centro della giostra e a cadere per ultimo, dopo tutti gli altri.

Dopo aver, come i signori con il cappello che commentano i lavori nei cantieri, fatto una breve telecronaca del nuovo sport più in voga tra i teenager, sono rimasto catturato dal movimento del tagadà: pulito, casuale e a tratti quasi ipnotico.Non a caso quattro ragazzi fiorentini con la passione per il punk rock hanno usato il nome di questa giostra per intitolare il loro primo album, Lords Of Tagadà, appunto.

I Signori Del Tagadà sono i Disquieted By da Firenze che, con i loro giri di batteria sempre puliti e ben registrati, non possono non piacere ai cultori del genere.Il loro rock, che ricorda dei The Hives (si ascolti, una su tutte, Argentina Mon Amour, la seconda traccia dell’album) è allegro, quasi “schizzato”, come il rock dei colleghi svedesi.È quel rock che non riesci a non ballare, quello che ti fa saltare come se fossi sui quei tappeti elastici che trovi anch’essi tra le giostre dei lunapark.

La bravura di questi quattro ragazzi è stata quella riuscire ad accostare la “pulizia” della loro musica con la casualità della stessa e dei brani dell’album. La loro è una melodia inaspettata e ben eseguita che si infila nelle orecchie e raggiunge direttamente le gambe, impedendogli di stare ferme. Come se le ipnotizzasse.Quale titolo migliore per il loro primo lavoro, quindi, se non Lords Of Tagadà.Mi auguro per questi Signori della Giostra, i Disquieted By, di riuscire ad essere gli ultimi a caderci, dalla giostra, perché se lo meriterebbero, e che i ragazzi smettano di andarci, ho visto dei “voli” che li raccomando.

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Alessandro Ristori con i suoi Portofinos – Ibrido

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Non ho mai recensito per voglia, ma soprattutto per –  chiamiamola – etica professionale, dischi o altro materiale che portassero all’ascolto cover o altre mercanzie prese in prestito, ma – è non è mera debolezza – arriva il momento, o meglio, il disco che ti fa ravvedere e rivoluzionare le tue idee. Il canagliesco motivo per sottolineare queste parole lo ha dato “Ibrido” il disco dello shower romagnolo  Alessandro Ristori con i suoi Portofinos, una forza catapultata dagli anni 50/60 degli urlatori rockers, una sferzata energetico-memorabilia che ti piomba addosso come un Juke-box  della Wurlitzer o della Rock-Ola per incantarti con pezzi mito di una generazione in bianco e nero che fa tutt’ora massa con l’elettricità dei ricordi e di gioventù evergreen.

L’entertainements dell’artista Ristori è quello delle balere, dei ballroom di provincia e delle incommensurabili notti pregne di amori, estati col cuore in gola e ragazze da aspettare o lasciare in qualche angolo della propria vita giovane, ma anche un disco di scatenamento, di rock’n’roll puro, “indiavolato” da ore piccolissime ed albe addormentati su qualche moscone testimone di chissà che cose; due inediti “La donna uomo” e “Sentimento” e una valanga di successi senza età registrati in live session che ti iniettano argento vivo e stringono il cuore per quel fascino da “i migliori anni della nostra vita”, quel ping pong sonoro entusiastico tra Italia del boom economico e l’America della brillantina a chili che rimane lassù tra le stelle con qualche lacrimuccia dolciastra.

Tra ricordi di Gino Santercole, Celentano, il Clan, Don Backy e tutti quei 45 giri pirati per allora, tra le tante perle della tracklist, “Il tuo bacio è come il rock”, “Rock around the clock” di Bill Haley & His Comets”, l’intramontabile “Volare”, una versione scollata di “Ciao ciao bambina” portata al successo da Tony Dallara, una Felliniana e  trasognata “Dolce vita (in Via Veneto)/Tequila” o una appassionata Presleyana da lato B “Giorni d’estate” e moltissimo altro ancora a far leva su decadi di splendori originali al di la dell’Oceano e “felici imitazioni” tricolori, da Bobby Solo, Little Tony, Ricky Shayne, tutte materialità straordinarie che Ristori, nel rutilante mix di rock, shake e urletti di questo suo gran bel disco, ci regala come a rivivere una vita mai vissuta in fondo, “fino in fondo”

Cercate questo music-box, datelo in pasto allo stereo, impomatatevi i capelli e Good Rock N’Roll Forever!

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Fuochi di Paglia – Del carciofo e di altre storie

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Che fossero ironici lo si capisce dal titolo del loro EP, che lascia presagire storie leggere ma pungenti. Che fossero un poco privi di inventiva lo si può’ intuire già dalla copertina, tanto rustica quanto impersonale.
Andando a spulciare sotto la ostica e spinosa crosta troviamo 3 simpatici ometti toscani sulla trentina, con una gran voglia di fare musica senza tanti pensieri, sforzi e tribolazioni. Fuochi di Paglia sono semplicemente: chitarra acustica, contrabbasso, batteria minimal (se non solo percussioni) e, incastrate a forza, parole sputate a getto. Il risultato è un combo ben attrezzato con la propensione a strappare un sorriso, giusto solo per lo spirito cazzaro e per la toscanità verace del prodotto. Fuoco ardente che brucia tanto e in fretta.
“Del carciofo e di altre storie” si presenta levandosi il cappello con grande eleganza stradaiola, un mendicante che mette il più bel vestito trovato in pattumiera. Un continuo sali e scendi in colline ruspanti, picchi jazzaggianti ma per fortuna facili da scalare, poi lente discese ubriache, ritornando nel casolare di notte, ruzzolando piano piano fino alla meta.

Si parte in quarta con la storia del “Carciofo”, un po’ banale forse per scelta dei contenuti ma ben curata nei cambi di tempo e nel frenetico swing, che pare calzato appositamente per piedi incandescenti. Poi si passa a tematiche più ricercate con “Ogni cantautore”, critica spietata (giustificatissima) al mestiere del menestrello. L’approccio dei ragazzi è solare e genuino e le pecche artistiche vengono surclassate da una roboante risata che spiana tutto l’amaro che c’è nella musica di oggi. La tensione si allenta e il “fuoco” perde mordente in “E gracidan le rane”, dove l’interpretazione vocale di Gabriel Stohrer pecca leggermente di impersonalità, non contribuendo alla giusta atmosfera da Chianti e rocciosi sentieri verdi che meriterebbe il brano. Si ritorna in quota con la chitarra gracchiante di “La ballata di Maria”, pezzo più rock ed elettrico (o elettronico?) del disco che rimanda la mia memoria ai robotici balletti di Andy dei Bluvertigo. Però la critica gratuita ai social network non “scotta” e il fuoco si limita ad ondeggiare seguendo il ritmo spietato ed ossessivo, ma non ci ustiona la pelle.

“Rotoballe” chiude il sipario, non-sense e poche pretese che delineano la vera anima del gruppo: l’immediatezza. Forse proprio da questa conclusione si capisce che i Fuochi di Paglia non sono una band da imbrigliare su disco ma da andare a vedere dal vivo con tanta voglia di sudare e di divertirsi con semplice musica swing buttata giù di getto. Ad ora non è certo una band cantautorale, pronta a discorrere dei soliti (e a volte futili) problemi della vita quotidiana. Solo tanta cazzoneria spinta in faccia da un piccolo impiantino del baruccio di periferia.

Insomma il “fuoco” brucia di vita ma non lancia segnali invitanti al cielo. Chi sentirà da vicino il suo calore si limiterà a ballarci intorno.

 

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Friends – Manifest!

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Fenomenale incrocio di una indistruttibile bolla di sapone glam con il catalogo anni Ottanta dove per una fortuita forza del destino o per un ricco tornaconto discografico punk e Dance music vennero in contatto, si toccarono e esplosero scintille come ESG, Blondie, che a loro volta generarono – sulla lunghissima distanza – giustificazioni di vita per gli odierni Friends, quintetto di Brooklyn nato sulle strade di Williamsburg e cresciuto alla “bell’e meglio” tra le coordinate urbane che contestualizzano sogni e rivalse da raggiungere come meta vitale, e “Manifest” – il loro ultimo lavoro discografico, li conferma come cool & must band per quell’aroma di freschezza retrò che trasmettono, per la vocalità di Samantha Urbani – ottimo concentrato di Cansei de Ser Sexy e Yeah Yeah Yeahs –  che con l’aggiunta in plus valore di una certa identità musicale alla Lauper, alza le quotazioni artistiche della band americana al top.

Un album che ti dal del tu, che vuole comunicarti tutta la forza contemporanea delle storie di ieri, di tutti i movimenti fisici e d’animo che hanno arricchito scene e turbamenti sonori divenuti la moralità immorale e divina di hipsterismi a lunga gittata, una dozzina di tracce che debuttano per accaparrarsi i primi posti della nostra audience privata ancor prima di stracciare palinsesti e charts Tunes di chissà quante antenne alternative; ma anche – e soprattutto – un disco da ballare e riballare a sfinimento, soffice e tenace per notti di stordimento e, perché no, magari contemplarlo come segreto complice per qualche “limonata” che prima o poi, in qualsiasi notte sonora del creato, c’è sempre scappata con la squinza di turno, un adorabile party shuffle da adoperare dove, come e quando si vuole senza avere la paura che la noia avanzi.

Tutte potenziali Hits come si diceva sopra, i pezzi di Manifest! operano come brividini sulla pelle, fuori dalla fighetteria newyorkese nerd e dentro la sostanza materialista 80/90, una specie di dolce risucchio dal quale si può estrarre la melodia mid-elettro “Sorry”, la dance sinteticha “A thing like this”, “I’m his girl”, gli Ottanta della Berlino post muro “Mind control” o gli urletti alla Nina Hagen d’annata (più che dannata) che rimbalzano tra echi e strobo in “Ruins”;  i Friends non sono solo amici, ma anche portatori sani di una voglia di ironizzare sulla musica odierna, e lo fanno con la forza anti-statica della dance, quella di sbieco, quella che quando ti accorgi che ti vuole catturare, lo ha già fatto.

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Doppia Goccia – Per La Gloria

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Pochi cazzi. Ci voleva un album cosi, una band cosi, in un’estate cosi, cosi. Calda, bollente e focosa. Ci volevano proprio queste undici canzoni, non tanto per combattere l’afa che tanto è ogni anno la più terribile di sempre (e quest’anno ha anche nomi da pelle d’oca, giusto per prenderci per il culo un po’ di più, ogni anno di più) ma più che altro per riuscire ad apprezzarla e sfruttarla come si deve, magari al riparo di rigogliose fronde o bianca calce, con l’aiuto di un fresco estivo bevibile Gin Lemon o una Corona gelata. Ci voleva “Per La Gloria” per aiutarci a riscoprire la bellezza del sudore d’estate, dell’ozio della controra e della spensieratezza dei balli e dei bagni di notte.

Il duo Amos Villa (voce, armonica e chitarre) e Gabriele Pezzini (voce e percussioni) nasce dieci anni fa e da allora la festa a tutta tequila non è mai finita. Il primo piccolo grande passo è l’album “D’Essenza E Speranza” datato 2004 che segna la svolta artistica della band brianzola che li porterà dal duro mondo del live (innumerevoli e da maratoneti) al più cervellotico lavoro in studio.

Nel 2007 esce l’album “Sulla Linea Di Confine” seguito, come nel loro stile degli esordi, da innumerevoli apparizioni dal vivo, in Italia come all’estero, in compagnia di Gang, Crifiu, Mercanti Di Liquore, Inti Illimani, Baba Sissoko e Marcio Rangel.

Nel 2010 il duo registra nel circolo Arci di Osnago La LoCo, l’acustico live tratto dal lavoro precedente e nel 2011 si torna in studio, con l’apporto del fonico Lorenzo Caperchi (Bluvertigo, Mercanti Di Liquore) per questo bellissimo, pungente, energico, essenziale “Per La Gloria”.

Il sound della band alterna il Folk Rock a stelle e strisce più robusto, stile 16 Horsepower e Two Gallants, al Tex Mex velenoso dei Calexico passando per le sbronze gongolanti da “Messico e Nuvole”. Una miscela esplosiva di percussioni afro caribbean, Reggae, Folk a non finire, Country e qualche passaggio Pop.

Si parte subito a mille con “Rock In The Aia”, eccezionale ululato alla luna, un inno alla voglia di libertà che mescola pelli nere con chitarre folkeggianti e un cantato impetuoso. Colpisce da subito la naturalità della musica di Amos e Gabriele che riescono a percuotere il cuore senza bisogno di superare i limiti, grazie anche a testi indovinati che fanno sognare. Nella successiva ballata “Radici Non Ne Ho” continua la strada presa dalle parole nel brano precedente mentre il ritmo decelera, evidenziando gli aspetti vocali del Folk dei Doppia Goccia, che, pur non spiccando per qualità, presentano un timbro e un’empatia assolutamente straordinari. “La Strada Di Bea” parte con l’armonica di Amos Villa e si capisce subito che qui c’è da ballare. Un ritmo travolgente, una melodia Pop alle spalle del solito King of the U.S.A. e, everything is gonna be alright, ti ritrovi in un attimo in pista a cantare con Bea. Un momento più leggero rispetto all’accoppiata iniziale e che rappresenterà uno dei momenti più divertenti delle loro esibizioni live. Con “Dirti Amore” si passa al momento più popular del disco (non è casuale l’aggiunta del synth di Simone Pirovano). E di cosa parla il Pop se non di Cupido, delle sue vittime e i suoi discepoli. Ma ancora una volta il testo, scritto con la collaborazione di Flavio Ciceri, coglie nel segno perché riesce a essere lineare, senza essere insipido, aiutato da una melodia febbrile, e gradevoli schitarrate Vampire Weekend (tanto per farvi capire). Curiose le note iniziali del brano che, non so quanto volutamente, sembrano essere fuse col pezzo precedente. Quindi “La Notte Che Gio Rivolta Tornò In Città” ci riporta al Folk- Country americano già dal titolo, particolarmente spaghetti western. Il brano non convince come il resto, non riesce a colpire né musicalmente, mancando di quella sobrietà mista di trascinante ritmo che è la peculiarità degli altri brani, né nel testo, poco riuscito nel tentativo di essere evocativo e moderno al tempo stesso. “Al Fianco Delle Stelle” abbassa ancora i ritmi aggiungendo il contrabbasso ad arco di Roberto Benatti che aiuta a rendere l’atmosfera più innamorata possibile. “Il Manovale” somiglia al più classico Folk Rock italiano, nello stile di Modena City Ramblers, The Gang e Bandabardò nei loro episodi più malinconici e impegnati. “La Stella Dei Monti” al contrario ci porta dritti a ballare nel Texas di qualche secolo fa mentre le parole, come a intavolare uno splendido piatto agro dolce, ci parla di oggi e di monti in un ironico e azzeccatissimo accenno a cori jodel. “To Ramona” e la tromba di Giulio Cereda ci riportano nuovamente ai confini del Messico insieme a un vecchio tizio di nome Bob Dylan (qua c’è da ridere felici) mentre “Ti ricordi Del Mare” ci propone una poesia in musica sarcastica ma con un retrogusto malinconico. Siamo quasi alla fine ma niente lacrime. Perché ci pensa proprio “Lacrime”, cantata insieme ai Water Tower e alla loro tromba (il testo è scritto proprio da Cecco e Water Tower), a scaldarci ancora il cuore. Se non dovesse bastare il sole.

Questo “Per La Gloria” è davvero bello. Sardonico quanto basta, melodico, innamorato, torrido, carico, brillo e gioioso, mai piatto, mai noioso nonostante il non facile terreno nel quale si cammina. Semplice e comunque denso grazie ad un uso puntuale ma mai ridondante di voce, chitarre, banjo, ukulele, armonica, djembe, cajòn, tamburi, timpano, piatti, udu, shake, maracas, karkabou, bongos e guiro. E dal vivo devono spaccare il culo ai passeri (non me ne vogliano gli ambientalisti).

Non mi resta che lasciarvi con le parole del pezzo finale perché fa un caldo bestiale e ho bisogno di un Gin Lemon o una Corona gelata, un po’ di fresco e solitudine.

Volere tutti e nessuno
Stare bene cosi
Felici e spensierati
Quasi come ubriachi
Ubriachi d’amore
Ubriachi di gioia
Ubriaco di te!

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Malastrana – S/T

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Diciamocela subito tutta e fuori dei denti, sono proprio forti sti sardi Malastrana, possono andare fieri di questo loro debutto senza titolo, ma con una vorticosa forza propulsiva, di suono e testo legati assieme,  efficace e con un “tiro” micidiale che non si scorda facilmente; la loro carta vincente? Un grunge amperico cantato interamente in sardo, una vera e azzeccatissima prova sonica che poi va a rapportarsi con il loro quotidiano, col loro segno e sogno profondo di essere al centro di un nuovo rock da esportare con credibilità.

Cinque tracce risolute, elettriche e melodiche che spiritualizzano arie VerdenicheMalastrana” ed iconografie Pumpkinsane No basa a Jompere”, cinque tracce che bastano e avanzano per farsi una idea basilare di questa personale genesi musicale che dalla Sardegna arriva come un ruggito di leone a rovesciare la stupida tranquillità di tanti nerd di provincia che respirano affannosamente brit e indie-ansiogeno; una tracklist dinamica che si fonde perfettamente con le traiettorie soniche di chi cerca la carica giusta dei jack e la poesia distorta da iniettare immediatamente come adrenalina negli orecchi, praticamente una crisi epilettica estasiata ed incontrollabile dalle grandi aspettative future e che si ignorava esistesse. Luca Panciroli voce, chitarra, Daniele Deperu batteria, Mario Sotgiu chitarra e Dario Piga basso, i quattro Malastrana, affrontano un repertorio in cui onestamente – a parte la virtù dell’inserimento della lingua madre – ci provano in tanti, ma senza risultati, sotto il modesto, invece questi “ragazzacci” hanno tutto per lasciare stimmate e graffi importanti durante il loro passaggio sullo stereo e nello spirito di chi ascolta, graffi come il riscatto umano e sociale della loro stupenda isola, il sesso sfrenato “Play my game” ed il sesso come mezzo per il fine o i fini “Sa surbile” o  lo sguardo incantato e curioso che scruta oltre “Amus a bider”, dolcissima ballata Vedderiana messa come un diamantino acustico a fare da cerniera lampo su questo disco che si chiude sfumando e che, come un risucchio d’aria, ti porta via con sé, dentro ed oltre la sua bellezza semplice e che odora di vita, amore e verità.

A silenzio totale rimane questa magia scalmanata di pedaliere arrossate e l’inestricabile trama della lingua sarda che ancora rieccheggiano dappertutto e che fanno salire questa band a livelli di piacere assoluto, un esordio con un disco pregno di molteplici motivi de seduzione, convincente da tutti i punti di vista, insomma poche chiacchiere, un discone  Ayò!

 

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Hotel Inferno – Hotel Inferno

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Gli Hotel Inferno sono un gruppo milanese formato daquattro ragazzi con la passione per il rock e il garage.
I quattro (Jim, Pino, Enry e Mirko) non sono nuovi ne panorama musicale milanese, infatti, prima della costituzione della band, suonavano già in differenti gruppi, e ciò dà agli Hotel Inferno quella maturità musicale rara da trovare in band di così giovane costituzione.

Contano, nel loro passato, di un concerto in Polonia, all’Alter PikNik Festival, uno dei più famosi festival di musica rock d’Europa e, anche lì, hanno fatto la loro porca figura.
Dico “anche lì” perché il loro album è la prima delle “porche figure” che il gruppo ha al suo attivo.
Questo, l’omonimo Hotel Inferno, appunto, è somma espressione di quel Post Punk che fa iniziare a scorrere nelle vene il pogo “da farsi male”; conta dieci tracce che catapultano l’ascoltatore in un universo fatto di giri di basso e di batterie che rimandano la mente ai primi I Ministri.

Ciò che colpisce del lavoro di questi quattro ragazzi, per altro ottimamente registrato, è il filone logico che seguono le sue tracce: sono un crescendo di passione che culmina con Il lupo, traccia numero dieci, nella quale la batteria è la protagonista incontrastata.
“Non siamo più adolescenti, ma vogliamo ancora divertirci”.
È questo quello che pensano gli Hotel Inferno.

Io che l’adolescenza l’ho sì passata, ma non da troppo, posso solo dirgli che se continuano a divertirsi in questa maniera faranno divertire non solo gli adolescenti ma anche chi, questa, l’ha già superata.

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ABWNN – Sweet Irene

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Fa un caldo impressionante, si suda a stare fermi, il mio pc sembra un drago sputafuoco, non si hanno le forze neanche per prepararsi e andare a fare un aperitivo dopo il lavoro.
E no, non vi sto dicendo niente di nuovo.
Fortuna che posso presentarvi il progetto ABWNN (acronimo di A Band With No Name) che invece è nuovo, giovane e anche fresco, così non sembrerò troppo banale.
Quattro ragazzi di Bergamo, tante date live alle spalle racimolate nei soli due anni di attività, un demo autoprodotto, Sweet Irene, e soprattutto sorprendentemente solo diciassette anni ciascuno.

Sorprendentemente perché fin dalle prime battute di Montecarlo bay blows up, traccia di apertura, si nota una buona capacità tecnica, soprattutto della sezione ritmica, e un certo gusto che non ci si aspetta proprio da dei ragazzini. Luca Giazzi (voce e chitarra), Marco de Lucia (chitarra e cori), Giovanni Pasinetti (basso) e Alberto Capoferri (batteria) muovono i primi passi all’oratorio e strizzano l’occhio alle più recenti produzioni inglesi, dai Franz Ferdinand (senza i loro adorabili cambi di tempo però) agli Arctic Monkeys, dai Kasabian ai Bloc Party e Miles Kane.

Revolution Time è una cavalcatona indie con stacchi pulitissimi, una batteria insistente e rapida e cori alla Kasabian. Pregevoli le chitarre in She doesn’t know my name, dove la distorsione più pesante dialoga con sonorità e incisi funky.
Shockwave! è forse la canzone più debole dell’album, per quanto il quartetto continui ad avere un buon tiro e una certa cura di dinamiche, stacchi a suon di charleston e timbri strumentali, solo, a mio avviso, segue troppo il filo della traccia precedente di cui risulta più una diretta continuazione che non un brano con una sua personalità.
Esattamente il contrario si può dire dell’ultima traccia, Words are killers: un vero tripudio di riferimenti inglesi, grande attenzione a piccoli incisi melodici che solo apparentemente si ripetono uguali, ritmo ancora una volta incalzante e testo immediato.

ABWNN ha saputo imboccare la strada giusta per uscire dal coro degli stilemi del panorama indipendente nostrano rivolgendosi a quello britannico, in costante fermento. Il livello artistico e quello più squisitamente tecnico sono decisamente alti e la giovane età dei componenti fa promettere veramente bene. C’è solo da augurare a questi quattro ragazzi di avere la fortuna di intuire i prossimi passi per non rischiare di diventare cloni di qualcosa che, seppure “originale” in Italia, ha già raggiunto altissimi vertici oltre manica e non solo, sia per quanto riguarda la comunicazione, sia per la sperimentazione sonora.

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Morris Goldmine – Blackout

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Il triage elettrico di questa band, i Morris Goldmine mostra veramente l’anima profonda del rock in tutte le sue declinazioni, un radicamento ed una compenetrazione nel mito sonoro cha ha buon gioco nello stilare una sintesi tra hard blues, freschezze brit, trucioli garage e molta ma molta old-school americana completa di emissioni ed ampere febbricitanti che nel disco di debutto “Blackout”, ne da subito un assaggio in “What do you think” dove rimette in luce le cavalcate hard-southern degli inossidabili Aerosmith. Ed è un disco che decisamente fa bella mostra di sé, spacca di brutto, con un suono corposo, evocativo, con un uso sapiente di distorsori e ritmi che tengono alta l’attenzione per tutta la durata della tracklist.

Sei brani in scaletta per un richiamo sonoro che sfodera tutto il suo fascino “emergente” sia con adrenalina che con dolcezza, un’impressione generale e di gruppo che, senza mischiarsi in territori indie last generation, scorre senza intoppi e nel più esaustivo eclettismo d’ascolto; non un disco di trasformismi, piuttosto un disco di riferimento e recupero – inteso non nella sua accezione – ad una certa estetica ribelle e fondamentalmente della sua carica espressiva e di contatto; infatti le dimensioni sonore che gravitano qui dentro vivono nello sporco della Bowery Street del CBGB’sWhat’s my name”, bazzicano aree brit-pop “So good”, l’interstellar overdrive di un acido basico psichedelico “Blackout”,  graffiano il nuovo cantautorato americano amplificato “Alice” o il clash sound di Liverpool “Feel like dance”, praticamente un bel primo passo discografico che racchiude al suo interno un mondo variegato, una esplorazione effettata costantemente in bilico tra pregio e ottima roba che produce suono.

Il trio di Vallo della Lucania esce con un prodotto suggestivo, calibrato per far stare sulle spine chiunque, e ora aspettiamoci da loro una prossima scossa elettrica che colpisca quando uno non se lo aspetta minimamente, le forze ci sono, il tocco professionale e lo spirito immolato per gli isterismi dei jack pure, dunque rimane solo puntare forte su questa formazione di razza e sul loro modo caleidoscopico di intendere la sacralità del buon rumore!

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