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Ravenscry – One Way Out

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Eccoli i Ravenscry, una band che con tanti sacrifici e tanta voglia di suonare è riuscita a mettersi da parte una buona fetta del pubblico italiano ed estero, tutto questo con il loro disco d’ esordio “One Way Out”, protagonista anche di questa recensione. Partiamo col presentare il gruppo, formato da Mauro Paganelli e Paul Raimondi alle chitarre, Fagio al basso, Simon Carminati alla batteria e l’ affascinante nonché talentuosa Giulia Stefani alla voce. Il loro stile si rifà ad un Gothic Metal alla Evanescence e Whitin Temptation con la presenza di qualche sfumatura Melodic Death che ricorda un po’ gli Arch Enemy. “One Way Out” come abbiamo accennato prima è il loro primo full lenght e detto sinceramente come partenza non c’è niente male e infatti i risultati li hanno ottenuti. Lasciamo perdere le band con membri figli di papà che con la mangiatoia bassa riescono a comprarsi promozioni, posizioni per i festival o ai cosiddetti Pay To Play, i Ravenscry hanno avuto soddisfazioni con le loro forze ed il loro talento. Vi chiederete perché questo preambolo? Per il semplice fatto che almeno il sottoscritto, ultimamente, se nota un gruppo ben lanciato o meglio ancora ben pubblicizzato, subito gli viene suggerito che è un gruppo che ha sborsato i quattrini.  Per questo con i Ravenscry metto le mani avanti, confermando che la loro bravura e la loro intraprendenza, per questo piccolo inizio, li ha portati davvero su di una onesta vetta. Ma al di fuori di tutto, bisogna solo ascoltare “One Way Out” per darmi ragione, l’ album è fresco e ben suonato; tutti i membri del gruppo ci hanno messo impegno e sudore e il contributo di ognuno è stato fondamentale. Io personalmente ho fiducia in Giulia e soci, di questo passo il gruppo raggiungerà cime ancora più alte. Ora non ci resta altro da fare che ascoltare e goderci “One Way Out”.

 

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Mariana – Vorrei dirti che

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Non è tutto finito come si crede, certo bisogna cercare di fino, rovistare fin dentro i meandri e le curve delle mila proposte musicali che fanno sedimento ovunque ci sia una opportunità – anche minima – di farsi ascoltare da qualcuno, e se resisti tenacemente alle voglie irrefrenabili di lasciare tutto al destino ecco che rimasugli di un sodalizio tra bellezza, melodia e bel canto ti si attaccano sulle mani e sugli orecchi come a dimostrarti che la tua ricerca non è andata vana, non è andata a fermarsi sul niente.

Mariana Ciaccia, in arte solamente Mariana, è una gran voce pop che è già garanzia di un bel sentire e “Vorrei dirti che” è la sua uscita ufficiale nel mondo  dei grandi ascolti, un Ep di quattro tracce che escono allo scoperto subito, non ti danno nemmeno il tempo sindacale di farsi degustare che già fanno parte del tuo scaffale personale, il tuo “campo volo” privato da usare per voli o perlustrazioni dentro e fuori i tuoi orizzonti intimi; fare la cantantessa del pop di un certo stampo, al dì d’ oggi è cosa ostica e pericolosissima tanto da rischiare di rimanere strozzata nei flussi di un fiume in piena che non conosce limiti e abbordaggi, ma l’artista goriziana ha quel quid in più, quell’asterisco chiaroscurale immaginativo che la mette in salvo e ne grassetta l’eclettismo mutante ad ogni cambio canzone, come un sussulto di grazia e vagamente contaminato.

Parlavamo di quattro canzoni che ne tratteggiano perfettamente la verve e l’inflessione imbronciata, quattro canzoni dalla caratterialità internazionale, già pronte per rampe di lancio in verticale, verso un alto domani, fuori dai gironi underground e travolgenti per delicatezze d’ascolto ben più dilatate; un Ep che stimola i sipari della fascinazione ad aprirsi e legarsi a melodie infinite “Vorrei dirti che”, abbandonarsi nei respiri ascendenti ventosi “Fairy tales”, farsi coccolare dietro un vetro rigato da una pioggia primaverile “Puoi tornare” o riflettere come un diamantino grezzo che non ha prezzo di lusso, ma quella stima di valore d’amore immenso che nessuno potrà mai rigare o quantomeno sfaccettare in uno dei tantissimi domani “Frammenti”.

Il rovistare premia davvero, ed un pezzetto di cielo lo possiamo mettere nel taschino dalla parte del cuore.

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Les Enfants – Les Enfants ep

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Io Voglio bene ai miei amici” e ci mancherebbe altro, in un mondo particolarmente vario e ricco di odio interiore da sputare sulla faccia alla prima utile occasione. Una demo che arriva proprio al momento giusto, avete presente quei periodi neri con lo stomaco capovolto al contrario e tanta adrenalina da far esplodere? I  Les Enfants sono una giovane band rivelazione che canta in italiano e sogna (e fa sognare) come pochi riescono a fare buttando giù quattro pezzi belli belli e curati nei piccolissimi dettagli dove la classe ancora una volta non è acqua e il diavolo stenta a nascondersi. Io c’ho provato in tutti i santissimi modi ascoltando il disco (ep) in ogni circostanza e situazione provando sempre lo stesso sentimento positivo, quella dolce musica che accompagna la voce senza darle mai fastidio, aperture vocali da prima donna ed eleganza sopraffina, delicato lo-fi che delizia il palato. Non mi butto mai in giudizi eccellenti all’ascolto di un ep senza precedenti, non è mai tutto oro quello che luccica ma questa volta alzo le mani e mi lascio travolgere da un morboso senso di piacere che vorrei non finisse mai. Una dolcezza che strappa il cuore dal petto e la gustosa voglia di ascoltare e poi ascoltare ancora, materializzo la consapevolezza di far entrare questi pezzi nella mia vita lasciandoli fermi in un angolo per poi tirarli fuori alla migliore occasione. Musica importate per contesti di spessore, ne sono rimasto folgorato, provare questo dischetto per rendersene conto e apprezzare con sottile semplicità quello che di bello ci viene proposto. I Les Enfants sono una band milanese di ragazzi bellissimi e indubbiamente intelligentissimi, sono quanto di più interessante l’attuale musica (emergente e non solo) italiana potrebbe proporci attualmente. Il resto non conta.

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Luchè – L1

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E’ un dato di fatto. Gli ultimi due anni hanno visto spuntare tra gli innumerevoli canali di MTV tipi più o meno loschi, più o meno muscolosi, più o meno tatuati sul collo, più o meno rasati ma decisamente più incarogniti e meno umili di qualsiasi altra cosa sia mai capitata nel music business in Italia.
A partire dall’esplosione di Fabri Fibra il grande schermo della musica è loro, tutti nati da i bassifondi, abituati a lottare in piccoli ring con le parole e con le braccia. E’ il loro momento ed è facile renderesene conto. E tutto ciò muove in me sentimenti contrastanti. Non saprei avere termini di paragone per stabilire chi è un semplice fenomeno incartato in diamanti e cappellino da chi emerge dal fondo e tiene il pugno chiuso con purezza e dignità, ma grida solamente un po’ più forte la sua prepotenza.

Potete dunque capire le difficoltà che io posso riscontare ora che mi trovo davanti a uno di questi personaggi. I muscoli? Ci sono. I tatuaggi sul collo? Pure. La rasatura? Capello sufficientemente corto. E ora concentriamoci sul contenuto del barattolo. Per vedere se riesco a distinguere la frutta fresca da quella omogeneizzata.
Luchè è un ragazzo di 31 anni, nato a Napoli e si sente (non solo dall’accento). Si presenta con le spalle forti di 15 anni di attività nell’underground hip-pop con il duo Co’Sang, ben conosciuto nell’ambiente. A pochi mesi dallo scioglimento del gruppo, Luchè prende coraggio, scrive in italiano (abbandonando il verbo napoletano che prodigava a spada tratta con il suo gruppo), si mette in gioco e ci mette la faccia. Ed ecco il suo primo disco “L1”.

Il ragazzo è furbo e si para subito con una produzione (magistrale) di Rosario Castagnola e Geeno e spara dritto sicuro allo schermo grazie alle collaborazioni con artisti ormai idolatrati come Marracash, Emis Killa e Club Dogo.
Si parte in quarta viaggiando verso il cuore, ma Luchè ci risputa fuori dalla sua ugola tagliente. “Bisogno di me” e il singolo “Appena il mondo sarà mio” fanno capire quanto intimo e incazzato sia l’esordio dello scugnizzo. Egoista per necessità, combatte il mondo che ha davanti con grande e fiera spavalderia (“davanti agli occhi del diavolo sarò un dio blasfemo”, “esiste l’hip-pop italiano poi esisto io”).
La precisione quasi maniacale nei dettagli e negli arrangiamenti spicca subito all’orecchio già dalle prime tracce, differenziando la musica di Luchè da gran parte del minestrone: tanta dance (a volte anche “vintage” da ricordare i gloriosi anni 90), basso distorto che pompa a manetta e tanta Napoli anche nelle melodie e nei beat che rendono ancora più luccicante la “poesia cruda” (così a lui piace definirla).

Poi arriva il superospite Marracash e il riffone di “Rockstar”, un po’ pacchiana e tamarra (solita questione: da quando strizzare l’occhio al music business è peccato?) ma onesta e ben bilanciata tra sacro e blasfemo.
Il disco si fa ascoltare tutto anche da chi come me l’hip-pop non lo digerisce facilmente: “Chi non dimentica” è violentissima, è guerra e far rabbrividire per quanto è sofferta e determinata; “On fire” sembra seguire un po’ troppo l’onda spregiudicata e autocelebrativa degli ospiti Club Dogo mentre l’altro ospite Emils Killa in “Lo so che non m’ami” ci riporta dentro le vecchie mura, atmosfere dance per rabbia sincera e irrazionale, a cuore in mano, delusione profonda di chi non molla la fune e risale piano piano la cima nonostante le innumerevoli valanghe gelide che gli piovono addosso (“per te io mi butto nel fuoco, tu invece ti incazzi e diventi di ghiaccio”).

La “poesia cruda” insomma stupisce fino alla fine del disco: “tatuarsi il mondo sulla pianta del piede e ballare fino a quando il sole interviene” è il grido d’amore de “La Risposta”; “sposo l’odio, il mio amore terreno, combatto questa guerra nel nome dei figli che avremo” è la profezia di “Figli dell’odio” che con giochi di parole riprende la dura guerra tra violenta passione e eccentrica spiritualità.
La chitarra di “S’il vous plait” grida ribellione nel pezzo più lento e sobrio del disco che chiude il cerchio e va al centro, proprio dentro le vene di Luchè, che pompano sangue marcio di vendetta e fluido come un mare in piena di emozioni.

Il frutto in definitiva sembra freschissimo, con quella punta di conservante che serve a mantenere piacione il prodotto, senza snaturarlo.
L’impressione ovviamente è che di tutto questo magna primordiale di brutti ceffi, che per ora intasa gli spettacoli pomeridiani delle reti musicali, non rimarrà molto neli anni a venire. E’ la dura legge del pop e lo sappiamo bene. Ma Luchè merita, la speranza per la buona musica è che arrivi in fretta in cima contro tutti i venti che ostacolano la salita. Per piantare ben salda nel terreno roccioso la sua personale bandiera, cucita con onestà, sangue, sudore e tante crude poesie.

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Saint Motel – Voyeur

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Debutto ad altissimo volume per i quattro losangelesini Saint Motel, esemplari unici nella loro certificazione sonora di far  della musica che propongono  una corrente alternata di pop, dance, allucinazioni da Studio 54 e mosse gloss che potrebbero andare bene per una serata a Las Vegas come in quartiere periferico di Milano, una di quelle band che non soffrono assolutamente della patologia del “primo disco”, loro sono così, difetti pregi messi insieme pur di far smuovere il culetto di tanti dancers affamati ed ingordi trafficanti del sabato sera.

Voyeur” (manco a farlo apposta) è il loro primo lavoro discografico che, senza la velleità di essere fattibile ascendente su qualcuno o qualcosa, arriva come una meteora impazzita tra le calure di questa estate torrida, e a dirla tutta più che rinfrescare fa sudare da matti in quanto ad energia e frenetismi è il massimo che il mercato possa – ultimamente – offrire; inutile cercare qualsiasi provenienza circa intellettualismi lirici o altro, qui il sound o il groove regna assoluto, una misticanza estiva che ha la prerogativa di dire tutto e niente, occorre solamente lasciarsi prendere dalle sue striature soniche e farsi trasportare con la testa in mete esotiche, dancefloor trandy, vibes BeeGeesiane e  deliri iper colorati di elettricità e turbolenze di Marshall a palla.

Con i – pressappoco – Killers come numi tutelari in sottofondo, i Saint Motel sono una band a tutto ritmo, spiritelli apolidi di musiche e hooks radiofonici da contagio, e anche se non  volete entrare nella loro area move-it vi ci portano lo stesso, anche vestiti come siete senza strass, gèè o lamè alla John Travolta o alla bella Karen Lynn Gorney, in pochi attimi sarete al centro dello shake convulso “Benny Goodmann”, prede del rifferama tex.mex “Honest feedback”, importunati felicemente dal rock battuto di “You do it well”, “Hands up Robert” o addirittura potrete pomiciare come non avete mai fatto tra le spennate acustiche ed innamorate della ballata “Balsa wood bones”, inno di coretti e arie field che ti fanno riprendere il minimo di fiato sindacale.

Volete liberare il corpo e sgomberare la mente per una mezzoretta buona, qui c’è la medicina che serve e senza controindicazioni..

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Rekkiabilly – Banana Split

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Dal tacco d’Italia i ritmi impomatati, ribelli e travolgenti dei Rekkiabilly ritornano con tutti i loro carichi mutanti ed eclettici a sonorizzare questa estate “coloniale”, e arrivano a bordo del secondo lavoro discografico, “Banana Split”, un dieci tracce di inediti e due splendide rivisitazioni di Mike PedicinBurn toast and black coffe” qui ribattezzata in italiano “Toast e caffè arrosto” e “Six by six” di Earl Van Dykeche, che una volta messe su di uno stereo esplodono in una festa scatenata, un’incontrollata isteria di gusto che si slurpa swing, jazz, black-brio Motown, country e rockabilly in un tempaggio che sembra non aver mai fine, che non conosce stanca o piegamenti.

Un bell’universo questo del combo pugliese, una caliente dimostrazione che senza inventare niente, senza arrancare su innovazioni stilistiche o far finta di essere pionieri di un qualcosa si possono “fabbricare dischi” che non hanno nulla da invidiare a cosa, loro riesumando anni post-guerra, balere per only-nigger, idiomi shouters, e ska-tenamenti a go-go fanno trame soniche sussultorie straordinarie per corpi dinoccolati e respiri affannati, e la forza di cotanta energia sta anche nel riverbero onnipresente di una verve caustica che scorre nella tracklist come una linfa di out-poetry; difficile non innamorarsene al primo giro, il disco – con gli spiritelli di Buscaglione e Paolo Belli che sghignazzano dietro le quinte – offre multiformi declinazioni per altrettanti piaceri sonori, tutto per tutti, nessuno escluso, tracce libere dalle pastoie commerciali, mood immarcescenti e rapsodie che sembrano uscire da una lontana Radio Geloso in bachelite di un allora “domenica da salotto buono”.

C’è spazio per lo slogamento rockabilly dalla cicca che penzola dall’angolo della bocca “L’astronauta”, il clubbin-swing di “Banana split”, le atmosfere free-scat che colorano in bianco e nero “Notte, notte, notte” o l’ubriacatura western “Il compare”, e tanto altro da sintonizzare in un ascolto godurioso e degno di un soundtrack per un film di Woody Allen, un disco che gira e fa girare la testa con complicità e strizzate d’occhio.

Un Banana Split fa sempre piacere, specie se fresco e aromatico, se poi ci si mette sotto questo cromatico sentire, ogni tentazione a restare fermi va a farsi letteralmente a friggere.

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Korach & Blue Vibrations – Takin’ a Look Inside You

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I Korach & Blue Vibrations sono Filippo (Korach) , Paolo e Giovanni (Blue Vibrations), tre ragazzi di Bologna che nel 2010 hanno deciso di intraprendere la tortuosa strada della musica; il loro lavoro, culminato nel 2011 con la registrazione nelle sale dello Studio SoundLab di Bologna, di Takin’ a Look Inside You, primo album della band, è un lavoro d’inspirazione rock blues che gli estimatori del genere non potranno che apprezzare.

Takin’ a Look Inside You conta sette brani in lingua inglese, tutti inediti, scritti da Korach e registrati con i Blue Vibrations, di matrice rock, quel rock deciso che, per alcuni tratti ricorda il lavoro di uno dei più famosi artisti del panorama internazionale, Lenny Kravitz.

Come Leonard Albert Kravitz, anche i Korach & BLue Vibrations, accompagnano la loro musica a testi introspettivi e romantici, talvolta arricchiti dai tasti di un hammond ( uno dei status symbol dei più famoni artisti blues) o da un’armonica a bocca oppure ancora dalle corde del violoncello, rendendo tutto il lavoro un qualcosa di inaspettato, un qualcosa che stupisce tutti coloro che hanno l’orecchio allenato a cogliere le più piccole sfumature che possono avvertirsi durante un giro di basso o uno di batteria.

È anche grazie alle sfumature di gran parte delle melodie che compongono i brani di Takin’ a Look Inside You, accompagnate da testi introspettivi e sempre azzeccati, che mi sento di dire che il lavoro dei Korach & Blue Vibrations è un lavoro ben fatto, quasi ottimale.

Mi auguro che decidano di continuare la collaborazione che li ha portati a produrre questo lavoro perché, sono certo, li porterà lontano; e non mi stupirei di poterli ascoltare, un giorno, al Milano Jazzin Festival (ora City Sound Festival).

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Ventruto – Terapie di fantasia

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La musica come il più forte antidoto alla solitudine e ancor più formidabile amica disinteressata che ci possa essere in giro, la musica, il ritmo e le parole che unite insieme possono fare la felicità come la riflessione di tutti, e tutto questo gira nella mente di un piccolo eroe di tutti i giorni, uno di quei tipi che vuole sollevare un centimetro di vita degli altri, uno di quei grandi personaggi che non si conoscono, ma che disegnano e confezionano – nel loro piccolo cosmo d’azione – quelle grandi cose sociali ed umane che spesso, non ci rendiamo mai conto.

Terapie di fantasia” è l’album dell’artista abruzzese d’adozione Ventruto, cantautore mascherato come un moderno Zorro che canta e compone pensando agli altri, ai disagi e alle “intemperie umane” che molti passano, un disco di dieci tracce che, tra ballate, pop radiofonico, friccicumi rockyes e canticchiabilità a presa rapida scorre via come fiumiciattolo rigoglioso di buoni propositi e poesia di amori, un ascolto gentile e ragionato per un riflettere da sposare con una mano sul cuore; nessuna velleità di assaltare hit parade o palinsesti acuti di radio, niente a che vedere con gli spasimi indie o le infornate dance da tormentoni x canicole di massa, solo canzoni per lenire e finalmente dire qualcosa di intelligente per aiutare e nulla più (e dav vero non è poco per niente).

Chitarrista ritmico, Ventruto, compone con il cuore, va oltre l’immagine e si maschera appunto per essere nessuno, per non essere riconoscibile, anima nobile e semplice che si centuplica nella musica pur di dare fino al limite; tutto si muove sullo spirito volante del Lucio Battisti, gli anni sessanta briosi “Il diario”, la ballata scandita “L’autostima”, il dondolio carribean guascone che scuote “Un angelo”, lo shuffle anni Ottanta che colora “Semplice e pura” e il pezzo di cielo che l’artista racchiude nella bella “Comprendo”, una canzone che  si, chiude il registrato,  ma spalanca nello stesso istante un mondo dove compenetrare e condividere queste storie reali e farle diventare “fiabe” per non tornarci su due volte, liberandole nell’aria come aquiloni vittoriosi nel vento.

Ventruto, questo Zorro semplice, è un personaggio da cercare ed ascoltare, non vi lascerà una Zeta nella pancia, ma un segno dentro sicuramente.

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Noise Under Dreaming – In Mine

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Il sistema musicale italiano ha da sempre dovuto affrontare un enorme problema che può riassumersi nella totale incapacità di imporsi anche nei mercati esteri, inglese e americano soprattutto, giacché apparentemente più accessibili. Tralasciando i paesi di lingua anglosassone, penso alla Scozia dei Mogwai, all’Irlanda di Pogues o U2, all’Australia di Nick Cave e Radio Birdman, anche la nazionalista Francia è riuscita a esportare con convinzione i propri prodotti artistici anche molto diversi tra loro, dall’Hip Hop al French Touch senza dimenticare i leggendari chansonnier e lo stesso la Germania, restando nel mondo occidentale, si è imposta negli anni con il suo Krautrock, l’Industrial degli Einsturzende Neubauten o l’elettronica.

E L’Italia? Tralasciando le puttanate spagnoleggianti di Eros o Laura, all’estero hanno un’idea alquanto bizzarra della nostra musica. Ultimo esempio, la classifica online di The Guardian (British) che, citando i dieci momenti memorabili della storia del Pop tricolore, affianca Moroder, De Andrè, Paola e Chiara (ma che cazz…) e Cristicchi.

Tristezza infinita (e non solo per l’assenza di Povia)!

Qual è il problema e come superarlo? Ovviamente la mancanza di promozione e attenzione da parte delle grosse etichette non aiuta certo le band minori di qualità nella ricerca di spazi nell’immensità del mercato globale. Basta questo a creare un enorme e insormontabile muro di vetro. Poi la colpa è anche vostra (magari non proprio tua, visto che leggi Rockambula) e della vostra pigrizia. Il pubblico italiano è tra i più ignoranti e manipolabili d’Europa e riesce a spostare l’attenzione sui più meritevoli solo in caso di morte (e non sempre accade). E’ anche colpa vostra se a livello promozionale funziona più svendere un brano da usare come jingle per uno spot di pannoloni per anziani invece che vincere il premio Tenco.

L’ultimo problema, quello più duro da superare e più interessante poiché tocca il cuore della musica, è dato dalla lingua. Non solo perché chi canta in italiano, deve fare i conti col fatto che un inglese d’italiano non capisce una minchia. In realtà magari a quell’inglese del testo non frega niente. Ma frega a chi scrive le canzoni e spesso finisce col dare più attenzioni alle parole che alla musica e soprattutto col non dare musicalità a quelle parole, che è quello che conta e che da sempre ha generato un certo divario nell’ambito della musica Rock (secondo voi perché Jonsi canta in hopelandic? Secondo voi perché alcuni testi di band straniere tradotte somigliano alle idiozie di un pazzo ignorante?). E cosi ci troviamo colmi di nuovi, si fa per dire, Battisti, Dalla, Capossela, ecc… che troppo spesso ci riempiono la testa di cazzate quando in realtà vorremmo solo buona musica. E in fondo questi nuovi cantautori, chi li conosce fuori dalla penisola?

Anche per questo molti scelgono la lingua di Queen Elizabeth ma non sempre la padronanza della stessa è tale da non sfociare nel ridicolo (tipo cafone in vacanza).

Mentre scrivo, sto ascoltando l’ultimo gioiellino dei Noise Under Dreaming, In Mine. Loro hanno fatto una scelta drastica. Pochissime parole e tante note (stessa scelta dei genovesi Port-Royal, capaci, a detta loro, di trovare spesso più entusiasmo nell’Europa dell’Est che non a due passi da casa). Le canzoni, in senso classico, con testi e melodie precise, si trovano esclusivamente nella parte finale nel disco e comunque acquistano un perché, cosi inserite. Tutto il resto è un lungo trip sperimentale, fatto di Ambient, Neoclassical, Avant Folk, Elettronica e field recordings.

Michele Ricciardi e Matteo Chiamenti sono al secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo l’esordio del duemilaotto per Foolica, Tarokidei. Nel mezzo c’è un Ep, Objects In The Mirror Are Closer Than They Appear, per la stessa casa di “In Mine” e soprattutto tanti live anche all’estero (appunto).

Il disco si apre vaporoso con “En Plein Air”, brano Ambient che avrebbe fatto un figurone come accompagnamento nei momenti disperati di Donnie. Quindi “Noise Under My Wish” regala una rilettura particolarmente seducente del Post Rock mogwaiano (scusate il termine) e del Dream Pop dei Sigur Ròs. In “For Nothing” compare la voce, come fosse un sussurro tra le vibrazioni sonore, in una ballata ricca d’atmosfera. “Lullaby For Lovers” è una sorprendente danza psichedelica di vocalizzi onomatopeici sopra un tappeto caldo come l’Africa e ironico e surreale come l’esistenza. “She Won’t Follow Me In Heaven” unisce invece le note neoclassiche incontrate nel brano d’apertura con le parole sussurrate in “For Nothing” finendo per ricordare lo Slowcore dei Low, per il suo ossessivo e disperato ripetersi. La splendida “Whisper”, tutta strumentale, abbraccia il Folk dei Memory Band e i paesaggi sonori ed eterei di Julie Skies.

Non spendo una parola per “Placebo”, semplicemente perché strepitosa nella sua essenzialità. Passiamo alla “Sinfonia Per Menti Distratte” divisa in tre movimenti (brani otto, nove e dieci). Ovviamente già dal titolo capirete che si tratta di un lungo intermezzo Neoclassical sobrio e persuasivo come il primo grande Eluvium (quello di Copia per intenderci). Prima del trittico finale cui abbiamo accennato prima, si sogna ancora con “Rikke” e i suoi contrasti gustosi, musicali e non, piano – drum machine, passato e presente, musica classica e Drum and Bass (il risultato finale non c’entra niente con la su citata), chitarra e parole recitate come in un tribale rituale magico. Gli ultimi tre brani, “In Deep”, “Better Story” e “Monochroma”, come già accennato all’inizio, sono quelli che più ricalcano la classica forma canzone. C’è da dire che la carica e un certo sapore Lo-Fi nella voce, stile Have A Nice Life, né fanno comunque pezzi appassionanti e deliziosi anche grazie a melodie ammirabili. Soprattutto perché i tre brani sono piazzati uno dietro l’altro a fine disco come per creare una suggestione intensa e particolare, distinta dal resto del disco. Dei tre, sicuramente “Monochroma” è il più arguto, col suo intro Noise/Shoegaze che si ripresenta più volte a squarciare la base cruda e la voce ardente e viva. Immaginate di trovarvi davanti a due palchi distinti dove U2 e Jesus And Mary Chain suonano contemporaneamente.

Se non lo avete capito, questo In Mine del duo milanese Noise Under Dreaming è assolutamente da non perdere. Spero per loro il meglio perché hanno dimostrato che non servono soldi a palate e mezzi smodati per fare ottima musica. Servono idee. Qui ci sono (con ovviamente tante cose possibilmente migliorabili). E se non avranno successo all’estero? Sticazzi, viva l’Italia.

 

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Nate Hall – A Great River

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Quando sarete all’ascolto di questo bell’album, augurarvi un “buon viaggio ai confini di” un qualcosa è il minimo che vi si potrebbe augurare, anche perché non è scontato imbattersi in questi capolavori – al giorno d’oggi – di folk psichedelico, bisognerebbe rifarsi alle decadi del “Big Dream” seventies americano, ma vi trovereste imbarazzati nella vasta scelta che la storia ha accumulato come riserva aurifera, allora tanto vale restare nell’oggi e ascoltare questo stupendo primo sonic affaireA great river” di Nate Hall, singer e frontman degli U.S.Christmas, formazione del North Carolina, un artista che vive nell’insegnamento e nella formazione metafisica di Dylan e Young – per gli elementi basici riconoscibilissimi in tutta la tracklist –  ma anche che, per vocazione, non ama sovvertire gli insegnamenti della tradizione “off” che vede attraversare e fomentare i solchi mai rinsecchiti – anzi – turgidi delle poetiche sabbiose e grezze di Cash e Hank Williams, ma non per una riproposizione del modello, piuttosto  per ricreare quello specifico, quella tentazione immacolata ed emotiva dei crescendo continui tra i spiragli di anime sontuose di poco, semplici.

In questa occasione il ruolo looner  dell’artista americano conferisce al lavoro uno spettro, un respiro più allargato rispetto alla consueta  formula originaria della psichedelica interiore, in più di un’occasione si ha la sensazione struggente che il suo viatico di avvicinamento ai modelli sopracitati sia quasi finito, compiuto nella sua raggiera, aderente a tutte le fasi di crescita desiderose di lasciare qualche impronta ai posteri prossimi futuri; a partire da un insolitamente misurato black trip che gira nel coma vigile di “Dark star”, fermandosi al bordo dell’abisso interiore che fa limite in “Kathleen”, seguitando in equilibrio notturno sulle corde field agrette della ballata “Chains” passando per l’elettricità ammusata di “Electric night theme” prima di gettarsi nella stupenda pastorale di rinascita, aria e vento che si incontrano e arrossiscono come fanciulli innaturali “A great river”, tutto si svolge su atmosfere dilatate, oniriche e allucinate, un cantato in preda di dolce fissazione che seduce e droga l’ascolto con grande prestigio e abilità ossessa.

Un bel disco che illumina e distrugge prima di diventare fonte celestiale per anime in cerca di paradisi distorti.

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Il Sogno Il Veleno – Piccole Catastrofi

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I cassetti delle memorie di Alex Secone, in musica come Il Sogno Il Veleno, cantautore o meglio cronista e sovvertitore di ieri riportati al presente, abruzzese e titolare del progetto musicale “Piccole Catastrofi”, sono spalancati e alla portata di tutti, i suoi smarrimenti, voli, tracciati e criticità mai lineari vanno a rompere il monopolio di quella fantasia finto-indie per tirarsi su, spostarsi  – crescendo – in quei paraggi ideali che dell’oggetto “d’autore” ne fanno qualità ed un insperato “qualcosa da dire” che vale come acqua fresca in un deserto allampanato.

Dieci tracce che profumano di arcobaleni seventies casalinghi, piene di rimandi in bianco e nero, nuvolette e grandi cirri che scorrazzano rincorrendosi per tutta la trackist, amarezze, punti di fuga e le influenze di una forte cinematica di realismo fanno la sintesi, e perché no, il pensiero di un giovane artista che non ha “rinnegato” lo specchietto retrovisore volto verso certe radicalità musicali, anzi ne ha “raddrizzato” la visuale per centrarle meglio, ed il bello che l’intento è un successone che ti riempie orecchio e animo come un vecchio 45 giri moltiplicato per dieci che gira mutevole dentro un “mangiadischi” della Pioneer color carta zucchero.

Disco d’altri tempi insomma, lo-fi, una forma “cantautorale” che forse risulterà incomprensibile alla maggioranza infatuata e refrattaria alle piccole opere artistiche stuzzicanti, vere, ma la qualità di questa proposta è svettante che se distoglie dalla massificazione dell’underground non lo fa per  difetto retrò e dunque di spocchia intellettualoide, lo fa perche gli riesce d’essere “altro” nella sua semplice genuinità e anche di essere poesia appieno e non immagine da fenomeno “indiegesto” come tante; ballate in punta di fiato “Comizi d’amore” dove aleggia il pathos Pasoliniano,un pianoforte che fa ombra intima in “Le cose importanti”, il senso caracollante di una spensieratezza mal filtrata “Favole”, odori Caposseliani che intercettano il dinoccolamento di “Bistrot” o lo scoppio dolce di un rock gentile “Signora in foulard nero” sono alcune di quelle mercanzie mnemoniche contenute in quei cassetti sopracitati che l’artista abruzzese rovista, spaglia e mette all’aria per un posto d’onore tra le cose più belle ed intelligenti che, in questi ultimi mesi, ogni lettore ottico possa mai  aspettarsi.

L’essere umili nella presentazione dei propri sogni messi in musica premia, se poi ci si mette pure la grazia e il contenimento di un talento naif che si fa amare in punta di piedi, tutto assume una luce accecatamente vincente.

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Point break – A Fuoco

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I Point Break sono un quintetto pesarese nato a cavallo fra il 2006 e il 2007 dall’amicizia che lega i fratelli Alessio e Tommaso Nicolini ed Andrea Piga a cui nel tempo si sono aggiunti nel tempo dopo alcuni cambi di formazione Francesco Franzese al basso e Marco Mattei alla chitarra.

Con questa lineup arrangiano, scrivono le musiche, co-producono e registrano le 10 tracce dell’album d’esordio “A fuoco” che vede la produzione artistica di Cristiano Santini (ex leader dei Disciplinatha, gruppo che gravitò nell’orbita del Consorzio Produttori Indipendenti e produttore tra i tanti di C.S.I. e Diathriba).
Durante i loro anni di vita hanno anche avuto occasione di aprire i concerti per bands prestigiose quali Le Vibrazioni e A toys Orchestra.
Il loro è il tipico rock all’italiana (Negrita o Litfiba) ma il loro stile semmai è molto più simile a realtà indipendenti quali Afterhours o Marlene Kuntz.

Questo lavoro si presenta energico e frizzante, molto curato nei dettagli, dai testi alla grafica del booklet interno e ben si presta all’airplay radiofonico.
Il successo insomma potrebbe davvero essere dietro l’angolo, soprattutto se troveranno l’attenzione che meritano da pubblico e massmedia.

Le  ballads presenti nell’album “In Un Solo Minuto” e “Nè Tormento Nè Passione” inframezzano un sound compatto e granitico fatto di vero rock forgiato dalle chitarre dei Nicolini e di Mattei ben coadiuvati da Piga e Franzese ed in alcuni brani anche dalla voce di Sarah Fornito delle Diva Scarlet ai cori che ha accettato di essere ospite del progetto nonostante fosse impegnata nel tour promozionale del loro ultimo album “Non + silenzio” prodotto artisticamente da un altro guru della musica alternativa, Giulio “Ragno” Favero (Il teatro degli orrori, One dimensional man, Zu, etc.).

Il brano più riuscito del disco è sicuramente “Gigante”, ma le liriche di “Fragile” o di “Testa nel cuore” mi hanno conquistato decisamente al primo ascolto (Godano influenced?).
Insomma per essere un disco autoprodotto “A Fuoco” è davvero ben riuscito e non posso che augurare tutto il meglio a questa band che ha dimostrato che cantare in italiano non è poi così limitante negli anni duemila, può essere anzi il vero punto di forza di una realtà emergente quale i Point Break.

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