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Pollyrock – Ruspante

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Soprattutto in questo periodo, l’estate semi inoltrata, mi capita di andare alle più svariate feste di paese dove il panino con la salamella è sempre accompagnato non solo dalla birretta ma anche dalle classiche cover bands che ripropongono le versioni più svariate di pezzi tra i più conosciuti.

Tutte le volte mi chiedo quale sia il motivo per cui non cercano di fare qualcosa di loro e, spesso, la risposta non tarda ad arrivare.
Tra quei pochi che decidono di superare il “limite” della scopiazzatura dei “grandi”, ci sono anche i Pollyrock: Antonio (chitarra e voce), Enrico (basso) e Federico (batteria), tre ragazzi della provincia di Pesaro-Urbino.

Il gruppo nasce, appunto, come cover band anni ’70 e successivamente decide di produrre un proprio album con proprie canzoni, Ruspante, nel quale l’influenza della decade rock per eccellenza si avverte già dal primo giro di basso della prima traccia.
Il loro è un rock genuino ed indisciplinato nel quale, però, non manca quella musicalità che rende il lavoro piacevole anche per chi questo genere musicale non lo ascolta volentieri, basta solo pensare alla presenza di alcuni strumenti musicali che, con il rock degli anni ‘70, non c’azzeccavano niente quali, ad esempio, il flauto traverso.

L’album conta di otto tracce nelle quali la voce Antonio si fonde, quasi a confondersi, con la musica creando un organico che risulta difficile scindere. I testi, di denuncia, sono di forte impatto e rimarcano ancora di più l’autenticità con cui è stato compiuto il lavoro da parte di questi ragazzi.

Ruspante è uno di quegli album senza troppe pretese che non ti stancano facilmente e che potrebbe far venire voglia, alle cover bands delle feste di paese, di provare a scrivere qualcosa anche loro perché, se il risultato fosse come quello che stanno ottenendo i Pollyrock, avrebbero solo da guadagnarci.

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Fausto Mesolella – Suonerò fino a farti fiorire

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Va bene, scrivo per Rockambula neanche da un anno. Ma penso che in generale se si collabora con una webzine rock possa capitare rarissime volte di dover recensire un disco di chitarra pura e pulita, quando di solito si è abituati ad affrontante un marasma di feedback, strilla e overdrive zanzarosi. E forse capita ancora più raramente di trovare scritto in una buffa copertina naif il nome Fausto Masolella. Un sunto della sua biografia? Casertano classe 1953, chitarrista degli Avion Travel da 30 anni e collaboratore di: Nada, Andrea Bocelli, Gianna Nannini, Tricarico, Samuele Bersani e Paolo Conte.

Puo’ bastare per sentirsi un po’ in difficoltà? O devo aggiungere anche che lo strumentale puro mi è sempre stato leggermente indigesto? Cercando sempre rifugio in facili melodie spruzzate da frontman cool o in grida di ribellione incastonate nelle mura delle grandi label. Sintomi di grande ignoranza, é vero! Ma ormai questo disco solita dell’artista campano è partito nel mio stereo e non mi tirerò di certo indietro. Chiudo gli occhi e provo semplicemente a sentire (non ascoltare, sentire!).

Già dalle prime pizzicate “Suonerò fino a farti fiorire” non tradisce lo splendido titolo ricolmo di amore e speranza che porta con sé. L’opener è infatti affidata a una intensissima interpretazione di “Pavane” del compositore francese Gabriel Fauré. Si giace in un prato che sancisce la fine dell’inverno e un venticello tiepido che porta armonia, primavera e serenità. E i primi fiori iniziano a mostrarsi alla luce del sole, con miriadi di colori e sfaccettature che obbediscono all’incanto della chitarra di Fausto. In “Principessa” il bluesaccio (che si sa, in Campania è di casa) spodesta prepotentemente la calma e la pace delle lente pizzicate per creare un po’ di brio e vitalità, come un buon vino rosso spregiudicato. Il piacere dei sapori forti e intensi. La sensualità della musica del diavolo convive bene con la dolcezza e l’armonia “classica” del corpo della bella fanciulla.

Non mancano poi le ospitate. Raiz spadroneggia nel classicone “O sole mio”, i gorgheggi del cantante degli Almamegretta colorano ancora più di rosso una canzone popolare già calda e focosa. La band partenopea luccica anche nella splendida rivisitazione da film on the road di “Nun te scurdà”. La pianista jazz Rita Marcotulli invece fornisce preziose dita snodate nella profetica “La mia musica” accompagnata persino da un testo talmente armonioso che si lega a braccetto i tasti del pianoforte, in una lenta camminata nell’immenso verde.

“Sonatina improvvisata di inizio estate” spara invece un ritmo spaventosamente caliente e mediterraneo. Un vecchio marinaio sorridente che rema ondeggiando in levare, un mercato del pesce fresco e un vestito di cotone leggero, scoperto appena da un caldo e timido soffio di vento. In questo episodio Fausto si lancia pure in una spregiudicata distorsione, facendo il verso al miglior Joe Satriani d’annata. Carattere, gioia, Napoli e chitarrismo (un po’ tamarro diciamolo pure) nella migliore “fioritura” dell’album.

La chiusura è sancita da “Guardando in uno specchio il 12 luglio”: dilatata in un semplice minuto e forte nonostante la solitaria presenza della chitarra di Mesolella. Un breve attimo per descrivere la finale fioritura e ammirare prima di riprendere il giro.

Questo album è una serie di dipinti nella mente, un viaggio incredibile che tocca i nostri sensi, avvinghiandoli in una sola e strabordante chitarra. E’ un punto di arrivo incredibile per l’artista, un sunto della sua eclettica carriera. Ma anche un punto di passaggio. Perché di fiori sbocciati con questa passione speriamo di ascoltarne molti altri ancora.

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dEUS – Following Sea

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E’ fuori dubbio che l’eclettismo che Tom Barman ed i suoi dEUS avevano negli anni novanta della loro genesi si sia molto diluito man mano che la loro discografia sciorinava suoni e metamorfosi cangianti – tra i tanti The Ideal CrashPocket Revolution – ma poi la band belga, dal 2005 in poi – vedi il penultimo Keep Your Close del 2011 – mostra i denti ed una fiacca sonora che esalta solamente la disfatta totale di un’era, e “Following Sea”, numero sette della storia musicale della formazione belga,  ne è la conferma ufficiale non tanto per una certa ripetitività della sloganistica sonora che da sempre contempla un mix di generi che vanno da  Velvet Underground, filamenti jazzati, blues, rock, un po di Captain Beefheart e poesia interlocutoria, piuttosto per una mancanza vera e cronica di idee nuove, quel quid necessario per trasformarsi senza diventare sterili.

Si viene a sapere che la tracklist è composta da tapes in surplus derivate da session precedenti, ritagli di prove che fanno di questo disco quasi un outtake work da digerire in poco tempo e magari fosse così,  ritorna l’asprigno elettronico e i suoni si fanno orpello per una coreografia d’insieme che latita e che fa rimpiangere con lacrime amare il fasto alternativo che fu; difficile dire dove i dEUS abbiamo cominciato a mancare quel fluido mitteleuropeo che ben rappresentava una certa qual via per i vicinali e prossimi a venire anni zero, o perlomeno dove abbiamo svenduto la consapevolezza artistica di non avere più davanti i margini di una seconda crescita, tutto si riduce ad un ascolto passivo, ovvio e rattoppato, la leggerezza pop, troppo pop di “Sirens”, il funky sconnesso che vorrebbe saltare come i RHCP ma inciampa clamorosamente “Girls keep drinking”, la wave appassita di “The soft fall” e gli Afghan Whigs che si accasano compiaciuti dentro le architetture di “Fire up the Google algorithm”, un disco che si fa urticante per la stizza che procura a chi li ha amati e sostenuti come una fondamentalità ottima per aprire le branchie ed il respiro ad un nuovo rock.

Peccato davvero, i riverberi sfocati degli dEUS fanno male, ascoltarli ora è come un dopo sbronza andata a male, ti gira tutto,l mondo e testicoli inclusi.

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All About Kane – Citizen Pop

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Lo so che fa un caldo infernale e non avete proprio nessuna voglia di stare a tormentarvi piegati davanti al pc a leggere di band semisconosciute e ascoltare impegnata musica neoclassica scandinava. Anch’io vorrei stare al mare con un Gin Lemon in mano, il sorriso da ebete stampato sul viso (mentre da sotto gli occhialoni scuri sbirciate le note chiappe chiare italiche), con in mano un libro di uno sconosciuto scrittore senegalese incontrato in spiaggia, il Mucchio Extra col viso di Gainsbourg poggiato all’ombra e nelle cuffie Jangle Pop a non finire. Invece no. Sarà masochismo o necessità ma mi ritrovo, neanche fosse un innevato dicembre, chiuso tra quattro mura crematorie ad ascoltare e scrivere e sudare e non ho neanche il tempo di accendere la tv per scoprire dal Tg1 quale sarà il tormentone dell’estate (qual è?). Però stavolta ci facciamo un favore. Vi propongo una band che potreste tranquillamente ascoltare per radio quest’agosto, per melodie, attitudine e tanto altro. Niente pesanti droni, avanguardie e feedback assordanti. Nessuno sforzo eccessivo è richiesto.

Ve li presento. Andy, Eddy, Fabry, Thom e Guido ovvero All About Kane da Biella. Il progetto nasce nel 2008 e il loro primo Ep, “Trails”, uscirà l’anno seguente. Lo scorso anno partecipano all’Heineken Jammin Festival Contest con il brano “My Little Shop” riuscendo anche a fare da headliner sul second stage con Beady Eye,

Cremonini e Coldplay. A giugno di quest’anno, finalmente vede la luce il primo album della band, Citizen Pop (notare, tra nome di band e disco, la sottile citazione del capolavoro di Orson Welles), anticipato dal singolo “Independent Lights” il cui video è girato sotto la regia di Stefano Bertelli (Marlene Kuntz, Cristina Donà, Caparezza, Nomadi, Dari (vantiamocene pure!), Bandabardò). Il risultato dei tre anni di fatiche operaie alla Fonderia Musicale di Vigliano Biellese è un sound immediatamente piacevole, basato sulle melodie più di ogni altra cosa e con un’equilibrata amalgama tra momenti acustici ed elettrici. Forse c’è ancora troppo odore di hamburger e fish ’n chips nelle note dei quattro ragazzi o forse è ancora presto per darne una valutazione corretta.

Citizen Pop si apre con “Songs At The Window”, attacco in punta di piedi quasi esclusivamente incentrato sul sempre più protagonista ukulele (utilissimo a creare quelle atmosphere Twee Pop tanto apprezzate dagli incalliti Indie di mare) e la voce molkiana di Thom. Il brano suona estremamente intenso e piacevole nonostante la sua semplicità e piace anche il suo evolversi in chiave più classica.

Passata la poco coraggiosa “Exile Supermen” arriviamo al singolo “Independent Lights”, che alterna una corposità, una carica e una melodia Pop-Rock degna delle grandi band da stadio come gli U2 a passaggi più oscuri e intimi da far invidia ai primi Fanfarlo. Bellissima la ballata “Madness We Need” nella quale la chitarra si manifesta come i colori d’un sogno, il basso danza come in un ballo anni sessanta e la voce di Thom si prende il centro della pista mettendosi in mostra con tutte le sue potenzialità. La voce viene raggiunta da quella di Marella Motta nella successiva In “This Black Night” per un duetto azzeccato tanto quanto il ritornello fresco e il riff di chitarra dal sapore stars and stripes. Con “Sorry For The Delay” si torna a godere delle tonalità morbide e rapite che sembrano essere una delle cose che meglio riesce agli All About Kane. Ma riesce benissimo anche una cosa diversa come “Rainbows Are Collapsing”, nel quale il sound prende velocità sotto la carica della batteria di Eddy. Il brano, concentrato di speranza e desiderio di opporsi, è un perfetto esempio di quella che è la musica dei biellesi. Vi sembrerà di ascoltare un misto di Fanfarlo, U2 e Placebo eppure le variabili fonti d’ispirazione sono tanto numerose che potreste trovare celati riferimenti completamente diversi. Ovviamente la cosa può essere vista tanto quanto un pregio (non è certo lusinghiero suonare identici a una band esistente) che come un difetto (sembrare simili a tanti può creare difficoltà a sembrare se stessi) ma siamo certi che tempo e maturità aiuteranno a limare gli ovvi problemi. L’attacco piano-voce e colpi di cuore impazzito di “January” sembrano il preludio a follie cabarettistiche stile Dresden Dolls ma in realtà il pezzo prosegue in una linearità quasi eccessivamente melliflua con sporadici inserti glitch a provare ad alzare un po’ la polvere. Alla fine il risultato è un pezzo di puro Pop dai capelli rossi (ammetto che ascoltarlo mi ha fatto pensare a Tori Amos) non troppo apprezzato da chi vi parla ma che potrebbe attecchire su un pubblico più radiofonico. In “Carry On” gli All About Kane provano a cambiare strada mescolando acute note folk, ritmi vagamente giamaicani e fiati irridenti ma il risultato non convince troppo. Ancora una ballata dal titolo “The First Lovers” che farà certamente sognare gli adolescenti brufolosi grazie ad una musicalità quanto mai gradevole nella sua banalità (del resto ci sono suoni che piacciono prontamente all’orecchio più di altri) e quindi il finale “Marzyplans” che punta ancora su ritmi leggeri e mai invadenti. Per chiudere, visto che ho scritto anche troppo per essere il nove luglio d’una torrida estate e sia io che voi abbiamo necessità fisica di una Nastro gelata, difficile dire quanto sia apprezzabile questo Citizen Pop. Al primo ascolto sembra certamente orecchiabile e gustoso ma in seguito le cose cambiano. Voglio essere sincero fino in fondo. Non mentivo all’inizio quando vi ho detto che vi avrei parlato di una “band che potreste tranquillamente ascoltare per radio quest’estate”. Non mentirò ora. Per i miei gusti tutto è troppo Pop, sia il cantato sempre in primo piano, che le melodie a volte ripetitive cosi come quel sound che non si muove mai da invisibili ma presenti e precise linee guida evidentemente necessarie per provare ad avere successo. Sembra pieno di tanta roba ed effettivamente tra arrangiamenti sfarzosi e altre scelte artistiche del genere non è certo un timbro semplice. Eppure lo sembra fin troppo. Come parlare troppo e dire poco. Quando si piega verso il Pop-Rock, il sound suona come i momenti peggiori della band di Bono e troppo spazio per le ballate mi getta in un incubo popolato di Brian Adams e Bon Jovi  e altri mostri sconsacrabili. Di sicuro non sembra esserci la voglia di provare a fare qualcosa di nuovo. Innegabilmente c’è tanta voglia di esprimersi, comunque. La voce di Thom è assolutamente appagante e il resto del gruppo suona con precisione senza mai rischiare ma comunque dimostrando competenza inconfutabile. Di sicuro sarà dura piacere a un certo tipo di pubblico, presumibilmente quello più numeroso della nostra webzine, sempre in cerca di novità e “sporcizia” artistica, ma di certo ci sono tutti gli ingredienti per l’apprezzamento della più semplice, meno attenta e indagatrice, platea radiofonica. Se l’obiettivo è quel tipo di ascoltatore, gli All About Kane dovranno solo fare più ricerca melodica visto che è quello che conta per vendere, no. Ritornello e melodia. In questo Citizen Pop di momenti che ti mettono la tenda nelle orecchie, non ce ne sono quanti dovrebbero.

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Mario Venuti – L’ultimo romantico

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L’ultimo romantico” del cantautorato dei tagli differenti potrebbe veramente essere il siracusano Mario Venuti, non solo perché l’amore inteso come liberazione o più che altro fondamento apparentemente inconsistente potrebbe rientrare tra la stesura di questo nuovo album, ma piuttosto perché le canzoni dell’artista di questo amore ne esaltano le funzioni emotive, fuori dalle consuete simbologie appiccicose, bensì strette come fosse roba di tutti i giorni da conquistare, arraffare o alla fine barattare per un pugno di libertà individuale.

In più Venuti considera gli ultimi romantici – titolo tratto da una felice riesumazione di un successo di quarant’anni orsono di un duo che funzionò come una trappola per hit e classifiche da juke box ovvero Pallavicini/Donaggio – anche tutti i personaggi dell’umanità dietro l’angolo che reagiscono a tanti status quo con un sorriso, una pacca sulle spalle, fantasia e colore, ed è allora che perlomeno se la vita poi rimane la stessa però viene maneggiata con più leggerezza, più divertimento; dodici canzoni d cui dieci scritte con Kaballà che non hanno una unica direzione, girano, impazziscono e a loro modo incantano il ritorno di questo poeta storto a tre anni da quel fortunato Recidivo, album fradicio di amarezze settembrine e marrone come colorito di pelle, un ritorno di tutt’altro graffio, felice ed inquieto come una emozione alle quattro della mattina al centro di un sogno scuro.

In questo disco il senso di rinascita e di contrattacco è forte, solido e friabile insieme, si guarda al futuro con speranza e curiosità   allegrotta, e reagisce con infinitesimali rivoluzioni – intime e a fior di pelle –  che azzardano, trasgrediscono e sciorinano poetami e dance sopra un piatto d’argento di ottimo eclettismo; punteggiando qua e la lungo lo scheletro dell’album troviamo il pathos etnico che scorre in “Rosa porporina”, il ritmo in levare che ondeggia in “Con qualsiasi cosa”, l’azzardo appunto che stuzzica e disturba il Sir. Mozart di “Là ci darem la mano”, il pastiches borioso eseguito con il coro Doulce Mamoire e diretto da Bruna D’AmicoGaudeamus Igitur” o più in la il Battiato che fa capolino in “Quello che mi manca”. E sì,  e questo l’amore che intende Venuti. gli piacciono tutte quelle quadrature giocose ed eccitanti che va a ritrovare pure nel fondo di bottiglia della dance Settantiana di “Fammi il piacere”, in cui …”…fammi il piacere prova  a mettere da un’altra parte il tuo bel sedere, fammi il piacere forse è meglio che torni a fare l’antico mestiere…” è il lascito di una presa di coscienza o la presa d’atto per preservare un posto di lavoro in questi tempi di magra e depressione.

Da ascoltare tra una pausa e una voglia di ristoro.

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Isole di ceramica – Hey you

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Dopo due cd registrati nell’estate 2006 e 2007, rispettivamente “Fiori&miraggi” e “Melephone“, con una formazione leggermente differente rispetto a quella attuale, tornano le Isole di ceramica, gruppo formato da Alberto Dalla Zuanna (chitarra e voce), Alessandro Zuanon ( chitarra), Davide Basso (basso) e dal recente acquisto Giacomo Zangoni(batteria).
Il loro è un genere che mescola abilmente rock, grunge con qualche influenza metal, anche se il breve  strumentale psichedelico “Sleeping pulse” fa tornare alla mente i migliori Pink Floyd.
Poi è un susseguirsi di riff abbastanza complicati con numerosi cambi di tempo (che dimostrano che comunque i quattro ragazzi sono tutti abili musicisti), soprattutto in quella che può essere considerata la vera opening del disco, “Nothing” che come già mi hanno chiesto in molti non è una cover della famosa hit degli Anthrax!

La cosa che mi ha stupito di più ascoltando questo lavoro è la facilità con cui riescono a legare riffs alla Kyuss con altri che rimandano ad esempio ai Rage against the Machine di Tom Morello o ai Pearl Jam.
Azzeccatissimo quindi un titolo come “Spacetrip” che potrebbe davvero mandarvi in orbita ascoltandola!
Tuttavia se non avete un orecchio molto ben allenato potreste avere difficoltà quando sarà il turno di “Critical” o di “Tales” che attenuano le atmosfere ma che appaiono molto più complesse negli arrangiamenti.
Il consiglio quindi è di metterlo in loop, perché solo così riuscirete ad apprezzare anche perle come “Blue-Fire Bar Mitzvah”, un lungo strumentale in cui il synth e la chitarra giocano ad incastonarsi fra di loro o “The Clouds Hold Up the Sky”.
Concludono il lavoro “It’s up to yourself” e “Awakening with eyes closed” altro strumentale che forse avrei messo prima nella tracklist per non lasciare un senso di vuoto alla sua fine.

Per il resto che dire…
Bentornati Isole di ceramica e continuate così!

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Karmamoi – Entre chien et loup

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Entre chien et loup. Tra cane e lupo, come a indicare un meticcio elegante nella sua natura selvaggia, snello e agile come il lupo, ma addomesticato, domato, quieto, affidabile come un cane. Un insieme di caratteristiche che creano un animale piuttosto armonioso nell’aspetto, forte ma allo stesso tempo affabile.
Esattamente come la musica dei Karmamoi: il quartetto romano composto da Daniele Giovannoni (batteria), Alessandro Cefalì (basso), Fabio Tempesta (chitarra), Serena Ciacci (voce) proprone in questo EP di cinque tracce la versione acustica di alcuni brani già presenti nella precedente fatica discografica del 2011, l’omonimo Karmamoi. Cinque canzoni accomunate da un certo sapore pop nostrano, solido tappeto su cui si insinuano, di volta in volta, matrici reggae, andamenti jazz,  melodie mediterranee della chitarra, ritmiche funky, il tutto dominato con una certa prepotenza dalla linea vocale: un timbro spesso, corposo, sfruttato soprattutto al grave, a cui vengono affidate liriche brevi, incisive, spesso ripetitive.
La base pop rende i brani decisamente abbordabili (la vocalità che ricalca molto Marina Rei e Carmen Consoli, con alcune sterzate vero l’acuto piuttosto improvvise che ricordano Irene Grandi, alcuni arrangiamenti, soprattutto in Venere, che sembrano presi da un album dei Negrita, ad esempio), mentre le diverse connotazioni che caratterizzano ogni traccia (puramente lenti pop Il ricordo e Indovino, folk e reggae Venere, quasi jazzato Vivo desiderio e tipicamente rock Stesa) mostrano le abilità della formazione, che è capace di spaziare tra i generi con un certo gusto e una buona competenza tecnica. A mio avviso Stesa è la traccia migliore però, sintomo di una formazione rock radicata a fondo nei quattro elementi: Serena sfrutta tutto il potenziale della sua voce, che non è più contenuta in una gamma di suoni medio-bassi come nelle canzoni precedenti ma può lasciarsi andare a costruzioni melodiche più articolate, il basso finalmente trova soddisfazione in un giro incalzante e piuttosto veloce, l’insieme è armonioso, energico, caldo e coinvolgente. Forse è questa la base su cui dovrebbero modellare i loro brani i Karmamoi. Liberarsi un pochino dei vecchi fasti della musica leggera italiana e lasciarsi andare a qualcosa di più sanguigno.
Non fraintendetemi.  Il quartetto funziona e parecchio, ma sa tutto di già sentito e onestamente l’EP fatica a decollare (c’è molta passione attraverso i cinque brani, ma mancano completamente energia  e groove praticamente fino all’ultima traccia; va bene che i Karmamoi ci presentano un unplugged di loro stessi, ma si poteva fare qualcosa di più in questo senso). Per sguazzare nel già sentito pop nostrano, insomma, tanto vale provare con del rock verso cui i quattro sembrano essere ben più predisposti.

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Scissor Sister – Magic Hour

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Jack Shears, letteralmente prima donna a tutti gli effetti e non perchè sia dichiaratamente gay, al timone dei suoi Scissor  Sister, continua a navigare in acque altamente glam disco, quella macchinazione perfetta – questo agli esordi – che del “micidiale attacco” ne ha fatto un baluardo della sorpresa, dello stupore; questo ad orecchio critico poteva esaltare appunto nella prima vita della band, ma ora con l’arrivo del nuovo “Magic Hour”, tutto comincia ad appiattirsi e legarsi al già sentito di prassi, nonostante gli sculettamenti, gli urletti e le tutine in latex che “evidenziano” pudende e push-up di scena.

Il disco ha il sangue e l’ingordigia di un disco Bee Gees, tanto da sembrare un loro prodotto finito e spacciato sotto falso nome, tutto si coagula intorno a  certe estetiche – anche forzate – che non appartengono a questo molestatori da palcoscenico oltranzisti, ed è duro pagare poi pegno per una creatività che è scesa sotto terra, non più provvidenziale e tantomeno eccentrica come tutt’ora ci vorrebbero far credere Le Sorelle Scissor, qui il plagio non è alle porte ma forse è già entrato in qualche studio di avvocato, ma queste sono storie che non ci devono appartenere, abbiamo già tanti nostri azzi da pelare, come si dice.

Magic Hour è un disco iconografico, che guarda più alla frivolezza che alla sostanza, da ballare senza nemmeno pensare chi lo suoni se non i citati Gibbs Brothers, nulla che possa dimostrare una minima evoluzione o carattere che Shears e soci almeno potrebbero giocarsi – in angolo – come bsiders tra un vero disco e l’altro, ma nulla, e allora definire che questa formazione sia giunta al capolinea è d’obbligo dirlo per non prenderci e farci prendere in giro; una sbirciatina tra la tracklist? Benissimo prendiamo con le molle tutto quello che faceva pippone negli Ottanta “Somewhere”,  “Shady love”, “F*** yeah”, la Minogue che viene depredata magistralmente tra le righe di “Only the horses”, una pattinata sui floor del fu Studio 54 NewyorkeseSelf control” e, salvando per un capello la bella ballatona confidenziale “The secret life of letters”, tralasciamo il resto tra effluvi electropop e profumi agrumati di Dolce & Gabbana.

Il disco è già campione di incassi, adulato dalle comunità omosex e preso di mira da ortodossi benpensanti, ma le sorelle se ne fregano del mondo che le sta a guardare ed ascoltare, loro vivono in un mondo a parte, ma vivono dentro anche la sensazione che le loro mossette gay-friendly hanno fatto già il tempo e non incantano più nessuno.

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Casa – Crescere Un Figlio Per Educarne Cento

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La proposta della band vicentina che risponde al nome Casa, nasce nel 1998 da un’idea del duo Filippo Bordignon e Francesco Spinelli (che proprio in occasione di quest’album lascerà il posto e la chitarra a Marco Papa) i quali decidono di fare musica attraversando la strada della carriera mainstream trasversalmente e a cento chilometri l’ora. Le loro note e le loro parole sono cosi distanti dal Pop e la loro indole cosi anticonformista da permettere ai Casa di mescolarsi all’arte contemporanea, di improvvisare Live con diversi pseudonimi come Plus e Little Jew Quartet, di collaborare con artisti diversi, musicisti e non, e soprattutto di sperimentare in ogni momento della loro esistenza costellata di episodi quantomeno bizzarri. Nel 2008, al Festival di Arte Contemporanea Tina B di Praga presentarono un lavoro multimediale ispirato dalla deviazione sessuale dello “sniffing“.  Il pubblico ne fu particolarmente nauseato spingendo l’organizzazione a staccare la spina e i Casa a suonare senza suoni. Dello stesso anno è la decisione di inserire un artista sordo come loro cantante, per il progetto “Musica Intuitiva”. Dovreste aver già intuito (appunto) davanti a che personaggi ci troviamo. Artisticamente prodotto da Andrea Santini, Crescere Un Figlio Per Educarne Cento è il quinto annuale lavoro che segue nell’ordine “Vita politica dei Casa”, “Remake”, “Un giorno il mio principe verrà” e “Peggioramenti” e vede la partecipazione, oltre alla formazione base composta da Filippo Bordignon, Marco Papa, Filippo Gianello, Ivo Tescaro, di numerosi ospiti eccellenti come Gianpaolo Bordignon, Marco Ferrari, Nicola Riato, Lele Rigon e tanti altri. Prima di passare alla musica, volevo citare anche l’interessante immagine di copertina di Manuel Baldini, dettaglio di tecnica mista su tela. Sapete che sono cose cui tengo.

L’album parte col botto, con l’estemporaneità sax jazzistica di “Morton” che accompagna le parole di Filippo che, con fare sarcastico e monastico, ci racconta la surreale storia di Sonia, Morton, un adulterio e un faggio. Come in una rappresentazione musicale del simbolo Yin e Yang, le improvvisazioni decostruite della parte musicale si toccano, si abbracciano, danzano e si baciano con la parte vocale rigida come una litania, ma mai si confondono per miscelarsi in un grigio sbiadito. In “Blues Morto”, perdonatemi la poca originalità, è il classico Blues dal sapore di America e cotone a farla da padrone grazie all’armonica di Marco Ferrari. Il terzo brano, “Whodunit!” presenta una combinazione di ritmo marziale di batteria, alternanze di chitarra al sapore di velluto underground, psichedelie sixties tanto The Doors e un cantato quasi buckleyano nel suo incedere cangiante in anticipo su fulminee esplosioni acuminate. “Il Vangelo Secondo Alessandro” sembra un normale brano rock sperimentale ma il rumore che squarcia senza violenza la musica dopo la prima metà del primo minuto crea lo stesso sapore di silenziosa angoscia che avreste nel vedere Gesù Cristo scendere da un disco volante davanti a voi in piena notte e in piena campagna. Perfettamente a metà troviamo, come in un fine primo tempo del film le cui protagoniste sono le corde vocali di Bordignon, gli oltre quattro minuti strumentali di “Interludio A Forma Di Croce” che anticipano “Il Terzo Stile”, riportante la nota “da ascoltarsi a volume appena audibile”. Una sorta di rumore bianco a metà tra avanguardia Drone music e semplice citazione sul silenzio in stile 4’33’’. Quindi “Madonna Con Cilicio” ci trascina nel momento più Pop e melodico, in un ritmo vagamente sudamericano che in realtà è figlio della più tradizionale canzone italiana, anche se un figlio degenere, scapestrato e folle, come ci ricorda la chitarra nelle sue digressioni avant. Forse proprio per la sua solo apparente (la seconda parte del brano è sperimentazione pura fuori dal tempo) accessibilità il pezzo è di certo tra i più interessanti di tutta la lista. Ancora “Beba La Moldava” ci concede un’ulteriore contaminazione di generi, una nuova sorpresa e un ritmo trascinante. Rock in senso più classico che stavolta lascia alla parte vocale il ruolo di folle danzatore dei boschi, in un alterno cantato alla Pierò Pelù, vecchio stile, e parole biascicate in illusori non-sense.  Chitarre, basso e batteria si limitano a correre. L’ultimo pezzo, “Non Lasciarmi Mai”, riprende quel legame, di cui abbiamo parlato prima, con la canzone melodica e cantautorale italiana, portandolo all’esasperazione, se consideriamo il resto del disco. Flauto, vibrafono, contrabbasso, un sound morbido e vellutato, una melodia vocale da ballo di fine anno anni settanta italiani e un testo in netto contrasto, per la sua mielosità, con le parole che ci hanno accompagnato per la mezz’ora circa precedente.

Il sound che pervade questo Crescere Un Figlio Per Educarne Cento non è certo quello più adatto ai palati semplici ma nello stesso tempo è abbastanza variegato da poter essere apprezzato da un pubblico diverso. Tanti momenti Blues non ne fanno un album Blues.  Stesso discorso per il Jazz-Rock, l’Ambient, il Pop cantautorale, il Rock Alternative, lo Psych Rock. Insomma siamo lontani dalle difficili estremizzazioni di Captain Beefheart o dei Flying Luttenbachers, per essere più attuali, ma siamo comunque davanti a qualcosa d’inconsueto soprattutto rispetto a quanto, il mai troppo coraggioso mercato italiano, ci ha proposto negli ultimi anni. Un album abbastanza complicato da definire ma in fondo non troppo complesso da ascoltare. Un album per chi non ama etichette (non solo quelle discografiche), luoghi comuni, generalizzazioni e schemi di ogni sorta e per chi vuole sentire la lingua italiana depurata dai cliché “solecuoreamore” di stocazzo.

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Mike Scheidt – Stay Awake

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E a sentire questo bel disco tutto viene da pensare meno che dietro le quinte ci sia uno spacca suoni e distorsori di grande rilevanza come Mike Scheidt fondatore e membro principale del trio metal americano degli YOB, e ancor meno viene da pensare il lato tenerissimo che l’artista Oregoniano riesce perfettamente a nascondere quando, da Thor dei palcoscenici hardcore, urlava, dilaniava e istigava folle di adepti ipnotizzati.

Stay Awake”, è un sei tracce che esce per la Sub Pop e interamente registrato al mitico Witch Ape Studio di Seattle, pare essere la transizione tra tempeste e miraggi, tra fuochi e fresche acque, ma forse anche un preludio a redenzione intima, per un artista che di redenzioni non ne ha mai proclamate se non cambiando aria, fatto sta che questa tracklist è una straniante dolcezza amara, un non so che di messianico che si cela sotto atmosfere acustiche, lunghe ombre fluttuanti su spennate epiche di chitarra e una voce rotta da pensieri e riflessioni che si specchiano nella solitudine, una profonda solitudine.

Sono brani semplici e ariosi, intermezzi che esplorano viscere ed anime di un qualcosa che Scheidt aveva da tempo dentro e solo ora si è deciso di tirarli fuori e portarli all’attenzione, un dolciastro set di arpeggi e giri con delle flebili variazioni progressive che non rubano molto tempo per farsi capire come spesso capita in ben più grandi occasioni, sono  alla portata dei sogni di tutti; è fenomenale rimanere fermi, addirittura inerti quando transita la passione eterea e stregata di “When time forgets time”, la strizzata di cuore che ti prende mentre affondi l’ascolto su “In your light”, respiri il vento di “Breathe” fino a scomparire nel pathos orientale che la magica “Stay awake” ti inietta come una strepitosa maledizione. Si parlava di redenzione per questo artista, ora con questa prova ci si può credere.

Una magnifica “scappatoia sonora” mentre il mondo intorno sta andando in malora.

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I Cosi – Canti bellicosi

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Quando Morgan li presentò con questo nickname I cosi erano già molto bravi, ma col tempo hanno saputo anche migliorarsi nello stile e negli arrangiamenti.
Dentro il disco certo ci sono ancora richiami ai Bluvertigo e ai Lunapop, ma se lo ascoltate con attenzione troverete anche riferimenti alla new wave anni ottanta e al rock all’italiana.
Già dal primo riff di chitarra e batteria della title track è evidente che questo progetto sonoro sta acquistando sempre più valenza e che si affaccia anche alla psichedelia anni sessanta con “Dentro me”.

“Universo” è una canzone davvero molto romantica dalle liriche molto incisive e chiare (“saprò darti un bacio lungo quanto tutto l’universo”) durante il quale gli assoli di chitarra si sovrappongono al cantato.
“Settimana enigmistica” forse è meno complessa delle altre tracce ma il moog e il vocoder di Megaerz danno quel tocco magico che la rendono a mio parere l’episodio migliore del disco (provate a sentire come finisce…).
“Romanticamore” è la prova di quanto scritto nelle note interne, ovvero che “la musica è frutto di una ricerca di equilibrio tra il tributo ai grandi autori del passato e il desiderio di novità”.

E così continuando a citarle con “L’assedio” si entra nella seconda parte dei Canti Bellicosi, con riferimenti al mai troppo poco compianto Piero Ciampi.
“Le ragioni degli altri” sembra essere uscito dalla penna di Alex Kapranos dei Franz Ferdinand, ma cantata pure in italiano assumeun gusto davvero intenso.
Ascoltando “Se non” invece vi sembrerà di essere in un sogno con l’uomo o la donna che amate, e la tromba e il flicorno di Giovanni Satta lo renderanno ancora più seducente.
“Fotografia” è interamente cantata e suonata da Marco Carusino ed appare come una sequenza di ricordi di una storia d’amore passata.

Conclude il disco “Quello che so” la cui linea di basso ricorda un po’ quella di “Breathe” dei Pink Floyd.
Consigliatissimo a tutti, soprattutto a chi non ama seguire le mode del momento ma che ama i grandi classici del passato immerso in melodie soffuse grazie all’apporto di vari strumenti analogici, in un perfetto incontro fra musica e poesia.
E citando il ritornello della title track: “Canti bellicosi è tutto quello che sento quando rimane il silenzio dentro di me”…

 

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Daniele Faraotti Band – Canzoni in salita

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E’ senza mezzi termini una sinfonia visionaria quella che Daniele Faraotti Band descrive nel nuovissimo “Canzoni in salita”, una sincronia di stati vitali che fluttuano nei loro tentativi riusciti di relazionare progressive, classic-pop e sintomatologie rock con suggestioni minimaliste, contemporanee, il tutto in un corpo sonoro che si allunga in dieci tracce, una messinscena ambiziosa e rappresentativa che va oltre, supera,  le elaborazioni semplici della percezione d’impatto.

Timbri a tratti essenziali, altri schizzati nelle forme metafisiche, sperimentazioni, funk, retrogusti di Zappa, Di Giacomo, AreaGentle Giant, Reich, tutto un cosmogonico formulario che impegna la formazione ed il suo “trascinatore” a repentini sbalzi d’umori sonici e in mille combinazioni sequenziali per poi confluire in un ascolto sorprendente e mai scontato; è un bellissimo meccanismo di musica e delle sue possibilità d’uso, niente simulacri innamorati dell’estetica free, ma una sincera e calibratissima fusione di rimbalzi e fantasie smembrate che ingurgitano una, cento, mille perfezioni apparentemente squinternate ma – legandone i fili a specchio – traspaiono una fitta amalgama empirica, assoluta e pericolosamente cool, anarchica.

Un bel suono di derive e approdi, deragliamenti e viaggi fuori gittata, sempre difficilmente etichettabile, magari avant-garde retro-futurista, ma meglio lasciare scorrere questi magma irresistibili che conquistano l’ascoltatore dentro una “giocattolosa” esibizione di razza, meglio lasciare splendere queste gemme immaginarie collettive nel loro ritrovato radicale spazio squadrato; dai sentori latini di “Melanconia”, alle stratificazioni Wishbone  Ash di “Tram Golem”, alla magnificenza folkly-jazz de “Carmencita in Kawasaki” passando per le ancie di tromba che borbottano lucide in “Le cose” fino alla quadrature storte di “Sakura”, jazz-rock sperimentale vertiginoso che chiude e da il risentirci alla prossima pubblicazione di questo artista poliedrico, pazzo, con band annessa.

Daniele Faraotti Band è al suo secondo disco, ma sembra una vita di ascolti, il suo/loro genio non poteva che regalare questo “bailamme” di eccellenze, magari avaro di effetti speciali, ma succulento di emozioni forti e autentiche.

Della serie, sporco, autentico e subito.

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