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Ancient Sky – T.R.I.P.S.

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L’Interstellar Overdrive degli Ancient Sky, dalla Big Apple atterra direttamente sui nostri piatti stereo, non per rapirci e analizzarci dopo sopra un tavolo autoptico, ma per “rapirci” i sensi e il cervello in un evoluto sound psichedelico che uno non si aspetta se non riferito chiaramente a quello dei lontani Sessanta, ma qui siamo nel Terzo Millennio e da quanto pare il motore lisergico che questo “T.R.I.P.S.” – uscito da noi per Sons Of Vesta –  ancora tiene in caldo – e che caldo – sembra proprio arrivare integro da lì, loro ci aggiungono quello speziato e crudo mix di post-rock, Heavy psych e stoner rifilato per ingigantirlo, ed il risultato non è affatto male, roba da “eroi svalvolati”, ma non male davvero.

Più che una band circoscritta un combo composto da membri differenti che sulla ribalta underground NewYorkese intrecciano, organizzano, sperimentano nuove fasi di suoni aggregati, miscelano le alchimie “drogate” di multi sonorità e le trasferiscono su tracce, tracce che sono delle autentiche bombe THCizzate, grandi esplosoini sensoriali che ammantano e fanno rizzare il pelo e la goduria conseguenziale; un progetto in cui confluiscono membri di Ghastly, City Sleep, Darkest Hour e Verse En Coma, tutti musicisti che della fusion ne fanno il loro lato artistico pronunciante e che – ovviamente ci sono anche importanti ispirazioni fruttifere che arrivano da band come, tra le tante, Earth, Dead Meadows – tra ossessioni, stati vegetativi e ipnosi di massa, riescono ad arrivare fin dentro i ricettori della psiche, e questo credetemi, non è poco.

Nella loro Brooklyn, gli Ancient Sky, sono considerati eroi alieni mentre da noi sono praticamente sconosciuti, ma la loro aurea che si equilibria tra grandi voli e cosmi elettrificati sta catturando tutti, un background percussivo da orgasmo, un galleggiare tra liquidi e micro particelle lunari con in mezzo il rock che esplode e frantuma ogni resistenza, brani come l’amniotico gassoso che increspa “Towards the light”, lo stupendo  riflesso Floydiano che vive in “Snow in the cemetery”, i fuochi accesi di Grateful Dead nell’ipnotica ballata dedicata a Ray BradburyRay Bradbury” e la metafisica slabbrata che viene magnificamente vomitata nelle pastorali spaziali di “The wind”, arrivano sulla bocca dello stereo e ti uccidono di bellezza dentro, ti fanno maledire quel giorno che nella tua infanzia remota volevi rispondere alla consueta domanda: cosa vuoi fare da grande?, e tu avresti voluti dire, a tutta voce, l’astronauta, ma non ti veniva mai in mente.

Disco con i contro-apparati produttivi!

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Inland Sea – The Passion

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Il Brit pop e una dura gavetta hanno molto in comune per questa band Milanese negli anni a ritroso della loro formazione musicale; ma infatti si sente, nulla tradisce una perfezione maniacale da tanto di cappello che scorre dentro la lista sonora messa a conquistare l’interesse per “The Passion”, il bel disco degli Inland Sea, il disco che arriva per piacevolizzare questa estate rovente e poco balneare e per farci conoscere una formazione che descrive la musica con una dolcezza pop di ballate, malinconie e hook canaglieschi “The gift” su tutti con un affresco potente di canzoni che fanno innamorare immediatamente e trattare questo lavoro con la confidenza intera di una amicizia inaspettata.

Belle chitarre piene di vento, una voce “inglese” incontestabile ed un insieme liberatorio di alternativo retrò che verso gli anni Novanta del bel sound d’Albione ci si butta a corpo morto e gli riconosce quel primato rivoluzionario di aver cambiato la storia con poco, solamente aggiungendo grazie e gentilezza in un contesto che usciva dagli Anni Ottanta con le ossa rotte e i capelli scompigliati ed intricati da troppo gel; The Passion e le sue nove tracce escono da quei sentieri poppyes per inoltrarsi – con naturalezza – in quelle sensazioni insaziabili che mescolano oculatamente gli interrogativi trascinanti di Thom Yorke, pixel di McCartney e la poetica pindarica di un Chris Martin dei Coldplay, una felice combine dove c’entri dentro e ti lasci incantare come sopra una giostra di “bello” fintanto ti gira la testa  e che comunque vuoi ricominciare da capo il giro.

Tracce dicevamo che non intralciano – anzi – arricchiscono l’ascolto contemporaneo di certa musica, tastiere, archi, chitarre, fiati e quella “ottima flemma” British che anche se sembra retrò, involuta, è invece un inno alla poesia, poesia che guarda in avanti e non si fa intimorire dagli urli e gli schiamazzi amplificati che molti fanno passare per “nuove tendenze”, il loro compito è farci assaggiare la grazia elettrica ed allora ecco che pezzi come la Beatlesiana “Hushing the whisper”, quella deriva sugli U2 di “The crossing”, il soliloquio intimo che si sottolinea in “Weak”, magari il capolino che gli Stereophonics fanno in “Soul weather” o i Radiohead tra gli archi di “Blind”, diventano inni personali per un intendere riflessivo e pacato di una musica, di un disco che restando stilisticamente fermo a quasi vent’anni fa, si fa notare e piacere come un disco di “ultima generazione” da tenere stretto al petto per sognarci sopra.

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Starcontrol – The ages of dreams

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La musica alternative italiana è depressa. Punto. Non mi riferisco alla pochezza di contenuti, alla scarsità della scena, al basso valore. Anzi. Di cose se ne dicono a bizzeffe nelle canzoni dei nostri connazionali che si affacciano sulla scena musicale (bisogna vedere come, ma è un altro discorso), gruppi ce n’è a iosa, la qualità tecnica e la ricerca squisitamente musicale sono alte.
Eppure non c’è scampo, mi sembra evidente: o ti piangi addosso in stile Radiohead o fai l’incazzato –ma deluso, desolato e prossimo alla sconfitta- sulla scia del Teatro degli Orrori e soci.
A nostra discolpa posso ammettere che un po’ tutto il panorama indie abbia questa tendenza al crepuscolare, con qualche eccezione forse per certe nuovissime leve americane.
Ultimamente, però, c’è un altro faro di allegrezza che sembra illuminare le strade della musica indipendente: il revival della new wave. Fàmose del male, insomma.

Gli Starcontrol sono un terzetto milanese (Laura Casiraghi, Moreno Zorzetto e Davide Di Sciascio) al secondo Ep autoprodotto, The ages of dreams, che ammicca proprio alla new wave.
Sonorità scure, cupe e malinconiche attraversano tutte e cinque le tracce, concepite e realizzate con grande competenza tecnica (pulitissimo il basso della Casiraghi, semplici, lineari anche se già sentite le linee delle tastiere, una vocalità piuttosto personale).
Persian Carpet è onirica e ipnotica (soprattutto il giro di basso e la linea melodica principale), il testo, lode alla band che per una volta dimostra che l’inglese non è solo la maschera per chi non ha nulla da dire, non è affatto banale (Throwing our feelings on a satellite / throwing our feelings on a satellite /thinking about you on my broken side /you will think about me for the very last time) ed è intonato da una voce piena, calda, che ricorda quella di Tom Smith degli Editors, fin troppo pesante per i miei personalissimi gusti, ma adeguata al genere. Il rimando ai Cure è inequivocabile per il trattamento delle melodie strumentali e l’apertura quasi ironicamente allegra. La band di Robert Smith guida idealmente il terzetto anche in A dream, dal suono particolarmente dark, e Forever unknown, in cui la voce pecca di accenti interpretativi quasi epici, inadeguati forse a intonare un testo tanto meditativo (I don’t really know what “love” means/I don’t really know what pain is/I’m just feeling like I’m drowning /I don’t really know what life is).
Heart becomes a cage (un richiamo agli Strokes forse?) sembra un tentativo di inscurire i Depeche Mode, con qualche tocchettino alla Ian Curtis.

Il grande difetto di questo revival più o meno conscio verso cui tende praticamente un terzo del panorama underground, è che ricalca in modo quasi perfetto le glorie Eighties. E con i Cure e i Depeche Mode ancora in circolazione, scusate, gli originali non possono che continuare a imperare. Senza contare che sarebbe necessario una contestualizzazione, una personalizzazione, qualcosa che motivi lo sguardo a un passato che ha più di trent’anni e che lo attualizzi, facendolo diventare espressione dei nostri giorni.
Finché l’approccio sarà quello attuale, si avrà l’impressione che la scelta sia ricaduta su certe sonorità solo per artificio tecnico e sperimentazione.

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Kardia – NO

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Tornano con l’animo carico di speranza, i Kardia sono la parte intellettualmente new wave dell’indie rock d’autore. Questa volta escono nel mondo della discografia con un disco maturo e deciso chiamato NO. Abbiamo voglia di sentirci partecipi di questo concept album curato nella musica e osannato dalla genialità dei testi (quasi) interamente in italiano, tornano con un nuovo intento elettro wave assolutamente più morbido rispetto alle precedenti produzioni alle quali mi sento legato particolarmente. Quindi nuova veste e nuove idee per la band romana. NO riesce a dare un senso di liberazione alle continue pressioni artistiche alle quali siamo costretti a dare confidenza, a quelle immondizie musicali tanto spinte ma affatto interessanti, un sound intimo e molto più pop, una matita grigia che inizia ad assumere colori sempre più caldi. Provate con Le Rondini pezzo rappresentativo del disco per intendere velocemente la mutazione genetica dei Kardia, romanticoni con bassi pesanti e cuori pulsanti. Sarà forse l’amore ad aprire le nostre preconfezionate testoline? Certo è che questo disco non stufa affatto nonostante l’alternativismo sia stato decisamente abbandonato al proprio destino in cerca di terreni più fertili da coltivare. Coltiviamo amore e odio e lasciamoci conquistare da quello che realmente ci piace. NO con questa larghezza di vedute abbraccia una fetta di persone molto più ampia divulgando il verbo della musica ovunque sia possibile farlo con machiavellica intenzione. Nessuno dice che per fare un ottimo disco devi essere fighetto, alternativo e suonare post punk, NO è bello, fresco e merita attenzione, tutto il resto scivola velocemente sulla pelle, i Kardia entrano dentro.

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O’Rom – Vacanze Romanes

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Le difficoltà d’integrazione, l’intolleranza, il razzismo, la discriminazione, sono piaghe sottopelle per la società civile italiana. Ulcere sempre pronte a mostrarsi in tutto il loro doloroso orrore ogni qualvolta accadono episodi disdicevoli, assurdi, violenti e inconcepibili (penso a quanto successo a Pescara, città dalla quale scrivo, dove uno zingaro ha ucciso un ultrà della squadra cittadina, generando caos misto di rabbia e tristezza). L’ignoranza genera razzismo. L’uomo medio non ci mette molto a dimenticare il settarismo e i pregiudizi, spesso vivi ancora oggi, nei confronti dei nostri connazionali emigrati nel mondo (e non provate neanche a venirmi a dire che loro sono andati tutti solo a lavorare). Del resto, oggi i ricchi siamo noi, no? Forse non per molto ancora, comunque. L’uomo medio italico tende a non ricordare le proprie radici. Non rammenta quale crocevia multietnico sia sempre stato il suo paese, la sua amata Italia, anche in virtù della sua posizione geografica nel cuore dell’Europa e del Mediterraneo. L’uomo medio è cieco davanti alla profonda e radicata influenza della cultura tedesca o francese a nord del Po’, non capisce quale stretta mescolanza ci sia tra i popoli del mezzogiorno e le culture elleniche e balcaniche, non pensa che sempre nel sud esistano minoranze etniche, ad esempio albanesi, diventate parte integrante della nostra penisola ormai da decenni. Il razzismo genera ignoranza. Mentre dimentichiamo chi siamo, diventiamo insensibili di fronte al costante e spaventoso processo d’impoverimento culturale che ci sta affogando tutti come topi. L’inconsapevolezza popolare è da sempre il carburante più elementare ed economico per chi marcia per motivi ideologici o politici sul carro del fanatismo. La gente esasperata per motivi diversi cerca un facile nemico contro il quale sfogare tutte le sue frustrazioni. È cosi che gli stranieri ci rubano il lavoro, gli zingari sono tutti ladri, le rumene tutte troie, i nordafricani violentatori, gli albanesi spacciatori, ecc… Vogliamo rinchiudere la nostra cultura in un castello inattaccabile mentre fuori scarichiamo cannonate di veleno, ma non ci rendiamo conto che i castelli sono roba da medioevo. Se non volete che le mura vi crollino addosso sotto il peso delle vostre cazzate, disgregate dal terremoto della globalizzazione, vi consiglio di uscire e cominciare a bere e ballare. La musica ci salverà. Ci voglio credere come un bimbo a babbo Natale.

Gli O’Rom con Vacanze Romanes non affrontano direttamente il tema dell’integrazione attraverso musica contaminata e testi pedanti e moralisti o politici. Gli O’Rom sono piuttosto loro stessi parte integrante del suddetto processo. Non a caso, l’acquisto del Cd appoggia il progetto del commercio equo e solidale che ha per obiettivo diminuire la sperequazione tra i due emisferi attraverso una rete commerciale equa tra produttore e venditore, che garantisca giusti compensi per chi lavora favorendo inoltre i piccoli produttori del “Sud” del mondo. Carmine D’Aniello (voce, bouzuki e tamburi a cornice), Carmine Guarracino (chitarre), Ilie Pepica (volino), Ion Tita (fisarmonica), Doru Zamfir (fisarmonica 5,8,9), Ilie Zbanghiu (contrabbasso) e Amedeo Della Rocca (percussioni) ci regalano musica che non sperimenta, non rinnova, non guarda avanti ma anzi scava nel passato alla ricerca di tradizioni che possano essere energia rinnovabile per il motore della crescita della nostra società. Ricalcando lo stile del menestrello bosniaco Adnan Hozic, cui il disco è dedicato, o del più noto Bregovic, tanto per capire di che parliamo, Vacanze Romanes ci propone una calda e passionale rivisitazione partenopea di canti tipici Rom, bosniaci (Nocas Mi Srce Pati), pezzi strumentali rumeni (Kalushua, Ciocarlia), canti greco – salentini (Kali Nifta, che sicuramente sarà ultra nota a chiunque abbia visitato le terre leccesi nel periodo della pizzica e taranta) oppure Rom – russi (Solnuska), con testi in lingua originale (che trovate tradotti nel libretto all’interno) che trattano i temi classici della musica popolare, dalla partenza alle armi, alle donne e le pene d’amore, il pianto delle madri e delle mogli, l’emigrazione, il ballo e la festa. Vacanze Romanes è un disco perfetto per chi non soggiorna nella paura, per chi ha voglia di vivere ballando nelle piazze con un bambinello (bottiglione da cinque litri di vino) tra le braccia, per chi vuole sudare, ridere e amare tutta la notte, tutta l’estate. Questo disco è un abbraccio caldo di Napoli, dell’Europa e del Mediterraneo. Un abbraccio per tutti quelli che sognano sotto le stelle, col canto dei grilli e le onde del nostro mare che baciano i piedi. Questo disco è per tutti i buoni e incolpevoli Barabba del mondo.

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Masoko – Le vostre speranze non saranno deluse

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Terzo disco per i romani Masoko, ed appena qualcuno metterà questo cd vi guarderà con un sorriso compiaciuto e magari un occhiolino come a sottolineare una intesa sonica con la sua musica, si perchè queste tracce, queste undici autonomie emozionali, grondano hit su hit e sembrano concepite come per un viaggio attraverso la schiettezza che va ben oltre il solito rapido raccontare cose che poi si vanno ad opporre alla realtà; qui dentro c’è la verve, l’ironia – anche stretta tra i denti – di chi guarda e riflette lo specchio appannato di questa società isolata, di chi canta l’amarezza e il vizio ottimale di decantare le sue voragini con intelligenza, quella dolce intelligenza che la band mette come una sfacciataggine di spessore.

Le vostre speranze non saranno deluse” è il mondo personale dei Masoko, lontano dagli stridori delle involuzioni stilistiche e molto accostato alla formula primaria che del resto è parte fondamentale della loro poetica urbana, quel frammisto di new-vave, bagliori pop ed elettro dance che da sempre li caratterizza in una “rapidità lenta” che fa smuovere testa e corpo; un disco figlio di questi tempi, fiero della sua colorazione grigiastra dove però un pizzico di gloss ravvivo riattiva alla precisione la punta danzereccia, all’improvviso, tra una canzone e l’altra, che in fondo è la virtù rigenerante che parte proprio dal titolo di questo lavoro, eufemismo e ironia con un prezzo morale da pagare, da godere o scontare.

Parlavamo di pop ed elettronica, ma poi andando avanti nello scorrere della tracklist si incontrano “strani personaggi” come il funky slogato di “Buco nella testa”, le nevrosi di uno Studio 54 che bussa come un cuore sotto anfetamina “In alto”, “Birra e sigarette”, gli ottimi bridges vocali Seventies style che ricamano “Fortuna” e poi il jumping totale verso un Battisti trasognato, disilluso, un pathos di accordi acustici spennati ed aperti che porta l’ascolto del disco a picchi onirici e affascinanti, specie nella coda psicotropa, funkyes, jamming,  che ti prende i nervi e te li tira in un ballo tribale e fuori di testa “Tutto di ieri”.

I Masoko non si smentiscono, anzi aumentano le loro già ottime quotazioni tra le onde avanguardistiche di questo strano mondo underground nostrano, la loro maturità artistica si impone certamente in maniera veramente perentoria tra gli stadi alti della nuova musica e questo terzo lavoro ce li inchioda sopra.

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Buffalo Grillz – Manzo Criminale

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Hanno fatto di nuovo centro, hanno sfornato un altro disco da un milione di dollari, i Buffalo Grillz non si sono smentiti, anzi, hanno confermato il loro talento. “Grind Canyon” li portò sulla bocca di molti, ebbe riscontri più che positivi e manifestava la nascita di un gruppo con i contro coglioni. La sfrenata band Grindcore fa parlare nuovamente di sé con un disco che stilisticamente segue le orme del precedente ma con un ironia e delle sottigliezze decisamente più incisive. “Manzo Criminale”, questo il titolo del loro secondo platter, un lavoro fresco, violento e indemoniato, una vera chicca che si aggiunge nel repertorio Grind nostrano. Più che un cazzotto tra i denti è una vera sfuriata di mazzate, con questo disco Cinghio e soci mettono i puntini sulle I dando la definitiva consacrazione della loro giovane creatura. Quando dietro ad un gruppo c’è impegno e voglia di realizzare grandi cose, state certi che i risultati si ottengono e questo disco (come lo è stato anche il precedente) fa da prova, basta notare la sfilza di concerti che hanno tenuto e i nomi delle band con cui hanno diviso il palco, gli Entombed vi dicono qualcosa? Lo stile, come dicevamo, è sempre lo stesso, proposto nei migliori dei modi e con quella adrenalina che in pochi danno. Il netto miglioramento si è avuto sul loro sarcasmo e sulla loro criticità, canzoni come “Linkin Pork”, “Forrest Grind”, “Dimmu Burger” e “Pig Floyd” la dicono tutta. “Manzo Criminale” è un disco di grande spessore, senza ombra di dubbio sono stati un ottimo acquisto per la Subsound Records, che già di per se ha dei gruppi fenomenali. Con molta probabilità i Buffalo Grillz sono la ciliegina sulla torta della label, in pochi riescono a mettere su un lavoro del genere, i Napalm Death andrebbero in estasi nell’ ascoltare questo disco. Insomma “Manzo Criminale” è ben riuscito è un lavoro che non stanca, anzi, ogni traccia è una piccola pompata di N2O che in un modo o nell’ altro lascia il segno. Di questo passo i Buffalo Grillz arriveranno molto in alto, cosa che personalmente mi auguro con tutto il cuore, perché questi ragazzi meritano.

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Astenia – Fa che sia tutto diverso

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“L’astenìa, dal greco ασθένος, è un sintomo aspecifico presente in numerose condizioni morbose sia fisiche che psicologiche; consiste nella riduzione della forza muscolare al punto che i movimenti sono eseguiti con lentezza e poca energia. Negli Astènia, invece, non c’è niente di tutto ciò.”

Che determinazione questa band! Si presenta con un’intenzionale contraddizione e con quattro brani ben decisi, a testa alta, curati nei minimi dettagli, tanto (ma proprio tanto) romani, racchiusi in un EP dal titolo un po’ ambiguo. Invocare un cambio di rotta proprio nel momento in cui la nave inizia a salpare porta a pensare che le idee dei giovani capitani non siano proprio limpidissime. Soprattutto se si pensa che i ragazzi sono alla prima uscita, che per altro sembra essere solo un piccolo antipasto di una lauta e ambiziosa cena in famiglia (pare che a breve verrà sfornato un vero e proprio album). Famiglia, che se si va a scavare bene nella loro biografia, risulta essere composta da sornioni e scaltri maestri del pop italiano come i Velvet, che a quanto pare fanno da Cicerone e, oltre a portarseli dietro nei live, credono in loro talmente tanto da prendersi la briga di tenerli sotto braccio per co-produrre questo EP.

Ma non giriamoci tanto attorno, in “Fa che sia tutto diverso” la rotta è ben definita. Di incertezze e di indecisione stilistica non c’è nemmeno il fruscio. La prepotenza elettropop dei cugini più grandi (ormai contaminati e arricchiti dall’esperienza “casasonica”) abbraccia il sound giovane e fresco degli Astenia. Loop pompati in bilico tra chitarre e synth, basso ben presente, quel che basta per fare ondeggiare un pelo il bacino e melodie tanto italiane quanto ricercate tra la mente e il cuore, con la carne un po’ esclusa dai giochi. Mancano in effetti un po’ di sudore e di sangue, caratteristiche sempre ben accette per garantire la genuinità del prodotto.

“Il giorno nuovo” è stato eletto cavallo di battaglia, primo singolo che è già in rotazione nelle radio e non tradisce l’itinerario: voce ipnotica e martellante, ritmica che ricorda “Pure Morning” dei Placebo. Uno di quei singoli che ti perforano la testa pur non essendo terribilmente ruffiano e banale.

I ragazzi sono giovani e si sente. Dando un occhio alle liriche scopriamo che puzzano di liceo e di Smemoranda imbrattata di foto e pensieri sognanti: la stupida quotidianità, angosciante e timidamente combattuta proprio ne “Il giorno nuovo” e in generale l’inquietudine, l’ingenuità, le paure, la fragilità e la spensieratezza, temi prettamente labili e dettati da quella frivolezza giovanile che ha il sapore di “primo disco” acerbo. E sia ben chiaro, va benissimo così. E’ una grande virtù suonare giovani se l’anagrafe ti da ragione.

La nave è appena partita e qui non c’è molto altro da segnalare. C’è solo da aspettare, per vedere dove viaggerà e cosa si porterà dietro. L’importante è che si faccia guidare da questo impeto e da questa spregiudicatezza giovane e fresca. Sono certo che i ragazzi in questione sono astuti e staranno ben attenti a ciò che accade nella terra ferma osservata in lontananza. Speriamo solo che, come capita a molti, non vadano ad arenarsi nella prima costa apparentemente accogliente e sicura.

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Edoardo Borghini – Edoardo Borghini

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Questo cd (rubando dei versi della canzone “Aurora Boreale”) riempie di colori la mia vita e illumina le notti senza sonno ad aspettare…
Aspettando cosa?
Magari quell’amore descritto in “L’altra mia metà”, opener dolce, romantica e malinconicadi questo piccolo capolavoro il cui unico difetto è di durare troppo poco…
C’è un po’ Neil Young dei tempi di “The needle and the damage done”, del più classico De Gregori cantautoriale (non quello rock degli ultimi tempi per capirsi), e , perché no, un po’ di The Byrds; un bel calderone insomma…Se poi aggiungete che la voce ricorda un po’ quella del grande e mai dimenticato Lucio Battisti capirete cosa voglio intendere!
Ed il bello è che dice di esser cresciuto “in un ambiente musicalmente eclettico, influenzato dal Britpop e, allo stesso tempo ascoltando, assimilando e studiando il blues”!
Testi probabilmente molto autobiografici ed introspettivi, mai banali (stupendi i versi “sono i pensieri che fanno piangere… poi sorridere… i ricordi di un bambino… non se ne andranno mai…” tratti da “Ricordi”) che rendono ancora più piacevole l’ascolto di questo ep che non eccede mai in virtuosismi (giusto qualche slide con la chitarra) ma che sa entusiasmare anche con pochi accordi ben legati per lo più in arpeggio ed arrangiamenti davvero incantevoli.
Nessuna invenzione, anzi forse l’unica genialata è che su cinque pezzi tre sono in italiano, uno in inglese (“With arms wide open”, da non confondersi con l’omonima canzone dei Creed) e uno è cantato totalmente in lingua madre tranne nel ritornello (“Friends”).
Aspettando un full lenght album che già non vedo l’ora di inserire nel mio lettore cd!

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Soyuz – Back to the city

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Tornano i veneti Soyuz con un altro bel capitolo della loro giovane storia tra i faldoni dell’underground di casa nostra, ed è un ritorno forte e robusto, un’ alternanza di elettricità e concetti scoperchiati che fanno “massa” tra stereo ed orecchio, e che avvertono  sulla buona svolta stilistica che la band ha effettuato in questi ultimi frangenti.

Back to the city” è il disco che sbatte in faccia le basi del nuovo percorso intrapreso, percorso che non contento di abbracciare le nevrosi ponderate di una ampericità allargata, addirittura prende in prestito le dispersioni di ugola indie-punkyes per urlare e strapazzare un disagio a tutto tondo, il malessere dell’urbanità intesa come compressione mentale, etichetta indelebile di chiusura ed isolamento che spersonalizza l’essere, l’insieme (se qualcosa ne è rimasto) e l’anima, ed i margini per sfogarsi dalla claustrofobia di una “tube” qualsiasi si agita qui dentro, sulle dodici ramificazioni di una tracklist che non perdona.

Un disco che potrebbe essere l’esplosiva colonna sonora di un remake del film Who Killed Bambi? di Russ Meyer, tanta è l’ispirazione potente e sottolineata che si trascina come una “delinquenza” ad effetto immediato, un ascolto tiratissimo, a presa diretta, che compulsa e piace da morire dalla prima all’ultima pista; tutto è percussivo e suo modo “orgasmicosamente amplificato”, un trio questi Soyuz che suonano in maniera maniacale le straordinarietà dei nuovi stimoli distorti, un power-force che si materializza tra ipnotico e scellerato, fughe e spasmi ricamati di chitarre che contrappesano ritmi e liriche disturbate e fenomenali tanto da sembrare arrivare direttamente dai mainstream d’oltre confine.

Se avessimo ascoltato questo disco nei primi anni Novanta, ne avremmo senz’altro prese in prestito le veemenze e le colorazioni tumefatte per farci ulteriormente belli e dannati, ma possiamo sempre recuperare dal perfetto evocativo fatto di riff, arrangiamenti curatissimi, prendendo per esempio i singulti brit-pop di basso di “Everything is clear”, la ballata alla Stereophonics Blind”, il fiatone running che esala “I’ll be back”, nel vedere passare per un secondo i King of Leon in “Perfect day” e nella traccia saracinesca che chiude il tutto “Calling”, una piccola stretta di cuore che ti lascia sospeso tra te e te stesso.

I Soyuz si sono allontanati dalle zone pur sempre pericolose del rock cementato e si avvicinano alla poesia con la spina inserita, un coraggio premiato e convincente che porta il trio ad eloquenza di razza.

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Emily Guerra – Piume

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La cantautrice veneta in questione, Emily Guerra, qui al suo bel esordio “Piume”, potrebbe – -in futuro – regalare un po’ di grattacapi a tutte quelle determinazioni artistiche che ambiscono allo star system di un certo medio-livello, non per chissà quali cose, ma per un altro insieme di cose che fanno  di questo ascolto una serenità fresca e un piccolo incanto underground.

Quattro tracce traversate da una voce particolarissima, una gattina che con un microfono tira fuori poesie intimiste e personali, la descrizione di vari stati d’animo che si sovrappongono e giocano a colorare giornate e pensieri altrimenti in bianco e nero; canzoni semplici e di tempra sincera, titubanze ed emozioni che – in un circolo ipnotico – ti arrivano all’orecchio con un gusto pieno e radiofonico, e che se poi considerate in mezzo a tanta idiozia pop in circolazione, riescono a “dribblare” con classe e originalità tanti misfatti; dentro questa corta tracklist c’è energia e talento, niente barocchismi d’amore o disfatte, ma una sana ostinazione a concedersi per quello che si è, l’amore, la tristezza, la rinascita trattate come un nodo da sciogliere e  non da crearci marasmi insormontabili, una artista questa Emily che cerca di uscire dai più facili “viottoli” del poppy da smanceria per portarsi ad una dolce concettualità per rimane nel circolo senza essere ingoiata dall’imbuto senza fondo del sistema, e da quanto ci è dato da assaggiare, la strada è giusta.

Un pò Arisa e un po’ svagata corista, l’artista Emily ha in mano la carta giusta per uscire fuori, quattro canzoni creata col vestito da hit, quattro pezzi che con le stratificazioni blu di “Piume”, i tasti melanconici di piano che puntellano “Cartoline”, il dolce dondolare caratteriale di “Dopo l’acquazzone” e la tenerezza dream che frizza in “Anime” potrebbero tramutarsi in belle “frequenze disturbate” per un qualcosa ben più alto dei giri viziosi ed inconcludenti dell’emergenza cantautoriale.

Della serie come perdersi tra nuove bellezze sconosciute che avanzano.

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White Skull – Under This Flag

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E sono tornati ragazzi, sono tornati, a distanza di tre anni dal buon “Forever Fight” i nostrani White Skull, storica band dell’ Heavy Metal italiano fanno nuovamente parlare di se. Non voglio presentare, attraverso le loro gesta, la loro carriera penso sia scontato saper chi sono,anche perché non conoscerli è un po’ un sacrilegio. Ad ogni modo i White Skull si presentano questo 2012 con un nuovo disco uscito tramite la Dragonheart e intitolato “Under This Flag”. La prima cosa fondamentale è che questo lavoro è il secondo che il gruppo produce con la nuova singer Elisa “Over” De Palma, la cantante mostra ancora una volta talento ma purtroppo a parer di chi scrive è tutto il disco che non gira come gli altri precedenti. Ad esser sincero non ci sono quelle melodie e quelle atmosfere che solo loro riuscivano a creare, in dischi come “Tales From The North” o meglio ancora “The Dark Age”, ricordo che le chitarre erano degli strumenti magici che creavano motivetti con melodie eccezionali mantenendo comunque il suono epico e pomposo. Cosa che invece almeno personalmente, non ho trovato in questo “Under This Flag”; Elisa è una grandissima cantante, e si è sentito con “Forever Fight”, ma purtroppo, molto probabilmente con questo disco ci si è addentrati in un tipo di struttura poco adatto anche per lei. Comunque i White Skull di esperienza e capolavori ne hanno, questo “Underr This Flag” non è un passo falso, ma soltanto meno attraente e coinvolgente rispetto ai precedenti.

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