Recensioni
Digos Goat – Stille
I Digos Goat sono stati e continuano ad essere un razzo sparato nel culo del provincialismo (cit. GIX dei Digos Goat).
E si, l’attitudine punk non è assolutamente per tutti, quella lercia sensazione rivoluzionaria o la tieni nel sangue oppure lascia perdere e cambia musica. Gli eterni Peter Pan(k) dell’HC italiano decidono di buttarsi nuovamente in pista dopo un ventennio dal precedente lavoro Testimoni Del Silenzio e lo fanno sparandoci sulla faccia un concept ep chiamato Stille inciso sia su cd che su lp (che non trova paragoni col cd). Certo, i Digos Goat vanno ascoltati in vinile, non esiste forma migliore per gustare profondamente la loro musica, uno schiaffo rabbioso alla delicatezza plastificata del digitale, un solco profondo da scavare senza paure. Io voglio credere nella loro religione, sembrano figli mancati del migliore GG Allin possibile. Guardate che questo è punk filo rivoluzionario, per intenderci una versione super incazzata dei CCCP, una costola fondamentale del movimento italiano come lo sono stati i Sorella Maldestra e Bloody Riot, una fluida metrica vocale come quella dei primissimi Massimo Volume. Un rifugio mentale nel quale celarsi quando ormai tutto sembra andare per il peggio. Il settantasette è passato da un pezzo, il Tamigi è stato stuprato giustamente a suo tempo, il carisma incazzato dei Digos Goat non si è mai fermato dagli anni ottanta nonostante un lungo standby. Ma adesso sono tornati e guardiamo il nuovo disco con gli occhi arrossati dei primi innamoramenti, quando ancora non si scopava, quando eravamo angioletti con i boccoli biondi e ci ammazzavamo di seghe. Cinque pezzi che dicono tanto o niente, ci vedi arte ma ti accorgi del fetore punk, dell’insoddisfazione sociale con cui ormai siamo costretti a fare i conti. Mi piace questa musica senza contratto, questa mela marcia dell’indipendente scicchetto senza ideali, oggi sono libero di essere me stesso. E allora tutti dovrebbero ascoltare STILLE per sentirsi almeno una volta nella vita liberi di essere quelli che realmente siamo nati per essere. Gocce rumorose in un mare di merda.
Una delle poche cose oneste rimaste al mondo.
U’ Papun – Cabron!
Se facessimo un paragone col precedente disco “Fiori Innocenti” pubblicato nel 2011 potremmo sicuramente dire che i due lavori appaiono nell’immediato abbastanza antitetici ma al tempo stesso simili perché in entrambi c’è quel pizzico di genialità e di creatività che spesso manca ai grandi artisti ma che è facile ritrovare in produzioni indie.
Basti pensare che ancor prima della pubblicazione del loro primo compact disc, mentre erano ospiti nel programma Roxy Bar, Red Ronnie che li definì “il lato oscuro della Puglia”, etichetta che li accompagna ormai ovunque.
L’estro del gruppo si nota già dalle prime note della title track, apripista dal sapore psychobilly che nel ritornello si lascia andare ad un rock molto più “heavy” del solito.
Rock, elettronica e dub mescolati abilmente in “Indiesposto” li accomunano a quel Caparezza che fu ospite nel loro primo singolo, “L’apparenza”.
“Luna” vede la partecipazione di Pantaleo Gadaleta e un tocco di orchestralità e di atmosfere noir che lasciano spazio a un testo a tratti anche romatico.
“L’abito” è aperta da un riff accattivante di chitarra seguita da giochi di synth e archi accompagnati da un cantato rap in cui Alfredo Colella dimostra di essere uno dei migliori frontman attualmente sulla piazza.
“Storia di una disoccupata” inizia invece con un piano che riporta alla mente i film western tinti di scene girate nei saloon e dipinge alla perfezione la storia di una giovane escort (bellissimi i versi “il mio corpo percepisce un cachet per presenziare ovunque, arrivando spesso al dunque”).
“Amore cialtrone” è un brano in 7/8 in cui gli spiriti di Frank Zappa e Captain Beefheart sembrano essere partecipi, dove la marimba è sostenuta da ritmi reggae.
“Terra madre” è una canzone polemica dedicata alla patria permeata da atmosfere malinconiche a tratti teatrali che dipinge la realtà generale della nostra povera Italia distrutta da politici corrotti in cui “ti senti immigrato in qualsiasi cultura”.
“L’ultimo” gioca attorno alle parole evangeliche “gli ultimi un giorno saranno i primi” e si lascia pian piano trasportare in ritmi rock ed in scale di chitarra, piano ed archi sempre accompagnati dalla ritmica perfetta di Cristiano Valente.
La cover del grande e compianto Giorgio Gaber “Io non mi sento italiano” è un’altra protesta attualissima nei testi ed originalissima nell’interpretazione che è in linea con lo stile del gruppo (Rock? Folk? Dub?).
“Arte spicciola” è una ballad in cui esce fuori la vera vena cantautoriale degli U’ Papun, che sarebbe perfetta come colonna sonora di un film di Gabriele Salvatores.
“Fior della censura” è un inno danzereccio controtendenza alla satira politica che “non piace ai permalosi”, che “non segue le correnti” e che “diverte i meno abbienti”.
“Uomo di marzapane” è una favoletta post punk tiratissimo alla Rancid dalla durata di appena 115 secondi! che non mancherà di stupirvi.
“Clichè” è una filastrocca blues che chiude un album tragicomico / teatrale davvero fantastico.
Solitamente si dice: “la seconda prova su disco è tutto per un gruppo”…
Se così fosse possiamo dirlo: gli U’ Papun hanno confermato di essere dei grandi musicisti, sempre eclettici nei suoni e nei versi, una band che potrà prima o poi conquistare persino le vette delle classifiche.
E speriamo che succeda molto presto, c’è davvero bisogno di una rivoluzione musicale nella nostra Italia dominata troppo spesso solo da prodotti usciti dai talent show!
Homer – The Politics Of Make Believe
Non ci sono “azzi che tengono”, quando una band ci sa fare ci sa fare, e questi Homer, indiavolati belgi – da come suggerisce il moniker del loro disco “The Politics Of Make Believe” – non si risparmiano nulla, si agitano sulla scena d’ascolto come ossessi contro il sistema e contro tutti, presi come sono a realizzare il loro bel sound rappresentativo di un background H-core e morsi growl accaniti che lacerano le forti tinte H-C, imponendosi fortemente nella memoria di chi incappa – anche di passaggio – tra le lamette della tracklist.
Convive in questo bel cazzotto a forma di disco il diavolo e l’acquasanta (se così si può definire), ovvero il contrasto tra il metal che cerca di confezionare una parvenza melodica ed il death che dall’altra sponda mostra i canini bavosi, ed è un contrasto che alla fine si appaga in un bel “dialogo” a distanza, una compenetrazione agguerrita che in poco diventa l’elemento portante e riuscito – e disinvolto – di una violenza sopportabile, energetica, pronta per diventare amica per pochi minuti da sfogare senza farsi male; dieci ripercussioni sonore che agitano, addolciscono e ri-agitano in maniera esaltante, quasi mai una tregua o un respiro da affittare per sopravvivere all’ascolto, tracce nelle quali epica, incazzature e estremizzazioni contenute coordinano una compattezza, un muro incondizionato che non ti perdona nulla, niente, mai.
Il combo Homer è molto evocativo ed omogeneo, riescono nel loro intento a conquistare il cuore di affamati pogatori estremi degli anni 90, un magma oscuro e distortissimo a tratti gothic nel finale “This scene is sacrificed”, a tratti negli inferi death “The politics of make believe”, bello nella sfuriata sludge che frusta “My last piece of ignorance”, coeso nel doom sfinito “White does rhyme with empty” fino ad arrivare alla San Francisco Rollinsiana con “Vamos!!!”, forza centrifuga HC-punk che già da sola basta e avanza per portare questo disco a quote ambite, a costanti emozioni di ottima “rozzezza” amplificata a sangue.
Dal Belgio una forza disturbante si sta abbattendo sul nostro Paese, un gioiellino di sudore e bava schiumante attraversa le nostre risicate resistenze a niente. Straordinario.
Gecofish – Biancovestita
Questo è il loro primo album.
Potrei mettere la mano e pure il braccio, mi rovino, sul fuoco che ne faranno altri.
Loro sono i Gecofish, gruppo canturino che ha iniziato la propria carriera con un album, “Biancovestita” che non poteva essere il miglior esordio per questi quattro ragazzi.
Ma… Chi sono i Gecofish?
Al secolo Vittorio Massa (Voce, basso), Alfonso Pagliuso (Chitarra elettrica, chitarra acustica), Mattew Battistini (Pianoforte, Tastiera, Sintetizzatore) e Valerio Bruni (Batteria). Ma non mi basta.
Vagabondando in internet per cercare informazioni sulla band mi sono imbattuto in una discussione volta ad organizzare un evento per l’uscita del loro primo album, conversazione di un gruppo di ragazzi, o così sembra, dal quale traspare un grande entusiasmo ed una ancor più grande voglia di darsi da fare per rendere il lancio perfetto.
Mi sento di dire che questi sono i Gecofish: un gruppo fatto di passione per la musica, entusiasmo e voglia di darsi da fare.
Ciò lo si avverte già dalle prime note di “Ofelia”, prima traccia dell’album, che rimanda alla mente quel rock alternativo tutto italiano che ricorda “I Ministri” dei primi tempi: chitarre, batteria e sudore.
Anche “Melina Q” è l’espressione della vitalità e della passione che contraddistingue questo album e i ragazzi che lo hanno creato, è un brano che si colloca a metà tra il pop dei “Meganoidi” e il rock alternativo dei “Merci Miss Monroe”.
La loro musica è un incontro di diversi generi musicali che vanno dal grunge al pop, e le undici tracce presenti nel lavoro sono così eterogenee ed orecchiabili da poter conquistare una grande fetta di pubblico.
Non resta che aspettare di vederli live per capire se quella vitalità che emerge dal loro primo lavoro riusciranno a trasmetterla anche dal palco, ma stando a sentire quanto affermano (“Non sentiamo alcun obbligo verso i virtuosismi o le belle facce sul palco. Rock semplice. Ci diverte urlare al microfono, inciampare e consumarci le dita con le corde. Suoniamo perché ci piace la gente che salta e suda”) una mezza garanzia posso dire di averla.
Tombstones – Year Of The Burial
In queste ultime notti, fredde e cupe, sto accompagnando i miei lunghi momenti di riflessione, disteso sul letto e con il nuovissimo disco dei norvegesi Tombstones, ovvero “Year Of The Burial”. Sarò sincerò, il grintoso trio mi ha sempre incuriosito, apprezzai molto i loro dischi precedenti ma “Year Of The Burial” è la loro consacrazione. In questo disco Bjorn e soci sono arrivati ad affinare una tecnica strabiliante, il loro Doom certe volte svincola nello Stoner ed altre volte addirittura, talmente che rendono il suono grezzo, vibrante e massiccio nel Drone Metal. Gli Uncertainty Principle, i Black Sabbath, gli Electric Wizard e i Sunn O))) ascolterebbero questo disco con gli occhi a cuoricini; “Year Of The Burial” presenta eccezionali riff che uniti al baritonale suono del basso creano atmosfere che in pochi sanno fare. I Tombstones già dalla prima traccia, “Unveiling”, fanno capire le intenzioni che hanno ed il sound che vogliono proporre; bene o male il disco si muove su questi canoni, da un momento all’ altro il suono diventa più forte e assordante e in un altro momento più cupo e decadente. Personalmente questa nuova fatica del trio di Oslo è stata più che piacevole, mi rendo sempre più conto della grandezza della Soulsellr Records, che ogni poco sforna e ingaggia nel suo team straordinarie band e per concludere non posso fare altro che invitarvi ad ascoltare e procurarvi questo disco dei Tombstones, che credetemi è davvero interessante.
Foxhound – Concordia
Si salvi chi può. Il titolo di questo freschissimo album dei Foxhound, born in Torino, è talmente attuale da essere spaventosamente ruffiano. Titolo spavaldo, gradasso, se contestualizzato ad un’ambientazione pressoché dance, spensierata ed immeditatissima. Quella dei pantaloni a tubo, dei locali nei Murazzi del Po, degli occhiali da vista enormi da pagliaccio, degli aperitivi a Negroni il sabato sera. Non c’è retorica, non c’è polemica, solo tanta buona musica pop. E il titolo rimbomba ancora di più.
La band, nonostante la giovanissima età (sono del 1992 e nel 1992 io collezionavo gli album di figurine Panini da qualche campionato), è già un caposaldo dell’underground sabaudo e dalla vittoria nel 2010 di Pagella Rock per loro è partita una rapidissima scalata verso la punta dell’iceberg. Qui però di iceberg non si vuole parlare, quella era un’altra storia, ben lontana dalle nostre acque e dai nostri tempi. “Concordia” è un disco italiano, ma che puzza tremendamente di umidità post-punk londinese, di controcultura chic berlinese ed è fico come se fosse australiano.
Il sound di “Concordia” è diretto, forsennato e frenetico come il più pazzo sabato sera di festa che non vuole tramontare all’alba di domenica. Veloce come due mojto scolati alla goccia, come i piedi sudatissimi in una pista da ballo lercia di rum per terra, come un limone duro con una studentessa repressa di architettura. Curato nei minimi dettagli da una produzione maestosamente underground: mai troppo pompato o chitarroso, per non scivolare nel clone; insomma quel pelo di distanza che basta per non essere gli Artic Monkeys (li ricordano tantissimo però, più nell’attitudine che nel sound). E poi, piazzato come optional della nave, c’è un mixaggio di alta scuola, il meglio sulla scena: Tommaso Colliva, per altro reduce dalla direzione del capolavoro “Padania” degli Afterhours.
Dall’inizio alla fine “Concordia” è un razzo e i quattro pischelli riescono a governarlo alla grande, trasformando innocenza e spensieratezza nelle loro migliori virtù. Possono permettersi pezzi come “Movin’ Back” e “Bounce”: puro divertimento, stramaledettamente alla moda. Possono permettersi il beat diretto di “Feelings hold on”, che mischia la robotica e insistente ritmica con una melodia che pare saccheggiata a piene mani da Sergio Pizzorno, mentre i suoi Kasabian stanno a guardare a bocca aperta. Possono permettersi il finale svarionante di “I beat the bitch and her bats”, piccola gemma appiccicaticcia, la canzona che non vorresti ascoltare ma che senti tua nell’hang over della domenica mattina.
Un disco così in Italia non era assolutamente necessario, anzi direi che è quasi fine a se stesso, qui questo sound è cool solo se sradicato da band anglosassoni che se raccolgono più di 50 persone smettono di essere cool. Ma il bello è che questi ragazzi fanno ciò che vogliono: il suono è puro, mai sforzato dal vento di mercato. Pare che l’onda li trasporti con sé con incredibile naturalezza. Se in Italia non troveranno la giusta dimensione, speriamo in un loro espatrio e di vantare finalmente i “Lacuna Coil“ dell’elettro-pop. E allora via di sogni di rock’n’roll in club londinesi o addirittura nei fiumi di birra da festival internazionali.
Questa è la nave ed il suo tragitto. Foxhound stessi ci avvertono che però non sa ancora dove salpare, rifilandoci una sfilza di ciò che quest’album non è: non è rock’n’roll, non è inglese, non è dub. E va bene, in mare vale tutto, le regole non esistono, ma prima o poi ci dovrà essere un contatto “terreno”, e cosa capiterà in quel momento? E poi è così vero che in questo mare non si ha rispetto per niente? E’ vero che non ci si guarda intorno e il futuro non spaventa? Forse no, non è vero e forse suona tutto troppo arrogante per l’entusiasmo di essere così sulla cresta dell’onda (l’immagine di onda underground mi sballotta un po’…). Prima di beccarvi uno scoglio e rovinare tutto forse conviene approdare e scendere un pelino a compromessi, che dai cari Foxhound con quelle facce li siete sicuramente bravi a farlo.
Zedded – Zedded
I livornesi Zedded arrivano al loro esordio discografico con un album omonimo pieno di elettricità e punk-hardcore, e anche se l’autoproduzione a cui ricorrono sia sinonimo di buona volontà, si notano – se non limiti tecnici – limiti di “capienza”, che stanno nel voler introdurre troppe derivazioni stilistiche nella tracklist, magari un fil rouge da seguire non dispiacerebbe agli orecchi di chi si presta, ma – come si dice in certi casi – a caval donato non si guarda in bocca – e tanto vale tirare avanti in questo tutto sommato sincero vituperio amplificato.
Con gli Unsane nel cuore sanguinante e gli At The Drive-In nella bile bollente, i nostri apocalittici guerrieri sono il sinonimo di brutalità sonora che è comunque di qualità, specie nell’immediatezza delle composizioni, dirette e frontali, gonfie di quelle vene sclerotiche urgenti che producono riff assassini e urla ossesse, la rabbia, la fretta e l’angoscia di una formula che, se non unica, almeno apprezzabile; sebbene sia un esordio – registrato in analogico ed in presa diretta – per una band che da anni è sulle barricate, il sound che ne esce è un’uppercut dolorosissimo sulla bocchetta dello stomaco, irsuto di quella attitudine provocatoria ed irriverente, al limite della schizofrenia, che è proprio il sostantivo giusto per identificare questa undici tracce a lametta che sorreggono la tracklist, queste rasoiate “worm bloody” che fanno una micidiale combinazione di caos e brivido.
Il quartetto toscano non bada ad auto-celebrazioni, morde, raschia e sventra tutto ciò che si palesa intorno, e lo fa anche con un basso che bofonchia compressatissimo in tutta la durata del lotto, il resto è apoteosi aperta, una guerra dichiarata che da “Komodo”, “Clemency”,”Brownie honey” e “Love twice”, svisa fendenti da renderti la vita dannata; ribadiamo, magari una più coerenza di filo a piombo, ed il futuro di questi panzer indiavolati è assicurato, tanto più che sanno manipolare perfettamente le sonorità dure, più che dure, con una eccellente dose di personalità.
Avanti tutta!
Vetrozero – Temo Solo La Malattia
Questo supporto non è un demo
Questo è il mio disco
È uno sport estremo
Questo è un album pieno di ricordi
Come quello delle foto
Questo disco è suonato da ignoranti ma pensato da poeti
Questo disco le lacrime le spacca non le strappa
Questo disco è diventato un’ossessione
Un motivo di depressione
Uno slancio vitale fatto con sana ambizione
Questo disco vale più di una tesi
Questo disco ha più di 60 mesi
Questo disco ha coinvolto più persone
Questo disco è stato una metamorfosi della mia passione
Questo disco parla di riabilitazione
Parla di un rifiuto che mi ha fatto perdere la testa
Parla di glauco e delle sue gesta
Questo disco non racconta storie ma imprime emozioni
Manca di razionalità
Disegna stati d’umore
Questo disco è la mia vita distillata in pillole
Questo disco è stato dimenticato
Ha accumulato polvere
Questo disco si chiama tenacia perseveranza
Questo disco si chiama faccia tosta di meritare una speranza.
Vetrozero
Tutto troppo facile. Tutto troppo lineare. Che aggiungere alle loro parole? Qualcosa si può. I Vetrozero scelgono la strada più pulita per il successo. Non sempre la preferibile. Formazione classica voce/chitarre/paranoie Glauco Gabrielli, basso Alessio Zeni, Batteria Daniele Bonvecchio (ai quali vanno aggiunti il pianoforte di Jacopo Mazzonelli, il synth, il flicorno di Christian Stanchina e l’extra della voce di Emanuele Lapiana. Scelgono il bianco puro. Scelgono un sound senza esuberanze, senza rumore, senza sperimentazioni, con un cantato in lingua italiana ben esplicitata. Tutto sembra oltremisura perfetto. Poi apri il supporto candido e ti vedi una foto di una famiglia di manichini senza testa in posa da tipica immagine da appendere al muro di casa, con donne e bambini con vestiti biancastri e il primogenito in uniforme. Quell’aria di eccellenza sembra schiacciarsi. Non tutto è come sembra, se si scende nel profondo delle cose, se si scarta la plastica che avvolge persone e situazioni potreste trovare qualcosa di più (bello o brutto). Poi però c’è la musica oltre la poesia. Ma poi ne parliamo. I Vetrozero scelgono un titolo “Temo Solo La Malattia” che sembra una presa di posizione, ben precisa. Ho bisogno di voi, ma in fondo non mi frega un cazzo di voi. Una razionale superbia che sembra quasi un modo per convincersi che qualunque critica non abbia la benché minima importanza. Ma anche una profonda dichiarazione di forza contro le ostilità della vita. Un modo di prendere la realtà senza ansie e preoccupazioni, come adepti di una pseudo personale religione ascetica. Ma poi c’è la musica. Ci vogliono sei anni prima che la band trentina si decida a renderci partecipi delle loro trepidazioni. Questo disco non è un demo ma l’album d’esordio di una band che vede Glauco Gabrielli prendersi gran parte delle responsabilità. È un disco estremo perché punta su una musica talmente semplice, ricamando a voce e parole il ruolo centrale, che il rischio diventa quello di essere ignorati. Se si ascoltano attentamente le definizioni, ci si rende conto di quanto sia confidenziale quest’album, tutto incentrato su ricordi, emozioni, sofferenza, ossessioni, lacrime, poesie, speranze, ambizioni, passioni mutevoli. Troppo riservato probabilmente. Il problema è che la musica non tiene abbastanza il passo. Il fastidio è che i testi non sono abbastanza empatici. Non si riesce a immedesimarsi nei sentimenti di chi canta, non si riesce a emozionarsi con una musica tanto banale. Per capirci parliamo di un Pop-Rock classico, con la voce in primo piano e la batteria che segue a ruota, che manca quasi completamente di accelerazioni tanto che la chitarra finisce per fare da comparsa. S’inizia con “Grisou”, brano figlio del Pop anni novanta italiano. Un platonico brano anni novanta, direi, in stile Raf per intenderci, che segue uno schema troppo preciso per suonare moderno o emozionante. Potremmo rifugiarsi nel testo ma la rogna è che per prima cosa, stiamo parlando di musica e non di letteratura. Seconda cosa…poi ve la dico. Il secondo brano, Biarso, inizia con un ritmo molto più cadenzato, fresco e solare. L’aggiunta del pianoforte serve quantomeno a dare maggiore dinamismo alla musica ed anche il cantato e la melodia risultano più accattivanti.
Il Mostro, scelto come singolo dai Vetrozero, ci dona una più intensa speranza, con un’intro che suona come qualcosa che ti fa sperare che il brano continui cosi fino alla fine. Alla strumentazione classica si aggiungono il synth e soprattutto la potenza dei ragazzi del profondo nord. Alla fine un bel pezzo (anche se ricalca eccessivamente, in alcuni punti (e se devo dirvi quali, chiedete pure) lo stile Subsonica) sul quale forse si poteva anche lavorare con più cura. In Treno Freno si torna su binari più classici. La voce di Glauco passeggia sotto braccio alla chitarra che quasi sembra di ascoltare Riccardo Sinigallia (e questo è un complimento) e il sound diventa sempre più pieno, quasi come Verdena particolarmente sentimentali e intimi, nel cammino verso l’orizzonte. Tralasciando Contagocce, passiamo direttamente a Io + Solo – Vivo. Si parte con un accenno di Folk Rock e poi tutto diventa una specie di citazione volontaria o meno ai Litfiba, sia nell’aspetto musicale, negli assoli di chitarra, che nell’impostazione vocale e nelle parole di pelle sussurrate da Glauco. Soffiando Contro Vento, pezzo centrale di “Temo Solo La Malattia, rappresenta il cuore dell’opera, sia per la sua posizione nella tracklist che per le pulsazioni nervose della linea di basso e sia per il tema particolarmente passionale. Ultra Intro, parte bene come in un accenno Trip-Hop, ma poi si risolve in una melodia molto più rassicurante. Il risultato è comunque interessante perché la musicalità per quanto semplice è molto orecchiabile soprattutto in combutta con il ripetersi ossessivo e delizioso del basso e l’aggiunta eterea del flicorno. La seconda parte del disco diventa molto più spirituale della prima. Emodinamica dilata le atmosfere cosi come Una Pistola Non Dice:- Salve! la carica di elettricità. Solubile (cantata in collaborazione con N.A.N.O., dei C.O.D.) è palesemente una sorta di elegia dell’aspetto lirico. La musica si riduce all’ essenziale ed echeggia dietro la gigantesca presenza vocale. Il disco si chiude con Ninna Nanna. E non è una bugia. Il pezzo è davvero una ninna nanna, parla di sogni e suona di sogni, leggere, le parole di Glauco si sdraiano su note bianche e fluttuanti e vaporose di pianoforte. Che dire. Mi è piaciuto? Non so. La formula proposta è abbastanza lontana dai miei gusti, rispecchia molto stereotipi eccessivamente ripetuti nel mondo della musica italiana. La musica stessa suona come una suppellettile giacché la voce e le parole si prendono tutto il palcoscenico. Dovrebbe esserci maggiore attenzione agli aspetti strumentali o comunque, se vorranno continuare su questa strada, quantomeno migliorare la ricerca melodica. Sono davvero pochi i passaggi degni di nota e non ci sono ritornelli o giri di basso, o melodie che ti s’inchiodano a fondo nel cervello. Quello che traspare è che, da parte dei Vetrozero, c’è tanta voglia di esprimersi, senza paura di sentirsi nudi a mostrare il loro fragile e al contempo prezioso equilibrio sentimentale e interiore. Questo significa che la loro musica trasuda anima e non è poco. Diffido più dei venditori di note che dei sognatori. Il problema è che per essere apprezzati non basta prendere il cuore e gettarlo in pasto ai lupi. Serve altro. Credo Che Glauco, Alessio e Daniele possano fare di più e forse lo sanno. Sanno che arrivati alla curva, a tutta velocità, per essere davvero bravi, essere diversi da tutti, è necessario andare avanti e lanciarsi dal dirupo, magari spalancare le braccia e provare a volare. Non serve svoltare come tutti. Forse ci hanno pensato troppo e questa curva è passata. Ma siamo in montagna. Di curve ce ne saranno tante.
Lowpitch – +bpolare-
Il dj può essere considerato un musicista? Non basterebbe una sera intera per districarsi nelle potenziali risposte a questa domanda e comunque non si arriverebbe a un’unica soluzione. È verosimile che molti puristi dello strumento musicale storcano il naso e neghino assolutamente una vaga parentela tra i due, così come si potrebbe tenere conto che competenza tecnica e gusto estetico, oltre che senso melodico-ritmico, sono alla base anche di una perfetta realizzazione prettamente elettronica. Non è senza dubbio questa la sede per sbrogliare una matassa tanto intricata, ma i Lowpitch, formazione parmense attiva dal 2009, potrebbero tranquillamente farci pensare che la mancanza di strumenti tradizionali non renda meno valido l’apporto umano anche in un contesto in cui sono le macchine a farla da padroni. La band, infatti, è composta Kiara (voce), dj Krash (turntables, loop, synth), Sygo (produzione, programming, chitarra, voce), una combo perfetta per ricreare sonorità prettamente danzerecce, derivate massicciamente dalla dubstep, che si insinuano ogni tanto nelle linee melodiche, il tutto sulla voce femminile, acuta e calda allo stesso tempo. Il trio ha collezionato negli anni parecchie esibizioni, raccogliendo entusiasmi in tutta la penisola e non solo: sotto la spinta di questi consensi hanno aperto una piccola etichetta discografica indipendente, la Fingercross Records, con la quale hanno già realizzato diverse compilation e l’ultimo, nuovissimo Ep, lanciato dal singolo Niente ormai. I Lowpitch, quindi, sembrano promettere bene, anzi, benissimo, ma fin dall’inizio dell’ep promozionale, che apre proprio con Niente ormai, ci si deve rendere conto che qualcosa non funziona. Nella loro originalità, nella ricercatezza di un suono che in Italia vive in una comunità corposa, ma decisamente isolata rispetto al pop e al rock, in un genere, l’elettronica, che ha fatto tantissimi passi oltre il trip hop di cui pure ancora è debitrice, i ragazzi suonano scontati. Banali.
11 tracce che scorrono veloci, piacevolmente, che sono innegabilmente costruite con grande perizia tecnica, ma che purtroppo non lasciano nulla. I testi, dal ritornello ripetitivo, assillante addirittura in certi brani (come in Monkey cerca guai), non hanno profondità di contenuti, né quell’orecchiabilità e quell’immediatezza che ci si aspetterebbe dal genere. Le sonorità sono parecchio disomogenee, talvolta con rimandi che lasciano qualche perplessità, come in Sotto pelle, in cui il tributo alla disco dance anni ’90 sembra scalzare via per un momento il calore, le sincopi e la sinuosità di linee cui la band sembra molto più avvezza e che ritroviamo, per fortuna, in Complice. I rimandi sono parecchi, soprattutto sul piano vocale. Il primo pensiero va a Meg: Kiara la imita così bene che solo la mancanza della flessione dialettale tipica dell’ex vocalist femminile dei 99 Posse, ci rivela che non stiamo ascoltando lei. E i 99 Posse in generale permeano un po’ tutto l’ascolto del disco, sia per il genere a cui è affidato il canto, sia per i ritmi oscillanti, cadenzati della dubstep, con la tipica influenza reggae. L’altra cantante a cui subito pensiamo ascoltando i Lowpitch è Veronica Coassolo, che ricorderete per il duetto con Samuel Romano dei Subsonica in Livido Amniotico: non è un caso, forse, che alcuni spunti dei parmensi richiamino anche le tracce più genuinamente influenzate dalla world music di Subsonica, primo album della band di Torino, come Preso blu o Cose che non ho. I Lowpitch, secondo me, stanno pagando un po’ il pegno di essere emersi dopo il boom di un certo tipo di elettro-dance nostrana: pur volendo sicuramente differenziarsi da quel tipo di composizioni, respirando un’aria più internazionale, non si sono forse resi conto di quanto siano rimasti incollati a quel groove tipico delle produzioni di Casacci e soci, affacciandosi sulla scena con un ritardo di oltre dieci anni. La base è ottima, non resta che trovare una propria interpretazione del potenziale sonoro, fonico e timbrico che tutte quelle macchine offrono, non dimenticandosi, però, che il pubblico è fatto di carne, mente e cuore.
Kreativ In Den Boden – Disco Suicide
In questi tempi bui e sclerotici, tra depressioni di massa e crisi economiche, le otto tracce più la cover dei Chrome “Drown” contenute nel disco “Disco Suicide” dei milanesi Kreativ In Den Boden si potrebbero benissimo candidare a soundtrack, a ricamo sonoro, proprio del momento storico dalle profonde tinte nere e color fango che corre, e se è vero che peso aggiunge peso, per il nichilismo, il pessimismo, la disillusione ed il No-Future declamato e suonato qui dentro, una prepotente “toccata” agli “apparati” è d’uopo e necessaria come l’ossigeno che si respira.
La collocazione ideale del disco sono gli anni Ottanta, la Germania fredda della Neue Deutsche Welle, le comparazioni con Skynny Puppy o Throbbing Gristle e tutto il cosmique elettronico, la cold-wave e tenue tinte industrial, un sound eccentrico che cerca a tutti i costi di risultare “pessimista” e cieco; per quanto il lavoro di produzione sia pregevole, i risultati sono più altalenanti che convincenti e mostrano una band che vuole sperimentare, esplorare, ma che gira su sé stessa, che non trova sbocchi ed impronte sulle quali tagliare un’uscita più che necessaria; paesaggi desolati, animi raggrinziti e sintetici cuori sfasati fanno parte del bagaglio lirico della poetica “negazionista” che i KIDB portano a compimento in questa carrellata refrattaria ad ogni minimo sollecito ottimista.
Un lavoro che calca la mano sull’electro-minimalismo alla Devo “Club”, nei sintetici pulse dance “Electronic warfare”, striscia laconico in paesaggi post-atomici “Like the wave of the sea” e si fa marziale nel salto nel vuoto di “You are still queen”, una possibile hit la potrebbe configurare la tribalità solenne che sbatte in “Happiness brings loneliness”, dopodiché, sebbene plasmato da buoni musicisti, il disco risulta a fine giro troppo dispersivo e soffocante, che non riesce ad emergere dalla pletora dell’attuale scena sovraffollata elettronica.
Aspettiamo la prossima avventura dei nostri, per adesso, gli si può solo concedere qualche ascolto mentre si pensa ad altro.
PS: su con la vita!
Elettrofandango – Achab
Nuova coltellata sonica per i veneti Elettrofandango, “Achab”, sette stilettate che prenotano la Los Angeles a cavallo 70/80 regno della violenza urbana, culla del vaticinio hard-core dei Black Flag e di quell’eterno giovanotto intellettuale e occhialuto chiamato Henry Rollin, dunque la potenza di questo lavoro non sgrana d’un millimetro le aspettative aggressive e giaculatorie di un prodotto “prodotto” per far fibrillare ascolti e nervi al massimo della tensione.
Racconti, incubi, veemenze e pedaliere sconquassate fanno arredamento in questo disco che, nonostante momenti violenti e sostantivi sonici, rimane fruibile e fa emergere una certa dose di personalità sgolata, fervida nelle liriche e avvelenata nell’esecuzione frastagliata; è un disco che si immerge nei flutti marini, dentro voragini e risacche tempestose, mare inteso come chiazza d’acqua dalle proporzioni di una guerra in cui combattere le asperità della vita, dell’esistenza e del moto perpetuo dell’idiozia umana e dell’uomo singolo, insomma del quotidiano come presa diretta di disillusioni.
Dicevamo onde e risacche che urlano e si leccano ferite non rimarginabili, furore e dolcezza urticante che si confrontano da vicino, in una list accentuata da sonorità diverse ma parentali, la tribalità stoner “Antro di Achab”, l’eco post-rock di reminiscenze che riporta lontani ed italianissimi Santo Niente “Nessuno”, il caos tondo che – tra prog e matrici speed – vessa la bella”Denti” o il funesto trombeggiare che “accompagna” in un solingo incedere “Relictual”, praticamente schianti e vuoti d’aria che diventano degni sigilli di garanzia per una band che colpisce e suggestiona al primo giro di giostra, sin dal primo infuocare di jack.
Le deliranti visioni degli Elettrofandango guardano in faccia il dolore, i vuoti a perdere e gli acidi pensieri delle notti fonde, e guai a parlare di incontro con questa cinquina sonora, piuttosto una “bella collisione” con chi del rock ne mette in aria le vene pulsanti; Achab, veramente un disco con i contro cazzi e per questo lunga vita e – è proprio il caso di dirlo – in culo alla balena!