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Nicolas J. Roncea – Old Toys

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Giuro che un giorno imparerò a sognare, a disegnare nuvolette di panna con acquerelli chiari su sfondi scuri.  Non tanto per me, per accontentare gli altri. Un sound che ti avvolge come una coperta nel cuore di una gelida notte di gennaio, anni settanta nelle corde vocali, attitudine country. E’ il secondo disco di Nicolas J. Roncea battezzato Old Toys. Il sorriso viene meno lasciando spazio ad un magone intenso ma allo stesso tempo ben voluto, la stranezza del dolore che qualche volta porta piacere, la genuina semplicità di un disco suonato con il giusto appeal, poco sensuale e molto emotivo. Perché basta una chitarra ad allungare orizzonti, il semplice timbro della voce, qualche effettino elettronico piazzato al posto giusto e qualche onesta collaborazione (Mattia Boschi, Luca Ferrari, Ru Catania, Gigi Giancursi e Carmelo Pipitone) per mettere in piedi un album di tutto rispetto. Poi il talento Nicolas J. Roncea, è ovvio. Vuoi comprare il mio cuore?  Lo vendo al migliore offerente. Trovo analogie con gli esordienti Annie Hall e spero in questa cosa, poi mi strapazza per la testa anche la vissuta chitarrina di Bob Corn e del suo The Watermelon Dream , un susseguirsi di somiglianze vaghe, inutili, invadenti. Old Toys si lascia gustare interamente senza malizia, cantautorato elegante che esce dalla nicchia porgendo la mano verso l’indie pop più sofisticato, l’energia della melodia assale le nostre papille gustative, le atrofizza. La luce inizia ad invadere la stanza.

Io mi lascio investire da questo disco maturo, pronto per gettarsi nella folla senza arrossire, tenendo sempre alta la qualità della musica espressa. Old Toys è un buonissimo disco, Nicolas J. Roncea è un ottimo cantautore dei giorni nostri.

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Neurodeliri – Quello che resta

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 Un disco che tiene fede al 100%  al suo nome, certo, che cosa resta di intero dopo il passaggio tsumamico dei  toscani Neurodeliri con il loro debutto “Quello che resta”? Difficile dirlo, facile constatarlo, basta mettere una mano sui coni stereo e verificare che il punto di fusione del loro catraminico punk.rock è a livelli high, e allora tanto vale raccoglierne le schegge impazzite e ricominciare daccapo a decifrarne il caos fulmicotonato che la tracklist offre come un’ostia sconsacrata di adrenalina e vituperio organizzato.

Punk-rock diremo d’ordinanza, che si allinea alla media alta che sbraita e distorce il suono ma che sotto sotto ha un cervello pensante, non una accolita di sbavanti no-future boys tutti spille, borchie e sputacchiamenti come spurghi antagonisti, ma una di quelle formazioni casinare e impegnate, quell’insieme di suoni a manetta che si ribellano alle merde di una società ladra, che crea fantasmi, solitudini a barre, contradizioni e veleni, un cuore pompante tra jack e flangers sanguigni e mai sanguinari; nove tracce , una piccola insurrezione elettrica in grado di ritagliarsi risultati incredibilmente alti che fanno emergere il quartetto ben al di sopra dell’affollato contesto “nostrano”, uno degno spazio di riconoscibilità dove prevalgono riff a lametta, percussioni a maglio, indignazioni ed ansie di una generazione alle strette, alla morsa di una violenta malinconia.

Magari una leggera monocromia in più della sequenza tirata gioverebbe, ma anche così – stiamo parlando di un esordio – la carica da espellere dal dentro si fa ulteriormente le ossa, e se le fa con l’arma convincente dell’essere in quattro ma un tutt’uno, una forza fisica e fibrillante che non cede un buco nella tessitura sonica, compatta, muraglia di suono che ti sbatte in faccia tutta la repulsione di un sistema marcio, fradicio e da abbattere; chitarre a sfinimento nella titletrack, giochi di corde metal “Niente di più”, “Where we will end up”, la ballatona alla Nicklbeck che chiosa in “Nel vuoto” o lo spirit-core che agita, malmena e scuote “Stop us!”, questi i principali sintomi del malessere che i Neurodeliri mettono alla gogna, senza depistaggi, dentro il loro primo affacciarsi sulla grande platea virtuale, che se in questo disco tanto, nell’atmosfera live dovrebbe prendere letteralmente fuoco.

E ancora quello che resta del loro passaggio è un mucchietto di cenere, amanti del punk-rock okkio, ci sanno fare davvero!       

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In Her Eye – Anywhere Out The World

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Il freddo e una buia città industriale. Verrebbe subito in mente la pioggerellina fastidiosa e costante dei sobborghi polverosi di Manchester. Ma qui tutto ci riporta alla densa nebbia della Val Padana e ai grigi uffici, ornati come templi al dio denaro.
In Her Eye è un gruppo di Milano, di nome e di fatto. Il loro primo full length “Anywhere Out Of The Word” ci riporta in realtà in un mondo molto vicino a noi, anzi a pochi kilometri dalle nostre case e perennemente proposto in tutti i telegiornali. Un mondo triste, debole e noioso, specchio di una realtà dalla fragile spina dorsale.
I tre ragazzi provano faticosamente a trasportarci in posti lontani, utilizzando ossessivamente vecchi trucchetti come voce offuscata e chitarre vetrose ma il risultato rimane molto statico, una timida rassegnazione al freddo della città, matematica alchimia tra Inghilterra new wave anni 80 e America noise anni 90 e non decolla quasi mai. Solo quando la melodia spezza gli schemi, come in “It’s Not A Game To Fall”, sembra intravedersi qualcosa aldilà di questo grigio, uno sputo di luce che trafigge la nebbia.

Il prodotto rimane comunque ben registrato, nonostante qualche imprecisione tecnica ognuno fa il suo buon mestiere da impiegato senza troppi “straordinari“, senza la pericolosità di un rischio che dovrebbe essere invece necessario. A spiccare la chitarra di Stefano, che pare aver studiato meticolosamente le lezioni di The Cure e Sonic Youth per ottenerne sempre un buon frullato omogeneo di onirici arpeggi e prepotenti pennate.
Il disco non ha mordente e passa lento, freddo e macchinoso nelle sue 14 tracce (un po’ troppe?) per poi chiudersi con il magistrale feedback di “Flying Away” che arriva come un lampo che colora le casse dello stereo. Tiepida speranza di rivedere presto la faccia dei tre impiegati più incazzata e pericolosa, anche a costo di rompersi la fragile spina dorsale.

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Disclose – Survive?

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I Disclose tornano a farsi sentire con un disco nuovo di zecca, ovvero “Survive?”. Trattasi di un concept album che mira principalmente ai problemi della nostra società, delle varie difficoltà che va incontro e sui disagi che crea. Molto probabilmente, tenendo conto delle condizioni in cui viviamo nel nostro paese, il concetto di “Sopravvivenza” è più che azzeccato, perché effettivamente per come vanno le cose è quello che stiamo facendo, tra tasse, rincari, cattiva politica e conseguente crisi.

Musicalmente i Disclose sono maturati, è vero che non c’è nulla di innovativo in questo disco ma è comunque suonato bene e con personalità. Il sound dei Disclose oscilla tra l’ Hardcore, il Nu e l’ Heavy Metal, il disco suona forte e predispone di riff possenti e aggressivi; l’ unica pecca è che a lungo andare sembra un po’ ripetitivo, però è garantito che con ascolti più approfonditi si colgono delle chicche non indifferenti. In “Survive?” c’è una buona prova della maturità dei Disclose, la loro tecnica si è affinata diventando più precisa; i Fan di band come Biohazard, Cataract e Black Flag apprezzeranno senza alcun dubbio il lavoro dei Disclose. Anche se non molte melodie sono coinvolgenti, c’è da dire che la band ha saputo giocarsi le carte in tavola. Un ultima osservazione va all’ art work dell’ album in cui rappresenta uno scarafaggio che si presuppone scappi dalla società e dalle sue eventuali trasformazioni. Insomma, “Survive?” è un buon disco di ottima fattura, non bisogna fare altro che prestargli un po’ d’ attenzione.

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Violassenzio – Nel dominio

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Non è vero che tutto il rock armato di spirito psichedelico o – se vogliamo anche includere – con le visionarie attitudini della forma allucinatoria – è uguale, forse lo è nello spirito di chi lo fa, ma c’è sempre visione e visione, e quello dei ferraresi Violassenzio è straordinariamente particolare, ottima perché ha le forze e le credenziali idonee per incontrare favori e gradimenti anche da chi il genere non lo ciancica e tanto meno lo deglutisce.

Nel Dominio” è il secondo work che la formazione veneta ricompone per dialogare elettricamente con il pubblico, quattordici tracce che – a parte la bulimia esponenziale – partoriscono un appagamento  quasi cantautorale e d’udito eccellente, che non si rassegna ad essere solamente un flusso costante di rock amplificato, ma baricentra pure un’ossessione sociale, un malessere che dal profondo dentro sfocia in un’illusione massificata, la spersonalizzazione umana in cambio di un codice a barre che si appunta nello spirito imperfetto di chi da sopra gestisce e omologa pensieri ed espressioni che si vorrebbero in libertà.

Non ci sono punti di fuga, il suono indelebile dei Violassenzio è un approccio forte ad una certa metafisica amplificata che si unisce a filo rosso con il brivido delle pedaliere, struggenze ed esplosioni incandescenti si susseguono come cavalli indomiti in corsa, figlie di quell’impressionistica che trova – scorrendo i brani della copiosa tracklist – la precisione e la determinazione di un disco arrivato per restare a lungo nella scaffalistica underground di smalto; l’onirico grigio topo Kuntziano “Rinchiusi in una scatola”, “Nelle fabbriche”, il pathos agrette di una wave alla NeonAmo chi sogna”, la dolcezza di un ricordo di un lontano BenvegnùCome un risveglio” oppure lo scatto di un orgoglio anfetaminico e liquido che esplode in “E’ un paese per vecchi”.

Un bel disco che non vuole rimanere solo un bel disco, ma una performance a tempo determinato per compattare “il dentro ed il fuori” di una società malsana con l’arte del suono a traiettoria di bengala, per illuminare metamorfosi e cazzoni di potenti nei loro loffi intenti; ma poi arriva “Solo nei sogni” e quello che mancava per riflettere sul repertorio di questa band, arriva come un subbuglio di bellezza che non solo tramortisce il cuore, ma lo spalanca come fosse un sole di mezzanotte, che nelle loro visioni dei Violassenzio esiste anche se noi non lo vogliamo vedere.

Magnetico come pochi e che ci fa dare “i numeri” senza pietà.

 

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Peggio Emilia – Anticittadino

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Se escludiamo dalle mie considerazioni il Proto Punk di band quali New York Dolls, Iggy Pop and the Stooges o quel genio visionario di Jim Carroll (dal cui romanzo autobiografico del 1978, Scott Kalvert ha ricavato il gioiellino Ritorno dal nulla – The Basketball Diaries interpretato da Leonardo Di Caprio) ma anche il punk degli albori, dei Ramones, dei Clash, degli Hüsker Dü, per intenderci, è innegabile che il genere (in parte anche la sua evoluzione Hardcore) possa essere considerato una sorta di eminenza grigia nel panorama musicale mondiale, al quale tanti hanno provato a rubare lo spirito per rivenderlo alle ragazzine in una bella confezione Emo Power Pop a qualità zero e vendite niente male (che volete farci, qualità e successo sono inversamente proporzionali con un crescendo nel tempo preoccupante). Salvo sporadiche eccezioni, penso alle virate Ska dei Nofx con l’innesto di El Hefe o alla commistione della Rock Opera con l’Hardcore Punk dei Fucked Up, per essere più attuali, o ancora ai fenomenali Paolino Paperino Band, per essere un tantino nazionalista, il genere Punk Rock, per la sua staticità musicale (ritmiche, cantato, accordi, giri di basso) e sociale (tematiche (anti) politiche, contro, slogan da centro sociale, un certo qualunquismo idealista realista troppo “reale” per essere credibile), ha sempre finito per essere considerato un genere di nicchia, per molti indegno di troppa considerazione, i cui fan si riducono a un identikit di se stessi, cosi come accade nel mondo (tuttavia molto più variegato) del Metal. I Peggio Emilia non si tirano fuori da quest’idea platonica di Punk, anzi portano all’esasperazione il genere, evitando quasi totalmente ogni possibile variazione sul tema o contaminazione. Batteria, basso, chitarra e voce fanno esattamente quello che ti aspetti, il sound tipico di un gruppo Punk italiano, in stile Punkreas (quelli meno ironici, allegri e più incazzati) o Impossibili (ultimo periodo intendo, quelli di Cani Blu non di Giancarlo mi ha Detto) ma in fondo ricordando un milione di band. Fermo restando, dunque, che musicalmente parlando quest’Anticittadino è in sostanza inutile in termini d’innovazione e crescita, devo ammettere che contiene alcuni spunti interessanti. Per prima cosa, la band, in vita da circa mezzo decennio, e con all’attivo l’album “La Peggio Gioventù” oltre a numerosi Live anche al fianco di Raw Power, Los Fastidios, Thee STP e De Crew e varie partecipazioni a compilation, e soprattutto Gio, il frontman, riesce a proporci un cantato in lingua italiana assolutamente credibile toccando soggetti che, per quanto a volte abusati, non appaiono quasi mai banali. Inoltre, nonostante il discorso possa essere limitato dal genere effettivamente non troppo complesso tecnicamente, l’esecuzione è perfetta e impeccabile, aumentando la credibilità dei Peggio Emilia malgrado le possibili difficoltà ovvie dovute al cambio di chitarrista (Dario per Teo).

Un altro punto a favore è rappresentato dallo spirito della band, che suona vivo anche nella loro capacità di valorizzazione dell’autoproduzione, fatta di diligenza e meticolosità e non di ritocchi digitali. L’ultimo motivo per cui vale la pena di ascoltare Anticittadino (o meglio, comprarlo) è il booklet, una sorta di mini galleria d’arte in cui espongono Akab, Officina Infernale, Ciro Fanelli, Simone Lucciola e Rocco Lombardi, il tutto impaginato da Enrico Coppola e Fabio Moratti. Passando ai temi affrontati, si passa dalle accuse al popolo italiano che vive perennemente nella felicità dell’ignoranza (“Se”), alle critiche alla società occidentale di “Dalla Parte Sbagliata del Mondo”. Ci parlano dell’ipocrisia della percezione di sicurezza sociale nella Noeffexxiana “Vox Populi” ma anche di quella dei tanti mini sfruttatori sessuali dei paesi in difficoltà (“Mal D’ Africa”, uno dei pezzi migliori e quello in cui più evidente è la somiglianza con i Paolino Paperino). Dei “Nuovi Schiavi” che facciamo finta di non vedere e di tanto altro. Ci sono un bel po’ di motivi dunque per dare importanza al genere. Se siete dei Punk dentro Anticittadino vi piacerà ben più del voto scritto sopra (lasciate stare il voto, potrebbe essere più alto o più basso, senza problemi). Altrimenti, ascoltatelo comunque, perché qualcosa che vi piacerà lo troverete di sicuro.

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Ruben – Il lavoro più duro

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Onestamente non avendo seguito molto – per niente – da vicino le uscite discografiche precedenti del cantautore veronese Ruben, mi è più facile – senza andare a cercare a ritroso – soffermarmi e capire l’evoluzione di quest’ultimo suo lavoro discografico “Il lavoro più duro”, e l’impegno promesso ad un ascolto distaccato, si fa invece attento e interessato, propenso a venire a capo di queste bellissime quattordici tracce che ospitano in ognuna di esse un personaggio, un modo di pensare e vivere tra il trasognato ed il reale, un colorato set di ritmi e stili che mutano e scandiscono una tracklist coinvolgente.

Tutto gira intorno “al lavoro”. estasi e tormento dell’uomo di sempre, carico delle sue noie asfittiche e delle sue illusioni ad ombrello, storie e fisionomie ciondolano qua e la in un’anagrafe Calvinica che si fa teatro cantautorale e story teller di poetica sfigata e dolce che si mischia in un’estetica straordinaria dove Ruben appare e scompare come un crooner urbano che tratteggia sensazioni ed emozioni più che marcate; non una di quelle solite associazioni d’idee che restringono il cantautorato a fattore di pesantezza o, quando va bene, di paranoia, ma un nutrito pugno di canzoni che divertono, relazionano e si fanno cromatismo vivace tra l’orecchiabilità indie e l’esuberanza di un’artista che si mette anche in gioco con una buona dose di pop, e le previsioni sono più che ottime.

Bennato, De Andrè, Rino Gaetano, De Gregari, sono gli eroi che attraversano questo concept niente male, dove l’ìmportanza del “messaggio” ha un preciso colore lirico, spezzoni, frammenti di vita che si fanno riconoscere in un mediocre killer chiamato Carletto “Killer (un assassino a pagamento)”, in un prete in crisi d’identità “Prega per me (un prete)”, il tex-mex che corre dietro all’avvocato mistificatore “Vinceremo (un avvocato)”, la ballata folk di un sindacalista “confuso” tra impegno e donne in fermento “Primo Maggio (un sindacalista)” o il rock’n’roll del camionista Macho On The RoadMammolo (un camionista)” e chi più ne ha più ne metta, un disco da vivere con la sincera sfacciataggine delle imperfezioni naif, quelle piene d’ironia e acido muriatico soft.

Pierfrancesco Coppolella Ruben, qui con i musicisti Carmelo Leotta e Michele Gazich, declama il lavoro come un festeggiamento della particolarità umana, ci riesce e ne fa un quadretto sonoro entusiasmante che si consiglia a tutti, anche a chi – purtroppo – un lavoro non lo possiede o non lo cerca. 

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Newdress – Legami di luce

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La dissolvenza wave dei Newdress approda al secondo attesissimo album, “Legami di luce”,  forti delle buone reazioni di pubblico e delle compassate atmosfere che il trio – senza spericolarsi in strategie programmatiche o sperimentali – seguitano a mantenere costantemente al freddo/caldo di una mistura pop- elettronica tutto sommata di buon calco.

Ovviamente nulla di nuovo sotto il sole, ma un disco, un’ottima ordinarietà che si presta all’ascolto, che scorre gradevolmente in una radiofonicità retrò che frequenta territori lontani di Manic Street Preachers, Depeche Mode e stanze contemporanee indie-romantic alla Editors con retrobottega sui vicoli della Firenze on the wave 90,s, Moda e Neon su tutto;  dieci tracce che rinverdiscono stagioni mai azzittite e che hanno ancora viva quella contagiosa uggiosità ballabile di notti cotonate e con le spalline gonfie “Assorta”, poi dalle rime Prèvertiane nasce “Bisogna passare il tempo” che vede la partecipazione di Andy Fluon dei Bluvertigo in un blitz di sax magnifico e Lele Battista con la voce, “Calore di fiamma”, o di quei pomeriggi nebbiosi passati a filtrare sguardi attraverso vetrine appannate da umidità e sogni storti “Al tatto nel buio”, “Splendi”, il tutto in una risonanza malinconica e pensierosa, bella nel tratteggio amaro lucente nel trasporto elettronico che dinamicizza l’intero registrato, l’intero pathos pieno di significati in penombra.

Il trio bresciano dei Newdress registra il disco in analogico e viaggia sicuro nell’impeccabilità di suoni, ricordi ed echi spleen che non si limitano a descrivere cartoline sonore color seppia, ma esternano – pur non spostando/apportando nulla di nulla sulla scena musicale –   la loro natura sognante, onirica, interiore ed eclettica ai favori di una classe stilistica egregia ed elegante, magari un po’ in ritardo sul tempo massimo, ma fiera di esserci ancora e,  cosa di non poco conto, che ancora fa la sua porca figura se tirata con il loud  a palla.

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Esquelito – Banananas

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Nome, titolo dell’album e copertina sono fondamentali.
Il biglietto da visita dell’artista, ma soprattutto la ragnatela che attrae la preda, perché anche l’occhio vuole la sua parte, anche quando si parla di qualcosa da sentire.
Ecco.
Non me ne vogliano gli Esquelito, ma ho impiegato parecchio tempo a convincermi ad ascoltare le loro cinque tracce nonostante le premesse visive non fossero promettenti (cosa starebbe a indicare questo cactus con la faccia di scheletro in copertina che suona la chitarra con davanti la celebre banana di Warhol e dei Velvet Underground? L’accozzaglia di riferimenti non mi faceva ben sperare) e soprattutto nonostante l’insieme desse l’impressione di un genere completamente diverso da ciò che in realtà il quintetto lucano propone.

Sembrava il progetto grafico, insomma, di un demo dell’ennesima band folk rock o reggae, che punta tutto sull’autoironia, ma che proprio non mi andava di ascoltare in quel momento.
E invece, per fortuna, mi sono decisa.
Un sample veramente ben registrato dal punto di vista del missaggio e del mastering, lavoro finemente realizzato dal team del Krikka Studio, ma soprattutto finalmente un demo che riesca a presentare la gamma di possibilità esplorate dagli artisti in questione senza mancare di omogeneità e compatezza: il tutto si apre con All the kids, dalle sfumature punk alleggerite dalle chitarre pulite in levare; Banananas è la traccia più particolare del cd: contiene tutto il possibile e immaginabile, da piccoli riff chitarristi, sempre diversi, brevi, schietti, a un suadente giro di basso e un cantato quasi blues nella strofa e incredibilmente pop nel ritornello, con quel “Take me back to the country” sostenuto dalle tastiere che a me ha ricordato tanto i Blur.
Rimandi un po’ pulp e un bel dialogo a brevi frammenti melodico-ritmici di basso e batteria, sono il fondamento di Chappolines, col suo testo ridotto all’osso e cantato sia da Riccardo Puntillo (voce e batteria), sia da tutta la band. Gli Esquelito infatti si distinguono proprio per questa cura delle sonorità vocali, che vanno a ispessire liriche che sovente, per la loro semplicità e brevità, rischierebbero di annoiare e risultare superficiali.

Autoironica, divertente e danzereccia è Never get out of pop: batteria in sedicesimi e aperture dinamiche piano-forte un po’ banali ma realizzate con parecchia cura. È la traccia più orecchiabile della mini raccolta, con il suo sound un po’ indie, tanto nella melodia quanto nel ritmo (Franz Ferdinand, Arctic Monkeys e un po’ Interpol per quanto riguarda la voce).
Con l’ultima traccia, effettivamente, arriva anche il folk rock: Esquelito è un inno alla libertà, alla giovinezza, alla musica (“I wanna play all day”) con tanto di cori ironicamente solenni (cantano una sillaba non-sense).
E speriamo che questi ragazzi suonino davvero a lungo perché se i risultati sono questi, hanno intrapreso la strada giusta.

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Mud – Violence against Violence

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Già dal titolo “Violence against Violence” si capisce che siamo di fronte a un disco che è un puro distillato di violenza sonora capace di deliziare gli amanti del genere hardcore.
Il primo full lenght dei Mud è davvero un capolavoro intriso di suoni aggressivi, chitarre graffianti e un cantato davvero perfetto.
Dopo la brevissima title track della durata di neanche 30 secondi, l’atmosfera inizia a diventare sempre più dura e pesante senza deludere mai l’ascoltatore.
La matrice è quella di un hardcore new school ma qualche piccolo riferimento ai gruppi della vecchia scuola è presente ogni tanto qua e là…

La NYHC è onnipresente, con i suoi stacchi che da sempre la caratterizzano ed  i tempi moshpit stile Terror o Hatebreed.
Tante le influenze e i riferimenti insomma, ma di certo per arrivare a tali livelli questi ragazzi ne hanno dovuta fare molta di strada e consideriamo anche il fatto che il disco è totalmente autoprodotto in pieno stile do it yourself nonostante la formazione abbia subito negli anni diversi cambi di lineup.
Tante anche le esperienze live maturate dal gruppo anche in supporto di bands affermate quali Browbeat, Sawthis, Straight Opposition, Raw Power, Entombed e Concrete Block.
Sicuramente siamo di fronte a un disco che a livello sonoro suona perfetto in studio, ma di certo live il suo impatto potrà essere anche maggiore, c’è da scommetterci!
Come c’è da puntare tutto anche sul fatto che questo lavoro piacerà e non deluderà anche chi è andato avanti finora a pane e Slayer.
In “Full of hate” ospite Andrea dei Vibratacore, gruppo proveniente dalla stessa regione che si sta muovendo sullo stesso versante sonoro.
C’è anche spazio per qualche citazione cinematografica con estratti dai film “Angeli Con La Faccia Sporca” (1938) e “Il Grande Lebowski” (1998).
Insomma dopo il demo del 2006 e l’ep del 2009 i Mud hanno superato a pieni voti la prova della maturità, anche se sono sicuro che quando pubblicheranno un nuovo lavoro sapranno stupirmi ancora di più!

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Afterhours – Padania

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Xavier è “rientrato nel gruppo”, la Lega si sta sfaldando sotto la mazzata della Family del Bossi Ladrone e la Padania degli Afterhours urla forte il suo concentrato di rabbia e splendore; la musica va in malora, i dischi non si vendono più, e il downloading non può sostituire i dischi, o meglio gli album. Quello che si carica sono solo canzoni e degli album non gliene frega più niente a nessuno, e quei pochi che escono sono additati di essere solo prodotti da vendere, merce di scambio tra scaglionamenti e ore da passare con qualcosa pur di farle passare, ma i nostri milanesi se ne fregano altamente di stare dietro alle metriche di giudizio e sdoganano un disco straordinariamente “oltraggioso”, oltre i limiti e ancor più in la della sperimentazione delle parole e della sonorizzazione, un disco che non affonda su residue speranze di redenzione ma che affonda il coltello sonico su cazzate e manfrine con la pazzia dell’intelligenza.

Disco di esplosioni, spettri urlanti, clangori, vesciche aperte ed echi squadrati di Area e Demetrio Stratos Metamorfosi e rumori che prendono gola e bocchetta dello stomaco come un pugno dato all’improvviso tra malessere e delirio esistenziale; si lo sperimentare un qualcosa che non si lasci irretire dalle grinfie del consueto è forza di maggioranza in questa tracklist veemente, una forza strana e straniante che pulsa come una carotide al limite dell’ingrossamento e accarezza con tenerezza come una mano incallita che imbraccia una chitarra acustica e comincia a spennarla con gli occhi lucidi di amarezza “Padania”, una forza tracimante nella voce di Manuel Agnelli che agita l’illusione elettrica dell’incredibilità che nulla potrà essere più come era prima “La tempesta”.        

Traendo ispirazione dalla degradazione in un certo modo etico-sociale, il disco si colora di tinte fosche, poche concessioni alle feste elettriche, ma una considerazione rarefatta e pregevole che si rivolta dentro, scruta e s’incazza per questo mondo fragile come un uovo e cretino come una esternazione del Trota, noise e squarciagola che ti si conficcano sullo sterno come una maledizione di dignità, pazzoide il giusto “Fosforo e blù”, “Spreca una vita”, spontaneità e genuinità in un misto di sclerosi amorale “Giu nei tuoi occhi” , i bimbi che gridano tra un casino alla NINIo so chi sono” e la presa istantanea di brani come la ballata increspata “La terra promessa si scioglie di colpo”, una intensità di pianoforte e tensione in sottofondo che torna a sottolineare il profondo prurito di culo che gli Afterhours soffrono nel vedere la fine – o se non proprio fine la vicinanza – di questa bella nostra terra a rasente del baratro, e  che secondo stime e spergiuri, di futuro non ne ha molto di riserva.

Stupendo disco,  una necessaria iniezione di adrenalina per combattere il declino della nostra/vostra/loro quotidianità.

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Soundtrack Of A Summer – Holes

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Gli elettrici novanta a stelle e strisce ricostituiti per l’occasione in questo “Holes”,  tosto “inizio carriera” dei  parmensi Soundtrack Of A Summer, convincono dalle prime battute di pedaliere, ancora una volta un debutto che non si attacca alle decadenze creative o ai fiatoni inconcludenti di tanti emuli di divinità bolse, ma che si affaccia nell’irresistibile e destrutturata emancipazione di un sound che senza fantasticare artificiosità amperiche va sul sicuro, verso le dolorose istantanee soniche che hanno rigato, graffiato e lacerato la pelle di chi non ha mai abbandonato l’ascolto autoreferenziale del pop damerino e “bamboccione”.

Dodici takes che invadono lo stereo come una compagine hi-fi battagliera e dolciastra, punto di fusione tra emo-rock, rappresaglie rock e schizzi punk che una volta “incollati insieme” conferiscono un ascolto carico, energetico e pieno di gioventù testosteronica da ogni prospettiva; Sense Field, Seven Storey, Christie Front Drive con retrogusti di Sunny Day Real Estate e Jimmy Eat World, sono le anime ispirative di quest’ottima band che non lesina – anzi – rinvigorisce pure atmosfere indie finalmente denudate dal castrante power-pop che molti colleghi alle prime armi iniettano come glucosio appiccicoso d’eterna giovinezza, e questo è ulteriore punteggio per questo quartetto adrenalinico e dagli attributi cubitali.

I quattro  – impareggiabili nel contesto d’insieme – mettono in riga brani irresistibili che aggiungono anche lievi frammenti poesia tra le architetture mai ferme, mai calme, mai appesantite, uno scorrere vorticoso d’elettricità e melodia di qualità che orecchie svezzate ne faranno incetta come una riserva da accumulare per momenti di magra; e nulla si può fare per arginare l’epicità sgolata “Colors missing”, “Setting Forth”, i patterns ferratissimi e accorati “Light”, l’agra scorreria di chitarre sciolte alla Jejune “Goodnight lovers”, “The hardest thing – Fiesta red”, o fermare il rilascio senza peso che “Late in June” annuncia come un comandamento laico a pogare, scotto sacrificale beatamente da patire con la benedizione dei Fugazi.

Gran debutto da gustare al volo.

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