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Lou Seriol – Maquina Enfernala

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I Lou Seriol vivono musicalmente in tre mondi paralleli ed equidistanti, le vallate e le arie fini Occitane, i ritmi in levare –  et similia – del sol carribean e le nevrosi scalmanate punkyes, una miscela “domiciliata” in un’esplosiva e danzereccia vertigo che a fatica si contiene nelle tredici tracce di “Maquina Enfernala”, tracce che una volta innescate nello stereo danno vita ad un bel minutaggio d’energia, poetica folk e ricordi con magone incluso.

Disco contaminatissimo, continuità del cantos popolare di denuncia, emozioni e umanità civile messi a contrasto con i tempi in battere a levare, la sfida e la stimolazione a far sì che la classica dimensione di “festa popolare” odorasse di nuove espressività, praticamente un album “free style” che si fa ascoltare e riascoltare a 360 gradi e che si riprende l’emancipazione delle sponde roots; suoni lontani e vicini si amano e confondono in altrettanti linguaggi sonori, ma soprattutto suoni e pensieri che recuperano una posizione d’umanità, quel “verso” gli altri che, canzone nella canzone, sigla un “contratto stupendo virtuale ed indissolubile”  tra la band e l’ascoltatore.

Forti anche di una dimensione live di tutto rispetto, i Lou Seriol originalizzano  la loro generazione prendendo altre strade dai loro colleghi come Lou Dalfin, Gai Saber, Lhi Sonaires per citarne alcuni di questa sconfinata galassia, e questo loro nuovo lavoro discografico si potrebbe definire una caliente Pachamama che – oltre a fare strage di sali minerali  – tracima una baldanzosa sensazione reale di “festa mobile” armata di votz, flutas, bohas, bateria, semiton per fare guerra alla noia e all’inerzia di tantissime teste vuote oramai incollate all’I-Pod; bellissima la milonga sexual-dub di “Derivas”, il ritmo barricadero che difende la titletrack, la prestanza festaiola che sciorina “Anna Belle”, fumante il reggae-dub di “Coma pors suls peiras”, la tradizione che s’insinua tra i tasti di una fisarmonica “Paisans” ed il walzerone corale e triste che chiude il lotto “Vutur”,  traccia che chiude momentaneamente il sipario su questa ottima formazione che adotta l’innovazione e la fonde con il passato per  “parlare giovane” a chi si avvicina a questa coscienza sonica di gruppo.

Frutto di una bella mentalità messa in musica, Maquina Enfernala è quello che ci vuole  – proprio in questi tempi – per riagganciare e prendere posizioni ed il recupero di una certa e “diffusa” identità.
Dieci e lode.   

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Twoas4 – Audrey In Pain English

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C’era una volta, in un futuro impreciso inerte sabato d’Aprile, un ragazzo troppo infelice per quanto giovane che giocava solo a girovagare nel nulla. Il suo fuoco ardeva freddo, come la sua vita, come l’amicizia stanca dei suoi compagni di scuola, come il cuore umido della gente che sanguina nelle arterie del suo paesino morente. Sognando e volando sotto la pioggia, vide una vecchia casa incustodita e vi trovò rifugio. La porta solo socchiusa nascondeva pareti bianche di roccia levigata che sembrava respirassero a ogni suo passo. Non c’era nessuno, oltre a lui, ma sentiva i loro sospiri. Come in un film di fine anni ottanta, si precipitò in cantina alla ricerca d’un improbabile avventura e si ritrovò sommerso da scatoloni pieni di polvere, ragnatele, ratti morti, dipinti orrendi e un cofanetto che sembrava brillare. Col cuore colmo di pulsante curiosità e inquietudine, lo aprì e dentro trovo uno spesso cartoncino in bianco e nero, con un nome, Audrey, ad accarezzare la schiena di una donna di spalle in uno slip grigio che avrebbe dovuto essere rosso. Sopra le natiche, una strana sigla, Twoas4, e più su “In Pain English”. Chi è Audrey? Qual è il suo volto? Girò il cartoncino e lesse un elenco di dieci parole in grassetto intervallate da altre simili. Tutte in inglese, tranne che al punto numero cinque dove lesse “Le Nuvole di Quinz”. Non riusciva a capire ma alla fine c’era “qualcosa che, per esempio, di solito chiamiamo amore”. Totalmente in balia della sua fantasia, continuò a rovistare e pescò delle foto sempre senza colore. Un ragazzo con una chitarra, un altro con una batteria e due ragazze, di cui una, che giocherella col suo cellulare, gli sembrò abbastanza triste da somigliargli. Avrebbe voluto parlarle. Quel è il suo nome? Quindi prese in mano un lungo collage di disegni divisi imperfettamente come fotogrammi di una surreale pellicola anni trenta. Volti e parole danzano su note scure come la notte. In fondo allo scrigno, c’era un libretto spesso, con in copertina due donne di spalle e dietro, l’ombra di un uomo. Dentro trovò un breve racconto. Forse la storia della nascita di quelle dieci frasi in grassetto, narrata senza parlare di quelle parole ma parlando con quello che quelle parole significano per i ragazzi delle foto. Prima di svanire come uno spettro, il giovane si chiese un’ultima volta “Chi sono (io? loro?)? Chi è Audrey?Poi più nulla se nulla è musica.

Ora vi chiederete perché abbia deciso di parlarvi del contenitore e di quello che ha suscitato in me più che del contenuto. I motivi sono diversi. Per prima cosa, leggendo le parole di Alan e Oscar, ho voluto ricalcarne lo spirito e quindi non seguire una precisa linea e struttura convenzionale anche da un punto di vista redattoriale, puntando più sull’aspetto astratto che su quello critico. Secondo, ho trovato veramente nel packaging di “Audrey In Pain English”, quella magia che, di rado, si trova nei prodotti (scusatemi per il termine da mercante) delle band emergenti che spesso hanno anche pochi mezzi economici a disposizione. Ti permette di capire perché i dischi, per quanto possibile, vadano acquistati o rubati e non masterizzati. Per ultimo, devo ammettere, che la sostanza della forma è risultata notevolmente la parte più interessante del disco, o, quantomeno, ha creato un’attesa non totalmente ripagata, mentre i brani, nel complesso hanno finito col deludermi. Detto questo, per chi vuole, di seguito, alcune informazioni e considerazioni sulla band e sul disco sono comunque obbligatorie.

I Twoas4, nati nel 2008 a Grosseto, sono Oscar Corsetti (voce, chitarra, basso) e Alan Massimiliano Schiaritti (batteria e tastiere). Nel disco, registrato con riprese “live”, voci comprese, nella Sala Musicale del Primo Circolo di Grosseto e in seguito affidate per il mixaggio e la coproduzione a Paolo Mauri (Afterhours, Massimo Volume e Le Luci della Centrale Elettrica), troviamo inoltre la collaborazione di Christina Lubrani (voce sulla traccia 7), Luminita Ilie (voce parlata ai nei pezzi 1,3,5,6,8,9,10) e Paolo Mauri (basso nei brani 2,3,4,6,7,9). Questo “Audrey in Pain English” è il loro primo lavoro e si propone come un misto di Neo Gaze, Dark, Noise Rock, Gothic, Post Punk e Alternative Rock tutto interpretato in chiave Pop. Nel disco le diverse strutture dei pezzi in sovrapposizione tra loro e con la voce e le parole cantate o urlate in un italiano anomalo o un inglese altrettanto irriconoscibile (tutto questo non possiamo sapere se realmente voluto a meno che non si prendano per buone le loro parole), si mescolano senza un legame formale riuscendo però a mantenere intatta la portata melodica dei pezzi e quindi non mettendo mai in risalto gli aspetti rumoristi o sperimentali sulla forma più classica della musica. Se da un lato questo permette ai Twoas4 di fare del ritmo e della melodia il punto di forza della loro musica, nello stesso tempo ne limitano la complessità e la particolarità. L’aspetto sonoro si riduce a niente di superlativo, lasciando piuttosto alle corde vocali di Christina e Luminita il compito di superare il muro di banalità in cui si rischia di sbattere (anche se il loro resta un ruolo marginale). Alla fine, il disco si divide perfettamente a metà, tra alti (cito il pezzo preferito, “Last End”, con i suoi feedback, le sue schitarrate psichedeliche alla Rallizes Dénudés, la sua potenza) e bassi (la Baustelliana “Light One”).  Le parti più interessanti sono sicuramente quelle in cui la foggia Neo Gaze, Noise e Gothic è dilatata è messa in risalto, mentre non convince la voce di Oscar Corsetti, nel timbro come nell’intonazione. È il primo passo per la band Twoas4. Resta da capire cosa tenere e cosa mettere da parte per un futuro migliore.

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Artificial Wish – Subconscious

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L’ attesissimo disco d’ esordio degli Artificial Wish si intitola “Subconscious” e detto francamente, il lavoro ha colpito l’ autore di questa recensione. Cominciamo a dire che il gruppo nasce nel 2006 da un iniziativa del chitarrista Michele, dal bassista Gianluca che però lascia la band dopo tre anni e infine dal batterista Riccardo. Come accennavo prima, “Subconscious” ha avuto un certo effetto verso di me, positivo per un certo aspetto, perché ascoltando il disco ho avuto come l’ impressione che la band abbia delle doti nascoste e probabilmente dando più attenzioni il loro lavoro è proprio cosi.

A primo impatto “Subconscious” può sembrare un album di Melodic Death Metal miscelato all’ Hardcore: ci sono riff aggressivi e atmosferiche melodie che a volte oscillano sull’ elettronica, un po’ alla Sadist per dirla tutta. “Subconscious” è una discreta uscita che la Nadir Music compie, il nuovo acquisto, gli Artificial Wish appunto, è piuttosto promettente, i ragazzi hanno le carte in regola per sbalordire il pubblico italiano e lo dimostrano tracce come “Spin”, “My Clay’s World”, “Infected Tough” ed “Halo”. Simpatico anche l’ art work del disco, ricorda molto le locandine di uno dei film de “I racconti della Cripta”, diciamo non troppo impressionabili. “Subconscious” è un disco d’ esordio che merita almeno un ascolto, il gruppo ha lavorato bene e qua e là ci ha aggiunto anche un pizzico di personalità, che almeno personalmente, in questi ultimi tempi, in questo specifico genere poco ho sentito. Non posso fare altro che augurare agli Artificial Wish un buon continuo di carriera.

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Nicolò Carnesi – Gli Eroi non escono il Sabato

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Se scappi potrai trovare di meglio oppure soffrire in eterno, se resti non hai mai capito un cazzo della vita. Vorrei scappare ma non posso.

Nicolò Carnesi decide di prendere per il culo la musica italiana, freddo cantante con il sorriso beffardo di chi sa dove andare a colpire, il suo fendente affonda sempre nel punto esatto, un colpo da maestro. Perché il suo album Gli Eroi non escono il Sabato (arriva dopo un singolo e un ep) non garantisce mai stabilità emotiva, il sound  introverso  spezza l’equilibrio tra dover essere cortesi e diventare giustamente stronzi. Forsennato nei ritmi modernizzati da cantautore degli anni zero, venditore sperimentale di gioia e dolore, la rivoluzione la lasciamo fare a chi ormai non ha più niente a cui pensare, a chi prega per un mondo maledettamente migliore. Per noi è già tanto farsi sentire almeno una volta nella vita. Undici canzoni diverse tra loro, vorrebbe pietrificare tutto in Medusa sospinto da un energica voglia di scappare lontano per poi non tornare più. Poi veste il cuore di sentimento in Forma Mentis, cerchiamo uno spazio e facciamolo nostro, nessuno deve vedere cosa siamo in grado di sognare io e te. La musicalità prende una posizione importante, le note devono appartenere alle parole e Carnesi decide come un arbitro severo le sorti della partita.

Ci vedo dentro la vena irriverente e presuntuosamente bella di Ivan Graziani, ne sono certo, dal primo accenno di chitarra Ivan è tornato vivo, e non è roba da poco. Nicolò Carnesi travolge tutto quello dinanzi a se, impatto immediato per uno dei migliori cantautori dei nostri tempi, Brunori trema, suda freddo, teme il confronto. E’ arrivato quello che tutti noi volevamo? Abbiamo di certo bisogno di un Kinder cereali all’amianto. Sicuramente, ma preferisco la sua voce ondeggiare sulle note di un lento e incisivo piano in Penelope, Spara!, le corde metalliche della chitarra fanno sanguinare e non poco le mie mani. Io mi lascio violentare dai sogni, ne ho avuto il coraggio e adesso pago il conto. Gli Eroi non escono il Sabato imprime lacrime di felicità su una situazione troppo amara da ingoiare, Carnesi canta la vita come dovrebbe essere cantata senza fronzolini stupidi e superflui. Siamo grandi e grossi per capire che Nicolò Carnesi ha grande talento e canzoni per tutti quelli che le sappiamo apprezzare, è presto per santificarlo ma il disco è una bomba.

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La Macabra Moka – Espresso

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Ha appena compiuto un anno il demo di 5 tracce de La Macabra Moka, quartetto cuneese attivo dal 2010 sulla scena musicale piemontese, tra date nei locali e partecipazione a concorsi per band emergenti.
Ed è proprio durante l’ultima edizione del contest Torino Sotterranea che mi era capitato di incontrarli.
Modesti, affabili e potenti.
Tre qualità veramente stimabili, che riescono ad emergere perfettamente anche dalla registrazione: un autoreferenziale e autoironico suono di caffè che sale dalla moka e alé, si comincia: Mokka Cuka è una brevissima polemica sulla nostra Italia (“lo stato corre in auto blu/ se guardi Mattino5 gradisci tette più che mai/sostieni i grandi evasori”), ritmo serrato, distorsioni piene e calde, tanto hardcore e rimandi folk.

Senza soluzione di continuità la polemica diventa rabbia in Sistema di una moka, altra traccia tiratissima, altro rimando folk, con tanto di chitarra ska sotto il riff aggressivo della chitarra.
Fin qui sembrano i Gogol Bordello versione nostrana.
Ossessione Crociata inizia su questa stessa linea, ma gode di uno splendido cambio di tempo (velocissimo-lento-velocissimo), con tanto di marcia e il cantato che da grind si fa melodico, espediente che viene usato anche in E’ come quando ci guardi dentro, quasi quattro minuti in cui la band sembra lanciare -ma mai a caso- un po’ tutto quello che li ha ispirati. Ci sono i Gogol Bordello ed Emir Kusturica, ma anche i Faith No More e i System of a down. Come se non bastassero queste influenze, tanto per non farci mancare nulla, Elettrostimolante si arricchisce di una chitarra a tratti funky e a tratti hard rock anni ’70. La rabbia è diventata disgusto per una situazione socio-politica a cui si può reagire solo con acida ironia (la voce in falsetto nel bridge, ad esempio) o con repulsione (la frase “io non mi piego” urlata su schitarrate pesanti e aperte, mentre la batteria non solo cresce ma addirittura accellera).

Il genere a me onestamente non fa impazzire, soprattutto perché il cantato così urlato, così rauco, così di gola fa perdere tantissimo il senso del testo, ma ci sono due caratteri importanti di questo progetto che secondo me sono lodevoli: intanto c’è da dire che se la polemica sulla nostra penisola è diventato il punto fermo di un sacco di gruppi post o alternative rock italiani, tanto da farlo diventare quasi un marchio di fabbrica, questi lo fanno con un certo immancabile retrogusto cantautorale (e mi riferisco a formazioni di tutto pregio come il Teatro degli Orrori, gli Zen Circus, i Ministri), ma La Macabra Moka, almeno, prova a distinguersi per sonorità e richiami musicali.
In secondo luogo questi ragazzi sono davvero bravi a suonare e hanno gusto nelle scelte estetiche: non è facile giostrarsi con una così vasta quantità di riferimenti che spaziano dall’hard rock all’hardcore, dal punk allo ska, eppure il risultato è compatto, omogeneo e piuttosto personale.
La strada intrapresa è quella giusta, speriamo continuino così.

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Werner – Oil tries to be water

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L’arte è un puzzle di geometrie e colori e la musica- nel suo specifico – ne rappresenta la parte armonica e poliedrica, la pelle, il graffito prospettico e contemporaneo da considerare come mappa cerebrale e curatrice per ogni vicissitudine. L’arte dei Werner è quella dalla parte diabolica della bellezza, quel frastuono soffice di walzerini e ballate impercettibili, chitarre, celli, piano e voci per un trio all’esordio discografico, “Oil tries to be water”, dieci tracce “progettate” per svolgere una determinata funzione, vale a dire innalzare la grazia stimolatrice come fondamentale “mente dissociata” dall’indefinito e lercio commercio musicale sottostante.

Stefano Venturini chitarra e voce (Ka mate Ka ora), Elettra Capecchi piano e Alessia Castellano cello e voce, sono gli artefici di quest’opera raffinata e solitaria, piena di quelle atmosfere autunnali che riscaldano tra memorie e ricordi di qualcosa di andato, lontano, folk sospirato, soave, ballate metafisiche sul filo da equilibrista e fumigazioni pop d’elevata caratura, una tracklist lavorata a cesello, preziosa come una tramatura sartoriale d’altri tempi; leggero come un velo vissuto avanza il disincanto folk “Valzer for Annie”, l’aria fine e in salita degli AppalachiHomesleeping”, “Blue sea of runa”, il respiro aperto e guardingo di un Daniel JohnstonBrown eyes”,  ed è molto difficile ancorarsi a qualcosa che ti impedisca di salire in alto insieme ai vortici sensibili che questa musica porta in dote, questi refoli elettrici che riportano nelle loro risacche echi dell’Islanda degli SloblowErik” ed i mondi vicini al songwriting lo-fi americano “The dawning”.

La magia di questo album è – o è anche quello – di avere uno stile ben definito, quell’idea di packaging interiore che si abbellisce ad ogni giro di giostra, un’armonizzazione estesa che va a filo di piombo con – ovviamente – palati fini; a questo punto , per capire chi veramente sono i Werner, è indispensabile oltre alla visione di un film tipo “Dove sognano le formiche verdi” di Herzog, un salto alla loro prossima data dal vivo, ed un mondo vi si aprirà negli occhi e negli orecchi.

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Modena City Ramblers – Battaglione Alleato (Musiche e canzoni per una storia della resistenza)

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Fate quello che volete, ma ad ogni uscita dei MCR – a tutti quelli (me compreso) che hanno sentimento e memoria dentro – il sangue si rivolta tra malinconia, rabbia, voglia di urlare, correre, rivoluzionare qualsiasi cosa, amare, combattere e ritrovare tra sogni sbiaditi abbracci ed occhi lucidi una qualsiasi figura umana che è passata nella nostra vita e che ora si è persa negli sterminati angoli del passato; questo nuovo progetto si titola “Battaglione Alleato”, la storia, le storie di cento uomini che nella notte tra il 26 ed il 27 Marzo 1945 si allearono formando appunto il Battaglione Alleato per sconfiggere un comando nazista nel Reggiano, e per ripercorrerne le indimenticabili gesta, la band chiama a raccolta una “accolita” di band entusiaste di dividerne “le gesta” e poi inciderle in due cd che hanno come sottotitolo “musiche e canzoni per una storia della resistenza”, ventisei canzoni interpretate – oltre che dai MCR, da – tra i tanti – Daniele Contardo (FryDa), Jason McNiff,  Massimo Ice Ghiacci, Popinga, LoGici Zen, Luca Giovanardi (Julie’s Haircut) ecc ecc, ventisei canzoni che fanno bollire e ribollire.

Suoni Irish, idiomi stranieri, reggae, rap, ballate carrettiere, folklore operaio, colori rossi cupo, groppi in gola e denti stretti sono le vene scoperte di questa favola umana che racconta e si racconta con semplicità, che si spoglia e si fa umile come un fuoco di camino povero, ma ricco di voglia di vivere, se ce la facesse a rimanere vivo;  scrivere di questo bellissimo disco/opera è limitativo, solo l’ascolto rende al massimo l’idea di cosa si vuole trasmettere a tante teste consapevoli ed altrettante vuote e piene d’aria viziata, piene di niente, ma giusto per “cronacare” qualcosa immergetevi nel walzerone di “Avevamo vent’anni” (MCR), nuotate nel pop-dub di “Bastardi e pezzenti” (Nuju) e nel reggae che brilla in “This time” (Lion D), bellissima la ballata “Libertà e foresta” (Elizabeth), il folkly caracollante “27 Marzo” (Ned Ludd), “L’amore altrove” (Massimo Ice Ghiacci) o la fisarmonica ed il fiddle che danzano in”Nozze partigiane” (Fryda), ci sarebbe da scrivere per un’ora intera, è non è sempre facile tradurre in lettere quello che il cuore, dietro l’impulso della musica, detta o comanda.

Due dischi per un progetto che vanno in memoria come un bel bicchierone di vino rosso bevuto all’alba prima di intraprendere un viaggio tra le onde del ricordo, due dischi che vogliono togliere la cappa all’ottusità e agli svagati, due dischi che potrebbero essere additati come una mera paccottiglia nostalgica commerciale, ma chissenefrega, sono due dischi che sputano in faccia la realtà che è stata ed è esattamente quello che vogliono essere, e se questo deve essere un commercio ne voglio a chili.

Fascisti di merda, vi odio, viva la Resistenza ed i suoi angeli caduti.

 

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Sfanto – Sfanto

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Sfanto è l’alias sotto cui si cela Marco Testoni, artista sassarese, che propone un simpatico rock all’inglese ben costruito ed arrangiato.
Questo omonimo ep, camuffato da demo, potrebbe tranquillamente essere esportato all’estero perché il genere che propone, in mia opinione, si presta più al mercato della Gran Bretagna o dell’America.
Per capire meglio ciò che voglio dire forse conviene analizzarlo canzone per canzone…
Il disco inizia con “Little daily inconveniences” che si apre con una chitarra acustica a cui lentamente si aggiungono la voce e tutti gli altri strumenti; il pezzo è prima abbastanza lento e pacato ma poi procede in maniera più veloce e assume caratteri “alla Blur”, quelli dei tempi di “Parklife” per capirsi…
“Waiting for the dawn” ricorda invece più la cultura rock americana, quella di Tom Petty e degli heartbreakers o degli America, e nonostante testi abbastanza semplici (e all’apparenza anche un po’ scontati) è sicuramente la traccia più riuscita di questo ep.
“Monster pride” (che vede alla voce anche Giuliano Dettori e Marco Marco Marini) ha un basso molto scarno ed essenziale (quasi alla Green Day) ma l’energia che trasmette è davvero unica e pur essendo abbastanza breve è piena di spunti davvero interessanti.

“Gray day” riprende parecchio dal cantautorato alla Badly Drawn Boy (quello della colonna sonora di “About boy”), ma non è un saccheggio completo, perché anche qui c’è molta farina del sacco di Testoni, che si cimenta anche in piccoli assoli di chitarra e di piano che si alternano fra di loro.
“Like a serenade”, aperta da un sample dall’origine ignota, forse avrebbe bisogno di qualche ritocco qua e là nella sezione ritmica, tuttavia funziona abbastanza bene anche come si propone (anche se ometterei quei pochi effetti che ogni tanto si sentono sulla voce).
“Miss Kubelik” (che titolo affascinante e singolare!) è l’episodio più “rock” del disco e fa tornare alla mente i nostrani A toys orchetra.
“My reward” vede ospiti Anna Monti al flauto, Francesca Fadda e Rita Pisano ai violini, Gioele Lumbau alla viola e Roberta Botta al cello ed è caratterizzata da una classicità affascinante in ogni singola nota.
Peccato duri solo due minuti!
Magari sarebbe il caso di fare una versione estesa della stessa, proprio come si usava negli anni ottanta, dove si proponevano alle radio le versioni “edit” e al mainstream quelle più lunghe.
Insomma nel complesso un ottimo lavoro, gradevole all’ascolto ma anche nella proposta di un artwork in bianco e nero sempre ad opera di Testoni che è anche produttore del disco.

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Gianluca De Rubertis – Autoritratti con Oggetti

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Il problema è sempre lo stesso, fare album mediocri cercando di alzare il tiro buttandoci dentro collaborazioni importanti (Dell’Era e D’Erasmo degli Afterhours, Enrico Gabrielli, Lorenzo Corti, Andrea Rizzo, Pete Ross, Matilde De Rubertis, Lucia Manca e una sfilza infinita di altri) e fare leva su quello scritto e suonato in passato pensando di avere sempre il coltello dalla parte del manico. Gianluca De Rubertis ex Studio Davoli e famoso alla massa per il duo Il Genio (chi non conosce Pop Porno?) decide di farsi un disco tutto suo editando per Niegazowana l’esordio da solista Autoritratti con Oggetti. Si capisce subito  che l’ascolto non sarà dei più semplici, vorrei fosse facile ma purtroppo non lo è quasi mai. Attenzione, i testi che girano attorno al mondo delle donne sono interessanti, si scherza con l’amaro in bocca ma tutto pesa troppo sulla mia giornata appena iniziata. Voglio tornare ad essere spensieratamente felice.

Autoritratti con Oggetti guarda verso quel cantautorato italiano della metà degli anni sessanta cercando di diventare personale in maniera fallimentare, un disco che si piazza con una scarpa nella scena indipendente e l’altra nella musica d’autore. Tanto per cercare consensi ovunque sia possibile farlo. I brani sono sempre curati e non vogliono mai apparire scialbi di soluzioni alle orecchie di chi ascolta, fiati, violini e chitarre si mescolano meticolosamente, la classe (e quella non manca) di Gianluca De Rubertis fanno il resto. Un disco musicalmente corretto ma senza sensazione, forse era meglio continuare a volare nei propri soffitti, noi abituati a Pop Porno ci sentiamo completamente spiazzati da qualcosa che vorrebbe sembrare più grande di quello che realmente è, la prima mossa è stata giocata frettolosamente male. Aspettiamo di vedere una reazione convincente da parte di chi ha aiutato e non poco a dare notorietà alla musica indipendente italiana. Per ora affronto De Rubertis a muso duro.

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Revolution Is Me – No Way Mate!

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“La vera rivoluzione dobbiamo cominciare a farla dentro di noi”. Sicuramente questa è una delle frasi più intense ed umane del re della rivoluzione Che Guevara, e diciamoci la verità casca a fagiolo se si legge il nome di questa band.
Ma inserire una parola forte come “rivoluzione” nel nome di un gruppo è sicuramente scelta azzardata e sono praticamente certo che, vedendo e ascoltando i romani Revolution Is Me, non volessero assolutamente rendere omaggio al Che ma semplicemente trovare un nome cool d’impatto come molti gruppi indie-fighetti che di giorno fanno skate e di sera fanno fare quattro salti sulla spiaggia alla primo festone di collegiali.
I ragazzi laziali infatti emanano un sapore molto fresco e spensierato come i costumi a fiori, il jogging sulla spiaggia, il tatuaggio tattico e il surf più sfrenato. Insomma non hanno affatto quello strato di sporcizia e di sudore tipico di chi nervosamente stringe le sue armi in battaglia.
Questo EP è molto semplicemente una piccola parentesi di rock molto fashion, ben suonato, ruffiano, poco sostanzioso e superficiale, come una bella doccia fresca e profumata. Altro che entrarti dentro e farti ribollire il sangue a furia di sogni. Il sound cerca di essere prepotente, prova a scavare ma utilizza un piccone di gomma, non graffia e passa veloce, scivolando proprio come la saponetta sulla pelle.

La chitarra sbuffa tra arpeggi e riffoni senza eruttare mai, mentre la sezione ritmica sta nel suo limbo, senza infamia e senza lode. La voce invece viene ben palleggiata tra Alberto e Olga ma senza lasciare segni indelebili della rabbia cercata dai due. Si arruffano melodie da alta classifica, ma Biffy Clyro e Paramore sono un miraggio (sebbene pure loro ben lontani dal voler insanguinare le loro chitarre).
Il disco si fa ascoltare, ma passa monotono e estrae il miglior pezzo nel finale. “Can I Have…” è molto naif, spontaneamente british e sfocia nell’ultima traccia “…Your Heart Back?” blues acustico che senza sprecare parole chiude l’EP, lasciando un po’ interdetto l’ascoltatore e portandoci direttamente dentro la pubblicità del più marcio whisky del Tennessee. Un colpo finale che vuole stupire ma suona fuori luogo come un hipster con il basco in testa.
Insomma, non basta il vestito (e il nome) giusto per far guerra alla monarchica monotonia. Bisogna stringere forte i propri ideali strampalati e rischiare di perdere tutto bruscamente oppure, senza troppe pretese, metti il vestito più cool e fai festa sulla spiaggia, il rock’n’roll ti vorrà comunque bene.

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Pacifico – Una voce non basta

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Il nuovo disco d’inediti di Lugi DeCrescenzo in arte Pacifico, “Una voce non basta”, mette in mostra tutta la bella gioventù pop italiana, parigina, americana, tedesca, turca in circolazione, un disco di duetti e poesia, d’amore e solitudine vinta che l’artista – dopo un periodo non ottimale della sua esistenza – incide in giro per l’Europa, ed è una festa mobile di frasi, pensieri, musica e parole in libertà e semplicità.

Il disco ha preso forma via mail, ed in una quindicina di giorni è stato registrato, ogni traccia è un mondo a sé ed in tutto sono quattordici di questi mondi in cui echi di De Andrè, ballate rock, elettronica, rap e melodia pop spiazzano e fanno un ascolto quasi raro di questi tempi e dove si trova una scrittura di grande cultura pop condivisa con nomi che non è mai facile ritrovarli insieme ed uniti come in questo frangente discografico; l’artista afferma che senza amore un uomo non ha niente, e pare proprio una dolce ossessione che si porta dietro nella vita e nell’arte tanto che il Pacifico Doc lo troviamo in tutte le liriche come nella sua infanzia “Second moon” o nelle perdite interiori “Strano che non ci sei” con Samuele Bersani.

Amore e sguardi nei meandri della società “L’ora misteriosa” dettata con Cristina Marocco, “L’unica cosa che resta” con Malika Ayane, “Semplice e inspiegabile” con Cristina Donà, e poi c’è il mantra quotidiano con due Casinò Royale, Bianconi dei Baustelle che canta il buio in “Infinita è la notte”, il tocco da dj su “Pioggia sul mio alfabeto” con il turco Mercan Dede, Frankie Hi-Nrg che si incazza in “Presto” insieme ai Bud Spencer Blues Explosion, e ancora i Dakota Days, Anna Moura, N.A.N.O. per arrivare alla confessione dolorosa e intima di “A nessuno” in cui un Manuel Agnelli presenzia con un pathos poetico inarrivabile.

C’è uno spirito in ogni canzone che agita, ama, odia e salva tutto quello che non si vuole ammettere o condividere, il bisogno di vita oltre il sopravvivere che non si spezza né si piega, una voglia maledetta di trasmettere oltre il consentito, oltre la bellezza, e questo disco di Pacifico ne è un inno vivo che, con la complicità effettiva di venticinque musicisti, si tramuta in un cantos marvellous senza fine.

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The Mars Volta – Noctourniquet

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Ci avevano lasciato in dote uno strafalcione epico chiamato Octahedron, ma pare che i The Mars Volta con il nuovo “Noctourniquet” abbiano preso il vizio replicante di non esprimere più quasi nulla, almeno a sentire questa sfilza di tracce irose e dispersivamente canticchiabili che si rincorrono alla ricerca del punto forte di un ascolto attento che tarda – o meglio latita – a tirarne fuori soddisfazioni di sorta: forse non ci si era mai abituati fino in fondo al loro delirio d’onnipotenza, del loro istinto di vivere la musica dall’alto verso il basso, tra i pandemonium sacrali prog che agganciavano kraut e affini, sta di fatto che questo nuovo album ce lo potevano benissimo nascondere e risparmiare, loro magari diranno che è un punto di vista musicale versato sullo sperimentalismo acuto di nuove direttrici bla bla bla, noi diciamo: quando non si ha più nulla da dire meglio zittirsi e pensare fitto sul futuro ripercorrendo il passato.

Un infuso confusionario di barocchismi, ematicità, voli a ribasso e virate senza senso, buona parte delle tredici tracce vitali sono ingarbugliate come una matassa infeltrita, qualche luce brilla fiocamente nelle psichedelie di “Noctourniquet”, “Absentia”, un minimo d’attenzione per le incazzature elettroniche che cortocircuitano “Dyslexicon”, “Lapochka” e un occhio di riguardo per l’unica bella commistione che ciondola oziosa dentro questa produzione, ovvero “The Malkin jewel” traccia dalla cinematicità alla T-Rex in un guazzetto di post-punk e sentimenti reggae; il resto è solo egocentricità di una band che cerca di portare il suo pubblico verso nuove spiagge, ma è illusione pura, poiché il pubblico della band messicana è già in subbuglio per via di questo disco anonimo e vuoto, un capitolo sonoro che “capitola” davanti alla liricità drammatica che Omar Rodriguez Lopez, Cedrix Bixler Zavala insieme al nuovo drummer David Elitch –  che ha sostituito Deantoni  Parks – cercano di prendere per i “capelli” pur di tirare in salvo qualcosa.

Gran dispendio di chitarre e tastiere astrali, space pathos da fiera delle meraviglie, ballate sovversivamente mostruose “Imago” e un bel minestrone multi-effects da non riscaldare ma da buttare direttamente nel lavandino delle cose da dimenticare a forza “Zed and two naughts”, e poi ci fermiamo qui per non affondare oltre il coltello; non tutte le ciambelle riescono col buco, è un dato di fatto,  i nostri “caballeros” deludono al quadrato, rinnegano i fasti di un avvio carriera luminoso per perdersi definitivamente nel vuoto del sottovuoto svuotato.
Non ci rimane che gridare:  Aridatece i The Mars (quelli di una) Volta!     

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